CHINESE BUDDHISM: (buddhiSMO CINESE):
A Volume of Sketches,HISTORICAL, DESCIPTIVE, AND CRITICAL.
BY REV. JOSEPH EDKINS, D.D. LONDON - KEGAN PAUL, TRENCH, TRUBNER & CO. LTD - [1893] {Scanned and edited by Christopher M. Weimer, May 2002} CAPITOLO XIX. (Traduz. In Italiano di Aliberth)
L'EKASHLOKA SHASTRA - di Nagarjuna
L'EKASHLOKA SHASTRA. tradotto dal Cinese, con analisi e note(1).
L'autore del lavoro originale di cui è data qui una traduzione dalla versione Cinese, fu il patriarca "Nagarjuna" (Lung-shu), di cui è stato detto molto in una parte precedente di questo libro. Oltre ad essere lo scrittore di molti dei più importanti Shastra, egli compose anche molti Sutra, benché generalmente queste opere siano perlopiù attribuite a Shakyamuni Buddha. Un acuto ragionatore, pensatore, nonché prolifico autore, come Nagarjuna, merita di essere conosciuto meglio, e si spera che la seguente traduzione di uno dei suoi lavori minori non si dimostrerà inutile nella delucidazione del buddhismo.
Esso è chiamato Yih-shu-lu-kia-lun, "Shastra di un solo Shloka" I tre caratteri shu-lu-kia, nella vecchia pronuncia cinese erano sho-lo-ka. Trascriverli in caratteri Cinesi, quando una sillaba comincia con una consonante doppia, di solito fa stare la stessa vocale dopo ciascuna consonante.
‘Shloka’ è un termine Sanscrito, che significa "verso", e particolarmente per un certo tipo di distico. Io mi rifaccio alla seguente descrizione di esso dalla Sanscrit Grammar di Williams:- "Le opere di Manu sono scritte in Sloka, o forma metrica Anushtubh. Questa è la più comune di tutte le infinite varietà metriche del Sanscrito, ed è quella che principalmente prevale nei grandi poemi epici d’Oriente. Consiste di due righe di sedici sillabe ognuna, ma le regole che regolano una riga si applicano ugualmente alle altre". "Le sillabe 1, 2, 3, 4, 9, 10, 11, e 12 possono essere lunghe o brevi. Anche la 16, poiché chiude la riga, è comune; così pure la 8". "La sillaba 5 dovrebbe essere sempre corta. La 6 può essere lunga o breve; ma se è lunga, allora anche la 7 dovrebbe essere lunga; e se è breve, allora la 7 dovrebbe essere anche breve". "Le ultime quattro sillabe formano due iambici".
In questo esempio, gli autori Hindù hanno preso un solo distico come loro tema, e da qui il nome di questo breve trattato. Questo distico, consistente nella sua forma Cinese di quattro brevi frasi, appare al principio. Da una nota introduttiva, noi siamo anche informati che il trattato fu tradotto in Cinese, dall'originale di Lung-shu p'u-sa (Nagarjuna), dal bramano Gaudama Prajnaluti nella città di Lo-yang, durante il regno della dinastia Yuen-Wei. Questa città è quella chiamata ora Ho-nan fu, sulla riva meridionale del Fiume Giallo, nella provincia di Ho-nan. Il periodo della traduzione è il quarto secolo della nostra èra.
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Il "YIH-SHU-LU-KIA-LUN"- (SHASTRA DI UN SOLO SHLOKA). La TRADUZIONE:
"Il mio corpo (o sostanza), nella sua natura, non è permanente;
Perciò, per questo motivo, il mio corpo non è un corpo.
Il mio corpo, nella sua natura, non essendo un corpo,
Mi fa dire, quindi, che è vuoto e non permanente."
"E’ stato chiesto, ‘Perché scrivere questa "stanza" (Gâtha)? Qual’è il suo signifi-cato? Significa forse che bisogna rovesciare le opinioni intese dagli uomini?’ Allora io rispondo, ‘Essa è stata scritta per conto di coloro che, nel leggere gli Shastra di troppa lunghezza diventano stanchi; ed anche per quegli intelligenti individui che hanno studiato molti Shastra ed hanno (profondamente) esercitato i loro pensieri nel mare del Dharma del Buddha, ma si sono stancati, ed hanno cominciato a dubitare, non per il fatto di essersi interrogati o avere sospetti, della dottrina della non-permanenza delle cose e della vacuità del proprio corpo. E’ per distruggere tali dubbi che io ho composto questo Shastra".
"Cosa dice la mia dottrina? Che tutti i tipi di "azione" (fa) sono non-permanenti, e perfino il mio proprio è un nulla. La non-realtà del mio corpo non è separata dalla non-permanenza di ogni azione, essendo la mia natura ed il mio corpo nulla. Perciò non c’è nessuna tale cosa come una permanenza. Tutti i Buddha, ed i loro discepoli delle due classi Yuen-kioh e Sheng-wen ("Ascoltatori", Shrâvaka), hanno ottenuto la loro liberazione dall'ignoranza per mezzo di questo principio della ‘vacuità’; e non dal principio opposto, che sostiene l'esistenza della continuità e della permanenza nelle azioni. Il Gâtha dice:--
"Se perdi di vista questo principio della vacuità; e preferisci risiedere nel corpo;
Allora otterrai una visione delle cose come (se fossero) permanenti.
Se dici che successivamente esse dovranno essere distrutte,
Allora arriverai a vedere le cose come se avessero una cessazione."
"Con questo significato, io parlo di tutte le azioni come se, in se stesse, fossero senza una vera incarnazione. I Buddha, gli 'Illuminati' (Yuen-kioh), gli Ascoltatori, e gli Arhant hanno ottenuto i loro benefici e successi credendo in questo principio.
