Storie di DONNE Buddiste

di Valore   di MABEL BODE

(Women Leaders of the Buddhist Reformation)

(dal Manoratha Pûrani, commentario di Buddhaghosa sull'Anguttara Nikâya)

 Tratto da //www.sacred-texts.com/bud/index.htm}

Tratto dal Giornale della Reale Società Asiatica [Londra, R.A.S.,1893] - 
 

Alcuni anni fa il Dott. Trenckner fece una trascrizione di un importante lavoro Pâli, il commentario sull'Anguttara Nikâya chiamato Manoratha Pûrani ("Esaudire i Desideri"), scritto da Buddhagosha, il grande commentatore del Buddismo. Quando per caso quest’opera sarà aggiunta all'elenco già pubblicato dei Testi Pâli, il suo valore, come ulteriore contributo alla nostra conoscenza del primitivo Buddismo, non avrà più bisogno di mettersi in evidenza - il libro parlerà da solo. Nel frattempo, poiché non è stato ancora compilato, il seguente breve estratto del Testo, insieme alla traduzione, non può essere privo di interesse. Il capitolo scelto illustra l’operato della grande riforma Buddista, nella sua originale forza e freschezza. Esso tratta di certi discepoli contemporanei di Gotama, i cui nomi appaiono in una sezione del primo Nipâta della raccolta di Sutta chiamata l'Anguttara Nikâya. Qui troviamo un elenco di tredici discepoli donne che, dopo esser entrate nell'Ordine delle "Bhikkhunîs" (monache), esercitarono una grande influenza, sia con il loro insegnamento che con la santità delle loro vite. Nei discorsi di Buddha Gotama, le discepole sono nominate a turno, e vi è indicata la virtù che distingue ciascuna. Qui, dopo ogni nome, il commentatore aggiunge un resoconto della vita della discepola, calcando particolarmente quella parte della sua carriera in cui essa ottenne la "alta posizione", assegnatole dal Maestro. Le fonti dalle quali è stata presa la seguente parte del Testo sono:-- 

1. La meravigliosa trascrizione chiara ed esatta del Dott. Trenckner dalla versione Siñgalese che lui unì alla versione Birmana dei SuttaNipâta, 1-3. (Ambedue i Sutra si trovano nella Biblioteca Indiana, Nos. 30 e 31, Phayre Collection). Questa trascrizione è riferita nelle note in calce sotto le iniziali T.I., in cui le letture differiscono. 

2. un MS (Mahayana Sutra) in Siñgalese: molto gentilmente prestatomi dal Dott. Morris (riferito come S.M.). C'è un Tîkâ (commento) nel Museo Britannico della raccolta Birmana dei MS. sul Manoratha Pûrani--o piuttosto su una parte di esso, cioè, il primo Nipâta. 

  I commenti sul capitolo in oggetto consistono principalmente di parafrasi delle espressioni usate da Buddhagosha, e brevi chiarimenti dei versi delle scritture da lui citate nel suo resoconto delle tredici Therîs. Vi sono anche dettagli aggiunti ad alcune delle storie. Da riferimenti fatti su altre opere canoniche, il commento Tîkâ  sembrerebbe essere scritto per lettori ben versati nelle Scritture; ed il significato è adatto per essere in parte un pò oscuro. Bisogna anche dire che, in questo caso, alcune difficoltà, riguardanti l’argomento, sono aggiunte a causa della copiatura, perchè l'uguaglianza dei caratteri Birmani si presta alla confusione, salvo le lettere rotonde che sono più chiare e precise; ed il Tîkâ tradisce una mano non accurata.    È stato molto facile correggere le lettere dubbie nella trascrizione di Trenckner, paragonandole con i MS del Dott. Morris. In quasi tutti i casi queste letture sono evidentemente meri errori di copisti, che Trenckner sottolineandoli ha già così annotato. Le differenze di senso sono così rare che si può quasi dire che il MS sia lo stesso, parola per parola. Riguardo alla mia traduzione, io l'ho resa più letterale che potevo, cercando di riflettere fedelmente tutte le piccole ombre di significati dell'originale. In tutti i passaggi dove incontrai difficoltà, io li ho riferiti al Prof. Rhys Davids, sentendo che così potevo giustificare il mio lavoro, che sarebbe stato imperfetto senza un suo qualche tipo di aiuto, davanti a dei lettori a cui il soggetto poteva interessare. 

   [Questo articolo fu preparato per il nono Congresso di Orientalismo tenuto a Londra nel 1892; ed un estratto di esso fu letto al Congresso. Essendo il Comitato incapace di pubblicarlo, per mancanza di fondi, il Consiglio della Reale Società Asiatica fu abbastanza gentile di ordinare la sua pubblicazione in questo Giornale.] 

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DONNE di SAGGEZZA- [MANORATHA PÛRANÎ dall’ANGUTTARA, I. 14. 5.]  Quarto Vagga. 

1. Mahâpajapatî Gotamî. 

   La prima della serie di Theris (cioè, Mahâ Gotamî, Grandi Saggie), appare come il capo di coloro che hanno grandi esperienze. Senza andare troppo indietro nella storia delle sue prime origini, si dice che essa venne in esistenza al tempo del Buddha Padmuttara, in una nobile famiglia di Hamsavatî. Dopodichè, sentendo il Maestro fare un discorso di Dharma, e vedendolo esaltare una certa monaca che era arrivata molto in alto, lei si propose di voler arrivare alla stessa posizione. Quando ebbe fatto atti di carità per tutta la sua vita, ed avendo fatto il voto per adempiere ai precetti, ed avendo osservato il Sabbath, dopo che centomila Kalpa erano passati, lei rinacque a Benares, come la principale di cinquecento schiave. Ora, quando cominciò la stagione di Vassa, cinquecento Pratyeka Buddha vennero giù dalle grotte di montagna ad Isipatana ed andarono in città per elemosinare. E proprio quando arrivarono ad Isipatana, essi pensarono, "Dovremo chiedere loro di preparare un'abitazione per noi; capanne per la stagione di Vassa". Quindi, indossando vesti da mendicanti, ed entrando di notte nella città, essi si misero vicino alla porta della casa di un mercante. La capo delle schiave aveva appena preso il suo vaso d’acqua e stava tornando giù dal guado per l’acqua, quando vide i cinquecento Pratyeka Buddha che entravano nella città. Il mercante, sentendo (la ragione) del loro arrivo, disse: "Noi non abbiamo tempo! Andatevene via." 

   Ora, quando essi stavano partendo dalla città, la schiava principale, portando il suo vaso d’acqua, stava rientrando (in città) e li vide. Lei li salutò e s’inchino ad essi, coprendosi il volto. "Signori", chiese, "Perché siete venuti in città, e perché ora state andando via?" "Noi venimmo a chiedere che si fosse costruita per noi un'abitazione per la stagione di Vassa", loro dissero. 

   "E ci siete riusciti, signori?" lei disse. 

   "No, non ci siamo riusciti, figlia", loro dissero. 

   "E queste capanne che dovrebbero essere costruite - possono essere costruite solamente da nobili o anche dal popolo povero?" lei chiese. 

   "Esse possono essere costruite da chiunque". 

   "Molto bene, signori, le faremo noi", lei disse. "Domani riceverete il vostro cibo da me". E avendoli così invitati, li condusse verso l'acqua, poi riprese il suo vaso pieno d’acqua ed andò via. E, stando sulla strada che conduceva al guado, lei disse ad ognuna delle ragazze-schiave che arrivavano, "Stai qui", e quando esse furono tutte arrivate, lei disse, "Figlie mie, volete fare sempre il lavoro da schiave per un altro, o desiderate essere liberate dalla schiavitù?" 

   "Noi saremmo contente di venire liberate oggi stesso, madre", esse risposero. 

   "Quindi, fate lavorare i vostri mariti un giorno per questi cinquecento santi, che non possono trovare operai ed ai quali io ho fatto la promessa di provvedere per domani", lei disse. 

