TEMPO E ILLUMINAZIONE:  

UN ESAME DEL CONCETTO DI TEMPO

IN NAGARJUNA

di Anthony Birch, Ph.D., MCSE  

 

tratto da: http://www.gis.net/~tbirch/nagar2fiu.htm

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Apriamo con alcune domande retoriche…

1. E’ ovvio ed evidente che vi siano cose come le "sostanze", e anche se nell'universo non esistesse nient’altro, perché definiamo come sostanze quelle entità che dovrebbero essere proprio come esse sono,? 

2. Perché l’Assoluto di Hegel si evolve attraverso il tempo? Se esso realmente è l'assoluto, perché non è già completo?  

3. Heidegger fa riferimento alla ricerca per raggiungere l’autentico essere. Come possiamo ottenere l’essere autentico?  

Queste ed altre domande simili vengono in mente quando intraprendiamo lo studio di Nagarjuna.  

Altre domande (e "risposte") alla conclusione del discorso:  

 

1. Perché noi non accettiamo la visione di Hume? Perché Nagarjuna sembra prendere un altro punto di vista?  

Risp.: Nagarjuna ha un'agenda spirituale. Hume ha un solo livello alle sue metafisiche, ed un solo livello di verità. Lui disputa che i meri "fatti" di percezione ci mostrano che la causalità non si presta all'analisi razionale. Nagarjuna conclude con le Due Verità. C'è una verità empirica in cui il tempo esiste e avanza (nonostante il fatto che noi non lo possiamo capire attraverso la ragione) ed una verità spirituale in cui in uno stato illuminato il tempo si "ferma".  

 

2. Come può Nagarjuna associare samsara e nirvana? Non dovremmo pensare al tempo, non come se fosse "fermo" ma come circolare?  

Risp. Forse l'analogia col ‘circolare’ è buona. Nagarjuna si preoccupa che se noi facciamo del ‘nirvana’ qualcosa di trascendente, esso sarà inaccessibile. Il Nirvana non può essere inaccessibe - ma deve essere anche "altro." Ha qualche somiglianza con l'idea post-moderna che quando si scrive "Essere", si poi deve cancellarlo. Lo si nega come qualcosa di trascendente proprio mentre lo si "asserisce". Ecco perché l'insegnamento di Nagarjuna è difficile.  

 

Testo dell’artcolo consegnato al F.I.U.:  

La credenza nell'esistenza indipendente delle cose nel mondo è un fermo assunto nella visione di senso comune della vita. Alberi, fiori, case, la terra, le stelle e galassie esistono, e continueranno ad esistere senza di noi, secondo il senso comune. Tutte queste cose e, cosa più importante, le nostre stesse vite conscie, sembrano comunque essere prese nel flusso inesorabile del tempo. Il senso comune ammette facilmente che poiché il tempo passa, gli ordinari oggetti fisici e tutti gli esseri umani vengono e vanno. Perciò, sembrerebbe che il flusso del tempo sia solo esso l’unico elemento immutabile in un universo sempre in cambiamento.  

Eppure, non solo la realtà indipendente degli oggetti fisici, ma il flusso del tempo in cui essi sembrano essere irretiti, è proprio la concezione di senso comune (e scientifico) che la filosofia della Via di Mezzo cerca di districare. Infatti, come io spero di dimostrare, si capirà che il loro districamento è essenziale al conseguimento dell’Illuminazione.  

Lo scopo di questo saggio è di investigare la concezione del tempo di Nagarjuna e la sua relazione con l’Illuminazione. Io mi limiterò agli argomenti che Nagarjuna presentò nella sua opera più famosa, cioè il Mulamadhyamakakarika (da qui in poi: MMK). E dividerò questo esame in tre parti: (1) lo scopo di Nagarjuna e i concetti centrali, (2) Un'analisi degli specifici argomenti che Nagarjuna offre nel MMK relativi al tempo; (3) un resoconto interpretativo di come si possono incorporare gli argomenti di Nagarjuna riguardo al tempo in una comprensione di esperienza illuminata.  

 

1). lo Scopo di Nagarjuna e i Concetti Centrali  

A. Religione e Filosofia  

Prendiamo come assiomatico che lo scopo primario di Nagarjuna sia religioso. Il suo scopo primario è ispirare una comprensione che possa portare verso l’Illuminazione. Nagarjuna usa la logica e filosofia, ma il suo scopo è indicare le verità che risiedono oltre queste astratte discipline. Il logico, il razionale, ed il filosofico alla fine sono trasformati in mistico (Betty p. 139 e Streng p. 181).  

Nagarjuna ha anche uno scopo secondario, e anche questo deve essere capito in un contesto religioso: Nagarjuna volle confutare le idee materialiste delle scuole dell’Abhidharma e far ritornare il buddhismo a ciò che egli pensava essere la Via di Mezzo. Nagarjuna era interessato alla radicale nozione che ‘nirvana e samsara’ sono identici - un'idea piuttosto difficile da accettare per molti dei suoi contemporanei. Noi, perciò, dobbiamo considerare il MMK un esercizio sia di pratica polemica che di persuasione religiosa.  

 

B. Concetti Centrali: Il Significato dell’Auto-essere  

Quasi tutti gli argomenti di Nagarjuna sono strutturati intorno alla acquisita concezione che si dice che le cose abbiano un "auto-essere", (svabhavah). Un esame del testo (vedere in particolare i versi 7.16, 15.2 15.8 e 15.11) mostra che l’auto-essere dev’essere capito come ciò che è identico-a-se stesso, che esiste da solo o per propria volontà, e per la sua esistenza non è dipendente da altri esseri.  

Nagarjuna, ovviamente, disputa che non ci sono "cose", né oggetti sensibili nel mondo della vita e né componenti soggettivi della coscienza che abbiano un ‘auto-essere’ (o ‘essere-proprio’). Piuttosto, tutte le cose sono "vuote" e senza natura essenziale. Esse hanno solamente un ‘essere’ relativo, dipendente. E questo si applica anche al Nirvana che, poiché non è separato né inaccessibile, è coincidente con la vita del mondo.  

 

C. Concetti Centrali: L'Argomento Contro la Causalità  

Il tentativo di Nagarjuna di mostrare l'identità di samsara e nirvana, e le sue ingiunzioni dell'esperienza illuminata, non fanno che mostrare l'inintelligibilità della causalità. Se la causalità può essere mostrata come auto-contraddittoria, allora le "cose" che sono reputate di partecipare nella catena della causalità non hanno ‘essere-proprio’ e non partecipano affatto nella causalità.  

Io qui non mostrerò in dettaglio gli argomenti di Nagarjuna. Ma semplicemente cercherò di affermare la sua conclusione: Non può essere dimostrato che la causalità, o, più precisamente la nozione di "produzione", abbia un qualche significato. Nessuna produzione ha luogo, se gli effetti, i "prodotti" di una causa sono identici, o separati dalle loro cause, e poiché queste sembrano essere le uniche due possibilità, una "produzione" così come si intende ordinariamente, non avviene affatto. E Nagarjuna lo compendia nel modo seguente:  

19. Di certo un'unicità di causa e prodotto non è affatto possibile. E neanche è possibile una differenza di causa e prodotto.  

 

L'argomento contro l’auto-essere nella causalità introduce una considerazione preliminare di come il tempo figura nel dispiegamento di eventi nel mondo. Se la causalità non è logicamente comprensibile in termini di identità e differenza, come possono gli eventi essere correlati in termini di tempo? Non potrebbe essere che gli eventi potrebbero essere correlati "prima" e "dopo" nonostante la confutazione della causalità? Quindi, sembrerebbe che la visione di Nagarjuna, come presentata finora, farebbe posto alla concezione essenziale di Hume degli eventi: la causalità è negata ma la costante congiun-zione nella sequenzialità temporale è asserita. Questo permetterebbe che il tempo possa "esistere" ma gli eventi logicamente sono indipendenti. Tale concezione è, chiaramente, una di quelle che Nagarjuna rifiuterebbe.  