"Io ora parlerò di ciò che per gli uomini è l’opposto. Se un uomo che ha una certa conoscenza, senza riferirsi all'azione' (hing), dice che c'è l’impermanenza, la sua visione non è corretta (2). Se la cosiddetta ‘impermanenza’ è separata dalla ‘realtà’ o 'esistenza' (yeu-wei), per poter essere chiamata non-permanente, allora la permanenza diventa nulla. Quindi, la realtà e la non-realtà non sono, perciò, essenzialmente diverse. Se la realtà e la non-realtà si fondono insieme, essendo il reale unito all'irreale, una bottiglia non può essere rotta (il che è assurdo, essendo una bottiglia una cosa reale). Se l'irreale ed il reale si fondono insieme, essendo l’irreale unito al reale, il Nirvâna sarebbe distruttibile (il che è assurdo, essendo il Nirvâna una cosa non-reale). Se il reale e l’irreale sono, come si dichiara, identici, tutti i tipi di 'insegnamento' (o 'azione', fa) sono indistruttibili, come il Nirvâna, che è permanente ed è, quindi, non prodotto da alcuna causa. Se le 'azioni’ (king) non sono prodotte da cause, esse non differiscono dal vuoto Nirvâna. In questo caso, il metodo o stato di 'realtà' (yeu-wei) non ha bisogno di esser chiamato costante. Ma se le cose fatte, non essendo prodotte da cause, sono ancora non-permanenti, allora il vuoto Nirvâna non può essere chiamato permanente. Se questo è vero, i metodi di realtà e non-realtà non sono entrambi validi. Se il ‘non-permanente’ è separato dalla realtà eppure è chiamato impermanente, allora la realtà separata dalla continuità dovrebbe essere chiamata costante. Ma questo non è un corretto ragionamento. In quale Sutra vi sono tali parole come queste?
"Su quali idee si sta discorrendo? Che senso c'è in quello che ora stai dicendo? In esso vi è molto di irragionevole, che la tua mente distorta non riesce a cogliere. Perciò quello che dici, non è una giusta dottrina. Se gli uomini che hanno ottenuto una certa conoscenza sostengono che (l'azione, o) 'la legge' di passato, presente, e futuro è in ogni caso completa da ed in se stessa, ciò sarà considerato una falsa visione. Perché è così? Perché è una visione che omette la nozione di causa. Se noi parliamo del futuro come non essendo prodotto da cause, ma come formato da e in se stesso, allora anche il presente è non prodotto da cause, ma è formato dalla sua propria natura. Perché il futuro ed il presente, nella loro stessa natura, sono simili ed uguali, senza alcuna differenza. Se è così, e la legge del presente viene da cause, perché, in tal caso, la legge del futuro non dovrebbe venire anche da cause? Questa visione o si fonda sul Sutra, o sul vostro proprio giudizio. Ma l'asserzione è incorretta ed irragionevole. Essendo irragionevole, non le si crederà. Se la legge che riguarda il futuro non è prodotta da cause, ma proviene dalla sua propria natura, dev’essere una cosa vuota. Essendo tagliata da ogni collegamento con le cause, non può essere prodotta da nessuna causa. È, perciò, non c’è in se stesso un vero futuro. Ma se il futuro è non-esistente, allora anche il presente e il passato sono non-esistenti. Essendo il presente e il passato non-esistenti, allora il tempo nel suo triplice aspetto è in se stesso realmente niente. Se è detto che esso ha una reale esistenza, questo è dire che è permanente, ed è prodotto senza una causa.
"Se il discepolo del Buddha pensa così, chi è arrivato alla profonda percezione non differisce dagli insegnanti eretici, Kapila ed altri. Tuttavia, questo Shastra non è fatto per gente come Kapila ed Uluka, ma per voi che sostenete le mie stesse visioni. Quello che io ho così detto finora, in opposizione alle opinioni di certe persone, è nell'interesse di voi che siete alquanto avanzati, che potete rifiutare le visioni errate. È in base a ciò che io ho compilato questo Shastra e il 'Gâtha di un solo Shloka' (Yi-sho-lo-ka-lun) con cui comincia questo mio testo. Io ora spiegherò il significato di questo Gâtha.
"Quando è detto, 'Il mio corpo, nella sua natura, non è permanente', 'il mio corpo' si riferisce a ciò che è nato ed agisce, e che, per questo è chiamato 'il mio corpo'. Colui che è avanzato nella corretta percezione, essendo nel mezzo di questo agire, pensa in sé che questo sia il corpo (o lo prende per essere il corpo). Questo agire comincia nella regione dell’operatività fisica e mentale. In essa sono coinvolti anche gli Sheng-wen e Yuen-kioh (Ascoltatori e Realizzati) che vagano indirettamente (in questa più bassa regione). Così, quando noi parliamo di corpi, come uno, due, o molti; o di uomini, come uno, due, o molti; ciascuno è considerato come avente un corpo indipendente dal resto, ed essi sono cosiderati comunemente così come viene detto. Come la terra, l’acqua, il fuoco, e il vento rispettivamente è dura, umida, caldo, e mobile, ciascuno secondo la sua natura; così ogni uomo (e ogni cosa) ha la sua propria forma e sostanza. Da qui sorge l'espressione, 'il mio corpo'.
"Se colui che è avanzato nella conoscenza dice che l'uomo alla sua nascita, nella sua vita continuata, e alla sua morte, è lo stesso in forma (cioè che è colui che ha quella forma), egli è in errore. Nella sua natura, il corpo dell’uomo è non-permanente e, perciò, il fatto che lo si chiami ‘corpo’ è sorto dalla circostanza che gli uomini un po’ avanzati nella vera conoscenza hanno fatto questa distinzione. Quindi, separatamente dalle varie modalità di azione, non vi è nessun corpo non-permanente; perché l’uomo è, nella sua forma, non-permanente.
