La Visione Profonda

della Vacuità e del ‘Sé’

di un Filosofo Indiano

Tratto da http://www.nirvanasutra.org.uk/index.htm

Da un Seminario sulle Religioni del Sud-Est-Asiatico, all'Università di Austin, Texas, 2000. di Bijoy H. Boruah (1) - (Trad. di Aliberth)  

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L’Atman nella Sunyata e la Sunyata dell’Atman – Un’interessante tesi per riconciliare la presunta differenza sulla natura del ‘Sé’ tra il buddhismo e l’Advaita Vedanta, -

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     Advaita-Vedanta e buddhismo sono spesso in lotta l'un con l'altro, a causa del problema metafisico del ‘sé’, o anima. Mentre la prima scuola di pensiero è accreditata di credere nell'esistenza dell'Atman, o anima, come la realtà centrale dell'individuo umano, la seconda scuola è famosa per la teoria dell’Anatman, o rifiuto dell'esistenza di qualunque ‘sé’, o sostanza dell’anima. Nel parlare filosofico contemporaneo, l’Advaita-Vedantino sarebbe un ‘realista’ riguardo al ‘sé’, mentre il buddhista, sulla stessa cosa, sarebbe un ‘anti-realista’. Di sicuro, questa è integrale antinomia ontologica. Ma ciò che è sorprendente è che nonostante tale antinomia ontologica i due sistemi di pensiero hanno una più o meno comune "metafisica di trascendenza" o ‘teleologia trasformativa’. Entrambi credono nella possibilità della ‘liberazione ultima’ o illuminazione dell’uomo. La liberazione ultima (Moksha) dell’ Advaita-Vedanta e l'illuminazione ultima (Nirvana) del buddhismo sono in essenza nozioni simili del conseguimento della salvezza o libertà finale dalla palude della schiavitù umana. Come si riconcilierebbe il fatto che i due sistemi condividono una metafisica della salvezza fondamentalmente simile, con il fatto di essere in forte opposizione sul problema dell'ontologia del ‘sé’?  

Quello che io ho posto come un problema perplesso, dovrebbe essere chiaro una volta che ci si è resi conto che la questione del ‘sé’ è crucialmente riferita al problema della liberazione ultima. Se la liberazione è ottenuta nella forma di auto-realizzazione o auto-trasformazione, allora se si afferma o si nega l'esistenza del ‘sé’ sembrerebbe fare una corrispondente differenza rispetto alla possibilità della  liberazione ultima intesa come auto-liberazione. La perplessità è che sia un anti-realista (il buddhismo) che un realista (il Vedanta), riguardo al ‘sé’ è comunque convergente sull'idea della possibilità della auto-trasformativa liberazione ultima. Infatti, il convergere su una comune teleologia salvifica, mentre i due sostengono posizioni ontologiche radicalmente divergenti dell'assenza di un ‘sé’ e dell’auto-affermazione significa aprire una curiosa situazione filosofica che esige un esame minuzioso più ravvicinato.   

La posizione buddhista è intrigante precisamente perché pretende la possibilità dell'emancipazione senza ammettere che vi sia alcun stesso ‘sé’ permanente che sia portatore dell'esperienza emancipatoria. Ironicamente, si dice che sia l’auto-estinzione anziché l’auto-esistenza, la condizione necessaria per la possibilità della emancipazione. Ma qui possiamo fare una pausa per riconsiderare il significato del concetto di ‘sé’ in questione. Forse che il senso di perplessità stia sull'ambiguità del termine "sé" usato dalle due parti avverse?  

