“Se, guardando nello spazio, non si vede nulla, e se, allora, con la mente si osserva la mente, si distrugge ogni distinzione e si raggiunge la buddhità. " Questo libro tratta della relazione complessa tra buddhismo e psicoterapia: anche se entrambe le prospettive promettono la liberazione per mezzo della consapevolezza di sé, la nozione centrale della psicologia buddhista è il non sé, mentre un concetto basilare della psicoterapia occidentale è il sé. Il retroterra unico di Epstein, psicoanalista e praticante di grande esperienza, gli consente di fare da ponte tra le due tradizioni, che sono più compatibili di quanto si possa credere. Egli analizza concetti quali rabbia, desiderio, intuizione e interpreta nel linguaggio psicoanalitico contemporaneo dottrine centrali del buddhismo quali l’assenza dell’io e la vacuità. La convinzione diffusa in Occidente che le filosofie orientali costituiscano in qualche modo delle sugggestioni per la psicoterapia se non addirittura dei veri e propri sistemi psicoterapeutici è, come tutte le convinzioni, in parte vera in parte falsa. È vera per il Buddhismo, falsa per lo Yoga. Non approfondiamo le altre dottrine orientali classiche come il Brahamanesimo, il Vedanta, il Taoismo, il Confucianesimo, perché la loro cifra è più filosofica che psicologica e quindi la loro valenza terapeutica, dal punto di vista tecnico, quasi del tutto trascurabile. La non funzione terapeutica dello Yoga è di più difficile persuasibilità. Troppe palestre, troppi libri, troppi maestri, troppi discorsi hanno infarcito l’Occidente sulla ipotetica valenza terapeutica dello Yoga per poter demolire questa convinzione con poche parole. Non volendo essere questo articolo un trattato sulla non terapeuticità dello Yoga, mi limiterò a poche osservazioni fondamentali che per il lettore intelligente possono essere più che sufficienti. Lo Yoga antico ed originale, il Raja Yoga, risalente a più di duemila anni fa, esposto nel trattato principe dello Yoga, gli Yoga Sutra di Patanjali (III sec. a.C.), ha come esplicito ed unico fine la realizzazione di uno stato di trance (Kaivalya) in cui si ha la sola percezione di esistenza e di beatitudine (SatChitAnanda) che viene raggiunto attraverso un’ipossia cerebrale controllata (PranaYama) e viene assunto come unione (Yoga) con l’Assoluto. Lo stesso Buddha, che dedicò quattro anni alla pratica dello Yoga, riconobbe che la trance yogica non è risolutiva per la sofferenza nevrotica, in quanto temporanea ed avulsa dalla realtà quotidiana. Lo Yoga moderno, lo Hata Yoga, fondato nel XVI secolo ed esposto nello Hata Yoga Pradipika di Svatmarama, da cui derivano tutte le versioni da palestra praticate oggi, ha lo stesso fine, ma tenta di raggiungerlo attraverso un orgasmo sessuale in cui viene inibita l’eiaculazione fino al deliquio. Nelle palestre quest’ultima parte viene tralasciata (snaturando lo Yoga del suo fine precipuo) e vengono semplicemente praticate le tecniche fisiologico-ginniche preparatorie, che nulla hanno di psicoterapeutico. Anche la filosofia naturalistica elaborata in epoca recente a complemento dello Hata Yoga, consistente nel considerare l’energia vitale individuale una particella dell’energia cosmica alla quale essa si unisce in un atto estatico coinvolgente sia il piano fisico che quello psichico (che di fatto non possono essere separati), al quale gli adepti tendono confusamente senza mai realizzarlo perché gli è stato sottratto il mezzo tecnico per farlo (l’orgasmo), non costituisce una psicoterapia. Una psicoterapia può invece essere considerata il Buddhismo originale, ossia l’insegnamento del Buddha. Diciamo subito che, come tutte le terapie psicologiche, essa non è esasustiva. Nessuna lo è, d'altronde. La psicoterapia buddhista agisce principalmente sul cosciente e non