 

D. Concetti Centrali: Moto e Spazio  

Nagarjuna offre correlate critiche di moto e spazio. Ci sono due rappresentazioni di questi argomenti che riflettono importanti elementi nell'ontologia complessiva di Nagarjuna. La prima tratta la profondità della negazione dialettica di Nagarjuna. Nagarjuna non applica sempre il suo famoso tetralemma ad ogni argomento in considerazione, né le sue conclusioni consistono soltanto di una uniforme sequenza di negazioni. Ciò è dimostrato negli argomenti riguardo al moto. Contrariamente a quello che è spesso presunto, Nagarjuna per esempio non nega il moto in sé (vedi Kalupahana p. 130 e Wayman p. 47). L'argomentazione nel capitolo sul moto mostra che il movimento, l'oggetto che si muove, e la raggiunta destinazione sono tutti correlati l'un l'altro. Come Nagarjuna afferma, "Di certo l'atto di andare non è prodotto senza colui che va" (2.6) e "colui che va non può entrare in essere quando non c'è l’andare" (2.7). Come nel caso della causalità, Nagarjuna stabilisce la relatività delle due concezioni mutuamente dipendenti, e l'inapplicabilità di identità e differenza: Né l'identità né l’essenziale differenza è stabilita riguardo alle due concezioni del ‘viandante’ e dell’atto di andare" (2.21).  

Una seconda caratteristica dell'ontologia complessiva di Nagarjuna è dimostrata nel suo argomento sullo spazio: c'è una dimensione spirituale nella sua conclusione. La visione dello spazio di Nagarjuna è assolutamente non-occidentale. Esso non è presentato come una necessaria modalità di apprendimento né come qualcosa di indipendente in cui risiedono gli oggetti. Senza sorpresa, a questo punto si scopre che anche lo "spazio" è una "cosa": non può essere considerato come se avesse un ‘essere-proprio’. Di esso non si può asserire nulla che lo faccia risaltare come una caratteristica indipendente della realtà. Quello che spicca, tuttavia, è il significato spirituale che Nagarjuna appiccica a questa conclusione: "Ma quelle persone non illuminate che affermano la realtà o la non-realtà, non percepiscono la benedetta cessazione-di-apparenza delle cose esistenti" (5.8). L'apprendimento della “realtà” dalla prospettiva "benedetta" (illuminata), è una distinzione neppure formalmente introdotta nel MMK. Qualunque signi-ficato noi si possa collegare alla frase "benedetta cessazione-di-apparenza delle cose esistenti" (che potrebbe essere la "cessazione" del tempo), esso ci sembra molto chiaro: c'è un appello ad un più alto livello di verità, uno stato "benedetto" che trascende qualunque cosa sarà ottenuta (o non ottenuta) attraverso asserzioni e dispute logiche. Nargarjuna sembra stia alludendo ad un'apprensione illuminata della realtà - ed è quasi come se ci avesse preparati per questo, prima attaccando il nostro senso comune di apprendere la causalità, e poi per gradi, sfidandoci su concetti progressivamente sempre più intrattabili, come il moto e lo spazio. In realtà, gli argomenti su moto e spazio, benché forse meno convincenti degli altri argomenti, sembrano tutt’al più richiamarci per adottare una diversa prospettiva del mondo. 

Ora noi possiamo compendiare come si è sviluppata l'ontologia di Nagarjuna. Il mondo di Nagarjuna è un mondo in cui le "cose", in particolare le cose sensibili, per ragionare hanno una sorta di intrattabilità primordiale. Questa intrattabilità sorge principalmente perché le cose non sono analizzabili in termini di auto-essere. E però, benché non possiamo dire che le cose "sono", ciononostante dobbiamo ammettere che "asseriscono" se stesse o sono presenti davanti a noi in una particolare modalità. Nagarjuna, di conseguenza, identificherà questa modalità come "vacuità". Noi veniamo sfidati per accettare un nuovo modo di apprendere il mondo, il quale trascende le nozioni di senso-comune del moto e dello spazio. E questo richiede proprio tempo.  

 

2). Il Tempo  

Nagarjuna dedica il capitolo 19 del MMK specificamente al tempo. Ancora una volta, egli tenta di dimo-strare che il tempo non ha auto-esistenza. Qui Nagarjuna di nuovo non sviluppa tutti i quattro rami del tetralemma come lui spesso fa. Egli invece si concentra soltanto sulla negazione del tempo. Cercando di non dare troppa importanza a questo fatto, io vorrei però richiamare l’attenzione su di esso al fine di sostenere l'idea che il tempo, come lo spazio, per Nagarjuna ha un certo tipo di speciale ‘status’.  

Tre argomenti sono presentati riguardo al tempo. Il primo è un ripresa del tema della produzione e si rifà alla visione di senso-comune che il tempo è diviso in passato, presente e futuro. Nagarjuna disputa che se le "parti-di-tempo" hanno un proprio auto-essere, la concezione del tempo perde rapidamente la sua coerenza. Se si considera che "il passato" produca "il presente" e "il futuro", le ultime due parti già sarebbero "nel" passato e non si potrebbe perciò propriamente dire che abbiano un separato essere. D'altra parte, se il presente ed il futuro sono separati dal passato, allora la loro stessa separazione li lascia incausati, indipendenti e senza riferimenti al passato. Ma poiché le stesse nozioni di presente e futuro implicano una relazione col passato, questo è auto-contraddittorio. Quindi, il presente e futuro non esistono. Né l'identità e né la differenza dal passato è sufficiente per stabilire la realtà del presente e futuro. In una maniera simile, può essere attaccata l'indipendenza di ognuna delle ‘parti di tempo’ (ore, giorni, mesi, anni, ecc.) sulla base della loro inseparabilità e necessari riferimenti l'uno con l'altro. Il passato, per esempio, non può essere indipendente perché è un non-senso se esso non si conclude neli presente e futuro. Nagarjuna, contro la realtà del tempo, offre un secondo argomento che non si rifà specificamente sulla "divisione" del tempo. Anzi, l'obiezione è racchiusa in termini epistemologici:  

 

5). “Un ‘tempo’ non-statico non può essere afferrato, ed un ‘tempo’ statico che possa essere afferrato non esiste. Allora, come si può percepire il tempo se non è afferrato?” 

 

In altre parole, se il tempo è riconosciuto essere costantemente fugace, non ci sono componenti statici ed assoluti di esso che possano essere sperimentati (o anche, "afferrati" dalla mente). Se, come soste-nevano i metafisici dell’Abhidharma, si proponesse che ci possa essere un "periodo statico" del tempo, esso non conterebbe più come ‘tempo’. Il tempo, in e per-se stesso, non può essere mai afferrato.  

Il terzo e conclusivo argomento mostra che il tempo non può essere considerato come una cosa auto-esistente che non sia dipendente da altri oggetti esistenti. Ciò, come ha mostrato Nagarjuna, è perché non ci sono "oggetti" indipendenti nel mondo. Anche se vi fossero oggetti indipendenti, il tempo stesso non potrebbe mai essere veramente indipendente finché rimane definito dalla sua relazione a tali entità supposte. Per dirla in termini più contemporanei: il tempo non è un substrato auto-esistente nel quale possano dimorare cose ugualmente indipendenti.  