"Perciò il Buddha, nell'istruire i Bikshu rispetto alle varie azioni, li rappresenta tutti come non costanti. Questo è in base a ciò che è già stato detto.
"Se si sostiene che, a parte l'agire, uomini e cose sono non-permanenti, pur mantenendo la loro propria forma, tale opinione è sbagliata. Se non doveste capire perché è usata la frase ‘non-permanente’, io ora ve lo spiegherò. È a causa di ciò che è detto nella strofa di apertura, 'Il corpo non è un corpo'. Le nozioni di corpo e non-corpo potete distinguerle facilmente. Ed il non-permanente, cosa è? È il senza-corpo. Ecco perché, quel corpo non è un corpo. Nella sua propria natura non è un corpo, e perciò formalmente si afferma che è privo-di-corpo.
"Quando è detto, 'La mia sostanza, nella sua natura, non è una sostanza', si asserisce che non c'è una sostanza ma che quella è la 'non-sostanza' (wu-t'i). Per questa ragione è detto che la sostanza in se stessa non è così. Se voi sostenete che c'è una sostanza che esiste nel wu-t'i, avete torto; questo modo di disputare non è quello dei Sutra. Se voi asserite che 'l'assenza di corpo' (wu-t'i) è proprio ciò che costituisce la sostanza, anche questo è errato; perché i Sutra non dicono così. In quale Sutra, il Buddha, l’Onorato del Mondo, ha insegnato tale dottrina? Essa non sarà trovata in alcun Sutra, perché non è 'l'insegnamento corretto' (king-shwo, l'insegnamento dei classici'); tali argomenti non possono resistere, perché non sono la dottrina dei sacri grandi Sutra; ad essi, perciò, non si deve credere. E poi, non sono solo le mie parole che io porto come prova evidente.
"L'ultima frase dice, 'Perciò è affermato che è vuoto e non permanente.' Essa, ad esempio, si riferisce al Sutra Tiau-juh-san-mih-t'i-king, 'Il Sutra del Buddha che pacifica e soggioga Samidhi', il quale dice, che il Buddha si rivolse a Samidhi con le parole, 'L'occhio dell’uomo è vuoto e non-permanente. Non c'è alcun occhio che non si muova, che non perisca, che non cambi. E perché? È la sua natura di fare così. L'orecchio, il naso, la lingua, il corpo, e la mente, tutti hanno la stessa natura mutevole e distruttibile'.
"Il Buddha, l’ Onorato del Mondo, parlando in questo Sutra della vacuità e della non-permanenza, a tal riguardo espresse l'opinione qui affermata. E quindi noi sappiamo che tutte le azioni sono vuote e impermanenti. Essendo impermanenti, esse sono senza 'corpo' (t'i). Di conseguenza tutte le azioni sono, nella loro natura e in se stesse, senza forma fisica. È in questo modo che il significato delle parole ‘wu-t'i’, 'senza-corpo', è stabilito.
"Se, in questa maniera, un'opinione è esaminata dai Sutra, sarà ben stabilita. Se non supererà questa prova, dovrà decadere. Nella mia visione, ciò che sta nei Sutra deve essere totalmente soddisfacente. Perciò l'opinione che 'la (mia) natura (sing) è in se stessa senza-corpo', è stata ora ben impiegata per portare alla sua coclusione questo 'Shastra di un solo Shloka'.
"Ogni tipo di attività (o esistenza), come il corpo, la natura, 'l'agire' (la dottrina), la cosa, la materia, 'l'esistere' (yeu), è diversa nel nome, ma è identica nel signi-ficato. In qualunque di queste cose di cui parliamo, l'unica differenza tra esse sta nella parola yeu, 'essere.' Questa parola ‘yeu’ è, nella lingua originale, subhava(3). Essa viene tradotta in molti modi, come 'la sostanza che dà sostanza a se stessa' (tsï-t'i-t'i), o come 'senza-azione e con-azione' (wu-fa-yeu-fa), oppure 'natura che non ha natura sua propria' (wu-tsï-sing-sing)".
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Analisi e Commenti.-- L'autore comincia con l’affermare, in una forma ritmica, i principi che egli sta per stabilire. La mia sostanza o il corpo, cioè, la mia intera natura materiale ed intellettuale, è una cosa transeunte, che passa e che muta, e, di conseguenza, non è affatto una reale sostanza. È, perciò, giusto dire solamente che il corpo è vuoto e non permanente.
Questo principio si confa con la descrizione data da Colebrooke, il quale osserva che i buddhisti, dai loro avversari Hindù ortodossi, sono chiamati Sarvavainásika o "Quelli che argomentano la totale disintegrazione". Infatti, essi negano l'esistenza permanente degli atomi, e concedono solo che tutte le cose si formano con la loro immagine e poi esse sono immediatamente spazzate via.
L'autore dà quindi le sue ragioni per aver composto il trattato, ed il Gâtha, o asserzione ritmica con cui comincia. Egli lo ha scritto nell'interesse delle persone che non possono leggere i lunghi e tediosi lavori che si trovano nella biblioteca buddhista. Lui si augura anche di aver circoscritto l'argomento sulla natura irreale e transitoria di tutte le cose esistenti, ad uso degli studenti avanzati; così che non vengano influenzati, o auto-suggestionati, da quegli argomenti presentati da altri, che intendono provare che il mondo è reale e che le informazioni date dai sensi sono affidabili.
