TESTIMONIANZE: LE OLIMPIADI TIBETANE Di Emanuela Audisio (Tratto da ‘La Repubblica’ del 22.5.08) | |
DHARAMSALA - Un'ora di yoga come riscaldamento, prima di colazione: Baggio ci metteva di meno. Gli atleti di Buddha fanno sudare la mente, poi casomai i muscoli. Meglio il nirvana del gol. Ognuno ha i suoi psicologi e il suo jogging dell'anima; Questi sono i giochi di chi non può giocare. Di chi ha corso solo per scappare, nessun traguardo da tagliare, solo un confine da varcare, la cortina di bambù, così la chiamano. I giochi di chi è in esilio, sfrattato da casa senza nazionalità, senza passaporto. Di chi non può andare a Pechino, perché la sua bandiera non è ammessa. La palestra qui non usa: si medita e si prega nel tempio. Alle prime e forse anche ultime ‘Olimpiadi Tibetane’, a Dharamsala, cittadina dell'India del nord, favela di montagna, dove vivono 80 mila profughi tibetani. Sotto la casa del Dalai Lama, che qui arrivò in esilio nel 1959. Per strada scimmie, storpi, mosche, sputi, cani stracchi, topi vivacissimi, melanzane e cetrioli sulle stuoie, pisciate di buoi, vecchi che agitano moncherini, donne con neonati, non vogliono soldi, ma latte, e anime del mondo in cerca di una ginnastica, vagabondi del karma. In sottofondo, i clacson delle moto che scendono in folle e le nenie dei bambini che alle sette sono già scuola. Come logo, le due figure che ballano sotto i cinque cerchi, niente sponsor, ma cartelli con le offerte più strane: corsi di miracoli, di ipnosi, di astrologia, di ricerca del vuoto, di tai-chi, di massaggi e cucina tibetana, di yoga per bambini e per gente che lavora, un baracchino che serve pollo. Vicoli dissestati, baracche, gradoni, polvere e fango, come in una casbah si scende e si sale, si sprofonda e ci si inerpica, niente acqua nel pomeriggio, comunque non potabile, e l'elettricità fa quello che le pare, va e viene. Però l'idea è d mostrare al mondo che anche i tibetani possono e devono fare sport. Anche se ai monaci buddhisti è vietato perché le alte autorità religiose pensano che calcio e basket siano distrazioni pericolose. Ricordate il film ‘La Coppa’ del lama tibetano Khyentse Norbu? Il Villaggio olimpico è in una dimessa guest-house: brande, bagno in comune, grossi lucchetti, mango, anguria e papaya a pranzo, alltro che integratori. Però quasi tuttti i concorrenti hanno il cellulare. Lo slogan è: “Un mondo, tanti sogni”. In polemica con quello di Pechino: «One world, one dream». Si comincia oggi con tiro e arco, poi c'è la corsa sulla lunga distanza, niente stadio, si va dal tempio Tsuglag-khang al villaggio di Naddi, poi c'è la gara di nuoto, nella piscinetta di una pensione, e sei prove di atletica. Uomini e donne sono divisi, ma ogni concorrente è obbligato a fare tutte le gare. Il limite di età è 15-30, l'equipaggiamento è da sagra paesana: quattro fucili ad aria compressa, di quelli con cui si spara ai palloncini nelle fiere, dieci giavellotti di bambù, affittati da una scuola. Le tute, rosse per gli uomini, bianche per le donne, sono fornite da una ditta indiana. Già a vederle, pessimo sintetico, ci si suda dentro. Il caldo è afoso, umido: foschia di mattina, pioggia nel pomeriggio. Il dottore? C’è una veterinaria australiana, Catherine Shuetze, responsabile anche delle finanze. Invece il De Coubertin tibetano si chiama Lobsang Wangyal e non è un barone, ha 38 anni, ma alle donne ne dichiara 42 («l'uomo maturo va di più»), è nato a Orissa, nell'est dell'India da genitori emigrati nel '59 e si definisce un impresario, visto che ha una casa di produzione. Ha organizzato anche MissTibet, un concorso di bellezza con sei partecipanti. «Erano belle, non bellissime, ma il problema è che la società tibetana è tradizionale, quasi feudale, e non libera le donne che vengono considerate inferiori. Hanno la stessa opportunità di studio, ma se c'è da scegliere tra chi mandare avanti, il preferito è sempre il maschio. In questo, noi siamo arretrati. Ma anche vessati. Ci è vietato avere proprietà e se apriamo aziende serve un socio indiano». Lobsang non è un monaco, veste come un attore: camicia arancione, jeans, false crocs rosa, coda di cavallo, orecchino, occhiali da sole rosa. «L'idea mi è venuta nel 2001, quando hanno assegnato i Giochi a Pechino. Ero molto contento, per il popolo cinese che se li merita. Perché io non sono per il boicottaggio, ma a favore degli atleti. E' la loro olimpiade, non del governo cinese che con la sua cattiva politica distrugge l'ambiente e le persone. Però, mi sono detto: noi tibetani non possiamo partecipare, e allora invece di piangerci sopra proviamo ad organizzare dei giochi nostri. Mi sono informato, la nostra tradizione prevede sollevamento di massi e gare di cavalli. Ma