© Ass. Santacittarama, 2005. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro "EverythingIsTeachingUs"
Si appiccica alla pelle ed entra dentro la carne; dalla carne penetra nelle ossa. E' come un insetto su un albero che rosicchiando buca la corteccia, il legno, e arriva fino al midollo, finché l'albero muore.
Siamo cresciuti così. Ha messo radici profonde. I nostri genitori ci hanno insegnato la fissazione e l'attaccamento, a dare significato alle cose, a credere fermamente che noi esistiamo come entità indipendenti e che le cose ci appartengono. Fin dalla nascita è questo che ci insegnano. Ce lo sentiamo dire in continuazione, per cui ci entra dentro il cuore e resta lì come una sensazione abituale. Ci hanno insegnato a procurarci cose, accumularle e tenercele strette, a considerarle importanti e nostre. Questo è quello che sanno i genitori, ed è quello che ci insegnano. Perciò ci penetra nella mente, nelle ossa.
Quando cominciamo a interessarci alla meditazione e ascoltiamo l'insegnamento di una guida spirituale, non capiamo bene di che si tratta. Non ci coinvolge veramente. Ci viene insegnato a non vedere e a non fare le cose nel vecchio modo, ma quello che ascoltiamo non arriva fin dentro la nostra mente, ascoltiamo solo con le orecchie. Il fatto è che non conosciamo noi stessi.
Perciò ci sediamo e ascoltiamo l'insegnamento, ma è solo un suono che entra nelle orecchie. Non entra dentro tanto da fare effetto. E' come un incontro di pugilato: si picchia sodo l'avversario, ma quello resta in piedi. Restiamo imprigionati nella nostra falsa auto-immagine. I saggi hanno detto che spostare una montagna è più facile che smuovere la concezione di sé.
Per spianare una montagna si può usare l'esplosivo, e poi spostare la terra. Ma la fissazione ostinata alla concezione di sé... figuriamoci! I saggi possono insegnarci fino al giorno della nostra morte, senza riuscire a scalfirla. Rimane forte e salda. Le nostre idee distorte e le cattive tendenze restano solide e immutate, anche a nostra insaputa. Perciò i saggi hanno detto che eliminare la concezione di sé e trasformare il punto di vista distorto in retta comprensione è una delle cose più difficili a farsi.
Per noi puthujjana (esseri mondani) progredire fino al livello dei kalyanajana (esseri virtuosi) è estremamente difficile. Puthujjana significa uno che è pesantemente illuso, che è all'oscuro, che è dentro fino al collo nell'oscurità e nell'illusione. La condizione del kalyanajana è un po' più leggera. Noi insegniamo come alleggerirsi, ma la gente non vuole farlo perché non si rende conto della situazione in cui si trova, del proprio stato di oscuramento. Perciò continua a brancolare in uno stato di confusione.
Se vediamo per terra un mucchio di sterco di bufalo non penseremo che è nostro e non ci verrà voglia di raccoglierlo. Lo lasceremo dove si trova perché sappiamo cos'è. E' qualcosa di molto simile. E' questo che è considerato buono dal punto di vista di chi è impuro. Il male è il cibo delle cattive persone. Se insegnate a persone del genere la bontà non se ne curano, preferiscono restare come sono perché non ci vedono nessun pericolo. Senza vedere il pericolo non è possibile correggere la situazione. Se invece lo riconoscete, pensate: "Oh! Tutto il mio mucchio di sterco non vale quanto un pezzettino d'oro". E a quel punto vorrete l'oro, non vorrete più lo sterco. Se non lo riconoscete, resterete i proprietari di un mucchio di sterco. Anche se vi offriranno un diamante o un rubino non vi interesserà.
Quello che è 'bene' per l'impuro è uguale. Oro, gioielli e diamanti sono considerati buoni nel regno degli umani. Lo sporco e il marcio sono buoni per le mosche e gli altri insetti. Se ci spruzzate sopra del profumo scapperanno via. Ciò che le persone con una visione distorta considerano buono è lo stesso. Quello è il 'bene' di chi ha una visione distorta, di chi è oscurato. Non ha un buon odore, ma se gli diciamo che puzza ribatterà che profuma. Perciò insegnargli qualcosa non è facile.
Se raccogliete fiori freschi le mosche non se ne curano. Anche a pagarle, non si avvicinerebbero. Ma dove c'è un animale morto, dove c'è qualcosa di marcio, lì invece accorrono. Non ce bisogno di chiamarle, arrivano da sole. La visione distorta è così. Trova piacere in cose del genere. Per lei, quello che puzza e che è marcio profuma. Ci sta dentro fino al collo, è immersa in cose del genere. Quello che sa di dolce per l'ape non è dolce per la mosca. La mosca non ci vede niente di buono o di utile, e non lo desidera.