La composizione delle opere buddhiste è variata dalla frequente immissione di passaggi in forma ritmica, non proprio con rime o successioni fisse di sillabe corte e lunghe, ma con righe continue della stessa lunghezza. Nell’originale Nepalese, c’è anche una differenza tra parti ritmiche prosaiche, essendo scambiati i dialetti Sanscriti e Pracriti. Nelle traduzioni Cinesi non c'è nessuno scambio di dialetti. Le parti ritmiche sono chiamate "Gâtha, o Kiè"; Gat, nella antica pronuncia Cinese.
L'autore procede secondo l’ordine e dice che prima spiegherà il suo significato, poi attaccherà i sostenitori di opposte visioni, infine sosterrà le sue stesse proprie opinioni. Egli sostiene che tutti i tipi di azione sono transitori e non durevoli, che l'agente o osservatore stesso non è assolutamente reale, e che queste due cose sono connesse. Da qui, la dottrina della non-permanenza.
I Buddha ed i loro discepoli, egli dice, con il credere al principio dell'inesistenza ottenero la "Liberazione" (móksha) dai limiti e vincoli che frenano lo spirito. La dottrina opposta, che sostiene che le cose sono permanenti, pur cessando, non ha mai avuto una tale esemplificazione della sua verità. Colebrooke dice che i seguaci di Kanáde sostenevano che le cose sono solo in parte deteriorabili e transitorie, ma in parte anche immutabili. I suoi seguaci sono chiamati Vaiséshika.
I discepoli del Buddha a cui qui si alluds, Yuen-kioh e Sheng-wen, occupano la terzo e quarta fila nella scala buddhista dell’essere. La loro posizione è chiarita dal seguente schema copiato da un’opera buddhista:--
Quattro gradi Buddha. Intelligenza
(sheng) Yuen-kio. Percezione ottenuta da studio
delle cause
Sheng-wen. “Uditori” Shravaka
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Deva “dèi” (tien)
Sei stati di Uomini gli ‘esseri umani’
“Ignoranza” Preta ‘spiriti affamati’
(fan) Animali tutti gli altri animali
Naraka gli abitanti degli ‘Inferni’
Poi, in forma di Gâtha, sono presentate quattro righe che rappresentano le dottrine degli oppositori. Vengono date due visioni – ciò che riguarda l'universo che è permanente, e ciò che lo descrive come responsabile della cessazione. Entrambe sono considerate erronee dal grande saggio del buddhismo. La sicurezza potrà essere trovata solamente nella dottrina del nichilismo.
Nel fare di nuovo appello alla testimonianza dei Buddha e dei loro discepoli, egli poi menziona gli Arhant. Essi formano l'ultimo della serie dei livelli di discepolanza. Nella dottrina buddhista, il conseguimento di un certo grado di illuminazione è considerato come il "frutto". Questi quattro gradi di discepolanza, o "frutti", sono chiamati, Su-da-wan, Si-da-gam, A-na-gam, ed A-la-han. In Sanscrito questi nomi sono letti "Srôtâ-panna", "Sagardagam", "Anagamin", e "Arhant". Essi sono anche chiamati i quattro Sentieri per il Nirvâna.
Lung-shu (Nagarjuna) va avanti prendendo per argomento le opinioni di due tipi di ragionamenti e prima, quelli che sostengono la dottrina dell’impermanenza in una maniera non-corretta. Non si dovrebbe infatti sostenere, come pure negare, la realtà dell’azione, oppure confondere l’azione e la non-azione. In Cinese, questi termini, yeu-wei e wu-wei, potrebbero essere tradotti in "realtà" e "non-realtà". Il loro significato si vedrà dalle rappresentazioni usate. Una bottiglia di terracotta è presa come esempio per una "cosa-reale" (yeu-wei), mentre il Nirvâna appartiene alla classe del "non-reale" o wu-wei. Questi esempi sono presentati per mostrare che le cose delle due classi di oggetti non devono essere confuse. Perché se la realtà venisse identificata con la non-realtà, è detto che una bottiglia diventerebbe una cosa non-reale, e allora sarebbe sbagliato dire che è distruttibile. Quindi, se le cose non-reali fossero identificate con ciò che è reale, il Nirvâna cesserebbe di essere indistruttibile. La distinzione, perciò, tra il reale ed il non-reale deve essere comunque preservata.
I Sutra sono di nuovo chiamati in causa a prova di questa dottrina. Questi testi sono così considerati, nella prospettiva buddhista, come lo standard della verità. Essi contengono le vere parole deli Buddha che necessariamente sono considerate reali. Molte centinaia di questi libri, considerati come scritture di questa religione, sono stati tradotti nella lingua della Cina, e degli altri paesi in cui il buddhismo prevalse. Non si dice che questi trattati siano divini, o ispirati, perché i buddhisti nel loro credo non hanno né Dio né ispirazione divina. essi riconoscono solamente il Buddha, l'auto-elevato intelletto umano, come l'essere più eccelso; e guardano al suo insegnamento come la più pura verità e la più alta saggezza. Nell’intero Shastra, che è ora presentato al lettore, Lung-shu sostiene le sue opinioni per l'autorità dei Sutra che il Buddha lasciò come deposito della sua dottrina per l'uso dei suoi discepoli.
Egli prosegue col rovesciare la nozione che il passato, il presente, ed il futuro siano auto-prodotti, e non provengano dall'attività delle cause. Egli osserva che il presente ed il futuro sono come simili alla loro natura, e controllati dalle stesse leggi; ma i risultati attuali, dalle cause, e perciò anche il futuro deve aver origine nella stessa maniera. Se il passato, il presente, e il futuro non venissero da cause, egli conclude che non potrebbero essere per nulla reali. Colui che avesse una tale visione cadrebbe così nell'errore di Kapila e degli altri insegnanti eretici.