È bene notare che anche se Nagarjuna in questo capitolo nega l'esistenza indipendente del tempo, egli, in apparenza, non sta negando ciò che si potrebbe chiamare l'immediata esperienza del cambiamento. Quello che lui nega è che vi sia un qualche modo coerente di afferrare o esprimere questa esperienza in termini del flusso di un substrato indipendente nella realtà. Sembra che la visione del tempo da parte di Nagarjuna fosse simile a quella di Augustine che rimarcò di aver riconosciuto ciò che il tempo era, proprio quando fu chiamato a parlare di esso. Così, David Kalupahana compendia felicemente il punto di vista di Nagarjuna:  

“Il tempo negato da lui è tempo assoluto.... Questo è un rifiuto non del fenomeno temporale, ma solo del tempo e del fenomeno come pure della loro reciproca dipendenza, fintanto che essi sono percepiti come entità indipendenti”. (Kaluphana, p. 279)  

Quindi, benché Nagarjuna non faccia asserzioni positive riguardo al tempo e la sua relazione alle cose, la sua visione sembra aperta all'interpretazione che il tempo e le cose che cambiano, sono in essenza "una-sola-cosa". Noi potremmo descrivere così la sua visione: ‘I fenomeni sono sempre fenomeni-in-continuo-flusso e il tempo è sempre flusso-continuo-nei-fenomeni’. Non ci sono un Tempo e Cose che persistono tramite esso, ma soltanto un cambiamento di cose, che "è il cambiamento" nel tempo.  

 

III. L’Eternità… "Adesso"  

Come abbiamo indicato sopra, tutte le idee di Nagarjuna saranno comprese all'interno della struttura del sentiero verso l’Illuminazione. ‘Illuminazione’ significa che uno realizza l'uguaglianza di samsara e nirvana, o la vacuità della vita del mondo.  

Una volta che abbiamo visto che nell'universo non ci sono cose auto-esistenti, arriveremo a considerare le "cose" come relative e dipendenti, come "vacuità", cioè ‘vuote di auto-esistenza, o di auto-essere. La vera vacuità delle cose, infatti, è ciò che fa sì che le cose siano nel modo in cui esse realmente sono. Una volta che rinunciamo alla categorizzazione delle cose come ‘essere’, ‘non-essere’, ‘essere e non-essere’ e ‘né essere né non-essere’, noi possiamo divenire aperti alla vera esperienza di vita del mondo. Trovare la vacuità del samsara diventa il trovare la vacuità del nirvana. Perfino il Nirvana non ha un suo proprio auto-essere. Il Nirvana non è una "cosa" che dev’essere cercata "altrove". I confini di samsara e nirvana sono identici; "Non c'è assolutamente nulla che differenzia i due" (MMK 25.19 e 25.20).  

Se uno può vedere che questo è realmente ‘vero’, non è forse troppo domandare che si possa anche immaginare che, superando tutte le categorie di "entità-delle-cose", incluso spazio e tempo, saremo in una posizione per immaginare quanto meno che è perfino possibile un'esperienza senza far riferimento ad esse. Questo può darci un qualche indizio riguardo al significato dei resoconti dei buddhisti sul fatto che l’Illuminazione permette ad uno di sperimentare un certo tipo di eternità sempre-presente.  

Tuttavia, l’equazione ‘concettuale’ di samsara e nirvana, non può fare da sola tutto il lavoro filosofico (senza un vero e pratico lavoro da parte del devoto) di includere un nuovo apprendimento del tempo in una Illuminazione. Questo dev’essere fatto da una svolta interiore ver4so il ‘sé’- uno sradicamento di tutte le nozioni dell'ultima parte più grande della base intrattabile dell’auto-essere: le nozioni di un ‘sé’ sostanziale con un'anima eterna.  

Nagarjuna chiude il MMK con un capitolo finale che riafferma la "correttezza del silenzio" del Buddha sul problema della sopravvivenza dell'anima dopo la morte. Tali preoccupazioni, secondo Nagarjuna, dovranno essere rifiutate nello spirito dell'insegnamento originale del Buddha.  

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(Commenti finali: il punto del nostro resoconto espositivo)  

In questo capitolo conclusivo del MMK c'è un’implicita dottrina psicologica e metafisica che, insieme alle discussioni precedenti su moto, spazio, causalità, e il Sentiero di Liberazione, può aiutarci a sintetizzare la visione del tempo di Nagarjuna.  

(1) A causa dell’auto-attaccamento, vi è una forte tendenza a sperare che un qualche tipo di Tempo ipo-statizzato (chiamiamolo l'Eternità) possa offrire un rifugio ‘ultimo’ ove poter mantenere la nostra auto-identità. Questo Tempo Eterno potrà procurarci una casa finale per l'anima o servire come una sorta di sotterraneo separato dal mondo che le anime visitano tra i cicli di nascita e morte. Il rifiuto da parte di Nagarjuna della nostra conoscenza di una destinazione ultima per il nostro ‘sé’, non solo ci fa ritornare alla presente realtà ma, alquanto significativamente, rimuove la considerazione che vi siano due "termini" del tempo, cioè il passato ed il futuro. Quindi, questa caratteristica del punto di vista di Nagarjuna anticipa l’assorbente interesse per il ‘qui ed ora’ che poi divenne così importante nello Zen.  

(2) Nagarjuna usa principi ontologici e logica, ma cerca anche di farci ritornare all'esperienza dell’ immediato. Se realmente osservati, spazio, tempo e moto non hanno un proprio auto-essere. E quindi, similmente, le "cose" percettibili sono riconosciute essere ‘vuote’, partecipando nel campo di vacuità del fenomenico ‘divenire’. Se prestiamo attenzione alle cose proprio ‘così come esse sono’, noi non potremo vederle più in moto, o spazio o tempo. Se possiamo separarle del tutto, il tempo e la cosa che cambia sono semplicemente due aspetti della stessa percezione. Il tempo stesso non è mai afferrato, ma il cambiamento delle cose continua. Si potrebbe dire in questo modo: “La vacuità "diviene", o si svuota nella forma di una cosa-in-moto, cosa-in-spazio, o cosa-in-tempo.  

(3) La comprensione del tempo è una sorta di apertura spirituale. Ci rende capaci di affrontare la morte con equanimità. Come dice Dogen,  

“La vita è uno stadio del tempo ed anche la morte è uno stadio del tempo,

 come, per esempio, primavera ed inverno. Noi di certo non immaginiamo

 che l’inverno diventa primavera, oppure che la primavera diventa estate”.  

(Waddell, Shobogenzo Genjokoan, p.136) 

 

Anche se gli stadi del tempo hanno un ‘prima’ e un ‘dopo’, ognuno di essi ha la sua propria integrità. L'illuminato accetta l'integrità di tutti gli stadi del tempo, come fece Hui Neng quando con calma spiegò la sua prossima morte ai suoi discepoli: "È solo una cosa naturale che io me ne andrò" (Price, p. 106).  

C'è un ulteriore aspetto, all'aspetto spirituale di comprendere e sperimentare il tempo, che Nagarjuna sembra indicare. Egli, in diversi punti del MMK, parla della "cessazione benedetta delle apparenze" (vedi sopra discussione sullo spazio, e il verso 5.8 del MMK) e la "cessazione di elementi condizionati" (25.24 e 16.4) come risultati dell’Illuminazione o dell’entrata nel Nirvana. Indubbiamente, nel nirvana il desiderio cessa, ma anche il tempo cessa? Ci viene ricordata la concezione Zen della "Illuminazione in progresso" descritta nel Sutra di Hui Neng: "Si lasci che l'essenza della mente e tutti gli oggetti feno-menici siano in uno stato di ‘talità’. Allora voi sarete in samadhi per tutto il tempo" (Price, p. 80). Era tradizionalmente concepito che il samadhi fosse "senza tempo", ma qui è presente anche nel tempo. Ed è riferita anche la visione di Dogen dell’ “eterno presente”. David Loy interpreta così l'essenza del tempo di Dogen di un “eterno presente”: "[Esso] è eterno poiché in realtà c'è un qualcosa che non cambia: è sempre ‘adesso’" (Loy, p.20).  