   "Così sia ", esse dissero. 

   E, avendo accettato esse stesse questo, dissero di ciò ai loro mariti, quando essi furono di ritorno dalla foresta. 

   "Molto bene", dissero loro, e si radunarono tutti davanti alla porta della casa del capo delle schiave. 

   Ora la donna-schiava principale disse loro, "Amici miei, offrite il vostro lavoro a questi santi uomini". E mostrando la sua intenzione (e ammonendo con forti grida quelli che non desideravano lavorare) lei li costrinse ad essere d'accordo. 

   L’indomani, quando ebbe dato un pasto ai Pratyeka Buddha, lei diede le istruzioni a tutti gli schiavi. Essi si recarono immediatamente nella foresta e tutti insieme portarono materiali per costruire e, dividendoli in parti di cento, essi costruirono capanne, una per ogni Buddha, avendo prima fatto un chiostro. E loro misero mobili, cioè letti e sedie, e acqua da bere, e fecero fare ai Buddha un voto per abitare là tre mesi. E si impegnarono ad alimentarli, e se qualcuno di essi non fosse stato in grado (di farlo) allorchè fosse venuto il suo turno, sarebbe stato a lui portato cibo dalla casa della schiava principale, così poteva darglielo. 

   E, alimentandoli così per tre mesi, la donna-schiava principale fece portare da ognuna delle donne-schiave un indumento di stoffa. Vi furono cinquecento stoffe grezze; e avendole scambiate, lei comprò tre tuniche per ognuno dei cinquecento santi. E, come essi le videro, i cinquecento Buddha, passando attraverso l'aria, ritornarono alla montagna Gandhamâdan.

Così tutte queste donne, avendo passato la loro vita in buone azioni, rinacquero nel paradiso dei Deva. E la loro principale, quando dovette morire, rinacque in un villaggio di tessitori, vicino a Benares, nella casa di un maestro-tessitore. Ora, in un certo giorno, cinquecento giovani Buddha vennero a Benares, invitati dal re, e quando essi giunsero all’ingresso del palazzo, guardandosi intorno e non vedendo nessun, si rigirarono e, uscendo dalle porte della città, arrivarono al quel villaggio di tessitori. Questa donna, vedendo i Buddha e salutandoli amichevolmente, diede loro del cibo. Essi, dopo aver preso il loro pasto nella maniera dovuta, ritornarono immediatamente sul monte Gandhamâdan.

E la donna, dopo aver condotto una vita virtuosa e passando attraverso mondi di deva e il mondo degli uomini, rinacque, proprio poco prima del nostro Maestro, rientrando in vita nella casa dell’eminente Suppabuddho. Il suo cognome era Gotamî. Lei era la sorella più giovane della celebre regina Mâyâ. Brahmini che erano bravi negli incantesimi, avendo percepito i segnali della grandezza in queste due donne, profetizzarono che i figli da esse concepiti sarebbero stati monarchi universali. Il grande Re Suddhodana, tenendo una gran festa al raggiungimento della sua maggiore età, portò le due sorelle dalla loro casa al suo proprio palazzo. Dopodichè, il nostro Bodhisattvatva svanì dal cielo di Tusita e rientrò in esistenza nell'utero di Mâyâ. Mâyâ, nel settimo giorno dopo la sua nascita, morì e rinacque di nuovo nel cielo di Tusita. Il Re Suddhodana elevò Pajâpatî (zia del Beato) al rango di Regina-consorte. Ed a questo punto nacque il giovane principe Nanda. Pajâpatî, mandando ad allevare Nanda da una vice-madre, continuò a prendersi cura del Bodhisattvatva. 

   Più tardi, quando il Bodhisattva si isolò dal mondo e raggiunse la saggezza, facendo il bene all’umanità, a tempo debito si recò nella città di Kapila, entrò nella città, cercando elemosine. Ora suo padre, il grande re, avendolo sentito predicare il Dharma anche per strada, si convertì. Due giorni dopo, anche Nanda abbracciò la vita ascetica, e sette giorni dopo, anche Râhulo il figlio di Gotama. 

   Poi, il Beato prese dimora in una sala turrita vicino Vesâli. A questo punto il gran Re Suddhodana morì, dopo avendo raggiunto lo stato di Arahat sotto il reale ombrello bianco. Quindi, anche Pajâpatî concepì il pensiero di entrare nella vita religiosa. E poi, alla fine del Ralahavivâda-Sutta, o Discorso sul conflitto e contesa, Pajâpatî si stabilì sulle rive del fiume Rohini, frequentato da cinquecento giovani fanciulle che si erano convertite e che erano venute, d’accordo con Pajâpatî, tutte pensando, "noi entreremo nella vita religiosa sotto il Maestro". Con Mahâpajâpatî alla loro testa, si recarono dal Maestro dicendogli che esse erano intenzionate ad entrare nell'Ordine. 

   Ma perfino questa donna Pajâpatî, la prima volta che implorò il Maestro che lei voleva entrare nell'Ordine, non ottenne il suo desiderio. Perciò, andò dal barbiere, si fece tagliare i capelli, indossò la veste gialla, e prendendo con lei tutte queste donne Sâkya, andò a Vesâli, a cercare il Thera Ânanda per implorare il Santo per lei. E così riuscì ad entrare nella vita religiosa ed a ricevere l’ordinazione, soggetta alle otto leggi principali. E tutte le altre donne ricevettero l’ordinazione alla stesso tempo. Questo è un breve sommario, poichè l’intera storia è riferita nel Canone [Nei Testi del Vinaya, iii, 320-327]. Quando fu così ammessa nell'Ordine, Pajâpatî essendosi avvicinata al Maestro, gli fece un inchino, e gli si mise su un lato. E il Maestro le predicò la Dottrina, e questa donna, istruita dal Maestro nell’estatica meditazione, raggiunse lo stato di Arahat. E le altre cinquecento monache, alla fine del discorso a Nandaka raggiunsero anch’esse lo stato di Arahat. Così questa storia racconta. 

   Dopodichè, il Maestro, sedutosi a Jetavana, assegnando i posti alle Bhikkhunî, esaltò Pajâpatî sul posto principale fra coloro che sono grandi in esperienza. 

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2. Khemâ. 

   Nel secondo Sutta con il nome Khemâ si intende la Bhikkhunî così chiamata. Ora, senza andare troppo indietro nella storia, io dirò solamente ciò che dovrebbe essere altrimenti detto, cominciando (nel caso di ognuna) da quando esse ebbero la loro prima motivazione.  

   È detto che, in passato, al tempo del Buddha Padmuttara, questa donna fosse rinata come nativa della città di Hamsavatî. Ora, un giorno, vedendo il Thera Sujâta, uno dei due discepoli principali del Beato, andando in giro per elemosine lei gli diede tre dolci. E proprio quel giorno, lei si tagliò i capelli, e (li barattò con) regali che lei diede al thera, dicendo questa preghiera: "In futuro, a suo tempo, quando un Buddha apparirà nel mondo, io diventerò piena di saggezza, come te!" 

   Da allora, passando la sua vita zelante in opere buone, e vagando di mondo in mondo, fra dèi ed uomini per centomila eoni, lei rientrò in esistenza, al tempo del Buddha Kasyapa, nel palazzo di Re Kiki di Kasî, come una fra sette sorelle; e per ventimila anni lei visse là una vita di castità e, con le sue sorelle, costruì un luogo di abitazione per il Beato. Poi, essendo passato l'intervallo tra quel tempo e la nascita del successivo Buddha, vagando di vita in vita nei mondi di dèi ed uomini, lei rinacque, al tempo di questo Nostro Buddha, nella famiglia reale della città di Sâgala, nel paese di Madda. Essi le diedero il nome Khemâ; e la sua pelle era di una eccessiva bellezza, lucente e gialla come eccellente oro. Ora quando lei divenne maggiorenne, entrò nella famiglia di Re Bimbisâra. E quando le fu detto che il Beato stava dimorando in un parco, non lontano da Râjagraha: "Il Maestro ritiene che la bellezza sia una colpa", lei allora, essendo inebriata dalla sua propria bellezza e temendo che lui potesse trovare colpe anche in lei, non volle andare a vederlo. 