tirare su pietre è solo fatica, e oggi chi di noi cavalca più? Così ho scelto altre gare, e gli 80 metri piani nell'atletica, perché qui è tutta montagna e un rettilineo di cento metri non l'abbiamo. Per il nuoto ho trovato una piscina di nemmeno venti metri, non c'è obbligo di stile, basta andata e ritorno». Il Dalai Lama non è stato informato dell'iniziativa. Eppure vive qui. «Figurarsi se lo disturbo per una cosa così. E' un'allta personalità, viaggia nel mondo, ha altri interlocutori. Ed io non sono tipo che cerca la sua approvazione, anche perché i monaci sconsigliano il pallone dicendo che si prende a calci la testa di Buddha. Però in segreto si può giocare. Mi sono solo preoccupato se il C.I.O. potesse portarmi in tribunale per aver usato la parola ‘Olimpiadi’, anche se all'inizio volevo chiamarle ‘Tibetan-Olimpia’. La nostra torcia ha viaggiato in 12 città, portando gioia, non miseria. Mi hanno appoggiato in tanti, ma ho trovato pochi sponsor, tutti hanno paura a mettersi contro la Cina. Solo Pavarotti ha finanziato alla grande le nostre scuole. Ringrazio Ruthie da Seattle che ha fatto la donazione più generosa, 2mila dollari. In tasca io ne ho 400, spero di rifarmi con gadget, magliette e biglietti. Anche perché le medaglie hanno un premio in denaro: 2.500 dollari americani per l'oro, 1.250 per l'argento e 625 per il bronzo. Non so se li troverò questi soldi, ma l'importante è svecchiarci. Mio padre è morto di cirrosi epatica, beveva troppo. Il nostro stile di vita deve cambiare: meno carne secca e cibi fermentati, più cereali e vegetali. La salute è importante». I concorrenti dovevano essere 29, per ora ci sono 13 uomini e 7 donne. Yangchen Palno Artsa, 27 anni, sposata, viene da Delhi, dove gestisce un chiosco di arte tibetana. Dice che a scuola ha fatto sport, poi ha lasciato, perché per campare bisogna lavorare. Spera di far bene nella corsa ad ostacoli, come campioni ricorda solo Magic Johnson. Dama Sanggmo, 20 anni, è di Lhasa, studia, cerca di recuperare la sua lingua proibita, suo padre è cuoco, sua madre contadina. Dice che sono otto figli, poi non si riesce a capire più niente, perché comincia a singhiozzare. Lei è qui, loro sono là. In mezzo una pena infinita. Tashi Yengzom ha 24 anni, è nata a Tingree in India, ha tre fratelli, non crede di avere i mezzi per vincere. Dolkar Tso, 20 anni, viene da Amdo Golog, al collo un filo di perle con l'immagine del Dalai Lama. Le ragazze hanno anellini, orecchini, smalto alle unghie, ma sono timide. Poi ci sono i ragazzi con il gel ai capelli, le magliette (false) alla moda. Ten Chanpel, 26 anni, vive a Delhi, i suoi genitori vendono abiti invernali. Si vanta di poter correre i 100 in 11'', fa niente se è una bugia, meglio non dirgli che le grandi donne dell'atletica corrono sotto quel tempo dal '73. Anche lui è rimasto indietro, a Carl Lewis, nel calcio invece è più attuale, i suoi idoli sono Beckham e Cristiano Ronaldo. Dawa Tashi, 24 anni, è quello più atletico, forse perché è una guida di montagna, fa trekking nel Laddakh e sale a 6135 metri. Dice di camminare 50 km al giorno e di saper nuotare nel fiume. Ha il codino, è vestito di nero, aiuta un suo zio a gestire una guest-house, e dice: «Forse vinco». Dhondup, pettinatura alla Fonzie, ha 19 anni, 4 fratelli e 2 sorelle, viene dal Kam, studia a Dharamsala. E poi c'è l'unico monaco: Tenzin Leksmey, 25 anni, ha metà faccia rovinata. Lebbra? Lui dice che qualcosa è andato storto nel parto. Non è abituato alla tuta, viene dal monastero di Sera, nel nord dell'lndia. Famiglia di contadini, nove figli. Gli piace correre, saltare e giocare a football. E' un fan di Rooney. Sul comodino ha il libro in inglese del Dalai Lama. Poi c'è Gyatso, 28 anni, fiiglio di pastori nomadi, nato a Kampa, piccoli traffici a Delhi, appassionato di calcio, anche lui sogna Beckham, le braccia piene di cicatrici per un incidente di moto. Il suo record per ora è quello di aver marciato di notte per 24 giorni quando è fuggito dal Tibet, via Nepal. La sfilata non è prevista, la merenda sì. Si va in piscina, le ragazze sono incerte, niente costume, in India le donne non possono indossarlo, quindi pantaloncini e magliette. Si giustificano così: «In Tibet fa freddo, nessuno sa nuotare». Chi non si butta non prende punti. Qui sì che farebbe comodo avere i nuovi costumi integrali. Dolkàr cammina sul fondo. Che si fa: vale o no? Difficile tenere a galla i sogni delle piccole e povere olimpiadi tibetane. Però il karma non ha corsie. COMMENTO di Aliberth: Ingenuo, ma delizioso. Questo quadretto ripreso da un quotidiano è di una tenerezza unica… Come i bambini che giocando imitano le cose serie dei grandi… Ah, Cina, cosa ti perdi a non aprire le braccia ai Tibetani! | |