La pratica ha le sue difficoltà, ma in tutto quello che facciamo si passa prima per il difficile per arrivare al facile. Nella pratica del Dhamma partiamo dalla verità di dukkha, la natura insoddisfacente di tutto ciò che esiste. Ma non appena lo incontriamo ci scoraggiamo. Non vogliamo guardarlo. Dukkha è la verità, ma facciamo di tutto per schivarla. Per lo stesso motivo non ci piace guardare le persone anziane, preferiamo guardare quelle giovani.
Se non vogliamo guardare dukkha non lo comprenderemo mai, anche se rinascessimo mille volte. Dukkha è una nobile verità. Se la affrontiamo, cominceremo a cercare un modo per uscirne fuori. Se siamo diretti in un certo posto e la strada è bloccata, ci daremo da fare per aprire un varco. Lavorando giorno dopo giorno, alla fine arriveremo dall'altra parte. Quando veniamo alle prese con i nostri problemi sviluppiamo la saggezza in modo simile. Se non vediamo dukkha non esaminiamo mai fino in fondo i nostri problemi per risolverli, ci passiamo accanto con indifferenza.
Il mio modo di educare la gente comporta un po' di sofferenza, perché la sofferenza è la via del Buddha all'illuminazione. Lui voleva che noi vedessimo la sofferenza, e che vedessimo l'origine, la fine e il sentiero. Questa è la via d'uscita di tutti gli ariya, i risvegliati. Se non passate per questa strada non c'è via d'uscita. L'unica via è conoscere la sofferenza, conoscere la causa della sofferenza, conoscere la cessazione della sofferenza e conoscere il sentiero della pratica che porta alla cessazione della sofferenza. Questo è il modo in cui gli ariya, a partire dall'entrata nella corrente, sono riusciti a venirne fuori. E' necessario conoscere la sofferenza.
Se conosciamo la sofferenza, la vedremo in tutto ciò che sperimentiamo. Certe persone credono di non soffrire granché. La pratica del buddhismo ha lo scopo di liberarci dalla sofferenza. Cosa dobbiamo fare per non soffrire più? Quando si presenta dukkha dobbiamo investigare per riconoscere le cause per cui è sorto. Poi, una volta che le conosciamo, possiamo praticare per eliminare quelle cause. Sofferenza, origine, cessazione: per arrivare alla cessazione occorre comprendere il sentiero della pratica. Allora, una volta percorso il sentiero fino in fondo, dukkha non sorgerà più. Nel buddhismo, la via d'uscita è questa.
Contrastare le nostre abitudini crea un po' di sofferenza. Di solito abbiamo paura di soffrire. Se qualcosa ci fa soffrire non vogliamo saperne. Siamo interessati a ciò che sembra essere buono e bello, mentre crediamo che qualunque cosa comporti sofferenza sia male. Ma in realtà non è così. La sofferenza è saccadhamma, è la verità. Se nel cuore c'è sofferenza, questa diventa la causa che spinge a cercare una via d'uscita. Saremo portati a riflettere. Non dormiremo tanto profondamente, perché ce la metteremo tutta per scoprire cosa sta succedendo veramente, per cercare di capire le cause e le conseguenze.
Le persone felici non sviluppano la saggezza. Sono addormentate. Un po' come un cane che mangia a sazietà. Dopo mangiato non vuole fare più nulla. Può passare tutto il giorno a dormire. Se arriva un ladro non abbaia, è troppo pieno, troppo stanco. Ma se gli date solo un po' di cibo resterà sveglio e all'erta. Se qualcuno cerca di entrare di soppiatto, salterà su e comincerà ad abbaiare. Ci avete mai fatto caso?
Noi esseri umani siamo intrappolati e imprigionati in maniera simile, e abbiamo una quantità di guai, siamo sempre pieni di dubbi, confusione e preoccupazione. Non è da ridere. E' veramente una situazione difficile e spinosa. Quindi c'è qualcosa di cui dobbiamo liberarci. Secondo la via della coltivazione spirituale dobbiamo abbandonare il nostro corpo, abbandonare noi stessi. Dobbiamo risolverci a dare la nostra vita. Possiamo considerare l'esempio dei grandi rinuncianti, come il Buddha. Il Buddha era un nobile di casta guerriera, ma fu capace di lasciarsi tutto alle spalle senza voltarsi indietro. Era erede di ricchezze e potere, ma seppe rinunciarvi.