  Il re pensò: "Io sono un grande sostenitore del Maestro. Eppure lei, consorte di un così importante discepolo, non vuole andare a vedere Colui che ha i dieci Poteri della Saggezza. Ciò non mi piace!". Quindi egli invitò i poeti di Corte a comporre un poema sulle glorie dell'Eremitaggio di Veluvana, e disse loro: "Ora, andate a cantarlo per farlo ascoltare a Khemâ, la Regina". Lei, allora, sentendo della bellezza dell'Eremitaggio, fu afferrata da un desiderio di andarvi, e chiese il permesso del re. Il re rispose: "Vai pure con tutti i mezzi all'Eremitaggio; ma non potrai ritornare qui senza aver prima offerto i tuoi omaggi al Maestro". Lei non replicò al re, ma partì per la sua strada. 

   Il re disse agli attendenti che stavano andando con lei: "Se la Regina, volesse ritornare dall'Eremitaggio, dovrebbe prima far visita al Beato, d’accordo? Ma se lei non lo fa, voi dovete indicarglielo, in nome del re".  

   Ora la Regina, dopo aver vagato tutto il giorno sull'Eremitaggio stava quasi per ripartire, senza avere visto il Beato. Quindi gli attendenti reali, pur contro la sua volontà, la condussero in presenza del Maestro. Il Beato, vedendola avvicinarsi, creò, con il potere dei Siddhi, la forma di una ninfa di bellezza paradisiaca che, tenendo in mano una foglia di palma, sembrava stesse ventilandosi. Khemâ, la Regina, vedendo questa ninfa, pensò: "Ahimè! sono finita! – fintanto che donne di così divina bellezza circondano il Beato! Io non son degna nemmeno di esser pari alla sua serva. Mi pare che non ci siano nient’altro che i miei cattivi pensieri a farmi essere preoccupata!". E, con questa conclusione, lei rimase sotto l’influsso dell’incantesimo, fissando la donna. E, mentre lei la fissava, la donna (per volontà del Tathâgata) sembrò passare dalla gioventù, cambiando nella mezza-età, e dalla mezza-età lei sembrò passare alla vecchiaia, e se ne stava là, coi capelli diventati grigi e i denti tutti cadenti e rotti. E, mentre stava ancora guardando, la Regina vide poi la donna cadere, con la foglia e tutto il resto, esanime a terra. 

   Allora Khemâ, (poiché tutte le cause accumulate nelle sue esistenze precedenti  stavano maturando il loro risultato in lei) così pensò: "Un corpo così glorioso e bello è precipitato così in distruzione! Anche al mio corpo dovrà accadere una fine come questa!" E, nel momento in cui stava pensando questo, il Maestro pronunciò questo verso del Dhammapada: "Coloro che sono schiavi della lussuria dovranno discendere il corso, come il ragno, giù dalla rete che esso stesso ha fatto. Ma, separandosi da essa, essi abbandonano il mondo, e, non bramando più la vita, essi si allontanano dai piaceri della bramosia!". Alla fine della strofa, lei, mentre ancora se ne stava là, ottenne il Patisambidhâ (i Quattro Doni della Comprensione Perfetta) e raggiunse lo stato di Arahat. 

   Ora, colui che raggiunge lo stato di Arahat mentre è ancora un laico, deve morire quel giorno stesso o entrare nella vita religiosa. Lei perciò, avendo capito che la fine dei suoi giorni era vicina, pensò, "Chiederò il permesso di abbandonare il mondo, io!" E, facendo l’inchino al Maestro, lei ritornò al palazzo e, salutando il re, rimase in piedi di fronte a lui. Il re, sentendo da lei stessa il modo in cui aveva raggiunto il nobile stato di Arahat, le disse: "Regina, hai poi veduto realmente il Beato?". "Oh, grande re", lei rispose, "quello che hai visto tu è di poco conto. Ma a me il Beato si è rivelato pienamente, perfino al massimo. Io ti prego, fai che io possa abbandonare il mondo!" Ed il re accordò la sua richiesta, e la spedì su un baldacchino dorato al monastero, dove lei avrebbe dovuto vivere. 

   Ora, poiché lei aveva raggiunto lo stato di Arahat, mentre era ancora allo stato laico e si chiamava Khemâ, all'esterno si divulgò la notizia che lei doveva essere una donna dotata di grande saggezza. Così è la storia. Cosicché il Maestro, seduto a Jetavana, quando assegnava i ruoli, uno dopo l'altro, alle Bhikkhunî, diede alla therî Khemâ il posto principale fra coloro che furono pieni di saggezza. 

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3. Uppalavannâ. 

   Nel terzo Sutra, col nome di Uppalavannâ, si intende la Therî che ebbe quel nome perché aveva una pelle come il colore nel cuore del loto blu scuro. Si dice che questa donna rientrò in esistenza in una nobile famiglia a Hamsavatî, nel tempo del Buddha Padmuttara. E nel sentir predicare il Dharma, lei aveva visto il Maestro esaltare una certa Bhikkhunî al ruolo principale fra quelli che sono dotati di poteri spirituali (siddhi), e (quindi) per sette giorni, lei mostrò grande ospitalità all'Ordine dei Bhikkhu, col Buddha in testa e lei aspirò a quello stesso alto ruolo. 

   E dopo avere passato la sua intera vita in buone azioni, e passando di mondo in mondo, in vite da dèi ed uomini, lei rinacque, come una di sette sorelle, nel palazzo del re Kiki, nella città di Benares, ai tempi del Buddha Kasyapa. E per ventimila anni lei visse una vita nella castità, ed aveva  costruito un'abitazione per l'Ordine dei Bhikkhu, ed era poi rinata nel cielo dei Deva. E precipitando da lì, e rientrando di nuovo nel mondo degli umani, lei rinacque in un certo villaggio, come una che per vivere doveva lavorare con le sue mani. 

   Un giorno, quando stava andando alla sua capanna in un campo, lei vide, in un certo stagno, un fiore di loto che si era aperto proprio quella mattina. Quindi lei scese nello stagno, e prese quello stesso fiore di loto ed una foglia di loto per tenervi i semi. Poi lei tagliò delle teste di riso nel campo e si sedette nella sua capanna, e quando ebbe separato i semi e li ebbe contati ce n'erano cinquecento. 

   In quel momento, un certo Pratyeka Buddha, essendosi ripreso dalla sua trance sulla montagna Gandhamâdano, scese giù ed arrivò ad una macchia vicino a lei.   Ora, quando vide il Pratyeka Buddha, lei prese i semi e il fiore di loto, e uscendo dalla sua capanna, mise i semi nella ciotola delle elemosine del Pratyeka Buddha, e gli diede il fiore di loto, per coprire la ciotola. Ma quando il Pratyeka Buddha ebbe ripreso la strada, le venne un pensiero: "Ad un asceta non serve un fiore! Io riprenderò il fiore e mi adornerò con esso". 

   Quindi lei andò e prese il fiore dalla mano del Pratyeka Buddha. Ma poi di nuovo lei pensò: "Se quel sant’uomo non lo avesse voluto, non mi avrebbe permesso di mettere il fiore nella sua ciotola. Di sicuro, egli deve averne bisogno". E così lei ritornò, e di nuovo mise la foglia di loto sulla cima della ciotola, ed implorò il perdono del Pratyeka Buddha. Poi, lei recitò questa preghiera: "Signore, possa questo dono di semi portarmi questo risultato – Possa io avere tanti figli quanti sono i semi! E grazie al dono del loto, possano fiori di loto spandersi sui miei passi, dovunque io possa trovarmi a rinascere!" E, mentre lei lo guardava, il Pratyeka Buddha, elevandosi nell'aria, ritornò sul monte Gandhamâdan; e poi, prendendo il fiore, lo mise sulla scala usata dai Pratyeka Buddha, sul pendio che partiva dal (Lago) Manda. 