La relazione di queste concezioni di tempo e Illuminazione, che sviluppò dal primitivo pensiero buddhista agli specifici passaggi in Nagarjuna, è per ammissione ‘speculativa’, ma il loro debito verso lo spirito del grande capolavoro di Nagarjuna, io penso che non lo sia. Io credo che in ciascun evento noi possiamo cominciare a capire Nagarjuna solamente attraverso un autentico sforzo per capire non solo la lettera ma lo spirito del suo testo. Il dislocamento delle visioni ordinarie sulla vita del mondo, e forse ancor più importante ai nostri tempi, le nostre visioni scientifiche, è un primo e il più difficile passo sul Sentiero della Via di Mezzo.  

 

IV. Conclusione  

Saremmo assai distanti dal capire Nagarjuna, se tentassimo di capire la sua logica, l’epistemologia e l’ontologia come astrazioni. Lo scopo di Nagarjuna è la salvezza, e la sua logica e argomenti sono solo degli strumenti. Il sentiero dell’Illuminazione può essere chiarito soltanto con l'uso degli argomenti; non può essere by-passato di traverso. Se ‘spazio, causalità e tempo’ sono delle barriere per la liberazione dall'ego, Nagarjuna ha tentato di procurarci dei mezzi per aiutarci a rimuovere queste barriere. Forse, per molti, la barriera più difficile sarà la convinzione che il tempo si muove di sua propria volontà e che esso limita o costringe la vita dell'anima non solo ora ma anche nel futuro. Gli argomenti di Nagarjuna ci mostrano che il tempo, come le cose ordinarie della vita nel mondo, può essere compreso come una "vacuità". Una volta che esso è capito come ‘vacuità’, il peso del tempo è sollevato dall'anima; il tempo cessa e comincia la vita.  

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BIBLIOGRAFIA  

Anderson, Tyson, "Wittgenstein and Nagarjuna's Paradox," in Philosophy East and West, Vol., 35, No. 2, April 1985.

Betty, L. Stafford, "Nagarjuna's Masterpiece: Logical, Mystical,

Both or Neither," in Philosophy East and West, Vol. 33, No. 2, April, 1983.

Kalupahana, David J., Nagarjuna: The Philosophy of the Middle Way, New York, State University of New York Press, 1986.

Loy, David, "The Mahayana Deconstruction of Time," in Philosophy East and West, Vol. 36. No. 1, January, 1986.

Murti, T. R. V., The Central Philosophy of Buddhism, London, George Allen and Unwin Ltd, 1960.

Price, A. F. and Wong Mou-Lam, tr., The Diamond Sutra and The Sutra of Hui Neng, Boston, Shambhala, 1985.

Stambaugh, Joan, "Emptiness and the Identity of Samsara and Nirvana," in Journal of Buddhist Philosophy, Volume II, 1984, pp. 51-64.

Streng, Frederick J., Emptiness: A Study in Religious Meaning, New York, Abingdon Press, 1967.

Waddell, Norman and Abe Massao, tr., "Shobogenzo Genjikoan," in The Eastern Buddhist, Vol. 5, No. 2, October 1972.

Waddell, Norman and Abe Massao, tr., "Being Time: Dogen's Shobogenzu Uji," in The Eastern Buddhist.

Waldo, Ives, "Nagarjuna and Analytic Philosophy," in Philosophy East and West, Vol. 28. No. 3, July 1978.

Wayman, Alex, "The Tathagata Chapter of Nagarjuna's Madhymaka-karika," in Philosophy East and West, Vol. 38. No. 1,

January, 1988.

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II° PARTE:

 

Il Tempo e la Vacuità

nel Chao-Lun;   di Michael Berman -

Journal of Chinese Philosophy, Vol 24, 1997 pp43-58 - 

© 1997 Dialogoue Publishing Co., Honolulu, Hawaii, USA  

http://www.thezensite.com/ZenEssays/Nagarjuna/TimeandEmptiness_in_the_Chao-Lun.htm

 

Introduzione 

Il Chao-Lun (Libro del Chao) fu scritto agli inizi del V° secolo, d.C. dal monaco Buddhista-Taoista Seng-chao (378-414)(1). Il libro contiene quattro saggi, di cui il più puramente filosofico è intitolato "Sul Tempo"(2). Questo articolo si interessa proprio di questo saggio per spiegare la concezione di Seng-chao del tempo e la sua relazione con la vacuità buddhista. Prima che questa analisi critica inizi, sarà necessario spiegare alcuni degli aspetti strutturali del Chao-Lun. Seng-chao cita spesso direttamente dai classici antichi, il Tao-te-ching ed il Chuang Tzu. Termini tecnici Taoisti sono spesso citati ed usati come eufemismi per concetti buddhisti (3). Due importanti termini di cui si dovrebbe essere consapevoli sono, il primo, shunyata, o "vacuità" è spesso associato a ‘pen-wu’ o "originario non-essere" (che è associato ulteriormente con il "il Vuoto pieno fino all'orlo" di Lao Tzu, ovvero, la vacuità che ogni esistenza porta dentro di "né) e il secondo, la Via, o il Tao, che sta al posto di marga, cioè il Sentiero. Questo secondo termine è estremamente importante per Seng-chao. Il libro di Seng-chao può essere inteso come il suo tentativo di spiegare come egli vede la dottrina della Via di Mezzo del Buddha. Noi possiamo inoltre dire che Seng-chao è decisamente un buddhista Madhyamika, perché comprese alcuni dei concetti buddhisti di base, come la shunyata, la Via di Mezzo, ed il tetralemma di Nagarjuna (di cui la sua comprensione aumentò durante il periodo dei suoi scritti). La Via di Mezzo, un classico di tutto il buddhismo, spiega come evitare le posizioni estreme di eternalismo e nichilismo. Le opere di Seng-chao non intendevano discutere la verità o la validità della Via di Mezzo; piuttosto, lo stesso Chao-Lun fu scritto per spiegare come un Essere Illuminato (L’Uomo Saggio, il Santo, o il Buddha) sperimenta la realtà. Seng-chao non aveva assolutamente l’intenzione di provare alcuna pretesa ontologica o epistemologica della realtà. 

La struttura del Chao-Lun, che fu compilato dopo la morte di Seng-chao dai suoi stessi discepoli, è in ordine cronologico invertito, con l'eccezione del quarto capitolo. In altre parole, il primo capitolo, "Sul Tempo", fu scritto dopo il capitolo due "Sulla Shunyata", e dopo il capitolo tre, "Sulla Prajna Inconscia". Quest’ultima era la prima versione scritta del Chao-Lun. Un aspetto interessante del capitolo tre è che include una serie di missive intercorse tra Seng-chao ed un amico monaco, Liu I-Min. Queste lettere gettano molta luce su ciò che Seng-chao pensava sul significato di Prajna o Illuminazione per il Saggio. L'ultimo capitolo, che sembra essere di autore dubbio(4), è intitolato "Il Nirvana Innominabile". Un altro aspetto del Chao-Lun è che anche Seng-chao cercò di usare la logica del ‘tetralemma’, benché non sempre ebbe successo(5). C’è stato anche un forte affidarsi al linguaggio dei paradossi. Quest’ultimo sarà discusso più avanti, perché esso ha un ruolo importante nella concezione del tempo di Seng-chao. Qui lo scopo sarà di chiarire l'argomento nel primo capitolo riguardo alla natura del tempo, prestando speciale attenzione alle implicazioni del secondo capitolo sulla discussione della shunyata. Allo scopo di procedere propriamente, sarà discussa la comprensione dell'abilità di Seng-chao sui limiti del linguaggio per esprimere la sua dottrina del tempo. Il nostro complessivo trattamento del suo progetto concernerà col contenuto piuttosto che con l'effettiva struttura logica (tetralemmica) delle idee di Seng-chao. 