Se parliamo del Dhamma profondo, la maggior parte della gente si spaventa. Non osa avvicinarcisi. Perfino se dico: "Non fate il male", molti non riescono a seguire. Quindi ho cercato tanti modi per spiegarlo. Una cosa che dico spesso è che non importa se siamo contenti o scontenti, felici o sofferenti, se piangiamo o cantiamo canzoni, è sempre lo stesso: vivere in questo mondo è come essere in gabbia. Anche se siete ricchi, vivete in una gabbia. Se siete poveri, siete in gabbia. Se cantate e ballate, cantate e ballate in una gabbia. Se guardate un film, lo guardate stando in gabbia.
Che cos'è questa gabbia? E' la gabbia della nascita, la gabbia dell'invecchiamento, la gabbia della malattia, la gabbia della morte. E' così che siamo imprigionati nel mondo. "Questo è mio"; "Quello appartiene a me". Non sappiamo cosa siamo veramente o cosa stiamo facendo. In realtà non facciamo altro che accumulare sofferenza. Non è qualcosa di lontano a procurarci la sofferenza, però noi non guardiamo noi stessi. Per quanta felicità e agiatezza possiamo avere, essendo nati non possiamo evitare di invecchiare, dobbiamo ammalarci e dobbiamo morire. Questo è di per sé dukkha, qui e ora.
Siamo comunque soggetti a dolore o malattia. Può succedere in qualunque momento. E' come aver rubato qualcosa. Potrebbero venire ad arrestarci in qualunque momento, perché abbiamo commesso quell'azione. La nostra situazione è questa. Siamo in pericolo, siamo inguaiati. Viviamo in mezzo ai pericoli: nascita, vecchiaia e malattia governano le nostre esistenze. Non possiamo scappare da nessuna parte per evitarle. Possono venire ad acchiapparci in qualunque momento; trovano sempre l'occasione. Quindi dobbiamo ammettere il fatto e accettare la situazione. Dobbiamo riconoscerci colpevoli. Se lo facciamo, la sentenza non sarà troppo dura. Altrimenti, soffriremo moltissimo. Se ammettiamo la nostra colpa, ce la caveremo con poco. Non resteremo in galera per molto.
Quando il corpo nasce non appartiene a nessuno. E' come questa sala di meditazione. Appena costruita vengono a starci i ragni. Vengono a starci le lucertole. Vengono a starci ogni sorta di insetti e creature che strisciano. Possono venirci a vivere i serpenti. Può venirci a stare di tutto. Non è solo la nostra sala, è la sala di tutto.
Questo corpo è lo stesso. Non è nostro. Altri ci entrano dentro e lo usano. Malattia, dolore e vecchiaia vengono ad abitarci, e noi dobbiamo abitarci insieme a loro. Quando questo corpo arriva al culmine del dolore e della malattia e alla fine si disgrega e muore, non siamo noi a morire. Perciò, non aggrappatevi a niente di tutto questo. Piuttosto, riflettete sulla questione, e a poco a poco il vostro attaccamento si esaurirà. Quando vedrete le cose correttamente, la comprensione distorta finirà.
La nascita ci ha creato questo fardello. Ma in genere non lo si vuole riconoscere. Pensiamo che non essere nati sarebbe il più grande dei mali. Morire e non nascere sarebbe il peggio che possa capitare. Ecco come la vediamo. Di solito pensiamo solo a quanto vogliamo avere in futuro. E poi desideriamo ancora: "Nella prossima vita mi auguro di rinascere fra gli esseri divini, o di rinascere come una persona ricca".
Chiediamo un fardello ancora più pesante! Però crediamo che ci farà felici. Comprendere davvero il Dhamma nella sua purezza riesce quindi molto difficile. Ci vuole un serio lavoro di investigazione.
Un modo di pensare del genere è completamente opposto all'insegnamento del Buddha. E' una via pesante. Il Buddha ha detto di lasciarlo andare e gettarlo via. Ma noi pensiamo: "Non riesco a lasciar andare". Così continuiamo a portarcelo dietro, e il peso aumenta. Dal momento che siamo nati abbiamo questa pesantezza.
Facciamo un altro passo: sapete se il desiderio ha un limite? Quand'è che sarà soddisfatto? Se ci pensate, vedrete che tanha, il desiderio cieco, non può essere soddisfatta. Continua a volere sempre di più; anche se ci procura tanta sofferenza da farci quasi morire, tanha continuerà a cercare qualcosa, perché non può essere soddisfatta.