Kapila, a cui ci si riferisce qui, fu un personaggio straordinario, forse uno dei più celebri filosofi Indiani. Egli fondò la scuola Sankhya. Nella sua History of Modern Philosophy (4) Cousin dice, "Questo sistema è insieme un sistema di psicologia, fisica, dialettica, e metafisica. Esso è un sistema universale, una filosofia più che completa". Cousin dice ancora che Kapila difese il sensualismo, e che "Egli fece un enorme sforzo per distruggere quelle idee che si opposero di più al sensualismo, come quella di causa. L'argomentazione di Kapila è, nella storia della filosofia, l'antesignana di quella di Ænesidemus e quella di Hume. Secondo Kapila, non c’è una nozione corretta di causa, e ciò che noi chiamiamo ‘causa’ è solo un effetto collegato alla causa che lo precede, che per la stessa ragione è anche un effetto e così in continuazione, cosicché tutto è una necessaria concatenazione di effetti, senza una vera causa indipendente".
Il Prof. Wilson, nel suo dotto commento sul Sankhya-Karika, critica questa asserzione del filosofo Francese (Cousin), e nega che Kapila asserisca la non-esistenza della causa. Tuttavia, egli ammette che "si può essere d'accordo con i filosofi a cui ci si riferisce, nel riconoscere che non c’è alcuna differenza tra causa materiale ed effetti materiali;" ed aggiunge che "la sua dottrina è quella di Brown nei suoi discorsi su potere, causa, ed effetto".
Essendovi tale differenza di opinioni sulle visioni di questo filosofo Hindù, nel trattato di Lung-shu è interessante notare come Kapila sia incidentalmente condannato a negare l'esistenza di causa. La nostra testimonianza Cinese porta a sostenere l'asserzione del filosofo Francese, proprio dove lui è chiamato in causa dal suo critico Inglese.
Colebrooke si chiede se Kapila non sia un personaggio del tutto mitologico. Con questa distinta allusione a lui, nel nostro piccolo lavoro, datato indubitabilmente vicino all'inizio dell'era Cristiana, noi potremmo forse inferire la sua realtà storica, ed ottenere anche un'approssimazione del periodo durante il quale lui visse.
Lung-shu (Nagarjuna) prosegue col dire che lui non scrisse allo scopo di voler confutare filosofi come Kapila ed Uluka (5), ma per correggere o confermare le visioni dei discepoli del buddhismo. Riguardo al filosofo Uluka, io non l’ho trovato menzionato da Colebrooke o dagli altri scrittori, sui sistemi metafisici dell'India. A me sembra che Lung-shu non sia abbastanza esplicito nel suo argomento a favore della produzione di eventi dalle cause, dove lui asserisce che il presente deriva da cause, e perciò anche il futuro, che sotto tutti gli aspetti nella sua natura è simile al presente. Egli prima non dava per certo che il presente derivi da cause (6).
Come già rimarcato, Lung-shu fa ripetutamente appello all'autorità dei Sutra. E così fanno i fautori della filosofia Sankhya che si appellano ai Sutra di Kapila che, in ogni caso, sono brevi aforismi, e non lunghi trattati, come quelli del Buddha. Però, Lung-shu ha inoltre quest'altra prova della validità delle dottrine, cioè la loro possibilità o impossibilità di ragionamento. A questa seconda prova lui riporta qui le dottrine a cui si oppone e le condanna.
Nello spiegare la stanza introduttiva, Lung-shu prima discute l'origine della frase il "mio corpo." Egli osserva che essa consiste del corpo con le sue azioni; cioè, essa significa me-stesso. Nell’area delle azioni mentali e fisiche, noi arriviamo alla coscienza di me-stesso. In quest’area, le classi inferiori dei discepoli del Buddha continuano a vagare solo parzialmente illuminati. Poi, avanzando da questo punto di vista incompleto, noi parliamo ordinariamente di uomini e cose, in termini di singolare, duale, e plurale, come esseri separati che esistono indipendentemente l'uno dall'altro, amplificando così il primitivo errore. I quattro elementi, che sono terra, acqua, fuoco e aria, differiscono nella loro natura, che è rispettivamente dura, umida, calda, e mobile, e così ciascun uomo o cosa sono visti come aventi le loro caratteristiche differenze gli uni dagli altri. Da qui, le comuni ma erronee espressioni ‘il mio corpo’, ‘me-stesso’.
Lung-shu si lamenta che alcune persone sostengono che la nascita, la durata, e la distruzione siano la stessa cosa. Egli prosegue poi affermando che il corpo nella sua natura non è permanente, che il fatto di chiamarlo ‘corpo’ è sorto dalle distinzioni che gli uomini hanno fatto nella loro ignoranza, che la corretta dottrina del corpo, essendo esso impermanente, è inseparabilmente connessa con le varie azioni fisiche e processi mentali che hanno origine nel corpo; perché, lui aggiunge, l’uomo nella sua intera forma è non-permanente.
Il Buddha, nelle istruzioni che diede ai Bikshu suoi discepoli, sostenne sempre la dottrina che le azioni non sono permanenti. Questo deve essere sempre ricordato quando si dichiara che il corpo è non-permanente. (Bikshu è un nome che è stato generalmente dato ai seguaci del Buddha. In Cinese, essi sono chiamati anche Shamen e Ho-shang).
L'autore poi tenta di provare la seconda frase del suo tema, cioè, "Così, quindi, il mio corpo non è un corpo". La dottrina dell’impermanenza è stata presentata per aiutare a provare questo. Il non-permanente è necessariamente incorporeo e non-sostanziale. Le cose che noi vediamo sono condannate a perire. Perciò loro non sono cose reali. Noi dobbiamo parlare delle cose come esse realmente sono. Da qui, le parole "il mio corpo non è un corpo", sono corrette e appropriate.