sull’inconscio, e quindi ha tutte le limitazioni delle psicoterapie cognitive. Essa è efficace soltanto con quei soggetti che hanno conservato la funzione dell’autocoscienza, quindi soltanto nelle nevrosi non avanzate fino al limite del border line. Ma nell’ambito di quelle, esso è particolarmente efficace, più di altre terapie cognitive. L’eliminazione della sofferenza era stato lo scopo esplicito dell’insegnamento di Buddha. Che si tratti della sofferenza nevrotica è evidente. La sofferenza naturale, infatti, conseguente alla perdita di una persona cara, a un insuccesso, a una sconfitta, non necessita di un intervento terapeutico perché ha una durata temporanea. La sofferenza di cui si occupò il Buddha è la sofferenza che ci portiamo dietro per lunghi, troppo lunghi periodi o addirittura per tutta la vita. Cioè la sofferenza cronica. Ma la sofferenza cronica non è normale. È patologica. È appunto la sofferenza nevrotica. Di questa sofferenza, si occupò il Buddha. La sua dottrina costituisce quindi, già nell’intento, una psicoterapia. La natura pratica e non teorica dell’insegnamento di Buddha, e quindi il suo costituire appunto una tecnica psicologica, è rimarcato dalla stessa tradizione, che attribuisce al Buddha questa dichiarazione: «“Benché il mio insegnamento non sia un dogma né una dottrina, certo alcuni lo intendono così. Devo spiegare chiaramente che insegno un metodo per sperimentare la realtà, e non la realtà medesima, così come un dito che indica la luna non è la luna. Una persona intelligente seguirà la direzione indicata dal dito per vedere la luna, ma chi vede soltanto il dito e lo scambia per la luna non vedrà mai la luna reale. Io insegno un metodo da mettere in pratica, non qualcosa in cui credere o da adorare. Il mio insegnamento si può paragonare a una zattera che serve ad attraversare un fiume. Solo uno stolto rimarrà abbarbicato alla zattera una volta che sia approdato all’altra sponda, alla sponda della liberazione.”» Il protocollo terapeutico adombrato nel Dharma, l’insegnamento originale del Buddha, non è facile da individuare. Prima di tutto perché non è facile da individuare lo stesso insegnamento originale nella enorme letteratura buddhista. Ma anche se ci limitiamo a prendere in considerazione le uniche enunciazioni sicuramente attribuite al Buddha in tutti i Canoni, antichi e moderni, e quindi risalenti molto probabilmente al Buddha stesso, e cioè le Quattro Nobili Verità e gli Otto Nobili Sentieri, il compito non è facilissimo. Tuttavia sono riuscito a distillare il procedimento che il Buddha ci voleva trasmettere. Ed ho scoperto che esso è effettivamente anche formalmente una psicoterapia. L’enunciazione delle Quattro Nobili Verità costituisce infatti una premessa diagnostica che accerta l'esistenza della sofferenza nevrotica, ne individua le cause e ne stabilisce la terapia. Essa infatti stabilisce:
1) l'esistenza della patologia (diffusione della sofferenza cronica); 2) la diagnosi eziologica (individuazione delle cause); 3) l'indicazione terapeutica (eliminazione delle cause); 4) la modalità terapeutica (gli Otto Nobili Sentieri). Gli Otto Nobili Sentieri costituiscono invece il protocollo terapeutico della psicoterapia proposta dal Buddha. Tradizionalmente essi sono, nell’ordine, Retta Comprensione, Retto Pensiero, Retta Parola, Retta Azione, Retti Mezzi di Sussistenza, Retto Sforzo, Retta Presenza Mentale, Retta Concentrazione. Da tenere presente che Retta Parola, Retta Azione, Retti Mezzi di Sussistenza (lavoro o professione), costituiscono veri precetti morali e quindi, a rigor di logica, non rientrano nel protocollo terapeutico. Inoltre, il Retto Sforzo è finalizzato alla realizzazione della Retta Concentrazione. Quindi propriamente il protocollo terapeutico buddhista è costituito da: 1) Retta Comprensione 