   E anche questa donna, come risultato di quel suo atto, rientrò in esistenza nel paradiso dei Deva. E dal momento della sua nascita, ad ogni suo passo, sorsero là dei grandi fiori di loto. Poi, essendo precipitata da quel luogo, lei rinacque nel cuore di un fiore di loto, in un certo stagno, ai piedi di una montagna. Vicino a questo stagno viveva un eremita. Una mattina, essendo andato allo stagno per lavarsi, e vedendo quel fiore, lui pensò: "Questo fiore è più grande di tutti gli altri. Gli altri sono maturi, mentre questo è ancora una gemma. Deve esservi una ragione per questo". E lui scese nell'acqua e strappò il fiore; e, come lo strappò, anche lo aprì, e l'eremita vide una bambina che giaceva nel cuore del fiore di loto. Appena lui la vide, sentì per lei l'amore di un padre, e la portò, con tutto il loto, alla sua capanna di foglie e la posò sul suo letto. E prodigio! Per il potere della di lei virtù, dal suo pollice scese del latte, con il quale potè alimentarla. 

   Ora, quando quel fiore si fu appassito, lui ne portò un altro fresco e ve la posò all’interno. E, dal momento in cui lei fu capace di correre qui e là per gioco, ad ogni passo che lei faceva, un fiore di loto sorgeva. E la sua pelle era eccellente come il colore della creta, e la sua bellezza, benché non completamente come una dèa, superava la bellezza mortale. Di solito, quando suo padre andava fuori per cercare della frutta, lei veniva lasciata nella capanna. Quindi, un giorno, quando fu cresciuta, e suo padre era andato a cercare dei frutti, un certo guardaboschi la vide lavorare intorno alla capanna e pensò: "Un essere di tale bellezza non può essere mortale! Devo capire meglio!" E lui si mise seduto, in attesa che l'eremita ritornasse. 

   Ora lei, al ritorno di suo padre, gli andò incontro, e prese dalla sua mano la sua sporta e la pentola dell’acqua, e quando furono rientrati a casa, e lui si era messo a sedere, lei gli mostrò il lavoro che aveva fatto. E così il guardaboschi potè vedere che lei era un essere umano. Quindi, dopo aver salutato l'eremita, lui si sedette. Ora quando l'eremita ebbe offerto radici e frutta al guardaboschi, lui gli chiese: "Signore, voi siete uno che abita in questo luogo, o state venendo qui solo adesso?". "Sto venendo qui adesso, reverendo signore, perché dovrei stare qui?" 

   "Quando Lei sarà andato via da qui, sarà capace di mantenere il silenzio su ciò che Lei ha visto qui?". "Se Lei non lo desidera, perché dovrei parlare di questo?" 

   Quindi lui salutò l'eremita e uscì fuori. Ma per riconoscere di nuovo la strada, quando volesse ritornare, lui mise dei segnali sui rami e sugli alberi. Poi, lui andò diritto a Benares e vide il re. 

   Il re disse a lui: "Per cosa sei venuto qui?". E lui disse: "Vostra altezza, io sono il Suo guardaboschi. E così mentre lavoravo ai piedi di una montagna io vidi un gioiello fra le donne. Quindi sono venuto qui". E lui gli disse l’intera questione. Il re, dopo aver sentito la sua storia andò immediatamente ai piedi della montagna, vi piantò un accampamento e, insieme con quello stesso guardaboschi ed alcuni attendenti andò dall'eremita, proprio quando lui aveva appena finito il suo pasto e si era seduto. Giunto davanti all'eremita, il re gli offrì un amichevole saluto, e si sedette al suo fianco. 

   Poi il re, dopo aver messo davanti all'eremita molte cose del cui uso un asceta avrebbe bisogno, disse: "Reverendo Signore, cosa potremmo fare in un tale luogo come questo? Dobbiamo andare via!". "Vada, pure, o gran re!", rispose l’eremita. 

   "Io me ne andrò. Ma si dice che vi siano persone dell'altro sesso, qui. Ora, ciò è un ostacolo per la vita di un asceta isolato. Permetta a questa donna di venire via con me". "I pensieri degli uomini sono malvagi. Come potrebbe essa stare fra così tanti di loro?". "Oh! noi siamo capaci di prenderci cura di lei, e di metterla in una grande posizione al di sopra degli altri." 

   L'eremita ascoltò quello che disse il re, e poi chiamò lei, dicendo: "Vieni, Fior-di-loto, bambina mia!" usando il nome che lui le aveva dato da piccola. 

   E, alla prima chiamata, lei uscì dalla capanna, fece l’inchino a suo padre e stette là. Poi suo padre le disse: "Bambina mia, tu ora sei cresciuta. E, d'ora innanzi, siccome il re ti ha vista, non è più bene per te vivere in questo luogo. Vai, figlia mia, vai con il re, adesso". "Va bene, padre mio", disse lei, acconsentendo e facendogli l’inchino. Tuttavia, lei scoppiò in lacrime. Ed il re disse: "Radunate ciò che il padre vuole". E, lì per lì, lui la fece sedere su un mucchio di monete d’oro, messe per terra, e la consacrò regina. 

   Poi lui la portò con sè alla sua propria città. E, dal momento del suo arrivo, lui non guardò più le altre donne, ma prese solamente delizia in lei. Ora, quelle altre donne, diventando gelose, ed ansiose di provocare divisione tra lei ed il re, così dissero: "Questa donna non è venuta da una razza umana, o grande re! Dove mai si era visto prima nascere fiori di loto sui passi di un essere umano? Questa donna è davvero misteriosa! Scacciala via, o gran re!". Ma il re, pur sentendo questo, non disse nulla. 

  Ora avvenne che in una provincia di confine scoppiò una rivolta, e il re, sapendo che la sua sposa Padmavatî aspettava un bambino, la lasciò nella città, mentre lui si recò alla provincia di confine. Così, quelle altre donne diedero alla sua donna di servizio un dono, e le dissero: "Appena il suo bambino è nato, portalo via, poi con del sangue imbratta un tronco di legno, e mettilo accanto a lei". Dopo un po’ di tempo, la regina Padmavatî ebbe le doglie. E Mahâ Padma, il Principe era da solo nel suo utero, ma cinquecento bambini, meno uno, vennero in vita per il potere dell'umidità, proprio quando Mahâ Padma fu messo giù, dopo la sua nascita. 

   Allora, la donna di servizio, visto che Padmavatî non si era ancora ripresa, aveva imbrattato un tronco di legno con sangue, e gliel'aveva messo accanto, dicendolo alle altre donne. Quindi le cinquecento donne, prendendo ognuna di esse uno dei bambini nati dall’umidità, fecero portare delle scatole dal tornitore, ed ognuna vi posò all’interno il bambino che aveva preso, sigillando la scatola. 

   Quando Padmavatî rinvenne, chiese alla donna di servizio: "Madre! Che cosa ho fatto nascere?" E l'altra, ingiuriandola, disse: "Come hai potuto essere capace di non far nascere un bambino! Questo è il bambino del tuo utero!" e le mise davanti il tronco imbrattato con sangue. E Padmavatî, nel veder ciò, ricadde giù, e disse: "Staccalo subito e portalo via! Se qualcuno dovesse vederlo, sarei gravemente disonorata!". E la servitrice, sentendo questo, ed essendo ansiosa di distruggerlo, prese il tronco di legno e lo getto nel forno. 