 

Linguaggio e Limiti 

Seng-chao capì che il linguaggio ha alcuni inerenti limiti. Egli considerava che il linguaggio fosse una applicazione artificiale di nomi alle cose. "Il linguaggio normale è incapace di descrivere la visione del cosmo [da parte del Saggio] e perciò le contraddizioni sono inevitabili"(6). "L’Esistenza Assoluta, o la  Realtà, appartiene ad un ordine che è fondamentalmente incommensurabile con sistemi simbolici come il linguaggio. Ciononostante, il linguaggio compie la sua funzione nello stabilire questa stessa verità"(7). Seng-chao sapeva che doveva usare il linguaggio per farsi capire, ma allo stesso tempo, egli comprese "che il linguaggio poteva stabilire solamente verità di tipo convenzionale che sono, al massimo, aspetti complementari alla Verità Assoluta della Via di Mezzo". Egli perciò era consapevole del convenzionale e limitato strumento a cui aveva accesso nel descrivere la Verità Assoluta. Inoltre, sembra che fosse stato "consapevole che perfino un linguaggio ideale (8) potesse corrispondere soltanto ad un'interpretazione convenzionale della realtà, e non al[la realtà assoluta] stessa"(9): Il linguaggio "ideale" a cui Seng-chao era più interessato, era la "dottrina dei nomi". Seng-chao discute esplicitamente il linguaggio e la "dottrina dei nomi" nella parte II°, "Sulla Shunyata"; (mentre nella parte I°, egli tratta il linguaggio come un necessario limite). Riguardo ai nomi e alla realtà, lui afferma, 

"Una cosa chiamata con un nome, può non apparire (come ciò che ci si aspettava che apparisse), un nome dato ad una cosa può non condurre alla vera (cosa). Perciò la sfera della Verità [assoluta] è oltre il suono dell'insegnamento verbale. Allora, come può essere creato un soggetto di discussione [senza paradosso e contraddizione]?(10). 

Un esempio di questo tipo di paradosso si trova nel discorso sulla permanenza (stasi) e l’impermanenza (moto) di Seng-chao,

"Ciò che le persone chiamano ‘permanenza’, io [Seng-chao] chiamo impermanenza, e viceversa. Allora, impermanenza e permanenza, sebbene apparentemente diversi, alla fine, sono gli stessi. Ecco perché in un classico è detto [Tao-te-ching, cap.78]: 'Le parole vere sembrano contraddittorie. Chi può avere fiducia in esse?' Queste parole sono cariche di significati(11). 

Noi vediamo in questo contesto che Seng-chao utilizza la sua eredità culturale Taoista per spiegare i concetti del buddhismo. Il linguaggio ordinario non è semplicemente capace di poter descrivere la verità ontologica della realtà, di shunyata. Perciò anche una linguaggio "ideale" non poteva realizzare questo, perché esso è solamente una forma più "precisa" di linguaggio convenzionale per il fatto che descrive il mondo convenzionale con più esattezza possibile. Tuttavia, un linguaggio "ideale" funziona ancora, in una maniera artificiale: 

La 'dottrina dei nomi’ è quella che i nomi [entità linguistiche] si uniscono alle cose [entità fenomeniche] e le cose si uniscono alle realtà [entità noumeniche?]. Seng-chao, come Kumarajiva e Nagarjuna, nega questo, ed asserisce che nomi sono 'presi in prestito' per designare cose e realtà. In questo modo, essi sono falsificati, e non riescono a designare ‘ciò che è reale’. Le cose (i fenomeni) sono l’apparenza delle realtà, ma come fantasmi, anch’esse non sono quello che sembrano, e così non sono cose reali, vere o assolute (12). 

Il linguaggio allora, non importa quanto sia accurato o esatto, non può provvedere ad una descrizione né designare la verità assoluta, perché questa verità:  

- è oltre la sfera della 'dottrina dei nomi’,  

- è riferita con l'asserzione che i ‘dharma’ (fenomeni) sono non-esistenti e non-inesistenti,  

- è asserita per spiegare il 'non-inesistente',  

- è realizzata senza cancellare dalla mente le immagini delle innumerevoli cose,  

- e in essa non vi è né realizzazione e né raggiungimento. 

Essa, inoltre, coincide con la verità popolare nell’essenziale natura (vacuità) dei suoi riferimenti(13). La concezione di Seng-chao della Via di Mezzo include i limiti del linguaggio, di shunyata ("non-esistente e non-inesistente"), prajna ("senza cancellare le immagini dalla mente" parte III), di Illuminazione ("né realizzazione e né raggiungimento", attraverso shunyata e prajna), e la Duplice Verità ("convenzionale" e "assoluta"). La Duplice Verità incorpora la conoscenza limitata (vijnana) che è offerta dal linguaggio e l'intuizione penetrativa della saggezza illuminata (prajna) che è indipendente dal linguaggio (cioè, a-linguistica). A questo punto, è necessaria una precisazione riguardo al ruolo che shunyata ha nella dottrina del tempo di Seng-chao. "È notevole che il termine non sia presente nella parte I° del Chao-Lun. Ed è [anche] poco citato dal Beato, ed è dato scarso riferimento ai temi soteriologici che sono così preminenti"(14) nel resto del libro. Il fatto che Seng-chao trascurò di includere questi aspetti in tutta la scrittura può essere solo materia di congettura. Ma è ovvio che queste idee sono le sue presupposizioni di base. Egli, nel suo "Sul Tempo" non considerò di dover presentare le sue idee in un intellettuale ed esperienziale vuoto, cioè, senza un ‘background’ delle complementari idee ed esperienze buddhiste. In altre parole, il suo saggio è di scuola Madhyamika, ed i suoi dogmi sono le basi filosofiche del saggio, anche se non sono presentati esplicitamente in tale veste. 

Quindi possiamo vedere come i limiti del linguaggio siano importanti per Seng-chao. Questi limiti hanno ramificazioni per le sue dottrine e credenze. Il linguaggio plasma le sue idee e lui ne riconosce gli effetti sul suo pensiero. Il linguaggio costringe la sua teoria del tempo a paradossi e contraddizioni, a causa della sua inerente incapacità di descrivere la ‘vera realtà’. La verità del mondo è necessariamente celata dal linguaggio, perché il linguaggio separa e discrimina ciò che in essenza è interdipendente e vuoto, quando è visto dal punto di vista illuminato. I limiti del linguaggio impediscono a lui di adeguatamente descrivere tempo e ‘shunyata’, nella loro originaria pienezza di esistenza indifferenziata e relazionale. 

 

Tempo e Vacuità

Si dice che Seng-chao abbia conosciuto presto la dottrina Madhyamika (15), e che le sue visioni della filosofia Mahayana fossero le prime del suo genere nel sistema indigeno buddhista-Cinese(16). Quindi, noi procederemo ad esplorare la comprensione di Seng-chao sul tempo. Forse essa poteva essere un'idea ripresa dalle Stanze della Via di Mezzo di Nagarjuna: 

“Se presente e futuro dipendono dal passato, allora presente e futuro dovrebbero esistere nel passato.  

