Centro Ch'an Nirvana
Testimonianze

 

Sullo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta…
Di Joe Bass
 

 
 

 Anni fa, avevo preparato un sunto dal libro "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta". Mi ero stancato delle persone che ragionavano solo in termini di giusto-sbagliato, vero-falso ecc. Delle persone incrollabilmente convinte di essere loro nel giusto, io nell'errore; delle persone che non riuscivano a vedere la realtà almeno un poco con occhi miei, o a mettersi nei miei panni; fu il mio primo incontro con la logica non-dualistica. Vedi se Ti può interessare, o servire per altri. .. (Joe Bass)…


Sembrava la cosa più sensata, e più Fedro ci pensava più gli sembrava vera. La scuola insegna a imitare. Se non si imita l'insegnante si prende un brutto voto. Qui al College, evidentemente, lo si faceva in modo più artificioso, senza averne l'aria, dando ad intendere all'insegnante di aver còlto l'essenza del suo insegnamento per svilupparla con idee proprie. Era così che si conquistava il massimo dei voti. L'originalità, invece, era un'incognita, poteva anche portare alla bocciatura.

Tutto il sistema di votazione metteva in guardia contro di essa.

Fedro discusse il problema con un professore di psicologia che viveva accanto a lui, un insegnante estremamente fantasioso. «È vero» gli rispose. «Elimina tutto il sistema dei voti e dei diplomi e avrai una vera e propria istruzione».

Fedro ci pensò su, e quando qualche settimana dopo una studentessa molto brillante si trovò in difficoltà sulla scelta di un argomento per un'esercitazione trimestrale, lui le suggerì di trattare il problema dei voti. Sulle prime il tema non le piacque, ma acconsentì egualmente.

In capo a una settimana la ragazza ne parlava con tutti, e in due settimane aveva sviluppato uno svolgimento superbo. Gli studenti di fronte ai quali lo lesse non avevano però dalla loro due settimane di riflessione sull'argomento, ed erano piuttosto ostili all'idea di eliminare voti e diplomi. Questo non le fece né caldo né freddo, anzi la sua voce assunse un fervore religioso. Pregò i compagni di ascoltare, di capire che era davvero giusto. «Non lo dico per lui», disse lanciando un'occhiata a Fedro «ma per voi».

Il tono di quella studentessa fece a Fedro una grande impressione, rafforzata dal fatto che i suoi esami di ammissione al College erano stati tra i più brillanti della classe.

Nel trimestre successivo, insegnando «prosa persuasiva», Fedro scelse lo stesso argomento, e su di esso compose un pezzo di prosa persuasiva che elaborò giorno per giorno davanti agli studenti e col loro aiuto. Si valse di questo espediente per evitare di parlare in termini di princìpi di composizione, sui quali nutriva profondi dubbi. Aveva l'impressione che sottoponendo agli studenti le proprie frasi man mano che le creava, con tutti i dubbi, i ripensamenti e le cancellature, avrebbe fornito loro un quadro più onesto del lavoro dello scrittore.

Questa volta sviluppò la tesi secondo la quale tutto il sistema dei voti e dei diplomi doveva essere eliminato, e per far sì che gli studenti si sentissero coinvolti eliminò tutte le votazioni fino alla fine del trimestre.

(Robert M. Pirsig, Lo zen e l' arte di manutenzione della motocicletta, pag. 193 e 194, Adelphi -gennaio 1990, ISBN 88 459 0734 1)

 

Ora voglio parlare delle trappole della verità e delle trappole muscolari e poi, per oggi, interrompere il Chautauqua. Le trappole della verità hanno a che fare con i dati che s'imparano nelle aule dell'intelligenza classica. I problemi suscitati da questi dati vengono trattati in modo appropriato utilizzando la logica dualistica convenzionale e il metodo scientifico. C'è però una trappola che sfugge — la trappola della logica sì-no, la logica binaria.