   Ed ora il re, quando fu ritornato dalla provincia di confine, celebrò una festa, ed alzando un accampamento fuori città, si sistemò là. Poi quelle cinquecento donne andarono a dare il benvenuto al re, e gli dissero: "Tu non ci crederai, o grande re. Avevi pensato che non c'era ragione in ciò che noi dicemmo! Ora chiama la donna di servizio della tua consorte, e interrogala! La Tua regina ha partorito un tronco di legno!". Ed il re, senza esaminare il loro motivo, pensò "Lei non è della razza umana!" E così la scacciò da casa sua. 

   E, oltre a lei, come lei partì dal palazzo reale, anche i suoi fiori di loto svanirono ed il colore della sua pelle divenne più pallido. Quindi, del tutto sola, camminò lungo la strada. Ora una certa donna anziana la vide, e sentendo per lei tenerezza materna, le disse: "Figlia, dove stai andando?". "Sto vagando senza mèta, con la speranza di trovare un luogo di abitazione fra estranei", lei rispose. 

   "Allora vieni con me, figlia mia!" E lei le diede una casa e le offrì del cibo. 

   Ora, mentre lei stava vivendo là, le altre cinquecento donne, essendo d'accordo dissero tutte insieme, "Le persone hanno fatto una petitzione al re, dicendo: ‘Gran Re, quando noi siamo venuti al tuo campo, e con te abbiamo fatto sacrificio alla dea del Fiume Gange (cioè, da quando il nostro re è ritornato vittorioso), ci hai promesso di celebrare una festa al fiume!' Andiamo a dire questo al re", dissero.    Ed il re, essendo d’accordo con ciò che esse avevano detto, tenne una festa lungo il fiume. E quelle donne, portando ognuna il bambino che aveva preso, tenendolo fuori di vista, ognuna coprendo la sua scatola per nasconderlo, andarono al fiume, e gettarono le scatole nell'acqua. Ma queste scatole, cadendo nel fiume, furono prese in alcune reti stese sotto l'acqua. Allora, mentre veniva celebrata la festa del fiume, quando venne il momento che il re doveva attraversare il fiume, le persone tirarono a riva le loro reti. E, vedendo queste scatole, le portarono al re. Il re guardò le scatole e disse: "Che c’è in queste scatole, amici?". "Non lo sappiamo, vostra altezza". Ed il re fece aprire le scatole e guardò all’interno. La prima ad essere aperta fu la scatola dove c’era il figlio del grande fiore-di-loto. Ed in ogni scatola in cui c’era un bambino, nello stesso giorno in cui era stato messo dentro, per un miracolo era apparso del latte nella scatola di ciascun bambino. 

   Sakko, il re degli dèi, al fine di liberare la mente del re dal dubbio su questa (questione), aveva fatto in modo che dentro le scatole vi fossero delle lettere scritte, che dicevano: "Questi bambini nacquero da Padmavatî. Essi sono tutti figli del re di Benares. Ora loro sono la gloria di Padmavatî. Sono state le altre cinquecento donne a metterli nelle scatole e ad averli gettati nell'acqua. Questo sia noto al re!". Appena le scatole furono aperte, ed ebbe letto le lettere e visto i bambini, il re solòlevò il Bambino del fiore-di-Loto, e disse ai suoi servi: "Svelti! Preparate il carro; imbrigliate i cavalli. Oggi stesso io andrò in città a punire certe donne (io so quali)!". Salì quindi alla sua sala maggiore, e offrendo loro mille pezzi di monete, mise il sacco di soldi sul collo di un elefante, e fece questo proclama:   "Chiunque indicherà dov’è Padmavatî riceverà i mille pezzi d’oro!". 

   Ora quando Padmavatî sentì il proclama, lei disse a sua madre: "Vai, madre mia, e riscuoti i mille pezzi dal collo dell'elefante!". "No", disse lei, "Io non oso di andare a prendere tale somma!". Ma, dopo che Padmavatî lo ebbe detto due o tre volte, sua madre disse: "Cosa devo dire, perché io possa riceverlo, figlia mia?"

"Digli, 'Mia figlia, Padmavatî, è la regina!' e così lo riceverai", lei rispose. E la madre disse: "Bene, bene, così sia!" e lei andò a ricevere il cofanetto coi mille pezzi d’oro. Quindi gli uomini le chiesero: "Madre, hai visto Padmavatî, la regina?" 

"Io non l'ho vista", lei rispose, "Ma mia figlia dice che lei l'ha vista". "E allora, madre, dove è questa tua figlia?", chiesero essi, e andarono con lei, dopodiché, riconoscendo Padmavatî caddero ai suoi piedi. 

   E poi, avendo visto che essa era Padmavatî, la regina, essi dissero: "Invero un male angoscioso è stato fatto a questa donna, se lei, che è la consorte di un così grande re, dovette dimorare in tale luogo indifeso come questo!". E nel ritornare, i soldati del re eressero bianche tende rotonde per l'abitazione di Padmavatî poi, messa una guardia alla porta, andarono a dirlo al re. Ed il re spedì un baldacchino dorato per lei, ma lei disse: "Io non andrò così! Fatemi stendere un bel tappeto, tessuto in molti colori, lungo tutto il cammino dalla mia dimora fino al palazzo reale; e fatemi sistemare un baldacchino di stoffa, ricoperto con stelle d’oro, ed io andrò a piedi, adornata con le gemme reali. Quindi, voglia tutta la città essere testimone della mia gloria!". E il re disse: "Si faccia come Padmavatî desidera". 

   E poi Padmavatî disse: "Quando mi avranno adornato con tutti i miei gioielli, io andrò!" E andò fuori. E come lei passava, avanzando a piedi, passo dopo passo, fiori di loto nascevano, penetrando nello sfarzoso e i colorato tappeto, ovunque lei lo toccasse. Quindi, quando lei ebbe mostrato la sua gloria davanti a tutte le persone, salì al palazzo reale; inoltre, lei poi dette tutti quei tappeti sfarzosi alla vecchia donna, come ricompensa per averla tenuta con sé. 

   E, oltre a ciò, il re le mandò le altre cinquecento donne, e disse a Padmavatî, "Io ti dò queste donne come tue schiave, oh regina!". "Va bene, grande re!", lei rispose. "Ma fallo sapere a tutta la città che esse mi sono state date". Quindi il re fece questo proclama: "Queste cinquecento donne che offesero Padmavatî, sono state date a lei come schiave!". Ma lei trovò che il fatto che queste donne le fossero state date come sue schiave non era stato notato da tutti nella città, così lei chiese al re: "Mi lasceresti liberare le mie schiave, vostra altezza?". "Come tu desideri, regina!". "Molto bene; allora, spedisci il banditore per fare questo nuovo proclama: "Padmavatî, la regina, ha liberato tutte quelle cinquecento donne che le furono date come sue schiave!". E quando furono liberate, lei diede ad ognuna di esse uno dei suoi cinquecento figli da allevare, mentre lei si tenne Mahâpadma, il bambino nato dal grande fiore di loto. 

   In seguito, quando tutti questi bambini erano diventati abbastanza grandi per giocare, il re fece fabbricare per loro giardini con tutti i tipi di giochi. E così questi ragazzi, quando ebbero sedici anni, stavano tutti i giorni divertendosi nella piscina  reale coperta con loti, e vedendo fiori freschi che si aprivano e fiori che cadevano appassiti dai loro steli, pensarono: "Così, invero, la decadenza raggiunge le cose, come questi loti, quando le cause del loro crescere si fermano; Così allora con un simile futuro deve essere il destino dei nostri corpi!". E mettendo le loro menti su questo pensiero, tutti loro giunsero alla conoscenza, che è il dono dei Pratyeka Buddha, e, venendo fuori (dall'acqua), essi si sedettero, tutti a gambe incrociate, ognuno in mezzo ad un loto. 

