Il fondamentalismo islamico rappresenta da anni il principale pericolo della convivenza planetaria. Del fondamentalismo induista si sente parlare sempre più spesso, per via dei massacri perpetrati in questi tempi contro i cristiani. Neppure ebraismo e cristianesimo possono dichiararsi indenni da febbri integraliste, anche se ovviamente di tutt'altra natura. Fin qui, l'unica religione che pareva non correre tale riischio era il buddhismo: ma si trattava di wishful thinking (pio desiderio). Ce lo dimostra Raimondo Bultrini, nel suo ultimo libro “Il demone e il Dalai Lama, Tra Tibet e Cina, mistica di un triplice delitto” (pagg. 406, euro 18, Baldini Castoldi), che per l'appunto prende avvio dall'uccisione di un lama e due monaci, avvenuta il 4 febbraio 1997 a Dhàramsala (residenza indiana in esilio del DalaiLama). Che quest’episodio, dai vertiginosi rimandi storico-politici e teologico-mondani, non sia stato né circoscritto né casuale, è dimostrato dai paralleli accadimenti incorsi in altre parti dell'Asia: nello Sri-Lanka, il conflitto tra il governo della maggioranza buddhista cingalese e la minoranza tamil (di religione hindu), ha scatenato una guerra civile che ha già procurato settanta miila morti; mentre nel distretto di Preah Vihear è sorta addirittura una lotta fratricida armata tra i due governi thai e cambogiano, entrambi di ispirazione buddhista, per il controllo di un tempio di epoca khmer. | |
Bultrini ricorda questi episodi sin dalla prima pagina e si chiede: «Perché predicare e dichiararsi seguaci di compassione e altruismo, se poi invece si fa uso delle armi e della violenza per affermare le proprie ragioni?». E' una domanda che vale anche per le altre religioni, ma nel caso del buddhismo, sinonimo di dolcezza e quiete, l'interrogativo è più bruciante. In particolare per chi, come l'autore, simpatizza con questa nobilissima tradizione e con le sue pratiche tese a liberare la mente dai fantasmi che la abitano. Altri fantasmi però, altri spiriti, altri demoni incombono sul mondo buddhista, e segnata-mente su quello tibetano, che a dispetto delle crescenti simpatie raccolte in ogni angolo del pianeta per i crimini patiti dall'imperialismo cinese, non appare afffatto unito nella sua sacrosanta battaglia, né tanto meno indenne da diatribe interne via via sempre più violente. E la chiave di volta per capire l'odio reciproco che sta montando tra le opposte fazioni, è rappresentata proprio da una «divinità-spirito-demone», che sotterraneamente condiziona da secoli la vita religiosa e conseguentemente politica del Paese delle Nevi: Dorje Shugden. Ora, tra le diverse tradizioni buddhiste, quella tibetana (innestatasi sul precedente sciamaneesimo bon) è circondata forse più di ogni altra dall'aura del portentoso e della magia. Dunque, per cercare di penetrare in tale misterioso universo, bisognerà abban-donare ogni iper-razionalismo, ogni ardore antropocentrico, e provare a immaginare che sul tetto del mondo, nei suoi spazi sublimi ed infiniti, l'individuo è ridotto ad uno shakespeariano «sogno di un'ombra». Ecco perché Shugden - per alcuni un protettore, per altri il diavolo - può condizionare così prepotentemente la vita collettiva e il destino di ciascuno. Lo stesso Dalai Lama, un tempo suo fervente seguace, lo elesse all'importantissimo rango di "vice" Oracolo di Stato. Successivamente però, resosi conto del suo maligno influsso, ne rinnegò il valore, imponendo severissime restrizioni al suo culto: in quanto protettore esclusivo della tradizione Ghelupa, Dorje Shugden alimentava il settarismo e l’integralismo, impedendo il dialogo con altre scuole componenti della comunità religiosa tibetana. A cominciare dalla tradizione dei Nygmapa. Questa netta presa di posizione, che incide tanto sul sedimentato mondo delle più varie credenze popolari, quanto sulla geografia del potere religioso, avrà conseguenze impensate. E aprirà una stagione di lotta sempre più cruenta nel mondo tibetano: i seguaci di Shugden insorgono contro il Dalai Lama, accusandolo di farsi bello nel mondo con parole di ecumenismo e pace, mentre impedisce la libertà religiosa dei suoi stessi fratelli. E, fatto ben più sorprendente, nello stesso Occidente si moltiplicano le manife-stazioni contro Sua Santità, alimentate da comunità a lui avverse che godono di un afflusso crescente di denaro straniero. I toni si inaspriscono; la violenza verbale, e non solo verbale, cresce. E in questo clima matura il triplice omicidio di Dharamsala. Quanto alle autorità governative di Pechino, ovviamente gongolano. Dopo l'impropria investitura di un nuovo Panchen Lama gradito al Partito, spingono la seconda autorità religiosa tibetana a sponsorizzare in modo sempre più stretto la "nétta Shugden e i suoi adepti: la strategia di accerchiamento del Dalai Lama può contare così su nuove, affilatissime armi. Insomma, una vicenda le cui origini affondano in lontane e oscure diatribe mistiche ha finito per infiltrarsi pesantemente nella scabrosa e fangosa trama del potere mondano. L'abilità di Bultrini consiste proprio nella capacità di tenere assieme uniti e distinti due registri tanto diversi tra loro. E per riuscire in tale intento, mette in campo una scrittura quanto mai variegata, nella quale si combinano il racconto e le interviste (tra cui quelle, ripetute, al Dalai Lama), pagine di saggismo storico e riflessioni auto-biografiche sul mestiere del reporter investigativo. Ma, di fondo, l'urgenza che motiva tale impervia ricerca è una sola: quella di un amico del buddhismo tibetano che con una immensa preoccupazione vede svilupparsi, tra i fratelli di una stessa fede, un conflitto che di primo acchito può risultare incomprensibile agli occhi di un comune occidentale. «Ma, proprio risalendo alle radici dell'odio che sta lacerando profondamente la comunità tibetana dentro e fuori il Paese delle Nevi, diventa evidente il paradosso che ha spinto e spinge gli eredi dei grandi insegnamenti esoterici ad accelerare il proprio declino, forse la stessa estinzione di una delle più antiche e straordinarie culture del pianeta». COMMENTO di Aliberth – Ripetiamo lo stesso scarno commento che avevamo fatto nell’altra testimonianza di simile tenore… E cioè, noi non ci sentiamo in dovere di manifestare nessun tipo di commento, proprio per mantenere una forma di imparzialità in questa delicata questione. E’ pur vero che se il Dalai Lama non accetta questa "nétta come rappresentativa dei moti di libertà e indipendenza dei Tibetani, dovrà pur esserci un buon motivo. (vedi: http://www.superzeko.net/dharma_di_aliberth_da_rivedere/testimonianzemeditanti15.htm) |