Se presente e futuro non esistono in esso, come possono presente/futuro esistere dipendenti da esso?  

Lo stabilirsi dei due non può accadere senza dipendere dal passato,  

Perciò, tempo presente e  tempo futuro non esistono.  

Con questo metodo, i restanti due [tempi] saranno trattati ‘mutatis mutandis’.  

Uno dovrebbe esaminare il sopra, il sotto, il mezzo, ecc., e l'unicità, ecc.  

Il tempo non-costante non è percepito, e il tempo costante non accade;  

Come può l’impercettibile tempo, essere designato?  

Se il tempo dipende da un'entità, dov’è il tempo senza un'entità?  

Nessuna entità esiste, così dove mai potrebbe esistere il tempo?(17)”  

Il testo di Nagarjuna dimostra che è assurdo pensare al tempo come tre entità auto-esistenti isolate e separate (svabhava). Qui, l'assunto fondamentale di shunyata, o vacuità, è attestata dalla frase che dice, "nessuna entità esiste". Lo stesso assunto vi è nella composizione di Seng-chao ma, diversamente da Nagarjuna, i suoi termini temporali non sempre seguono un unico significato. Egli talvolta cambia di posizione, e prende posizioni estreme per spiegare come la verità assoluta appare al Saggio. Questo cambiamento di pensiero è esemplificato in uno dei commentari di Seng-chao sulla Grande Perfezione di Trattato di Saggezza. Lui afferma, 

“I dharma (fenomeni) del presente fluiscono rapidamente e non permangono. Cosa considerate che stia sorgendo? Se il sorgere ed il cessare sono in un unico tempo, allora i due segni [o le due azioni di sorgere e cessare] sono entrambi distrutti. Se sorgere e cessare accadono in tempi diversi, quindi al momento di sorgere non c’è cessazione, allora i dharma non hanno i tre segni del tempo [sorgere, cessare ed essere distrutti]. Se i dharma non hanno i tre segni, allora non sono condizionati. Se loro hanno tutti e tre i segni, allora c'è l'errore di una regressione all’infinito. Questa asserzione del non-sorgere è fornita anche nei Trattati [della Via di Mezzo]... E cioè, che i tre tempi sono inesistenti...(18). 

Questo commentario fu il primo chiarimento di Seng-chao sul tempo. Fu scritto avanti al primo capitolo del Chao-Lun.  

Proviamo allora a rivolgere la nostra attenzione al suo lavoro. L'asserzione, "i dharma del presente fluiscono rapidamente e non permangono", è quasi del tutto in disaccordo col suo dogma di apertura in "Sul Tempo". Egli inizia quest’ultimo saggio dichiarando che non è esatto dire che le cose fluiscono e si muovono; letteralmente, "le cose non possono alterare la loro posizione nell'ordine temporale"(19). Poi, continua in questa vena, sviluppando ulteriormente ciò che egli disse nel suo commentario precedente riguardo al sorgere ed alla distruzione. "Vi è una stasi (ching) quando c’è il moto (tung); quindi, benché (le cose) si muovano, esse sono sempre in stasi. Il moto non ha bisogno di cessare per produrre la stasi, perciò, sebbene (le cose) siano ferme esse non cessano mai di muoversi"(20). Il moto e la stasi, proprio come il sorgere e la distruzione, sono considerati simultanei. Questi termini Taoisti, strutturati come paradossi, esemplificano come Seng-chao utilizzi il suo stesso background intellettuale per spiegare le idee buddhiste che in questo caso sono gli aspetti permanenti ed impermanenti della vacuità. In altre parole, la stasi o "la calma è la modalità delle cose nel loro vuoto essenziale[vacuità, shunyata]. E poiché tutto è vacuità [o vuoto] nulla è incompatibile con la stasi, o calma, neanche il moto. Il moto è compatibile con la calma, e più profonda l’essenza della calma, più potente l'azione della funzione", o del moto (21). Seng-chao sta così aderendo all’ "originale non-essere" del Taoismo o più precisamente, alla vacuità buddhista, quando afferma il paradosso o contraddittoriamente postula riguardo al moto ed alla calma della stasi. 

Inoltre, c'è una metafora spaziale che Seng-chao ha in mente quando dice che "le cose non possono alterare la loro posizione temporale". I fenomeni (dharma) sono sistemati in brevi sequenze (santana); la totalità di questi forma il mondo fenomenico dell’esperienza (samsara). Il Samsara è il reame della sofferenza e dell’auto-ignoranza, dove l'essere non illuminato sviluppa gli attaccamenti agli elementi del desiderio e della passione, e perciò non può sfuggire i cicli interminabili della ruota di vita-e-morte; non è la vera realtà. Nella realtà assoluta (nirvana) non accade nulla, nulla si muove, tutto è vuoto, tutti i dharma non hanno "auto-esistenza" e perciò non possono muoversi fra i periodi del tempo. Solamente un Essere Illuminato potrebbe sperimentare questa "talità" di esistenza per quello che assolutamente è, in cui samsara è nirvana(22). Così la realtà è immobile e però "piena-di-moto". Tuttavia, questa formu-lazione di Seng-chao è una interpretazione non totalmente corretta della Via di Mezzo. Fung Yu-Lan la afferma in maniera più accurata, secondo il tetralemma buddhista: 

“Quando generalmente si parla di movimento e stasi [calma], ciò non comporta fondamentalmente una antitesi. Il vero aspetto delle cose (dharma) è che esse né sono in movimento né in stasi. Oppure, che sono sia in movimento che in stasi, per mettere la faccenda in un altro modo. E usando la formulazione della teoria buddhista della Via di Mezzo: Dicendo che ci sono o il movimento o la stasi, noi precipitiamo nei due estremi o 'limiti'. Mentre, dicendo che non ci sono né movimento né stasi, noi seguiamo la Via di Mezzo(23)”. 

In altre parole, l'affermazione "positiva",  o negazione dei due opposti estremi, non cattura realmente il significato della Via di Mezzo. Anche i due estremi devono essere evitati. Questo significa evitare che una persona, specificamente il Saggio, stabilisca un punto di vista(24). Arrivare ad avere l’assenza di un qualunque punto di vista è un aspetto dell’Illuminazione (nirvana). Seng-chao poi riprende con ciò che lui crede essere la comune concezione del tempo. Le sue visioni qui descrivono la natura del momento nel tempo. "Dal fatto che da ciò che una volta è stato non si può giungere a ciò che è ora, [le persone ordinarie] inferiscono che le cose si muovono. Quindi esse dicono: loro si muovono e non sono ferme. Per lo stesso fatto, vale a dire che da ciò che è passato non si può giungere al presente, io [Seng-chao] inferisco che esse [le cose] sono ferme"(25) nel passato. La frase "non si può giungere al presente" presume che ogni dharma riempia completamente il suo momento (kshana), e non vi è lasciato spazio perché un’altro venga simultaneamente ad occuparlo(26). Questo può essere detto in un altro modo: 

“Le persone sanno che ciò che è passato non può ritornare al presente, e però pensano che ciò che ora è, può venire dal passato, mentre Seng-chao dice che ciò che è nel passato deve occupare la sua posizione, proprio come ciò che ora è - perché dove potrebbe andare l’ "ora" se venisse dal passato che è ‘colmo’? "Ogni evento appartiene ad un unico momento di accadimento, con cui è inalienabilmente associato. Seng-chao [e Nagarjuna] prende ciò come un assioma non espresso che nessun [singolare] evento può accadere in due momenti diversi"(27). 