   Ora gli attendenti, che erano venuti con loro, vedendo che il giorno era ormai calato, dissero loro: "Principini! Non sapete che ora è?". Ma essi restavano in silenzio. Quindi gli attendenti andarono a dire al re: "Vostra altezza! I giovani principi stanno sedendo, ognuno in un fiore di loto, e quando noi parliamo loro, non danno nessuna risposta". "Fateli stare seduti come gli pare", disse il re. Così, essi furono guardati per tutta la notte, sempre stando seduti nello stesso modo, ognuno nel cuore di un loto, fino a che spuntò il nuovo giorno. 

   Il giorno dopo, gli attendenti si avvicinarono, e dissero: "Principi! Sapete che è ora di andare!?". "Noi non siamo principi!" risposero essi, "Noi siamo Pratyeka Buddha!". "No, signori, è una cosa troppo dura ciò che state dicendo", dissero gli attendenti. "I Pratyeka Buddha non sono come voi. Essi hanno capelli e barbe due pollici lunghi, e portano sui loro corpi solo le otto cose indispensabili per asceti".   "No, è il vostro parlare che è ancor più duro" risposero i giovani, ed essi allora si toccarono la testa con la mano destra. Ed immediatamente, tutti i segni che sono caratteristici dei laici svanirono da loro, ed inoltre, le otto cose indispensabili per gli asceti erano là, proprio sui loro corpi! Poi, mentre anche tutta la moltitudine li stava osservando, essi attraversando l'aria andarono alla caverna ai piedi della montagna Nanda. E Padmavatî, la regina disse poi: "Io che avevo molti figli, ora sono rimasta senza figli!" perciò lei sospirò, ed immediatamente morì. 

   E lei poi rinacque in un villaggio alle porte della città di Râjagaha, fra coloro che fanno fatica per vivere. Ed al tempo debito lei si sposò. Un giorno, lei aveva portato un po' di farina d'avena a suo marito nei campi, e mentre stava con i loro bambini, vide otto Pratyeka Buddha che passavano attraverso l'aria, per andare a cercare elemosine. Ed immediatamente lei corse a dire a suo marito: "Guarda! vedi quei santi Pratyeka Buddha! Invitiamoli a prendere del cibo". 

   Ma suo marito disse: "Quelli sono uccelli, non asceti! Spesso essi volano così qui intorno. Quelli non sono Pratyeka Buddha". Ora, proprio mentre stavano parlando, questi Pratyeka Buddha scesero su un boschetto li vicino. Quindi la donna diede loro del cibo che aveva a disposizione, dicendo, inoltre ad essi: "Venite a prendere il vostro cibo quotidiano da me!". "Molto bene, sorella!", loro risposero. "Invero, la tua ospitalità è molto avanti e, infatti, c’è da provvedere ad otto posti. Ma se tu vedessi ancora molti altri Pratyeka Buddha, saresti meno generosa!" 

   Il giorno seguente, lei approntò gli otto posti e preparandosi a rendere onore agli otto Pratyeka Buddha, si sedette. E gli otto che erano stati invitati parlarono agli altri rimanenti, dicendo: "Nobili Fratelli! da oggi non andremo più da nessuna parte, ma rendiamo tutti il favore a questa nostra madre". Quindi, nel sentire ciò che dissero quei pochi, andarono tutti insieme attraversando l'aria, ed apparvero alla porta di questa donna. E lei (non solo riconoscendo quelli che aveva prima ricevuto, ma anche quando vide tutti gli altri) non fu disturbata, ma portò tutti loro in casa sua e li fece sedere sui posti. E, quando si furono seduti, uno dopo l'altro, a turno uno ogni nove fece apparire altri otto posti a sedere, e si sedette nel posto principale. E come il numero di posti cresceva, così anche l'abitazione diventava sempre più grande. 

   E, quando furono tutti fatti sedere, la donna offrì ospitalità a tutti e cinquecento come se preparasse per otto, e ce ne fu a sufficienza per tutti. Poi lei portò otto manciate di loti blu e li posò ai piedi di quegli stessi Pratyeka Buddha che lei aveva invitato, dicendo: "Signori, ovunque io possa rinascere in futuro, possa io avere una pelle di colore come il cuore di questi loti scuri!". Ed i Pratyeka Buddha ringraziarono la madre e risalirono sul Gandhamâdan. 

   E questa donna, dopo aver passato la sua intera vita in buone azioni, e dopo esser arrivata alla fine di quella vita, ed essendo rinata nel cielo dei dèva, ritornò  all’esistenza nella famiglia del Tesoriere di Sâvatthî, al tempo della nascita di questo Nostro Buddha. E, poiché la sua pelle era di un colore come il cuore del loto scuro, le fu dato il nome Uppalavannâ. 

   Ora, quando lei era diventata maggiorenne, ogni Principe ed ogni Tesoriere in Jambudvîpa andarono dal Tesoriere, suo padre, dicendo: "Dammi la tua figlia in matrimonio!". E non ci fu nessuno che non gliela chiese. Quindi il Tesoriere pensò: "Io non posso soddisfare tutti questi uomini! Ma posso trovare uno stratagemma". E così lui andò da sua figlia e le disse: "Figlia mia, hai la forza per abbandonare il mondo?" Ed a lei, avendo ormai ottenuta la sua ultima rinascita, queste parole andarono giù liscie come olio raffinato spruzzato sulla sua testa. Perciò lei disse a suo padre: "Caro padre, io abbandonerò il mondo". E dopo averle reso onore, lui la portò alla casa delle Bhikkhunî, e la fece ordinare monaca. 

   E, poco tempo dopo che lei entrò nell'Ordine, venne il suo turno di avere la chiave della Sala dell’Assemblea. E dopo aver acceso la lampada e pulito la sala, lei fissò la sua mente in contemplazione della lampada, e, così rimanendo, sempre di più fissa nella contemplazione, lei fu rapita in quella meditazione che è centrata sul fuoco. E, facendo di questa la sua pietra miliare, lei ottenne lo stato di Arahat. E, insieme con il risultato dello stato di Arahat, lei divenne anche versata nel dono miracoloso dei Siddhi. Dopodiché, proprio nel giorno che il Maestro fece il Duplice Miracolo, lei piena di esultanza disse: "Anch’io, Maestro, farò un miracolo!" come il ruggire di un leone. Fu in base a questo che il Maestro, quando era seduto a Jetavana, assegnando a turno i ruoli alle Bhikkhunî, esaltò questa Therî al ruolo principale fra coloro che hanno il dono dei Siddhi. 

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4. Patâcârâ. 

   Nel quarto Sutta, si indica la Therî Patâcârâ, come la più importante fra quelli che sono versati nelle Regole dell'Ordine con le parole "tra coloro che sono versati nelle Regole dell'Ordine (Vinaya), cioè, Patâcârâ". Si dice che questa donna, nella epoca del Buddha Padmattara, fosse rinata in una famiglia nobile a Hamsavatî. E che, una volta, sentendo il Maestro predicare il Dharma e vedendolo elevare una certa Bhikkhunî al rango principale fra quelli versati nel Vinaya, lei, formando una risoluzione, aspirò alla stessa distinzione. E, avendo passato la sua intera vita in opere buone, ed avendo attraversato mondi di dèva e mondi di uomini, fosse poi rientrata in esistenza, come una di sette sorelle che vivevano nella famiglia di Kiki il re, al tempo del Buddha Kasyapa. E per ventimila anni lei visse una vita nella castità, e costruì un'abitazione per l'Ordine dei Bhikkhu, e dopo essere rinata una volta ancora nel cielo dei dèva, durante l'intervallo tra l'arrivo di due Buddha, lei rientrò in esistenza (al tempo della nascita di questo Nostro Buddha) nella famiglia del Tesoriere a Sâvatthî. 