Apparentemente, sarebbe assurdo professare la totale assenza del ‘sé’ mentre si ammette la liberazione ultima, perché l'esperienza della liberazione, essendo durevole come pure unitaria, presuppone uno sperimentatore di qualche genere. Faremmo bene a non rigettare la posizione buddhista nella totale assurdità, ed esaminare se realmente non c'è alcun senso di autoaffermazione nella metafisica posizione complessiva del buddhismo. D'altra parte, anche la posizione Vedantica dell’autoaffermazione deve essere sottoposta ad una più ravvicinata indagine in relazione al suo oppositore buddhista. Ciò che deve essere esaminato più da vicino è ciò che è realmente affermato quando il Vedanta afferma l'esistenza del ‘sé’. Quale è il contenuto del ‘sé’ coinvolto nell’auto-liberazione Vedantica? Perché ho portato la questione verso una discussione del contenuto stesso del Vedanta in relazione alla tesi del non-sé del buddhismo? L’ho fatto in vista della presunta dicotomia tra i due sistemi di pensiero, descritti in termini di ontologia positiva (Vedanta) e ontologia negativa (buddhismo). Il Vedanta metafisicamente è orienta-to verso l’Essere, specificamente l'Essere dell’Atman, o il vero ‘sé’ individuale che è ultimamente identico con il Brahman o Realtà Assoluta. Il buddhismo è metafisica-mente orientato verso la Vacuità, o Vuoto, noto come Sunyata, cosicché la Realtà Assoluta è identificata con l’Assoluta Inesistenza del ‘sé’. Ciò che io mi chiedo è se ci può essere realmente una effettiva differenza di contenuto specifico tra una metafisica dell’Essere ed una metafisica della Non-esistenza, quando entrambi i sistemi sottoscrivono una ‘realtà ultima’ concepita metafisicamente ugualmente in termini assolutistici. La "sfera" metafisica dell’assoluto Essere può coincidere con quello dell'assoluta Non-esistenza, e potrebbe non esservi una specifica "interna" differenza di contenuto tra i due.  

Pur mantenendo il commento speculativo che ho appena fatto, ora mi piacerebbe fare un'analisi accurata della nozione buddhista di Sunyata. I buddhisti sono anti-realisti quando si arriva all'esistenza di qualcosa che può essere individuato. Per essi, nuda e cruda impermanenza e la transitorietà di tutte le cose caratterizzano la realtà. Non c'è nessuna cosa e nessun ‘sé’ in una tale realtà composta di un incessante flusso. Quindi, secondo il buddhismo, una corretta comprensione del mondo e di noi in esso, sarebbe di non ‘reificare’ qualcosa in individuali entità durevoli, o ‘sé’. Questo è ciò che è espresso con ‘Non-sé’, o visione di Anatman. Si viene consigliati perciò di svuotarci della illusoria rappresentazione di se stessi come durevole e distinto ‘sé’. Tutto è privo di una effettiva essenza sostanziale. In un certo senso, tutto in realtà è vuoto.  

Potrebbe essere utile pensare alla ‘Vacuità’ o Sunyata, intesa come Assoluta Non-esistenza, come un "campo" cosmico, e la realtà identificata alla fine con questo campo. Quindi, ogni cosa in realtà sarebbe assolutamente non-sostanziale, il che implica che in questo campo non ci sarebbe nessuna effettiva auto-rappresenta-zione non-illusoria. La coscienza, che è il contenuto e l’esperienza del cosìddetto ‘sé’ (e forse il contenuto del campo cosmico come tale), sarebbe assolutamente vuota di qualunque ego-centrica auto-rappresentazione. Sarebbe "pura" coscienza o vera e propria ‘coscienza’. Si contrapponga questo ritratto del buddhismo con la raffigurazione Vedantica della realtà. E’ detto che la realtà fenomenica, che è ciò che appare come il mondo dell'apprensione sensibile in tutta la sua molteplicità, sia una falsa proiezione della Maya o Avidya, cioè l’illusione cosmica. Tutte le relazioni fra i distinti individui, l’intero mondo che appare essere distinto da se stesso come soggetto in tutta la sua multiformità, dal trascendentale punto di vista del Brahman, è irreale. La vera realtà è il Brahman indeterminato, che è l’Uno, e tutto ciò che è. Il Brahman semplicemente è. Ciascuno di noi, i cosiddetti ‘sé’ individuali, siamo essenzialmente ‘atman’. Essendo un Atman, ognuno di noi non è veramente distinto dagli altri ‘sé’ individuali (o da qualsiasi altra cosa che c’è). Come Atman, noi siamo ultimamente uno con il Brahman, il che equivale ad essere uno con la realtà così com’è.  

Secondo il Vedanta, se non realizziamo questa unicità con il Brahman, tramite la realizzazione della nostra vera essenza come Atman, rimarremo spiritualmente accecati dall’Avidya (Ignoranza metafisica). La liberazione come autorealizzazione è la realizzazione della nostra identità ultima con il Brahman. Senza comprensione della nostra essenza-Atman, ciascuno di noi è un Jiva, un ego individuale distinto da altri simili individui "non realizzati". Come Atman, nessuno di noi è realmente un ‘sé’ individuale, ma un ‘Sé’ universale che è fuso con l'universalità Assoluta del Brahman. Arrivare ad avere questa realizzazione significa raggiungere Moksha.  