Sì o no... questo o quello... uno o zero.(NDR: Vero o falso, in matematica, in particolare in “logica matematica”. Il primo che pose i fondamenti della logica fu Aristotele; nel seguito, la logica si staccò dal campo della filosofia per finire nel campo, ancora più rigido e concreto, della matematica...)

L'intera conoscenza umana è costruita sulla base di questa discriminazione elementare a due termini.

Ne è una dimostrazione la memoria dei calcolatori, che immagazzinano tutta la loro conoscenza sotto forma di informazione binaria. Tanti uno e tanti zero, nient'altro.

Dato che non ci siamo abituati, di solito non ci accorgiamo che esiste un terzo possibile termine logico equivalente al sì e al no, il quale è in grado di espandere la nostra conoscenza in una direzione non riconosciuta. Non esiste nemmeno il termine per indicarlo, per cui dovrò usare il termine giapponese ‘mu’.

Mu significa «nessuna cosa». Come «Qualità», mu punta il dito fuori dal processo di discriminazione dualistica, dicendo semplicemente: nessuna classe, «non uno, non zero, non sì, non no». Afferma che il contesto della domanda è tale per cui la risposta sì o la risposta no sono errate, e non dovrebbero essere date. Il suo significato è: « Non fare la domanda». Mu è appropriato quando il contesto della domanda diviene troppo angusto per la verità della risposta.

Quando a Joshu, monaco Zen, chiesero se un cane avesse una natura-Buddha, questi rispose:«Mu», intendendo che se avesse risposto sì o no avrebbe risposto in modo scorretto.

La natura-Buddha non si può cogliere con domande che richiedono come risposta un sì o un no. [fosse solo la natura-Buddha! Più ci si fa caso, più si scoprono realtà per le quali non ha senso porsi domande sì-no; più si avanti nella vita, più ci si rende conto che nessuno sbaglia (o sbagliò) di più di chi crede (o credette) incrollabilmente di essere nel giusto! ndr]

Che il mu esista nel mondo naturale in cui la scienza indaga è evidente. Solo che, come al solito, il nostro retaggio ci impedisce di vederlo. Per esempio, è stabilito una volta per sempre che i circuiti del calcolatore hanno solo due condizioni, un certo potenziale per «uno» e un altro per «zero». È una sciocchezza!

Qualsiasi tecnico elettronico addetto ai calcolatori sa che le cose stanno diversamente. Cercate di trovare il potenziale che rappresenti uno o zero quando non c'è alimentazione! I circuiti sono in uno stato mu. La lettura del voltmetro in molti casi indicherà un circuito di massa aperto. In questo caso il tecnico non legge affatto le caratteristiche dei circuiti del calcolatore, ma quelle del voltmetro stesso. La condizione di alimentazione spenta è parte di un contesto più ampio di quello in cui le condizioni uno-zero sono considerate universali. La domanda per l'uno o lo zero è «non fatta». Ci sono moltissime altre condizioni del calcolatore oltre a quella dell'alimentazione spenta in cui si riscontrano risposte mu.

La mente dualistica tende a pensare che il verificarsi del mu in natura sia una specie di imbroglio contestuale, o comunque un fatto non pertinente, ma il mu lo si trova dappertutto nell'indagine scientifica, e la natura non imbroglia: nessuna risposta della natura è non pertinente.

È un grave errore, una specie di disonestà, sbarazzarsi alla leggera delle risposte mu della natura. Riconoscerle e valutarle sarebbe di grande aiuto nell'avvicinare la teoria logica alla pratica sperimentale. Ogni scienziato di laboratorio sa che molto spesso i risultati sperimentali forniscono risposte mu alle domande sì-no per cui gli esperimenti erano studiati. In questi casi egli dà la colpa alla cattiva impostazione degli esperimenti e si rimprovera per la propria stupidità.