   E, quando lei divenne maggiorenne, aveva un innamorato che era un garzone in servizio nella sua propria casa. Ma dopo avrebbe dovuto sposarsi in una famiglia di rango uguale al suo. Così lei disse al suo innamorato: "Dopodomani vi saranno cento custodi pronti  a non permetterti di vedermi! Se ne hai lo spirito, prendimi con te e partiamo subito!" Così, egli prese un elefante adatto per il suo scopo, e, portandola con sé, andò al suo proprio villaggio, tre o quattro leghe dalla città, e vi prese la sua dimora. 

  [*. da qui in avanti, fino alla nascita del secondo figlio, la storia è quasi la stessa, parola per parola, di quella del Piccolo Viandante, in Jâtaka I, pp. 114,115 (N.4).] 

  Tempo dopo, lei fu incinta, e quando si avvicinò il tempo delle doglie, lei disse: "Marito! Noi qui siamo senza amici! Fammi andare alla mia casa". Ma lui, dicendo: "Noi andremo domani" e "Noi andremo oggi", ma non riuscendo ad andare, lasciò che il tempo passasse. Quindi, vedendo questo, lei pensò, "Questo momento non arriverà mai. Ora lui è fuori; Io andrò alla mia casa da sola!" e lei se ne andò. Lui, essendo ritornato e non vedendola a casa chiese ai vicini e sentì che lei se n’era andata via. Pensando, "E’ a causa mia che lei, la figlia di una famiglia nobile, è venuta a stare in miseria!". Così lui la inseguì e la raggiunse. E durante il viaggio, arrivò il travaglio. Allora lei disse: "Proprio quella cosa che era la ragione del nostro viaggio adesso è accaduta, qui in strada! che bisogno abbiamo adesso noi di andare?" Quindi loro tornarono indietro. 

   Poi, più avanti, di nuovo lei rimase incinta. E tutto il resto dovrebbe essere lo stesso capito, come prima. Ma, quando arrivò il nuovo travaglio, nel bel mezzo del viaggio, grosse nuvole temporalesche sorsero da ogni lato. Quindi lei disse a suo marito: "Ora è sorto, nel tempo dovuto, un potente temporale! Marito mio, cerca di fabbricarmi un luogo di ricovero dalla pioggia". "Lo farò" disse lui. E lui fece una capanna di ramoscelli; e, pensando, "porterò un po' d’erba per il tetto", cominciò a tagliare un l’erba ai piedi di un formicaio. Quindi, un serpente sul formicaio lo morse ad un piede, e lui cadde morto sul colpo. E lei intanto, pensando, "Lui ora ritornerà! Ora ritornerà!" aspettò per tutta la notte. (Poi) lei pensò, "Certamente lui si sarà detto 'Questa donna non ha amici!', e così mi ha lasciato sulla strada e se n’è andato via!" 

   Ma quando sorse il giorno, lei si mise a cercarlo e, seguendo le sue tracce, lo vide dove era morto. Poi, piangendo, pensò: "Mio marito è morto a causa mia!". Così, lei prese il suo bambino più giovane da un lato e, portando per mano il più grandicello, proseguì la strada. Ma poi vide ciò che c’era a metà della strada (un fiume) che doveva attraversare, e pensò: "Ora io non posso attraversarlo subito portando entrambi i bambini. Lascerò il più grande su questa riva, e porterò il più piccolo attraverso il fiume. E quando l’avrò deposto giù sullo scialle, io ritornerò e prenderò l’altro e l’attraverserò nuovamente". Quindi lei scese nel fiume. Ma nel momento in cui lei, mentre ritornava, arrivò a metà del fiume, un falco, pensando "Questo è un pezzo di carne", volò giù per beccare il bambino che era rimasto. Lei agitò le sue mani per spaventare il falco. Il bambino più grande, vedendo il moto delle sue mani, pensò "Lei mi sta facendo un cenno", e scese giù nel fiume. 

   Così egli perse la sua posizione sicura e fu portato via dalla corrente. Ed il falco, ancor prima che lei potesse riprenderlo, portò via l'altro bambino. Così, sommersa dal suo grande dolore, lei proseguì per la sua strada, gemendo e lamentandosi così: "Entrambi i miei figli sono morti ed anche mio marito è morto sulla strada!".   E così, continuando a lamentarsi, lei giunse a Sâvatthî, ed andò al quartiere dove viveva la famiglia nobile. Ma, a causa del suo dolore, lei non potè distinguere la sua propria casa, e interrogò le persone: "In questo luogo viveva la tale e tale famiglia. Dove è la loro casa?". Esse le risposero: "Cosa intendi nel chiedere di quella famiglia? La loro abitazione fu buttata giù da un turbine. Loro furono uccisi, tutti loro, ed ora essi stanno bruciando là, su una pira funebre, tutti, giovani e vecchi! Guarda! Vedi quel fumo arricciarsi verso l'alto?". 

   E quando lei sentì questo, disse: "Cosa mi dite mai?" E, incapace di sopportare perfino l'oppressione dei suoi vestiti, nuda come alla sua nascita, tirando avanti le sue braccia e piangendo, lei si recò alla pira funebre del suo parentado. E, con un tocco finale a quella lamentela che stava dcantando, lei si lamentò, dicendo: 

"Entrambi i miei figli sono morti, e mio marito è morto sulla via, ed ora anche mia madre, mio padre e tutti i parenti bruciano su una pira funebre!". E benchè la gente le desse dei vestiti, lei ancora li stracciava e li gettava via. E così lei andò errando e, dovunque lei fu vista, una gran folla di persone la seguiva. E, per questo suo comportamento, gli uomini dicevano: "Questa donna va in giro senza indumenti", e così essi le diedero il nome Patâcârâ (colei che va in giro svestita). O, forse, quando questo andar in giro senza pudore e quasi nuda divenne notorio, dissero (con sarcasmo): "Questo è un modo saggio di andare in giro!" e così essi le diedero questo nome Patâcârâ (cioè, colei che va in giro come una saggia). 

   Ora un giorno, quando il Maestro stava predicando il Dharma ad una grande folla, lei entrò nel Vihara e rimase in fondo all’assemblea. Il Maestro, infondendola allora con profondo sentimento della sua compassione e bontà, le disse: "Sorella, ritorna alla tua mente corretta! Sorella, ritorna alla tua mente corretta!". E, come lei sentì queste parole del Maestro, fu colta da una profonda vergogna, e, proprio  in quel momento stesso, si acquattò sulla terra. Ed un uomo che le stava vicino gettò un indumento su di lei. E lei lo indossò ed ascoltò la predica. Ed il Maestro enunciò questo verso (che è nel Dhammapada) per farlo notare a lei:-- 

   "Non vi è alcun rifugio nei figli, né nei genitori, e né nei parenti;  

A colui, che la Pallida Morte lo assale, non c'è rifugio nella parentela!  

Quando egli ha realizzato questo, che sia uomo saggio e attento nella condotta,

 E possa presto e rapidamente, rendere facile la strada che conduce al Nirvana".

                                                                                                     [Dhammapada, verso 288.] 

   Ed alla fine della strofa, lei se ne rimase là, finché fu stabilita fermamente la sua conversione. Andando vicino al Maestro, lei gli rese omaggio e l’implorò affinchè la facesse erntrare nell'Ordine. E lui acconsentì, dicendo: "Entra nell'Ordine e vai alla casa delle Bhikkhunî". Dopo che fu ordinata, lei ottenne presto lo stato di Arahat. E, comprendendo l’insegnamento del Buddha, lei divenne profondamente versata nel Diritto canonico. Quindi, in occasione di una festa, quando il Maestro, seduto a Jetavana, stava assegnando a turno i ranghi alle Bhikkhunî, lui mise Patâcârâ nel rango principale fra quelli che sono versati nel Vinaya. 

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5. Dhammadinnâ. 