2) Retto Pensiero 3) Retta Presenza Mentale 4) Retta Concentrazione La Retta Comprensione consiste nella scoperta dell’impermanenza e interdipendenza dei fenomeni, ossia del fatto che tutte le cose dell’universo cambiano continuamente e sono tutte interconnesse fra loro (scoperte fatte anche recentemente dalla nostra fisica e note come dinamicità di campo ed effetto Butterfly). Essa costituisce la famosa illuminazione. Il Retto Pensiero consiste nella eliminazione dei pensieri involontari negativi (indirizzati alla separazione) e nella costruzione volontaria di pensieri positivi (indirizzati all’unione). La Retta Presenza Mentale consiste nella presenza nella realtà, ossia nel volgere l’attenzione alla realtà, fuori della mente nevrotica. La Retta Concentrazione consiste nell’attivazione della funzione cerebrale della auto-osservazione psichica, capace di renderci consapevoli della nostra stessa dinamica nevrotica. Se ordiniamo la sequenza su-riportata secondo un criterio scientifico di consequenzialità psicologica e quindi operativa, raggruppiamo Retto Pensiero e Retta Concentrazione sotto la voce controllo della mente ed aggiungiamo ad essa due parametri psicologici, il non attaccamento e l’amore universale, ampliamente riportati dalla tradizione buddhista e quindi attribuibili all’insegnamento originale del Buddha, abbiamo la seguente sequenza: 1) Controllo della mente (Retto Pensiero e Retta Concentrazione) 2) Presenza nella realtà (Retta Presenza Mentale) 3) Consapevolezza del cambiamento (Retta Comprensione) 4) Non attaccamento 5) Amore universale Questa sequenza costituisce un protocollo terapeutico di grande momento. Infatti il controllo della mente permette al nevrotico di eliminare o quanto meno di tenere sotto controllo il pensiero tensivo compulsivo, che costituisce la materia stessa della sua nevrosi. Il controllo della mente conduce tradizionalmente al vuoto mentale, che permette di rivolgere interamente e sistematicamente l’attenzione alla realtà, con la quale di realizza la consapevolezza del cambiamento, la quale dà luogo al non attaccamento e all’amore universale (in quanto privo di interesse egoistico). Un soggetto liberato dal pensiero tensivo compulsivo di natura nevrotica, rivolto alla realtà, adattato al cambiamento, liberato dagli attaccamenti generatori di sofferenza e rivolto all’amore è indubbiamente un soggetto liberato dalla nevrosi. Abbiamo così che il protocollo buddhista, sia pure con le limitazioni già dette, è un protocollo ben utilizzabile a livello terapeutico. Senza alcuna limitazione esso è poi naturalmente utilizzabile a livello preventivo. L’esposizione dettagliata della genesi logica e storica di codesto protocollo costituisce precisamente l’argomento di un mio libro di prossima pubblicazione dal titolo “Come diventare un Buddha”. Si tratta pur sempre però, occorre non dimenticarlo, dell’insegnamento originale del Buddha e non della religione e della filosofia buddhista che sono sorte dopo il suo insegnamento. Esse infatti non costituiscono, come nessuna religione e nessuna filosofia, delle psicoterapie, ma degli approcci alla divinità e alla conoscenza.
(Leggi anche l'intervista a Giulio Cesare Giacobbe) G.C.Giacobbe, psicologo e dottore in filosofia, ha praticato analisi personale e formazione in psicoterapia presso l’Istituto di Psicosintesi a Firenze. Insegna Fondamenti delle discipline psicologiche Orientali presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Genova, dove vive e lavora. Ha scritto due libri : ‘Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita’, che ha avuto un grande successo editoriale, così come 'Alla ricerca delle coccole perdute' dell'Editore Ponte alle Grazie, uscito nel 2004, ed altri. – (http://www.psicolinea.it/t_t/buddhismo_come_psicoterapia.htm) | |