Invece, la risposta mu è importante perché ha detto allo scienziato che il contesto della domanda è troppo angusto per ottenere risposte dalla natura, e che quindi egli deve ampliarlo. Così, la conoscenza che lo scienziato ha della natura viene incredibilmente accresciuta, e proprio questo, fin dall'inizio, era lo scopo dell'esperimento. L'affermazione che la scienza cresce più grazie alle risposte mu che non grazie a quelle sì-no è assolutamente fondata. Il sì o il no confermano o smentiscono un'ipotesi.

Il mu dice che la risposta è al di là dell'ipotesi. Il mu è il «fenomeno» che fondamentalmente ispira la ricerca scientifica! Nella manutenzione della motocicletta, la risposta mu è una delle principali ragioni di calo di enthousiasmos. Non dovrebbe esserlo!

Quando ottenete una risposta indeterminata, delle due l'una: o le procedure sperimentali non fanno quel che voi credete, oppure dovete ampliare il contesto della vostra ricerca. Controllate gli esperimenti e ristudiate le domande. Non gettate via le risposte mu! Sono quelle su cui potete crescere !

 

Robert M. Pirsig, Lo zen e l' arte di manutenzione della motocicletta, pag. 307-309, Adelphi, gennaio 1990, ISBN 88 459 0734 1 - Poincaré visse dal 1854 al 1912 e insegnò all'Università di Parigi. La barba e il pince-nez ricordavano Henri Toulouse-Lautrec, vissuto a Parigi nello stesso periodo e di soli dieci anni più giovane. Proprio in quel periodo era iniziata una crisi profonda e allarmante, dei fondamenti delle scienze esatte. Per anni la verità scientifica era stata al di là di ogni dubbio; la logica della scienza era infallibile, e se a volte gli scienziati sbagliavano, si dava per scontato che l'errore fosse dovuto a un uso errato delle leggi scientifiche. Tutte le grandi domande avevano, una risposta.

La missione della scienza ormai consisteva soltanto nel rifinire queste risposte per raggiungere una precisione sempre maggiore. È pur vero che c'erano ancora dei fenomeni insoluti quali la radio-attività, la propagazione della luce attraverso l'«etere», lo strano rapporto tra forze elettriche e magnetiche: anche questi fenomeni, però, se si doveva credere alle indicazioni del passato, avrebbero trovato una spiegazione.

Nessuno avrebbe sospettato che, nel giro di pochi decenni, non ci sarebbe stato più spazio assoluto, tempo assoluto, materia e neppure grandezza assoluta; che la fisica classica, la roccia scientifica incrollabile, sarebbe diventata «approssimata»; che gli astronomi più seri e rispettati avrebbero detto agli uomini che, se avessero guardato abbastanza a lungo in un telescopio abbastanza potente, avrebbero finito col vedere la propria nuca!

Le basi della rivoluzionaria teoria della relatività erano a quel tempo conosciute solo da pochi.

Poincaré, il più eminente matematico della sua epoca, era uno di costoro. Nel suo “La scienza e l'ipotesi”, Poincaré spiegò che gli antecedenti della crisi dei fondamenti della scienza erano molto antichi. Si era cercato invano, disse, di dimostrare l'assioma noto come quinto postulato di Euclide e fu proprio questo tentativo a dare origine alla crisi.

Il postulato delle parallele di Euclide, il quale stabilisce che per un punto dato passa una e una sola retta parallela a una retta determinata, lo si impara di solito nella geometria delle medie. È uno dei pilastri su cui poggia l'intero edificio della geometria. Tutti gli altri assiomi sembravano talmente ovvi da essere indiscutibili, ma di questo non si poteva dire altrettanto.

Tuttavia non si riusciva a liberarsene senza distruggere enormi porzioni di matematica e nessuno sembrava capace di ridarlo a proposizioni più elementari. La vastità dello sforzo disperso in questa speranza chimerica era davvero inimmaginabile, disse Poincaré.

Finalmente, nel primo quarto del diciannovesimo secolo, e quasi in contemporanea, un ungherese e un russo, Bolyai e Lobačevskij, (ndr. immaginate solo la difficoltà, per il redattore di questo estratto, di trovare una č accentata per scrivere acconciamente il nome di Lobačevskij) stabilirono in modo irrefutabile che la dimostrazione del quinto postulato di Euclide è impossibile.