Così com’è, la metafisica del Vedanta è realista, cioè realista riguardo al ‘sé’ come Atman. È chiaramente l’"essere" del ‘sé’, piuttosto che la non-esistenza o vacuità, ad essere affermato. L'Atman è considerato essere il più ‘reale’, ed il solo che possa testimoniare la realtà. Il Vedanta perciò ci colpisce come una ontologia che afferma la realtà - in contrasto all'ontologia del buddhismo che nega la realtà. Per il Vedanta, c’è una realtà con la sua identità positiva una volta che è trascesa la proiezione illusoria di un mondo fenomenico. C'è l’Atman-identico-col-Brahman, a costituire la Realtà. Per contrasto, la Realtà del buddhismo è apparentemente gratuita, perché si suppone che un vuoto puro e semplice sia conterminale con la Realtà. Mancando di qualunque contenuto positivo o identità, la Realtà dipinta dal buddhismo sembrerebbe non dare spazio alla possibilità di un'esperienza durevole che possa valere come un'esperienza di emancipazione. Quando il buddhismo ed il Vedanta sono così giustapposti in una prospettiva comparata, i due sistemi si presentano in forma di una relazione mutuamente esclusiva. Un'affermazione di esistenza dell’Atman farebbe presupporre una negazione della realtà di Sunyata. Di converso, identificare la realtà con Sunyata comporterebbe un rifiuto dell'esi-stenza dell’Atman. Di conseguenza, o c’è l’Atman senza Sunyata, o c’è Sunyata senza l’Atman.

Dovremmo tuttavia ricordare la precedente prima affermazione, in cui il buddhismo e il Vedanta, pur con le loro opposte visioni ontologiche, convergono sul problema della salvezza. Ciò significa che Sunyata non è un impedimento alla liberazione 'ultima'. E se la realtà di Sunyata non lascia spazio all’Atman, allora implicitamente ne consegue che la non-esistenza anche dell’Atman non è un impedimento alla liberazione ultima. Qui, uno (con un temperamento un po’ reattivo) potrebbe dire che la metafisica della ‘liberazione-ultima’ è pesantemente determinata dall'onto-logia del ‘sé’. Ma la questione del ‘sé’ - la sua esistenza o la non-esistenza - è così davvero neutrale riguardo alla possibilità della liberazione?  

A questo punto, vorrei dire qualcosa diretto a giustificare una risposta negativa alla domanda di cui sopra. Io direi che la realtà del ‘sé’ è intimamente connessa alla realtà della liberazione ultima. Ma dichiarando questo, io non posso in nessun modo implicare che il metodo buddhista di concepire la possibilità della liberazione possa essere fittizio. Invece, la mia conclusione diventa che la vera liberazione, o emancipazione, è tanto più basata sulla metafisica di Sunyata quanto più è basata sulla sua controparte metafisica dell’Atman. Ma, allora, dovrei però districare il nodoso problema dell'antinomia tra il buddhismo e il Vedanta, discusso all'inizio di questo articolo. Io penso che una riconsiderazione filosofica che possa riconciliare l’antico dibattito tra buddhismo e Vedanta produrrebbe una raffigurazione in cui i due sistemi sarebbero visti come complementari l'uno all'altro. Con tale intenzione partirò col mostrare dall'angolo del Vedanta che il concetto di Atman è compatibile con quello di Sunyata. Data per scontata la realtà o esistenza dell’Atman, in quale forma esiste precisamente? Potremmo dire che esiste come un'entità individuale di qualche genere? Per esistere così, dovrebbe soddisfare il sicuro criterio di una individuazione. Ma, per ammissione, non c'è nessun tale criterio. Non essendo il Jiva, esso non è un individuo che esiste in relazione alle altre entità individuali. Ciò è uguale a dire che in realtà l’Atman non è affatto un individuo. Non ha relazione, se non la sua relazione col Brahman che è, dopo tutto, nient’altro che relazione di identità caratterizzante la non-dualità tra i due.  

Può l'Atman essere descritto in termini di qualche attributo, separatamente dalla sua più generale caratterizzazione come qualcosa della natura di pura coscienza? E come pura coscienza - coscienza senza alcuna specifica caratteristica – l’Atman è meglio afferrato come privo di attributi. È come se noi potessimo trovare una presa sul concetto di Atman, sottraendo dal concetto "carico-di-contenuto" della coscienza tutte le eventuali specificità collegate al concetto. L’Atman è coscienza assolutamente privata di tutte le specificità fattuali - tutto ciò che quella coscienza accumula durante il suo coinvolgimento col mondo empirico, o Samsara.  