Nella terza frase, quando dice, "Il mio corpo nella sua natura non è un corpo", è asserito che, separatamente dal non-sostanziale e l'evanescente, non può esistere nessun corpo; e che perciò è corretto dire che ‘il mio proprio corpo non esiste’.
Cousin, nei suoi discorsi già riferiti, dice che la psicologia del buddhismo è ben documentata in due proposizioni, estratte da Burnouf dai Testi buddhisti:-
1°) Pensiero, o spirito - perché la facoltà non è distinta dal soggetto--appare solamente con la sensazione, e non le sopravvive.
2°) Lo stesso spirito non può mantenere la presa su "né stesso; e nel dirigere la sua attenzione su se stesso, ne deduce solo la convinzione di non potersi vedere se non come ciò che è successivo e transitorio.
Burnouf aggiunge che, queste tesi sono radicalmente opposte al Brahmanesimo il cui primo articolo di fede è la perpetuità del soggetto pensante. Qui noi vediamo che l’impermanenza delle cose, principio così importante nel nostro autore, pervade anche i testi Nepalesi che Burnouf studiò, e nel buddhismo costituisce un vero e proprio dogma.
Lung-shu prosegue osservando che a tal riguardo alcune persone mantengono false visioni. Una delle opinioni è che indipendentemente dal non-sostanziale c'è la sostanza, ma questo è contrario ai Sutra. Altri dicono che il non-sostanziale è il mio corpo, ma questo è sbagliato (benché sia corretto dire che il mio corpo è non-sostanziale), perché non è basato sui Sutra. Queste non sono parole del Buddha, né esse si trovano nei grandi Sutra sacri, e quindi ad esse non si deve credere. L'ultima frase, "Io perciò dico che esso è vuoto e impermanente", viene illustrata appellandosi all'insegnamento del Buddha in uno dei Sutra. Egli come esempio prende l'occhio. Non c'è occhio che non si muova, che non sia distrutto, e che non cambi. Perciò è vuoto e non-permanente. Cosippure è con gli altri organi di senso. La natura di tutti loro è di cambiare e distruggersi.
Nell'enumerare gli organi di senso, dopo aver menzionato occhi, orecchio, naso, lingua, e corpo, i buddhisti vi aggiungono la mente. Anche Lung-shu lo fa in questo passaggio. La mente, come organo della coscienza, è considerata un senso. Noi limitiamo il termine ‘organi sensoriali’ a quelli materiali, ma il buddhismo, che non crede nella realtà delle cose materiali, chiama ‘senso’ qualunque organo con cui si comunicano le impressioni.
Inoltre, poiché il Buddha ha così espresso la sua opinione nei Sutra, anche noi veniamo a sapere che le tutte azioni sono vuote, non-permanenti, e perciò senza un corpo. Così si arriva alla dottrina che dice che il corpo non esiste. Dovrebbe essere ricordato che i buddhisti considerano le azioni dell'essere pensante unite alla sua sostanza. Essi non fanno distinzione tra l'agente e l'azione, ma negano la realtà e la permanenza di entrambi nella loro unità. Così, come in questo caso, si dirà che "tutti gli atti" (yih-ts'iè-fa) sono senza corpo, anziché predicarlo dell'agente. Quindi, egli prosegue dicendo che la natura umana è senza il corpo, così la sua dottrina resta nell'autorità dei Sutra, ed aggiungendo che per illustrarla essa è l'oggetto di questo intero trattato, "Lo Shastra di un solo Shloka".
La stessa confusione dell'agente con il suo agire è presente nelle ultime frasi del trattato, dove è asserito che ogni tipo di agire, incluso il corpo, la natura, l’essere, le azioni e le cose, non sono che nomi diversi per la stessa cosa. Egli aggiunge che tutte queste varietà nella fraseologia, sono soltanto differenze nel termine ‘yeu’, cioè "essere". La parola originale, aggiunge il traduttore Cinese, è subhava, che è spiegata variamente come "la sostanza che dà sostanza a se stessa", "senza azione e con l’azione", e "la natura che non ha una sua propria natura".
Bhawo, dice Gogerly nel suo Essay on Buddhism (7), è ‘duplice’, e consiste di atti morali causativi e dello ‘stato-di-essere’. Di questi, egli aggiunge, kamma-bhawo, o "atti morali causativi", sono il merito, il demerito, e quelle azioni che portano ad esistere. I vari mondi dell'universo buddhista sono designati dal termine bhawo. "Mondi di piacere sensuale e di dolore" sono kama-bhawo. I "mondi-di- Brahma" sono rúpa-bhawo. I "mondi incorporei senza-forma" sono arúpa-bhawo, e così via. Qui il termine bhava significa "stati di essere".
Le numerose modificazioni del significato di questa parola aiutano a capire le tre traduzioni del relativo termine subhava che chiude il trattato. Io posso osservare qui che, ai moderni buddhisti Cinesi, è normale difendere la dottrina della non-realtà delle cose materiali, appellandosi alla loro predisposizione alla distruzione. Un prete discuterà sul fatto che un’asse di legno, pur gettata nel fuoco e svanita in fumo e ceneri, non ci sia necessariamente nulla di reale in essa.