Il loro ragionamento era questo: se ci fosse modo di ridurre il postulato di Euclide ad altri assiomi più sicuri, allora l'opposto del postulato di Euclide dovrebbe creare contraddizioni logiche in geometria.

Pertanto i due scienziati invertirono il postulato di Euclide.

Lobačevskij parte dall'ipotesi che attraverso un punto dato possano passare due parallele a una data retta, e nel contempo mantiene validi tutti gli altri assiomi di Euclide. Da queste ipotesi egli deduce una serie di teoremi tra i quali è impossibile riscontrare contraddizioni, costruendo una geometria la cui logica impeccabile non è inferiore in nulla a quella della geometria euclidea.

Quindi, proprio grazie all'impossibilità di trovare una qualsiasi contraddizione, Lobačevskij dimostra che il quinto postulato non è riducibile ad assiomi più semplici.

Non era la dimostrazione ad essere allarmante. Fu la sua conseguenza razionale a investire ben presto la dimostrazione e quasi tutto il resto nel campo della matematica. La matematica, pietra angolare della certezza scientifica, tutt'ad un tratto diveniva incerta. Ora ci si trovava davanti a due visioni contraddittorie dotate entrambe di un'incrollabile verità scientifica, valide per gli uomini di tutti i tempi. Fu l'inizio della crisi profonda che scosse la boria scientifica dell'Età Dorata.

Come facciamo a sapere quale di queste geometrie è giusta? Se non esiste un principio per distinguerle, ci si ritrova con una matematica che nel suo complesso ammette contraddizioni logiche.

Ma una matematica che ammette contraddizioni logiche interne non è matematica. (ndr, qui si inserirebbe bene un discorsetto sul teorema di indecidibilità di Gödel, del quale Pirsig, l'autore, quando scriveva, non era al corrente, ma si farebbe un altro bel po' di confusione, per cui, lasciamo stare... )

Ora che era stata data la stura, un tedesco di nome Riemann se ne venne fuori con un altro sistema geometrico inconfutabile che butta a mare non solo il postulato di Euclide, ma anche il primo assioma, che stabilisce che attraverso due punti può passare una e una sola retta. Di nuovo non ci sono contraddizioni interne, soltanto incompatibilità rispetto sia alla geometria di Lobačevskij sia a quella euclidea.

Secondo la teoria della relatività, la geometria riemanniana è quella che meglio descrive il mondo in cui viviamo. (omissis)

Per risolvere il problema della verità matematica, disse Poincaré, dovremmo prima di tutto chiederci qual è la natura degli assiomi geometrici. Sono giudizi sintetici a priori, come aveva detto Kant?

Esistono cioè come parti immutabili della coscienza umana, indipendenti dall'esperienza? Poincaré pensava che le cose non stessero così, altrimenti questi assiomi ci si sarebbero imposti con una tale forza che non avremmo potuto concepire una proposizione contraria, né costruirci sopra un edificio teorico. Non sarebbero esistite geometrie non euclidee.

Dovremmo allora concludere che gli assiomi geometrici sono verità sperimentali? Poincaré non pensava neanche questo. Se lo fossero, i nuovi dati di laboratorio li porterebbero a cambiamenti e revisioni continui, e questo sembrava contrario alla natura intrinseca della geometria.

Poincaré concluse che gli assiomi geometrici sono convenzioni, e che la nostra scelta tra tutte le convenzioni possibili è guidata da fatti sperimentali ma rimane libera ed è limitata soltanto dalla necessità di evitare ogni forma di contraddizione. Per questo i postulati possono rimanere rigorosamente veri anche se le leggi sperimentali che hanno determinato la loro adozione sono soltanto approssimative.

Gli assiomi della geometria, in altre parole, sono semplicemente definizioni camuffate. A questo punto, dopo aver riconosciuto la natura degli assiomi geometrici, Poincaré prese in considerazione la domanda: «Quale delle due geometrie è vera: quella di Euclide o quella di Riemann?».