   Nel quinto Sutta, col termine dhammakathikânam, si vuole intendere la Theri Dhammadinnâ, come una importante fra le Bhikkhunî che predicavano il Dharma. Si dice che questa donna fosse rinata, nella condizione di schiava, a Hamsavatî, al tempo del Buddha Padmuttara, e che prestasse servizio presso il Thera Sujâta, uno dei due principali discepoli di Padmuttara, il Beato, che lei ispirò alla suddetta distinzione. 

   Dopo aver passato la sua intera vita zelante in opere buone, lei era rinata in cielo. Tutto ciò che dev’essere capito è già stato detto, nell’aver seguito (secondo questa sua risoluzione) nella storia della Therî Khemâ. Inoltre, nell’era del Buddha Phussa, questa donna (mentre dimorava nella casa di un servo, in una casa di carità dei tre fratellastri del Maestro), ogni volta che le fu detto di dare una cosa, lei ne dava due. Così, dando di tutto senza tenere nulla per sé, lei passò novanta-due eoni e rientrò in esistenza come una di sette sorelle, vivendo nel palazzo del re Kiki, al tempo del Buddha Kasyapa. 

   E per ventimila anni lei visse una vita nella castità, e fece costruire un'abitazione per l'Ordine dei Bhikkhu. E dopo aver vagato di mondo in mondo di dèi ed uomini, durante l'intervallo tra l'arrivo di un Buddha ed un altro, lei rinacque nella famiglia di un nobile, al tempo della nascita di questo Nostro Buddha. Dopo, lei entrò nella famiglia di Vishâkha, il Tesoriere. 

   Ora Vishâkha, il Tesoriere (che era un amico del Re Bimbisâra), molto tempo prima che col re andasse a vedere Colui che era dotato dei Dieci Poteri, era già un retto convertito che, poco dopo, raggiunse il frutto del Terzo Stadio del Sentiero.   Quel giorno che egli ritornò in casa sua, Dhammadinnâ [1] stava davanti alle scale con le mani distese, ma lui salì in cima senza neanche darle la mano [2]; e poi, durante il pasto, lui non disse mai: "Dammi questo", o "Portami quello". 

   Dhammadinnâ, prendendo un cucchiaio, lo servì con il cibo, pensando: "Lui non si è neanche appoggiato alla mia mano che gli avevo porto per sostenerlo; e ora, mentre mangia, lui non mi dice una parola! Che male ho fatto?". Quindi, quando lui ebbe finito, lei gli chiese: "Signore, che male ho fatto?" 

   "Tu non hai fatto nulla di sbagliato, Dhammadinnâ, ma, da oggi il nostro vivere insieme così in armonia non deve più andare avanti,- né noi possiamo più stare o sedere insieme, e né io posso mangiare e bere quello che tu mi porti. Se tu lo desideri, puoi continuare a vivere in questa casa; ma se desideri tornare a casa tua, parti pure, prendendo con te qualsiasi tesoro di cui puoi aver bisogno". 

   Ma lei rispose: "Se è così, io non prenderò né porterò via ciò che tu, con tale disgusto, come se non fosse che sputo e vomito, hai messo da parte! Anzi, me ne andrò via ed abbandonerò il mondo". Vishâkha disse: "Così sia, Dhammadinnâ!" E la spedì via, in un palanchino dorato, alla casa delle Bhikkhunî. 

   Ora, dopo che fu entrata nell'Ordine, lei pensò: "Invero, questo Tesoriere, pur se resta ancora un laico, ha posto fine al suo problema; ma il mio dolore rimane, da quando sono entrata nell'Ordine. Devo fare qualch’altra cosa per farlo finire".   E così, andando dalla sua insegnante e dalla superiora, lei disse: "Nobili Signore, la mia anima non trova gioia in questo posto affollato - io me ne andrò a vivere in un villaggio". Le due Therî, sapendo che non potevano offenderla (poiché lei, dal suo ingresso nell'Ordine, proveniva dalla famiglia di un nobile), la presero con loro andando al villaggio, dove lei voleva vivere. E poiché lei, nelle nascite precedenti, aveva sottomesso le tendenze abitudinarie (sankhâra), ottenne in breve i Quattro Doni della Perfetta Comprensione e raggiunse lo Stato di Arahat. 

   Ed ora lei pensò così: "Io sono arrivata in cima a tutto ciò che doveva essere fatto; non ho più bisogno di restare qui. Io andrò a Râjagaha. Grazie a me, i miei parenti, faranno là molte opere buone". E prendendo anche le due Therî con sé, lei ritornò in città. 

   Vishâkha, nel sentire che lei era ritornata, pensò: "Lei è ritornata presto! Non potrebbe essere che si sia scontentata della vita religiosa?". Quindi, di sera, andò da lei, e prostrandosi davanti a lei, si sedette su un lato. E pensando: "Sarebbe sconveniente chiederle se si è scontentata", cominciò a farle domande sui cinque Khandha, o elementi costituenti dell’Essere. Allora, cosi facilmente come uno che taglia lo stelo di un loto con una spada, Dhammadinnâ rispose ad ogni domanda che lui le fece. [3] 

   Ed il discepolo vide come fosse acuta [4] la saggezza della Therî Dhammadinnâ, e quando egli l’ebbe interrogata in tutti i modi, a turno, su quei tre sentieri che egli stesso aveva raggiunto la interrogò, come un discepolo, anche sui sentieri che conducono allo Stato di Arahat. E Dhammadinnâ, a sua svolta, ben sapendo che il discepolo aveva raggiunto il frutto del Terzo Stadio del Sentiero, e pensando: "Ora egli sta superando il suo stesso limite e sta cercando di andare ancor più lontano", lo trattenne dicendo: "Fratello Vishâkha, tu non sarai capace di capire le risposte a domande su cose oltre i tuoi limiti – come il Nirvâna, i doveri della vita religiosa, la beatitudine finale del Nirvâna e le cose la cui fine è il Nirvâna. Fratello Vishâkha, se desideri (impararle) vai dal Beato, e chiedi a lui riguardo a queste questioni; e tieni presente anche come lui le espone". 

   E Vishâkha andò dal Beato raccontandogli la storia e gli chiese sulle domande e risposte. Il Maestro, dopo aver sentito quello che egli aveva da dire rispose: "In questa mia figlia, non vi è desiderio di vite passate, presenti o future". E dopo aver parlato così, lui espose questo verso che è nel Dhammapada: 

   "Colui che sta attento a non chiamare qualsiasi cosa come sua, o in questa nascita, o in una nascita passata, o in una nascita futura; egli, invero io lo chiamo un Bramano, perchè è liberato dalla brama e dal desiderio". [5] 

   Poi, avendo lodato la bhikkhunî Dhammadinnâ, così parlò al discepolo Vishâkha: "Oh Vishâkha, la bhikkhunî Dhammadinnâ è saggia, e grande nella sua saggezza, Oh Vishâkha, se tu inoltre mi chiedessi di quella questione, io dovrei esportela allo stesso modo come te l’ha esposta la bhikkhunî Dhammadinnâ. E questo è il suo significato - tienilo presente". 

   Così nacque questa storia. Ed in seguito il Maestro, seduto a Jetavana, mentre assegnava a turno i ranghi alle bhikkhunî, allorché ebbe spiegato questo stesso ‘Culla Vedalla’, in quell'occasione diede alla Therî, il rango principale fra quelli che sanno predicare. 

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Note di questo Capitolo:

[1. Il Tîkâ aggiunge, che lei stessa aveva levato il catenaccio, e vedendo che si avvicinava, pensò: "Che problema ha?" E, andandogli incontro, si mise davanti ai gradini della scala.] 

[2. Lei pensò: "Io saprò il perché, domani a colazione" ( Tîkâ).] 

[3. Il Tîkâ spiega: "sûra bhâvam" con "tikkha bhâvam".] 

[4. La conversazione è integralmente data nel Culla Vedalla Sutta (pp. 299-305 nell'edizione della Società Testi Pali del Majjhima Nikaya).] 

[5. Dhammapada, verso 421.] 

 

  

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