La verità è, che la realtà e la mutevolezza, o cambiamento, sono esattamente entrambi affermati da un’asse di legno, o da qualunque altra cosa materiale. Il buddhismo asserisce con perfetta correttezza che tutti gli oggetti dei sensi non sono permanenti, ma non è totalmente esatto dire che perciò essi siano irreali. La scienza moderna, il Cristianesimo, ed ogni filosofia sono d'accordo nell'attribuire realtà e cambiamento agli oggetti dei sensi. Lung-shu forse fece un errore nel non vedere che queste due cose possono essere conciliate.
{Ed Edkins qui commette un errore nell'asserire che Nagarjuna sostiene la visione che l’impermanenza sia associata alla non-esistenza. Agli oggetti manca l’esistenza inerente, il che significa che essi non esistono indipendentemente dalle loro cause, una visione con la quale possono essere d’accordo sia il Cristianesimo, la scienza moderna, ed ogni valida filosofia. – Christopher M. Weimer}
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Note in calce
1) Letto davanti alla Società Letteraria e Scientifica, Shangai, 17 nov.1857.
2) Le wu-yin, "operazioni umane, sono cinque", e cioè, shè, "visione"; sheu, "ricezione"; siang, "pensiero"; hing, "fare"; shi, "percezione".
3) Questa parola è un composto di su, "buono", e bháva, una delle dodici cause dell’ "essere". Da Colebrooke e dal Prof. Wilson è variamente tradotta come, "disposizioni", "sentimenti", "condizioni di essere". Abháva è "privazione" o "negazione" dello stesso ‘essere’. Prágabháva è "negazione presente di quello che sarà". Anubháva è la "nozione-di-essere".
4) Tradotto da O. W. Wight, vol. I.
5) Kia-pi-lo; nella vecchia pronuncia, Ka-pi-la. Yeu-leu-kia (U-lu-ka).
6) Un amico mi ha tuttavia suggerito che si può considerare questo come ovvio, essendo che la coscienza sta sempre insegnandoci.
7) Citato in Hardy’s, ‘Eastern Monachism’.
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(Secondo Sutra)
THE INDIAN ANTIQUARY, A JOURNAL OF ORIENTAL RESEARCH IN ARCHÆOLOGY, HISTORY, LITERATURE, LANGUAGES, PHILOSOPHY, RELIGION, FOLKLORE, &c., &c., &c.
EDITED BY JAS. BURGESS, M.R.A.S., F.R.G.S. VOL. X.—1881 - [Bombay, Education Society's Press] {Scanned and edited by Christopher M. Weimer, April 2002}
Il “CHONG-LUN” Ovvero,
IL PRANYAMÛLA-ŠÂSTRA-TIKA di NÂGÂRJUNA
Del Rev. S. BEAL, M.A., Rettore di WARK.
(Tradotto in Italiano da Aliberth)
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Io darò qui una traduzione della 25°sezione (sul Nirvâ.na) del Chong-Lun Sûtra o Pranyamûla-šâstra-tika, di Nâgârjuna,.
(1) Se tutte le cose sono non-reali,
Allora com’è possibile rimuovere
Da ciò che non esiste, qualcosa
Che, essendo rimossa, lascia il Nirvâna?
Questa sezione dichiara che se tutte le cose sono similmente vuote ed irreali, allora non c'è nessuna cosa come la Nascita e la Morte; di conseguenza non ci può essere rimozione dal dolore, e la distruzione dei cinque elementi di esistenza (esistenza limitata), dalla cui rimozione noi si arrivi al Nirvâ.na (o a quello che è chiamato Nirvâ.na).
(2) Ma però, se tutte le cose sono reali,
Allora come possiamo noi rimuovere
La Nascita e la Morte, e la vera esistenza,
Ed arrivare quindi al Nirvâ.na?
Questa sezione dichiara che noi non possiamo distruggere ciò che ha reale esistenza in se stesso, e perciò, se tutte le cose hanno questo vero essere, noi non possiamo rimuovere Nascita e Morte, e arrivare così al Nirvâ.na; perciò, né con la teoria di Bhava (esistenza), né con la teoria di Shunyata (vacuità), noi non possiamo arrivare all'idea giusta di Nirvâ.na.
(3) Ciò per cui non ci si sforza, né si "ottiene",
Ciò che non è "per un po’ di tempo" o "eterno",
Ciò che non è mai nato, né mai muore,
"Questo" è ciò che è chiamato Nirvâ.na.
"Ciò per cui non ci si sforza" cioè, nel metodo di azione religiosa (achârya), ed il suo risultato (il frutto). "Che non è ottenuto" (o "non vi si arriva"), cioè, perché non c'è un luogo o un punto a cui arrivare. "Non per un po’ di tempo" (o non per via di interruzione) [per saltum] perché, essendo stato provato dal momento della completa illuminazione che i cinque skandha sono irreali, e non parte di una vera esistenza, allora entrando nel Nirvâ.na finale (anupadišesha Nirvâ.na).— Cos’è che può interrompere il carattere dell’esistenza precedente?
"Non per sempre", o "eterno", perché se ci fosse un qualcosa da dover ottenere che lasciasse adito a distinzioni mentre si è in suo possesso, noi parleremmo allora di un nirvâ.na eterno, ma poiché nella condizione dell'estinzione silenziosa (Nirvâ.na) non può esserci nessuna proprietà da distinguere, come possiamo parlare di essa come "eterna?". E così riferendoci a Nascita e Morte. Ora, ciò che è così caratterizzato è ‘quello’ che noi chiamiamo Nirvâ.na.
Inoltre, c'è un Sûtra che dice, "Il Nirvâ.na è l'opposto di 'Essere' e 'Non-essere'; è l'opposto di questi due combinati insieme, è l'opposto dell'assenza di 'Essere', e dell'assenza di 'Non-essere'. Quindi, in breve, ciò che non ammette condizioni, come l’essere attaccati all’esistenza limitata; quello è il Nirvâ.na.