La domanda, rispose, non ha senso.

Una geometria non può essere più vera di un'altra, può essere soltanto più utile. La geometria non è vera, è vantaggiosa.

Poi Poincaré si accinse a dimostrare la natura convenzionale di altri concetti scientifici, quali spazio e tempo, dimostrando che non esiste un modo più vero di un altro di misurare queste entità; il metodo generalmente adottato è solo il più utile. Comunque, questa interpretazione rivoluzionaria delle nostre concezioni scientifiche fondamentali non è ancora completa. Grazie a questa spiegazione, il mistero della natura dello spazio e del tempo può divenire più comprensibile, ma l'onere di sostenere l'ordine dell'universo ricade tutto sulle spalle dei «fatti».

Cosa sono i fatti? Poincaré procedette a esaminarli criticamente. Quali sono i fatti da osservare? si chiese. Lo stesso vale per le ipotesi. Quali ipotesi?

Poincaré scrisse: «Se un fenomeno ammette una spiegazione meccanica completa, ne ammetterà anche tantissime altre che potranno spiegare egualmente bene le particolarità rivelate dall'esperimento ».

Era la stessa conclusione cui era giunto Fedro in laboratorio; quella che aveva sollevato il problema che alla fine lo portò fuori dall'università. Se lo scienziato avesse a sua disposizione un tempo infinito, disse Poincaré, basterebbe dirgli: «Guarda e osserva bene».

Ma dato che non c'è abbastanza tempo per vedere tutto, e che è meglio non vedere che vedere sbagliato, è necessario che lo scienziato faccia una scelta. '

Poincaré stabili alcune regole: C'è una gerarchia di fatti. Più un fatto è generale, più è prezioso.

Quelli che possono servire molte volte sono meglio di quelli che hanno poche probabilità di ripetersi.

I biologi, per esempio, sarebbero in grande difficoltà se esistessero soltanto individui e non specie, e se l'ereditarietà non facesse nascere figli uguali ai genitori. Quali sono i fatti che hanno più probabilità di verificarsi di nuovo? I fatti semplici. Come riconoscerli? Scegliendo quelli che sembrano semplici.

Allora, o questa semplicità è reale, o gli elementi complessi non sono distinguibili. Nel primo caso è probabile che ci imbatteremo di nuovo nel fatto scelto, isolato oppure come elemento di un fatto più complesso. Anche nel secondo caso ci sono buone probabilità di riverificazione, dal momento che la natura non costruisce a caso situazioni del genere.

Dov'è il fatto semplice? Gli scienziati l'hanno cercato ai due estremi, nell'infinitamente grande e nell' infinitamente piccolo. I biologi, per esempio, sono stati portati istintivamente a considerare la cellula più interessante dell'intero animale e, fin dai tempi di Poincaré, la molecola proteica più interessante della cellula.

Il risultato di questo orientamento ne ha dimostrato la saggezza, dato che cellule e molecole appartenenti a organismi diversi si sono rivelate più simili tra loro che non gli organismi stessi.

Come si fa allora a scegliere il fatto interessante, quello che si verifica continuamente? Il metodo consiste precisamente in questa scelta dei fatti; quindi e necessario occuparsi innanzitutto della creazione di un metodo; ne sono stati pensati molti, dal momento che nessuno s'impone di per se stesso.

Si incomincia dai fatti regolari, ma una volta stabilita una regola al di là di ogni dubbio, i fatti che vi si conformano diventano insignificanti perché non insegnano più niente di nuovo. È l'eccezione allora che diviene importante. Ci troviamo quindi a ricercare non le somiglianze ma le differenze, a scegliere le differenze più accentuate perché sono le più sorprendenti e anche le più istruttive. Noi cerchiamo prima i casi in cui la regola ha le maggiori probabilità di essere infranta; allontanandoci molto nello spazio o nel tempo potremmo ritrovare le nostre solite regole completamente capovolte, e questi vasti capovolgimenti ci permettono di vedere meglio i piccoli cambiamenti che si verificano più vicino a noi. Ma ciò a cui dovremmo tendere non è tanto l'accertamento delle somiglianze e delle differenze quanto il riconoscimento delle somiglianze nascoste sotto apparenti divergenze.