Questo è un punto importante. Se la gente riuscisse a pensare con equilibrio e moderazione... il vestiario, ad esempio. Di quanti vestiti abbiamo bisogno? E il cibo... quanto mangiamo? Al massimo, a ogni pasto potremmo mangiare due portate, e ci basterebbe. Se sappiamo moderarci siamo felici e a nostro agio, ma non è molto comune.
Il Buddha ha dato istruzioni 'per i ricchi'. Il succo di questo insegnamento è contentarsi di ciò che si ha. E' questo che ci fa ricchi. Secondo me, è il tipo di conoscenza che vale la pena di apprendere. La conoscenza insegnata nella via del Buddha è qualcosa che vale la pena studiare, è una materia degna di riflessione.
Poi, il puro Dhamma della pratica va ancora oltre. E' molto profondo. Alcuni di voi forse non sono in grado in capirlo. Come l'affermazione del Buddha che per lui non c'è più nascita, che nascita e divenire si sono esauriti. Sono parole che mettono a disagio. Per dirla chiaramente, il Buddha ha affermato che non dovremmo nascere, perché è sofferenza. Solo su questo il Buddha si è soffermato, la nascita: l'ha contemplata e ne ha compreso la gravità. Essendo nati, ne deriva di conseguenza ogni forma di dukkha. Succede contemporaneamente alla nascita. Quando veniamo al mondo prendiamo occhi, una bocca, un naso. Tutto arriva unicamente in conseguenza della nascita. Ma se ci parlano di morire e non rinascere più, ci pare che sarebbe il massimo della disgrazia. Non vogliamo saperne. Ma l'insegnamento più profondo del Buddha è questo.
Perché ora soffriamo? Perché siamo nati. Per cui ci viene insegnato a mettere fine alla nascita. Non sto parlando solo della nascita del corpo e della morte del corpo. Fin lì è facile capire. Anche un bambino ci arriva. Il respiro si ferma, il corpo muore e resta disteso immobile. Di solito, quando parliamo di morte intendiamo questo. Ma che dire di un morto che respira? Di questo non sappiamo nulla. Un morto che può camminare, parlare e sorridere è qualcosa a cui non abbiamo mai pensato. Conosciamo solo il cadavere che ha smesso di respirare. La morte è questo per noi.
Lo stesso per la nascita. Quando diciamo che qualcuno è nato, intendiamo dire che una donna è andata all'ospedale e ha partorito. Ma il momento in cui nasce la mente... ci avete mai fatto caso, quando ve la prendete per qualche problema in famiglia? A volte nasce l'amore. A volte nasce l'avversione. Essere contenti, essere scontenti... ogni tipo di stati. Tutto questo non è altro che nascita.
Noi soffriamo solo per questo. Quando l'occhio vede qualcosa di sgradito, nasce dukkha. Quando l'orecchio ode qualcosa che piace molto, anche allora nasce dukkha. C'è solo sofferenza.
Il Buddha diceva in breve che c'è solo una massa di sofferenza. La sofferenza nasce e la sofferenza cessa. Non c'è altro. Noi ci avventiamo e la afferriamo in continuazione... ci avventiamo sul nascere, ci avventiamo sulla cessazione, senza mai capire davvero.
Quando sorge dukkha lo chiamiamo sofferenza. Quando cessa, lo chiamiamo felicità. E' sempre la stessa roba, che sorge e che cessa. Ci viene insegnato a osservare corpo e mente che sorgono e cessano. Al di fuori di questo non c'è nient'altro. Per dirla in breve, la felicità non esiste, c'è solo dukkha. Riconosciamo la sofferenza come sofferenza quando sorge. Poi, quando cessa, pensiamo che sia felicità. La vediamo e la definiamo così, ma non è vero. E' solo dukkha che cessa. Dukkha sorge e cessa, sorge e cessa; noi ci avventiamo e lo agguantiamo. Compare la felicità, e noi ce ne rallegriamo. Compare l'infelicità, e noi ce ne rattristiamo. In realtà è sempre la stessa cosa, che sorge e cessa. Nel momento del sorgere c'è qualcosa; e quando c'è la cessazione, è sparito. Ed è qui che cominciano i dubbi. Per cui ci viene insegnato che dukkha sorge e cessa e che al di fuori di questo non c'è nulla. A ben vedere, c'è solo sofferenza. Ma noi non lo vediamo chiaramente.