(4) Il Nirvâ.na non può essere chiamato Bhava (Esistenza);
Perché, in tal caso si ammetterebbe la vecchiaia e la morte,
Infatti, sia "essere" che "non-essere" sono entrambi ‘fenomeni’,
E perciò sono in grado di essere privati delle caratteristiche(lakshanam).
Questo significa che poiché tutte le cose che l'occhio vede sono viste iniziare e finire, e questo è ciò che lo Šlôka chiama "Vita" e "Morte" (o nascita e morte). Ora se il Nirvâ.na fosse anch’esso così, allora sarebbe possibile parlare di rimuovere queste cose ed arrivare così a qualcosa di fisso--ma qui c’è una contraddizione in termini—perché si suppone che il Nirvâ.na sia Ciò che è già fisso ed immutabile.
(5) Se il Nirvâ.na fosse Bhava (ciò che esiste),
Allora sarebbe qualcosa di personale;
Ma, in effetti, ciò che non può essere individualizzato,
E’ detto di esso che non è "personale".
Questo significa che siccome ogni esistenza fenomenica proviene da causa e conseguente produzione, quindi tutte queste cose sono chiamate giustamente "personali."
(6) Se il Nirvâ.na fosse Bhava (cioè, esistenza),
Allora non potrebbe esser chiamata "senza sensazione" (anuvedana);
Poiché il Non-essere non proviene dalla sensazione,
Ed a causa di ciò ottiene il suo distintivo nome.
Questo significa che poiché i Sûtra descrivono il Nirvâ.na come ciò che è "senza-sensazione" (anuvedana), non può essere Bhava (esistenza); altrimenti Abhava (non-esistenza) verrebbe dalla sensazione. Ma ora ci si chiederà, se il Nirvâ.na non è Bhava, allora "ciò che non è Bhava" (abhava), certamente sarà Nirvâ.na. A questo noi replichiamo--
(7) Pur se il Nirvâ.na non è Bhava,
Ancor meno esso può essere il Nulla (abhava);
Poiché, se non ci fosse posto per l’ "Essere",
Quale luogo potrebbe mai esservi per il "Non-Essere"?.
Questo significa che "Non-essere" è l'opposto di "Essere". Allora, se non si ammette "Essere", come possiamo parlare di "Non-Essere"? (suo opposto).
(8) Se, ancora, il Nirvâ.na fosse il Nulla,
Come può esser chiamato "senza-sensazione?" (anuvedana),
Poiché sarebbe ammirevole se tutto ciò che non è capace di sensazione,
Fosse immediatamente chiamato col nome di Nulla.
Allora, se poi il Nirvâ.na non é né "Essere", né "Non-essere", che cos’è?
(9) Dalla partecipazione nella Causa ed Effetto
Prende avvio la Ruota dell’esistenza continua
Non partecipando alla Causa ed Effetto,
Si manifesta quindi il Nirvâ.na.
Così come sapendo che una cosa è diritta noi sappiamo anche che essa può essere piegata, così dalla conoscenza degli elementi dell’esistenza limitata viene la conoscenza della continuità di vita e morte. Sbarazzatevi perciò delle cause, e fate lo stesso anche con gli effetti.
(10) Poiché il Buddha dice nel Sûtra,--
Separatevi da "Essere", separatevi dal "Non-essere",
Proprio questo è il Nirvâ.na,
L’opposto di "Essere", l'opposto di "Non-essere".
"Essere", qui allude ai tre mondi dell’esistenza limitata. L'assenza di questi tre mondi è il "Non-essere". Liberarsi di ambedue queste idee, questo è il Nirvâ.na. Ma ora ci si potrebbe chiedere, se il Nirvâ.na non è "Essere", e se non è "Assenza di Essere", allora forse è la mescolanza dei due...
(11) Se è detto che l’ "Essere" e il "Non-essere"
Unendosi insieme producono il Nirvâ.na,
I due allora sarebbero Uno solo;
Ma questo, però, è impossibile!.
Due cose diverse e differenti non possono essere congiunte insieme, così come non possono produrre una cosa diversa dall’altra.
(12) Se è stato detto che "Essere" e "Non-essere"
Congiunti insieme sono il Nirvâ.na,
Allora, il Nirvâ.na non è "senza sensazione";
Perché queste due cose comportano sensazioni.
(13) Se è stato detto che "Essere" e "Non-essere"
Congiunti insieme producono il Nirvâ.na,
Allora il Nirvâ.na non è Impersonale;
Perché queste due cose sono personali.
(14) "Essere" e "Non-essere", congiunti in uno,
Come questo può essere il Nirvâ.na?
Queste due cose non hanno niente in comune.
Possono Oscurità e Luce essere congiunti?
(15) Se le due opposte condizioni,
una di "Essere" e una di "Non-essere",
E’ il Nirvâ.na, allora questi opposti
Come possono essere distinti?
(16) E se esse sono distinguibili,
Eppure, unendosi, diventano il Nirvâ.na,
Allora ciò che completa l'idea di "Essere" e "Non-essere"
Completa anche l'idea dell'opposto di entrambe.
(17) Il Tathâgata, dopo che fu andato,
Non disse nulla di "Essere" e "Non-essere".
Egli non disse che il suo "Essere" non era,
E nemmeno disse l'opposto di questo.
Il Tathâgata non ci lasciò detto niente di queste cose o dei loro opposti. La conclusione dell’intera questione è, che il Nirvâ.na è identico con la natura del Tathâgata, senza limiti, e senza luogo né tempo.
[Tratto da: ‘The Oriental’, 9 ottobre 1875.]
(Finito di tradurre, marzo 2006 – ad uso dei meditanti del Centro Nirvana)