Ci sono leggi particolari che sulle prime sembrano discordanti; se però si considerano più da vicino, in generale si nota che si assomigliano; diverse per il contenuto, possono rivelarsi simili per la forma, o per l'ordine delle parti.

Se le consideriamo sotto questo punto di vista, le potremo vedere ampliarsi e tendere ad abbracciare ogni cosa. Ed è questo che conferisce valore a certi fatti, che vengono a completare una concatenazione e dimostrano che essa è l'immagine fedele di altre concatenazioni note.

No, concluse Poincaré, uno scienziato non sceglie a casaccio i fatti che osserva. Cerca invece di condensare in un volume ridotto molte esperienze e molto pensiero; perciò un libretto di fisica contiene tante esperienze passate e una quantità mille volte maggiore di esperienze possibili il cui risultato è noto in anticipo. Poi Poincaré illustrò come avviene la scoperta di un fatto.

Aveva descritto in generale come gli scienziati arrivano ai fatti e alle teorie, ma ora s'immerse più a fondo nella sua esperienza personale con le funzioni matematiche che gli avevano dato la sua fama precoce. Per quindici giorni, disse, aveva cercato in ogni modo di dimostrare che funzioni del genere non potevano assolutamente esistere. Ogni giorno si metteva a tavolino, ci rimaneva un'ora o due e provava un gran numero di combinazioni senza giungere a nessun risultato.

Poi, una sera, contrariamente alle sue abitudini, bevve del caffè forte e non riuscì a dormire. La testa gli si affollò di idee. Le sentì cozzare l'una contro l'altra finché si formarono delle coppie, per così dire, che diedero combinazioni stabili.

La mattina dopo non ebbe che da scrivere i risultati. Si era verificata un'ondata di cristallizzazione.

Egli descrisse anche come una seconda ondata di cristallizzazione, guidata da analogie con le idee matematiche accettate, produsse quelle che in seguito chiamò «funzioni Θ - fuchsiane». Partì da Caen, dove abitava, per un'escursione geologica. Il cambiamento gli fece dimenticare la matematica. Stava per salire su un autobus, e mentre metteva il piede sul predellino, gli venne l'idea, senza che i suoi pensieri precedenti le avessero spianato affatto la strada, che le trasformazioni di cui si era valso per definire le funzioni fuchsiane fossero identiche a quelle della geometria non euclidea. Non la verificò, disse, continuò tranquillamente a conversare, ma sentì una certezza assoluta. Poi verificò con comodo il risultato.

Fece un'ulteriore scoperta passeggiando lungo una scogliera in riva al mare. Gli si impose con le stesse caratteristiche di brevità e subitaneità e certezza immediata. Un'altra scoperta importante gli si affacciò alla mente mentre camminava per la strada. C'è chi vede in questo processo l'opera misteriosa del genio, ma Poincaré non poteva contentarsi di una spiegazione così superficiale. Cercò di scandagliare più a fondo la natura di quanto era successo.

La matematica, disse, proprio come la scienza, non consiste semplicemente nell'applicare regole. Non si limita a dare il maggior numero possibile di combinazioni secondo determinate leggi fisse: esse sarebbero di gran lunga troppo numerose, inutili e ingombranti. Il vero lavoro dell'inventore è quello di scegliere, in modo da scartare quelle inutili o addirittura risparmiarsi la noia di ottenerle. I criteri che devono guidare la scelta sono estremamente sottili e delicati. È quasi impossibile stabilirli con precisione; più che formularli bisogna sentirli.