Se l’Atman attributivamente è una pura coscienza libera, e la coscienza libera da attributi non comporta una coscienza centrata su alcun ego-specifico punto di vista, allora esso è un ‘sé’ "decentrato" che dimora in un mondo "privo-di-centro". Una coscienza decentrata è anche coscienza universalizzata, ed un ‘sé’ nutrito di coscienza universalizzata, vuota di prospettive, evidentemente è vuota di tutti gli ingombri interni che si accumulano in un ‘sé’ di coscienza centrata. Almeno, parte di ottenere la liberazione ultima è questa libertà dalle contingenze della coscienza ego-centrata. Si potrebbe dire che un significato del concetto buddhista di ‘vacuità’ è l'idea dello svuotare se stessi dalle accumulazioni di tratti interiori nati da una coscienza ego-specifica.  

Una volta che abbiamo concepito l'idea di un ‘sé’ decentrato che ha la sua vita in un mondo privo-di-centro di coscienza ego-neutrale, noi arriviamo ben più vicini all'idea di un Atman che è identico con la coscienza universale di Brahman. Noi si può perfino pensare al progressivo decentramento stesso del ‘sé’ che culmina in una forma di soggettività trascendente, che è la perfezione dell’essere-senza-un- centro. Una simile coscienza perfettamente decentrata sarebbe poi un'immagine speculare dell’Atman. Ma una coscienza perfettamente priva di centralità dovrebbe essere totalmente priva delle prospettive di parzialità della coscienza ego-centrica immersa nel "tira-e-molla" Samsarico. Sarebbe vuota degli attributi che delimitano la limitazione alla misura di sperimentare gli annunci dell'infinito. Subirebbe una trasformazione di coscienza dalla sua modalità specificamente ego-sostanziale ad una modalità neutralmente "ego-insostanziale" della Non-esistenza.  

Ora noi abbiamo un ritratto dell’Atman che dipinge il ‘sé’ come coscienza senza alcun effettivo contenuto di delimitare attributi in modo empirico. Questo ritratto appare anche essere simile all'idea buddhista di Vacuità, o Sunyata. La coscienza Atman è una sorta di coscienza-di-non-esistenza poiché è vuota degli attributi di ego-soggettività specifica. La trascendenza dalla vita di un Jiva a quella di Atman richiede che il ‘sé’ si renda ‘vuoto’ nella vacuità (Sunyata), così come avviene nella prospettiva di soggettività della prima modalità della vita. Perciò, non ci sarebbe alcun travisamento della verità del Vedanta, nel dire che vi è molta Sunyata nella costituzione interna dell’Atman. Il ‘sé’ del Vedanta è ben nutrito da una metafisica ‘vacuità’. È perciò nessuna meraviglia che Samkara, il più grande protagonista del Vedanta Advaita sia stato descritto come un Buddhista mascherato (prachanna-bauddha).  

Ovviamente, non si deve sottovalutare la connotazione ontologica positiva dell’ Atman per offrire una chance alla non-esistenza metafisica della Atman-coscienza. Benché il ‘sé’ Vedantico debba negare tutta la sua specifica ego-sostanzialità e trasformarsi in coscienza-di-nonesistenza, è proprio nel compimento di questa negazione che consiste la vera affermazione dell'esistenza positiva o sostanzialità del ‘sé’ come Atman. La non-esistenza è perciò uno dei lati della medaglia del ‘sé’ Vedantico, l'altro lato del quale è la sua neutrale ego-sostanzialità, o assenza di centralità. Infatti, la sostanzialità dell’Atman è pronunciata al massimo della sua potenzialità per raggiungere moksha (la liberazione ultima).  

D'altra parte, cosa dire circa la presunta non-sostanzialità della realtà ultima come Sunyata o Non-esistenza? Io penso che sarebbe ugualmente sbagliato esagerare la connotazione negativa della metafisica di Sunyata, al punto di perdere di vista ogni connotazione affermativa celata dietro a quella metafisica. Perché una cosa, l'ammissione della potenzialità di ottenere e sperimentare il Nirvana, è una chiara indicazione della sostanzialità di esistenza basata sulla Sunyata. In questo senso, Sunyata ha evidentemente un'impostazione ontologica; e suggerisce anche una ontologia del ‘sé’ simile a quella del Vedanta. La liberazione ultima del Buddhismo - il conseguimento del Nirvana - è una sostanziale transizione unitaria dallo stato non-illuminato allo stato di Illuminazione. La possibilità di questa transizione rivela la sostanziale presenza di un ‘sé’ nascosto nella metafisica ‘vacuità’ di Sunyata.  