All'interno del campo di prospettiva del momento, di Seng-chao, ci riporteremo alle sue idee riguardanti causa ed effetto. Liebenthal afferma che queste idee sono gli insegnamenti centrali del pensiero di Seng-chao; quindi, al fine di discutere queste idee, sarà necessaria una piena citazione del testo.  

Premesse: 

- Qui di seguito, viene provato che le cause sono incapaci di produrre un risultato e perciò sono sempre capaci anche di produrne uno. Due momenti, il momento-causa ed il momento-risultato, devono essere distinti. Allora, due proposizioni [A e B] sono possibili.  

- A: Il risultato non esiste simultaneamente con la causa.  

- B: Il risultato è prodotto dalla causa (simultaneamente esistente con esso).  

Conclusioni: 

- Da A: Se il risultato non esiste simultaneamente con la causa, allora la causa (è dovuta morire nel primo momento passato. Così esso) non può venir fuori nel secondo (presente) momento (per produrre il risultato, e così questo non può essere prodotto).  

- Da B: Se il risultato è prodotto dalla causa, allora la causa non è morta nel primo (passato) momento. (Questo significa che esso è presente nella seconda e si prende tutto lo spazio che dovrebbe essere riservato per il risultato. Così il risultato non può essere prodotto). 

- (L'impossibilità della causazione è provata per ambo i casi.) 

- Quindi, poiché (la causa) non muore (nel primo o passato momento,... B), né viene (fuori nel secondo o presente momento,... A), è provato che non si muove (dalla sua posizione nella sequenza karmica [o temporale])(28). 

Riguardo alla prima ingiunzione sulla produzione di risultati dalle cause, sia Robinson che Liebenthal concordano sul fatto che Seng-chao su questo punto malinterpretò Nagarjuna. Robinson afferma che Nagarjuna mantenne un consistente punto di vista che "un tempo non-permanente non è percepito e un tempo permanente non esiste... Se il tempo dipende da un'entità, dov’è un tempo senza un'entità? Nessuna entità esiste, così dove esisterebbe il tempo?" (citato sopra). Laddove Seng-chao "presenta la stessa scena con due differenti strumenti,"(29) pertanto che le cause possono e non possono produrre i risultati che Nagarjuna comprende come non esistenti. 

Liebenthal, d'altra parte, crede che "mentre Nagarjuna dall'immutabilità delle cause conclude che esse non possono produrre un risultato, Seng-chao crede che Nagarjuna vuole provare la loro immutabilità. Egli silenziosamente inferisce: le cause sono immutabili, epperciò non ancora esaurite [nel momento- risultato], quindi ancora capaci di effetto" per Seng-chao(31), perché lo stesso Seng-chao nega il moto dei fenomeni (dharma) da un momento (kshana) ad un altro. Perciò, nel dire che una causa è ancora effettiva, Liebenthal implica che essa duri o dimori oltre la sua posizione temporale, così da esistere in un'altra posizione. Questo, secondo Robinson, non è ciò che Seng-chao vuole dire. Per Seng-chao, la causazione ordinaria non opera attraverso una variazione dell’entità da un certo punto ad un altro. Egli, in termini moderni, considera la causalità come una relazione tra eventi piuttosto che come un singolo evento. Il Tathagata, il Santo, identifica la vacuità del ‘sé’ con la-natura-di-tutti-i-dharma’. Percio, egli è onni-penetrante, onnisciente, e capace di esercitare l'influenza senza agire, cioè, senza spostarsi da un punto ad un altro(32). 

Considerando in termini moderni la "causalità come una relazione", un paragone tra la concezione della causalità dell’empirico scettico David Hume e le dottrine di Seng-chao, illustrerà adeguatamente questo punto. Hume proviene da un background diverso da quello di Seng-chao, perciò le sue premesse e gli scopi filosofici sono piuttosto distinti da quelli del monaco Buddho-taoista. Al massimo, i punti delle loro visioni sono opposti, ma, abbastanza sorprendentemente, essi arrivano a conclusioni molto simili. 

Hume considera che la causalità sia solamente un'idea presunta che è inferita dalle nostre esperienze di oggetti reali, che possono essere di natura interna o esterna. Su questa base, causa ed effetto sono considerati prodotti della nostra comprensione. Egli afferma: 

“Un evento ne segue un altro; ma noi non osserviamo mai alcun legame tra essi. Loro sembrano uniti, ma mai connessi. E poiché noi non possiamo avere nessuna idea di un qualcosa che mai non apparve al nostro senso esterno o sensazione interna, la necessaria conclusione sembra essere che noi non abbiamo affatto nessuna idea di connessione o potere, e che queste parole sono completamente senza significato, quando assunte in ragionamenti filosofici, o nella vita comune(33)”. 

In breve, che gli oggetti abbiano o meno una regolare connessione l'un con l'altro, noi non avremmo mai dovuto intrattenere alcuna nozione di causa ed effetto; questa regolare congiunzione produce quella inferenza di comprensione, che è l'unica connessione di cui noi possiamo averne una qualche comprensione(34). Hume vuole negare che vi siano, a priori, necessità, poteri o ragioni che producano cause ed effetti. Piuttosto, cause ed effetti sono ciò che noi inferiamo attraverso le nostre osservazioni dell'uniformità di esperienze nel tempo, e così noi stabiliamo confini o abitudini basati sull'evidenza e sperimentazione empirica. Queste ci offrono una comprensione di come funziona la causalità in questo mondo. Possiamo concludere che poiché noi non possiamo direttamente sperimentare o osservare le cause che noi inferiamo tra oggetti o eventi, allora in realtà la causalità non (necessariamente) esiste. È soltanto un abituale assunto che la nostra comprensione ci porta a creare e seguire. 

Rispetto a Seng-chao, Hume aderisce alla auto-esistenza (svabhava) di entità ed oggetti, mentre Seng-chao li considera essere vuoti e non-auto-esistenti. Dove Hume si riferisce all'uniformità di esperienze, Seng-chao, all’opposto, vede nell’esperienza la costante impermanenza delle cose, e solo l’uniformità è proprio la permanenza di shunyata. Probabilmente, Seng-chao sarebbe d'accordo che causa ed effetto, come inferiti dalla comprensione (o mente cognitiva), sarebbero la concezione delle persone comuni o ordinarie, ma egli sosterrebbe che ciò non è come il Saggio o l'Essere Illuminato sperimenterebbero la realtà. Inoltre, l’affermazione di Hume che non c'è nessun collegamento necessario o a priori tra eventi ed oggetti si confarebbe davvero con la conclusione di Seng-chao della "impossibilità della causazione". Tuttavia, noi abbiamo ancora bisogno di esplicare la relazione tra causalità e shunyata