Non riconosciamo chiaramente che c'è solo sofferenza, perché quando si ferma vediamo la felicità. La agguantiamo e restiamo bloccati lì. Non capiamo fino in fondo la verità che tutto semplicemente sorge e cessa.
Il Buddha diceva in breve che c'è solo sorgere e cessare, e al di fuori di questo nient'altro. Parole difficili da ascoltare. Ma chi ha veramente inclinazione per il Dhamma non ha bisogno di aggrapparsi a nulla e vive in pace. Questa è la verità.
La verità è che in questo nostro mondo non c'è nulla che fa qualcosa a qualcuno. Non c'è niente per cui stare in ansia. Niente per cui valga la pena piangere, niente di cui ridere. Niente, di per sé, è tragico o delizioso. Ma è così che la gente vive le cose normalmente.
Il nostro linguaggio può essere ordinario; ci rapportiamo agli altri secondo il modo di vedere ordinario. Ma se pensiamo alla maniera ordinaria, non ci darà che lacrime.
In verità, se davvero conosciamo il Dhamma e lo vediamo continuamente, non c'è niente che sia niente in particolare, c'è solo sorgere e svanire. Non c'è reale felicità o sofferenza. Allora il cuore è in pace, quando non ci sono felicità e sofferenza. Quando ci sono felicità e sofferenza, ci sono divenire e nascita.
Di solito creiamo un certo tipo di kamma, che è il tentativo di fermare la sofferenza e produrre la felicità. E' questo che vogliamo. Ma quello che vogliamo non è vera pace: è felicità e sofferenza. Lo scopo degli insegnamenti del Buddha è praticare per creare un tipo di kamma che porti al di là di felicità e sofferenza e conduca alla pace. Ma non siamo capaci di pensare in quei termini. Riusciamo solo a pensare che la felicità ci porterà la pace. Se abbiamo la felicità, ci sembra che basti.
Perciò noi esseri umani ci auguriamo di avere in abbondanza. Se otteniamo molto, benissimo. In genere è così che pensiamo. Ci si aspetta che fare il bene porti a buoni risultati, e se li otteniamo siamo felici. Crediamo che non ci sia altro da fare, e ci fermiamo lì. Ma a che conclusione ci porta il bene? Il bene non dura. Continuiamo ad andare avanti e indietro, sperimentando il bene e il male, sforzandoci giorno e notte di afferrare quello che crediamo essere buono.
Il Buddha insegnò che prima di tutto dobbiamo rinunciare al male e praticare il bene. Dopodiché, disse che dovremmo rinunciare non solo al male ma anche al bene, non attaccarci nemmeno a quello perché è un'altra forma di combustibile. Se c'è qualcosa di combustibile, prima o poi prenderà fuoco. Il bene è combustibile. Il male è combustibile.
La gente non sopporta discorsi del genere. Non riesce a seguire. Perciò dobbiamo ricominciare dall'inizio e insegnare la moralità. Non fatevi del male a vicenda. Siate responsabili nel vostro lavoro, senza danneggiare o sfruttare gli altri. Il Buddha ha insegnato così, ma questo non basta a fermarsi.
Perché ci ritroviamo qui, in questa condizione? In conseguenza della nascita. Come ha detto il Buddha nel suo primo sermone, il 'Discorso che mette in moto la ruota del Dhamma': "La nascita è esaurita. Questa è la mia ultima esistenza. Non c'è nascita futura per il Tathagata".
Non sono molti quelli che tornano su questo punto e riflettono per capire in linea con i principi della via del Buddha. Ma se abbiamo fede nella via del Buddha, ci ripagherà. Se veramente ci affidiamo ai Tre Gioielli, praticare è facile.
AJAHN CHAH nasce il 17 giugno 1918 da una famiglia agiata e numerosa in un villaggio rurale della Thailandia nordorientale, è deceduto dopo una lunga malatia il 16 gennaio 1992. E' stato uno dei massimi esponenti della tradizione buddhista theravada della foresta. Ha intrapreso gli studi religiosi giovanissimo, e a vent'anni ha preso gli ordini monastici iniziando la pratica della meditazione sotto la guida dei grandi maestri della foresta. Per molti anni ha vissuto come asceta, dormendo in foreste e caverne e nei luoghi di cremazione, e infine si è stabilito in un boschetto accanto al villaggio natale, raccogliendo presto intorno a sé numerosissimi discepoli. Grande maestro e meditante, fu l'ispiratore di un vitale comunità monastica che si è diffusa dalla Thailandia in Inghilterra, America, Australia, Nuova Zelanda, Svizzera e Italia.