Inoltre, Sunyata non è abhava, o non-esistenza, ma sostiene di essere la base ultima di tutto, la massima condizione originale della realtà, prima ancora di ogni concettualizzazione e distorsione fenomenica. Essa è caratterizzata come un vuoto pregnante, una vibrante vacuità. Detto in termini di coscienza, Sunyata è lo stato di pura coscienza a cui si farebbe ritorno se si fosse capaci di svuotarsi di tutte le costruzioni illusorie, o impressioni di una realtà immutabile o permanente, sia cose che persone. Questa sorta di inversione alla soggettività originale, che ha anche un'importanza etica, può essere interpretata come se uno diventasse egli stesso Sunya o vuoto. Ma "diventare" Sunya, non significa uscire dall’esistenza. Anzi, si può veramente essere sé-stessi, o divenire davvero auto-consapevoli, solamente "divenendo-Sunya". Diversamente, uno continua ad essere in uno stato di non-risveglio – cioè, continua ad essere sotto l'incantesimo di Avidyà (Ignoranza).  

Ora, non potremmo dire che il ‘risveglio’ buddhista nel "campo di Sunyata" sia più simile alla realizzazione Vedantica dell'identità ultima di Atman con il Brahman? E non è il Brahman Nirguna - l'assolutamente indeterminata ‘Ultima Realtà’ – che è più come un "campo di Sunyata", la base originale di tutte le cose? A me sembra che queste speculazioni sulla "complementarità" tra Vedanta e buddhismo siano sulla giusta pista. Perché, una simile lettura di questi due sistemi di pensiero, ci aiuta ad avere un più coerente senso di entrambe le posizioni che essi sembrano voler dire individualmente. E qual’è, allora, la luce complementare del buddhismo nella nostra comprensione del Vedanta? Essenzialmente, questa: Sunyata è l'unica realtà di base per l’esistenza dell’Atman. L’Atman senza Sunyata, sarebbe come il moto senza energia.  

Allo stesso modo, si può anche dire che "diventare" Sunya, o essere nel campo di Sunyata, è virtualmente la stessa cosa come essere o "diventare" l’Atman. È importante riconoscere che l’aspetto negativo di Sunyata e del suo affine Anatman ha come controparte, un aspetto affermativo. Vi è il rifiuto del ‘sé’ ignorante e non-risvegliato – il ‘sé’ centrato in un campo individualizzato di coscienza e inca-tenato alle visioni ad esso collegate. Questo stesso rifiuto forma la base per una spontanea affermazione dello stato risvegliato o illuminato - diventando così un ‘sé’ decentrato. In essenza, la coscienza-Sunyata manifesta "né stessa nella forma di coscienza-Atman.  

Ciò che traspira dalle argomentazioni di cui sopra, sul buddhismo e sul Vedanta, è una tesi, che è più caratterizzata in termini di convergenza che non in termini di una loro complementarità uno con l'altro. Chiaramente, ciascuno di essi ha una prospettiva complementare all'altro, finché concerne il nostro senso a diventare aderente ad entrambe le posizioni. Ciò che otteniamo da una tale complementare comprensione della presunta incompatibile contrapposizione di questi due antichi sistemi di pensiero è che la loro apparente differenza tradisce una sottostante profonda unità. Da un lato, abbiamo delle rivelazioni di un Atman "nascosto" nel buddhismo, e dall’altro di una "silente" Sunyata nel Vedanta. Uno studio più appro-fondito della teoria dell'Atman Vedantico potrà far sì che la metafisica altrimenti silenziosa della vacuità, risuoni con un persuasiva voce esplicativa, molto più di quanto un'occhiata scrutatrice alla teoria della Sunyata Buddhista riesca a dare uno sguardo alla recondita presenza di un valido Atman che spieghi la possibilità dell’illuminazione.  