La comprensione di Seng-chao della nozione esperienziale di shunyata, un concetto chiave nel pensiero buddhista(35), è la radice della sua dottrina del tempo. Shunyata indica la natura relazionale del mondo che si sperimenta. Il termine Sanskrito pratitya-samutpada ("originazione-relazionale") indica proprio la reciproca interdipendenza ed interpenetrazione di tutti gli elementi dell’esperienza; la sua realizzazione fu il cuore dell’Illuminazione del Buddha storico. Nessuna particolare cosa è mai esistita, esiste, o verrà ad esistere in maniera isolata dal resto del mondo. Qualunque "isolamento di una cosa" è un'astrazione che può essere reificata in un "assoluto o auto-esistenza" dalla mente cognitiva. (Tali astrazioni sono, in parte, prodotte dal linguaggio). La mente cognitiva tratta l’isolata cosa individuale come se avesse svabhava o "auto-esistenza". Così la mente può aggrapparsi a, o desiderare l'entità auto-esistente. Gli attaccamenti a questo tipo di desideri sono le fonti della sofferenza (duhkha) e dell'ignoranza (avidya). Fu la natura di Illuminazione del Buddha che perforò questo velo di "assoluta-(auto)ignoranza" dell’ esistenza, ottenendo così la condizione esperienziale in cui si vede che nessuna cosa ha una sua auto-natura (svabhava) o esistenza indipendente. Senza l’auto-esistenza, ogni cosa deve essere considerata vacuità e deve essere svuotata perché isolata artificialmente, e le entità astratte (tramite il linguaggio e la mente cognitiva) devono dipendere da altre entità per la loro stessa (propria esistenza. Una cosa che sia isolata non esiste assolutamente, perché le cose esistono soltanto in maniera relativa nel generale flusso della realtà. L’esperienza illuminante di pratitya-samutpada non può essere pienamente spiegata in termini linguistici, perché è un’esistenziale (pura) verità ontologica del mondo, e perciò può essere scoperta solamente nella verità di shunyata, in una esperienza che è relazionale ed impermanente. 

I limiti di linguaggio, tempo, vacuità, e della Via di Mezzo sono tutti inestricabilmente uniti insieme per Seng-chao. Analizzare la sua dottrina del tempo in una qualche altra maniera farebbe inevitabilmente perdere di vista la sua filosofia più fondamentale e il comprensivo modo Buddhistico di sperimentare la realtà.

  

Conclusione 

Noi abbiamo visto come l'idea di vacuità è una componente della dottrina di Seng-chao di tempo. Le sue idee non sono completamente Buddhistic, ma noi possiamo vedere definitivamente il Madhyamikan tendere nel suo pensiero. La sua dottrina di tempo può essere considerata anche un'elaborazione dell'idea di Nagarjuna di tempo. Nagarjuna concluse quella durata era non-esistente, ma seguendo alcune delle idee di Seng-chao, un ulteriore sviluppo del concetto di tempo è possibile. Da quando tutti i tre periodi di tempo (passato, presente e futuro) è dipendente sull'un l'altro, considerare alcun periodo di tempo isolato come avendo esistenza indipendente è una posizione di erronenous. L'interdipendenza di punti di periodi di tempo all'idea che questi aspetti di tempo sono vuoti. Siccome tempo stesso è la fonte di cambio, il molto non-abidingness che noi esperimentiamo (quale non può essere esplicato con Linguaggio), una relazione ontologica e necessaria tra vacuità e cambio è obvious.Thus, se noi fossimo prendere la frase '"shunyatam shunyata" che vuole dire "vuotare vacuità (di stesso-natura) - ovvero, capire quel vacuità non è un'entità - ed applica questa frase per calcolare, noi possiamo vuotare tempo stesso, non solo della sua esistenza ma la sua non-esistenza come bene. Questi espanderebbero sulla conclusione originale di Nagarjuna usando alcune delle idee di Seng-chao. Ma tale argomento ci prenderebbe troppo lontano nei campi e doveva essere indirizzato ad un'altra durata.  

 

Note  

1. Liu, Ming-wood, "Seng-chao and the Madhyamika Way of Refutation," Journal of Chinese Philosophy, (March 1987), 97,

as opposed to Fung YuLan's A History of Chinese Philosophy, D.Bodde, trRisp., (Princeton: Princeton University Press, 1953) which claims the dates as 384-414 (p. 258).

2. Robinson, Richard H., Early Madhyamika in India and China(Madison: University of Wisconsin Press, 1967) p.146.

3. Fung Yu-Lan, A History of Chinese Philosophy p.258, and Conze, Edward, A Short History of Buddhism (London: George Allan and Unwin,Publishers, Ltd., 1980), p.67.

4. Liebenthal, Walter, translator,Chao-Lun, (Book of Chao), (Hong Kong. Hong Kong University Press, Hong Kong 1968 second edition), p.39 and footnote 668 on p.126. This book will be considered as the standard translation of the Chao-Lun.
5. See Robinson Early Madhyamika, ch. VI. He spends a great deal of his effort in analyzing the logical structures of Seng-chao's arguments. I cannot help but feel that Robinson has missed some crucial aspects of Seng-chao's writings because to a great extent they are more qualitatively mystical than quantatively logical.

6. Liebenthal,Chao-Lun. p.60, footnote 224. p.57

7. Robinson,Early Madhyamika,p.120.

8. Possibly a modern equivalent to what might have been an 'ideal language' for Seng-chao might be found in the writings of Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein's Tractatus Logico-Philosophicus, or the logical positivists-like Herbert Feigl.

9. Robinson,Early Madhyamika,p.111.

10. Liebenthal,Chao-Lun,p.56.

11. Liebenthal,Chao-Lun,p.51.

12. Robinson,Early Madhyamika,p.144.

13. Robinson,Early Madhyamika,p.143 slightly modified.

14. Robinson,Early Madhyamika,p.146.

15. Robinson,Early Madhyamika,p.138.

16. Conze,A Short History of Buddhism,p.69.

17. Robinson,Early Madhyamika,p.150.

18. Robinson,Early Madhyamika,p.138.

19. Liebenthal,Chao-Lun,p.45.and footnote 128.

20. Liebenthal,Chao-Lun,p.46.

21. Robinson,Early Madhyamika,p.129.

22. Liebenthal,Early Madhyamika,p.46.

23. Fung Yu-Lan,A History of Chinese Philosophy,p.263.

24. This ancient Buddhist ideal of "no point of view" was given a more structured treatment in Fa-tsang's Hua-Yen Buddhism three hundred years later. See Cook Francis, H., Hua-Yen Buddhism (University Park: Pennsylvania State University Press, 1977, third edition), particularly chapters 1,4,5, 6,and 8.It should also be noted that this ideal is also an aspect of other mystic traditions which attempt to describe similiar transcendental experiences. So Buddhist prajna and Augustine's Love will have similar characteristics.

25. Liebenthal,Chao-Lun,p.47.

26. Liebenthal,Chao-Lun,p.47, footnote 141.

27. Robinson,Early Madhyamika,p.149.

28. Liebenthal,Chao-Lun,p.52-53. I have slightly restructured the argument as translated by Liebenthal in order that it may be more acessible for analysis.

29. Robinson,Early Madhyamika,p.150.

30. Liebenthal,Chao-Lun,p.52 and footnote 165.

31. "What Seng-chao calls 'immutability' (pu-ch'ien(i)) is a mystical concept that transcends both quiescence (ching(g) ) and movement (tung(h) ) as ordinarily conceived. According to his theory, each event and thing is forever fixed in the particular flash of time to which it belongs.Yet the succession of these flashes creates the illusion that a process of movement is taking place, just as the successive images on a strip of moving picture film give the illustration of movement, even though each of these images is in itself static and remains forever distinct from the other images." Fung Yu-lan, A History of Chinese Philosophy, p.264,footnote 1.

32. Robinson, Early Madhyamika,p.150

33. Hume, David, An Enquiry Concerning Human Understanding, Eric Seinberg, editor, (Hackett Publishing Company, Inc, Indianapolis 1977), p.49.

34. Hume, An Enquirly, p.64

35. Nagao, G. M. Madhyamika and Yogacara, L. S. Kawamura, trRisp., (State University of New York Press, Albany 1991), p.64 specifically, as well as other cited references in the book's index for more particulars

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Articoli tratti da: http://www.thezensite.com; Traduzione Italiana di Aliberth Meng - Febbraio 2008

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