TESTIMONIANZE:

Intervista a Bertolucci:

«Dov’è la Cina del mio Piccolo Buddha?»

di FABIO FERZETTI - Tratto da Il Messaggero del 16.3.08


ROMA - «L’arroganza della Cina è inspiegabile. Temo che colpendo il Tibet vogliano offrire una prova di forza. Dimostrare al mondo che le proteste non li toccano e non temono nemmeno ripercussioni negative sulle Olimpiadi. Sanno benissimo che oggi nessuno può fare a meno della Cina, gli interessi economici sono troppo forti».

Bernardo Bertolucci è doppiamente sconvolto da quanto sta accadendo in Tibet. Come regista del Piccolo Buddha, che peraltro girò in Nepal e Bhutan («il Tibet era già allora un paese a rischio»), conosce a fondo la cultura e il buddhismo tibetani («Ma non posso certo dirmi buddhista, non pratico, per me il buddhismo è anzitutto una filosofia»). Ma come regista dell’Ultimo imperatore ammira «non meno profondamente la cultura cinese, che ho imparato a conoscere verso la metà degli anni 80, nel momento della massima apertura. Ricordo che andando e venendo per circa tre anni, fra sopralluoghi e riprese, vidi lentamente riaffiorare sui volti dei cinesi un sorriso che era scomparso con la Rivoluzione Culturale. Era una Cina quasi permissiva, oggi sparita. In fondo i tibetani chiedono solo l’autonomia culturale e religiosa, non l’indipendenza. Vorrebbero far studiare i loro figli in tibetano anziché in cinese. Invece Pechino prima spedisce milioni di lavoratori cinesi in Tibet, per minare alla radice la loro cultura. Poi gli spara pure addosso».

Perché questo crescendo di violenza?

«È sempre successo, ciclicamente. Quando il controllo diventa insopportabile, i monaci si ribellano. E scatta la repressione. Oggi poi per la Cina è il momento meno indicato per esporsi, e questo aggrava le cose».

Possibilità di intervento?

«Poche. Toccherebbe alle Nazioni Unite fare finalmente qualcosa, ma non so se accadrà. Oggi, sui giornali fiorisce la solidarietà, ma non dimentichiamo che a fine 2007, quando il Dalai Lama venne a Roma, solo Goffredo Bettini volle incontrarlo. Gli altri esponenti del governo preferirono nascondersi, temendo rappresaglie da parte cinese. E non accetto, oggi, proteste contro la Cina da parte di chi non ha osato nemmeno incontrare la massima autorità politica e morale tibetana».

Come gettare un ponte fra questi due mondi?

«I tibetani sono apertissimi, è la Cina che non sente ragioni. Nel Piccolo Buddha il personaggio, centrale, di Lama Norbu, è interpretato da un grandissimo attore cinese scomparso pochi anni fa, Ing Ruo Chen. Non fu una decisione facile, sui due fronti. Temevo che i cinesi non gli dessero il permesso e che i tibetani si offendessero. Chiesi un parere a Richard Gere, su cui spesso si fa facile ironia, mentre da anni fa un lavoro straordinario per la causa tibetana. Gere mi disse che ero pazzo, ma ne parlò al Dalai Lama, che invece fu felicissimo della trovata. Tutto quello che può contribuire a spezzare il muro di isolamento in cui li tiene la Cina è benvenuto. Il permesso delle autorità cinesi per Ing Ruo Chen invece arrivò 24 ore prima del primo ciak. Non dimentichiamo che le autorità cinesi non hanno mai neanche voluto incontrare il Dalai Lama. È un processo di negazione a tutto campo».
Oggi però nelle strade di Lhasa si spara. Questo cambierà le forme di resistenza dei tibetani?

«Difficile dirlo, le informazioni sono ancora confuse. Spero solo che non succeda come in Kundun, il film sul Tibet di Scorsese, quando dall’inquadratura di un solo cadavere il quadro si allarga a scoprire pian piano una distesa sterminata di morti. Non credo però che i tibetani cambieranno strada. Quando, a metà anni 80, il Dalai Lama bandì dalle proteste la violenza, cui furono conseguenze drammatiche. In Mustang, nei campi d’addestramento dei Kampas, una casta tibetana di guerrieri, molti di loro si tolsero addirittura la vita. Ma di tutto questo la Cina non si interessa. È sempre stato così. Il potere cinese ha l’ossessione del controllo. Solo calpestando le minoranze possono tenere insieme popoli e culture lontanissimi. È la sempre invocata e abominevole “ragion di Stato”. Ricordo che tanti anni fa, pochi mesi dopo la fatwa che colpì Salman Rushdie, chiesi al nostro ministro degli Esteri di incontrarlo durante un viaggio a Londra. Ma il Ministro, che non nomino (stando ai calendari trattasi di Andreotti o di De Michelis, ndr.), rifiutò categoricamente con tre sole parole: “Non ha mai sentito parlare di ragion di Stato?”, mi disse. È questo, oggi, il nemico mortale del Tibet. Per questo solo le Nazioni Unite possono fare qualcosa».

COMMENTO di Aliberth: Come fervente praticante di buddhismo Chan, potrebbe sembrare che io sia alquanto disinteressato a ciò che succede nel mondo, anche se questi fatti riguardano il mondo buddhista. Ma, in realtà, è proprio alla luce del fatto che nel mondo questi fatti accadono anche per chi si sente buddhista nell’animo, che si rafforza maggiormente il desiderio di sfuggire da questo tragico mondo pieno di dolore, con l’intenzione di non volervi più fare ritorno. E proprio questo è il messaggio del Buddha e dei suoi più aderenti seguaci, come gli adepti del Chan. Tuttavia, questo non significa che questi fatti si debbano ignorare e non farne rilevare la loro tragica attualità di cronaca. Poi, ognuno, con la propria mente, saprà dare il giusto valore e significato alle notizie e, secondo il proprio livello di coscienza, saprà ragionare in termini di valutazioni sociali e politiche, circa questi stessi fatti.

(vedi nella sezione NIRVANA NEWSLETTERS, altre notizie sui tragici fatti del Tibet).