Poincaré fece poi l'ipotesi che la selezione venisse operata da ciò che egli definì l'«io subliminale», un'entità esattamente corrispondente a ciò che Fedro aveva chiamato consapevolezza pre-intellettuale. L'io subliminale, disse Poincaré, valuta un numero enorme di possibili soluzioni, ma soltanto quelle interessanti irrompono nel dominio della coscienza. Le soluzioni matematiche vengono selezionate dall'io subliminale sulla base della «bellezza matematica», dell'armonia di numeri e forme, dell'eleganza geometrica. «Si tratta» disse «di un vero e proprio senso estetico, noto a tutti i matematici, ma di cui il profano è così all'oscuro da esser spesso tentato di sorriderne». Questa armonia, questa bellezza, invece, sono al centro di tutto.

Poincaré sottolineò che non stava parlando di bellezza romantica, della bellezza dell'apparenza che colpisce i sensi. Intendeva la bellezza classica, una bellezza che deriva dall'ordine armonioso delle parti, che può essere afferrata da un'intelligenza pura, che fornisce la struttura alla bellezza romantica e senza la quale la vita sarebbe soltanto vaga e impermanente, un sogno che non potremmo distinguere dai nostri sogni perché non ci sarebbero basi su cui operare la distinzione. È la ricerca di questa speciale bellezza classica, il senso di armonia del cosmo, che ci fa scegliere i fatti che meglio vi contribuiscono. L'unica realtà oggettiva non sono i fatti, ma le relazioni tra le cose che sfociano nell'armonia universale.

Ciò che garantisce l'oggettività del mondo in cui viviamo è il fatto che lo condividiamo con altri esseri pensanti. Comunicando con gli altri ne riceviamo ragionamenti armoniosi in cui riconosciamo, grazie alla loro armonia, l'opera di esseri ragionevoli come noi. E dato che questi ragionamenti combaciano col mondo delle nostre sensazioni, pensiamo di poterne dedurre che questi esseri ragionevoli vedono le stesse cose che vediamo noi, e così sappiamo di non aver sognato. È questa armonia, questa Qualità, se si vuole, l'unico fondamento dell'unica realtà che ci sia mai dato di conoscere.

I contemporanei di Poincaré rifiutarono di riconoscere che i fatti sono preselezionati, perché altrimenti, dissero, la validità del metodo scientifico sarebbe stata distrutta. Secondo loro i «fatti preselezionati» implicavano il concetto che la verità fosse «quel che pare e piace» e definirono «convenzionalismo» le idee di Poincaré.

Si ostinarono a ignorare il dato palese che nemmeno il loro stesso «principio di oggettività» è un fatto osservabile, e pertanto, sulla base dei loro stessi criteri, dovrebbe essere messo in uno stato di giudizio sospeso. Sentirono di dover agire così perché altrimenti l'intero sostegno alla filosofia della scienza sarebbe crollato. Poincaré non offrì sbocchi a questa impasse. Non si spinse abbastanza a fondo nelle implicazioni metafisiche di ciò che sosteneva.....

(Robert M. Pirsig, Lo zen e l' arte di manutenzione della motocicletta, pag. 255 - 264, Adelphi, gennaio 1990, ISBN 88 459 0734 1)


COMMENTO di Aliberth: Grazie, amico mio... potrei usarla nel nostro sito sotto forma di 'Testimonianza', se sei d'accordo... Comunque, la mia posizione (attuale) non è più basata sul 'vero-o-falso' 'giusto-o-sbagliato', ecc... ma su: 'apparente-o-reale'... cioè, tutto ciò che è in questa manifestazione samsarica viene ritenuto da me come 'apparente', mentre il silenzio ed il vuoto sottostante (shunyatà) lo considero l'unica Realtà... Dunque, nessuna adesione convinta (se non una adesione convenzionale, e dunque poco sentita) a parole, scritti, idee, opinioni (comprese le mie), persone, cose, fatti ed eventi. Non so se mi sono spiegato.... Ovviamente, ma certo non serviva dirtelo, riguardo all’argomento di cui sopra sono d'accordo con te... Ciao e auguri per la tua emancipazione! Aliberth