Nei thriller americani, la macchina della verità fa spesso la sua comparsa. Abbiamo ben presente la classica scena in cui all’imputato vengono poste delle domande mentre una strana apparecchiatura registra le risposte fisiologiche (respirazione, battiti cardiaci, pressione arteriosa).
Ma questa tipologia di macchina della verità è relativamente attendibile: una persona innocente potrebbe apparire colpevole solo perché non riesce a controllare la propria ansia.
E, dal momento che non tutti i corpi di polizia possono contare sulla perizia di Cal Lightman/Tim Roth, il celebre esperto di comunicazione non verbale della serie televisiva “Lie to me” che riconosce immediatamente se il suo interlocutore stia mentendo o dicendo il vero, gli studiosi concentrano la propria attenzione su metodi più innovativi e più affidabili per riuscire a discernere una risposta veritiera da una falsa.
Tre ricercatrici dell’Università di Milano-Bicocca, Alice Proverbio, Maria Elide Vanutelli e Roberta Adorni, hanno testato una tecnica basata sulle reazioni del cervello nel corso di un interrogatorio, giungendo a conclusioni di notevole interesse, pubblicate di recente sulla rivista “PLOS ONE”.
Le ricercatrici spiegano che la costruzione di una bugia attiva delle specifiche aree cerebrali, la regione frontale e pre-frontale dell’emisfero sinistro e la corteccia cingolata anteriore. Grazie all’elettrofisiologia cognitiva, è possibile monitorare le reazioni del cervello di un soggetto che mente.
Il team della Bicocca ha reclutato 25 studenti universitari, di cui 12 maschi e 13 femmine, sottoponendoli a una serie di domande, alcune delle quali anche molto intime o imbarazzanti, così da creare le condizioni di stress che accompagnano di solito gli interrogatori della polizia. Agli studenti, che indossavano delle cuffie speciali dotate di decine di rivelatori in grado di registrare l’attività elettrica del cervello, è stato chiesto, di volta in volta, di essere sinceri o di mentire.
Si è così potuta avere conferma del fatto che, quando una persona dice una bugia, come spiega la dottoressa Proverbio, “il cervello produce una risposta bioelettrica inconfondibile, chiamata N400, che riflette il tentativo di sopprimere l’informazione riconosciuta come vera”.
Come si diceva, questa tecnica scova-bugie avrà applicazioni in campo investigativo e giudiziario e, anche se a molti di noi piacerebbe, non potrà essere usata per venire a conoscenza di eventuali tradimenti del proprio partner o per assicurarsi che il proprio figlioletto non abbia iniziato a fumare di nascosto nei bagni della scuola. Ma la scoperta delle tre ricercatrici italiane contribuirà senz’altro a evitare errori giudiziari irreversibili.
Infatti, un metodo simile, denominato “brain fingerprint” (cioè “impronta digitale del cervello”), è stato già adoperato negli Stati Uniti in due processi per omicidio, rivelandosi essenziale per identificare il vero colpevole nel primo processo e scagionare l’accusato nel secondo.