Questo è un segno di benvenuto al contemporaneo studio di scoprire il buddhismo Giapponese (specialmente il buddhismo Zen della scuola di Kyoto) il quale professa punti di vista che riflettono la compatibilità dell'ideologia buddhista con quella del Vedanta. Nishitani Keiji, un distinto studioso di questa scuola di pensiero, è assai enfatico nell’affermare l'intimità della relazione tra Sunyata e il ‘sé’. Egli dice che la ‘vacuità’ è la nostra ‘parte-intima assoluta’. Sunyata è il campo di trascendenza estatica, e l’assoluta interiorità, in cui la vacuità è il ‘sé’. E’ detto che noi realmente diveniamo ‘noi-stessi’ quando siamo vuoti, cioè, quando diventiamo ‘sé’ decentrati nel campo della non-esistenza. C'è quindi una serie di pronunciate affermazioni del ‘sé’ contro Sunyata. Ed è interessante notare che Nishitani rivolta la "Relazione Io-Tu" nel buddhismo Zen ed analizza la natura di questa relazione in una maniera che è sorprendentemente Vedantica. Egli dice di questa relazione, che è "non-differenziata", e aggiunge che questa "assoluta non-differenziazione appartiene all'Io stesso, ed è la stessa cosa per il Tu". L'implicazione è che, una volta che il ‘sé’ è in Sunyata, che si dice che sia la sua "terra natìa", esso realmente diventa se stesso, e poi entra nella relazione "Io-Tu" con l'atteggiamento distintivo della "non-differenziazione assoluta". Questo è chiaramente indicativo dell'Advaita, o la non-dualità del Vedanta. La non-dualità della relazione 'Io-Tu' è emblematica della non-dualità ultima della Realtà.  

Nella contemporanea filosofia Indiana siamo testimoni di un ritratto neo-Vedantico della relazione 'Io-Tu' in una luce significativamente diversa. Ramchandra Gandhi presenta una versione estremamente interessante della relazione 'Io-Tu' nella struttura comunicativa della relazione di mittente-destinatario. C'è qualcosa di unicamente sacrosanto sul mio indirizzarmi a qualcuno usando il pronome perso-nale ‘Tu’. Venendo così interpellato da me, tu sei chiamato proprio in quanto tu, nella tua pura e semplice identità personale, "intatta" da qualunque contingente o attributo di fatto, che accade perché sei davvero tu. Essere identificato come un destinatario è, per Gandhi, essere considerato di per sé una persona, quando la persona non è concepita sotto una struttura mentale affermativa-attributiva. Ciò che Gandhi vuole mostrare sulla base dell'idea di un modo non-attributivo e non-affermativo di identificazione della persona è l’avallo dell'idea religiosa di un'ani-ma. Quando qualcuno è chiamato pronominalmente, la persona (destinataria) è evocata dal chiamante (colui che evoca) con una attitudine mentale caratterizzata dall’atteggiamento che c’è verso un'anima. Quindi, l'idea di un'anima è implicita nella modalità priva di attributi di pensiero in cui l'Io si relaziona al Tu. Così, ciò che un'anima deve essere, è articolato attraverso una seria analisi esplorativa del concetto comunicativo di personale designazione pronominale.  

L'idea Gandhiana di un'anima, definita in termini di identificazione non-attributiva della persona, può essere ora proficuamente collegata con Sunyata ed Atman. Il destinatario, come anima, è modellato moltissimo su ciò che deve essere l’Atman. Perché Tu venga completamente evocato da me in modo non-attributivo, dovrai essere pensato come un puro soggetto personale, tanto più che per me, adottare la posizione non-predicativa verso di Te significa comportarsi come un decentrato ‘sé’. Si potrebbe dire che questa formulazione della relazione 'Io-Tu' sia una variante dell'idea di inter-relazioni tra ‘sé’ Vedantici. Ma è anche una variante della Sunyata buddhista: per me, adottare la posizione non-attributiva verso di Te, è mettere me stesso (come pure Tu) nel campo della non-esistenza. A meno che Io non "diventi" vuoto, o Sunya, non potrò sciogliere me stesso dalla mia abituale modalità attributivo-predicativa di vedere Te, o qualsiasi altro, incluso me.  

Cosa questo significa per noi, direi che è una fondamentale situazione umana, una situazione di comunione umana nella sua principale modalità: rivolgersi verso qualcuno. 'Io e Tu' coesistono nel campo unitario di Sunyata, che è l’attitudinale luogo di riguardo inter-personale non-attributivo. Quando entrambi partecipiamo dell’infinito campo di assoluta non-esistenza, non c'è nessuna dualità di Io e Tu. Invece, c'è una "virtuale identità" che significa che la relazione si esprime davvero come "Io sono Tu".  

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1) Bijoy H. Boruah - Professore del Reparto di Filosofia di Scienze Umanitarie & Sociali - Indian Institute of Technology, Kanpur 208016 India.  

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