STORIE di RINASCITA

del buddhiSMO TIBETANO-

Estratti e Traduzioni dal Kandjur. [VOL. XVIII]

Tratto da:  http://www.sacred-texts.com/journals/jaos/tbbs.htm

di William WOODVILLE ROCKHILL, Redatte da CHARLES R. LANMAN, e GEORGE F. MOORE [Newport, Connecticut - Società Orientale Americana] [1897]  Analizzate e riprese nell’aprile 2002 da Christopher M. Weimer,

 

    Ora che una traduzione completa del testo Pâli delle storie buddhiste di rinascita è in corso di preparazione sotto la direzione del Professor E. B. Cowell, appare opportuno richiamare l’attenzione sul materiale contenuto nei libri canonici tibetani (Kandjur), ed alla sua importanza nel collegamento con tale lavoro; e benché io qui non possa far di più che toccare appena il soggetto, il lavoro che comporta anche un superficiale esame dei numerosi e ponderosi volumi del Kandjur è così grande, e gli indici esistenti di questo testo così imperfetti, che sono portato a credere che perfino una breve scorsa del soggetto può dimostrarsi accettabile. 

   Il maggior numero dei Jâtaka (Storie di Rinascita) in cui mi sono imbattuto si trova nei volumi III ed IV della sezione Dulwa (Vinaya) del Kandjur Tibetano. Alcuni di essi sono stati tradotti in Tedesco da Anton Schiefner di San Petersburg, e pubblicati in Inglese da W. R. S. Ralston in un volume di Trübner della Serie Orientale, intitolato "Storie Tibetane derivate da fonti Indiane" (Londra, 1 vol., 8º, 1882); alcune sono state tradotte in Inglese dal presente scrittore, nella sua "Vita del Buddha" (Londra, 1 vol., 8º, 1884); ventidue di queste si trovano nel Canone Tibetano intitolato Djang-lun, "Il Saggio e lo Sciocco", pubblicato in Tedesco da J. Schmidt (San Peters-burg, 1 vol. 4º, 1843); ma con l'eccezione di questi e di alcuni altri sparsi in varie opere, la gran parte delle storie Tibetane di Rinascita rimane ancora non tradotta e, quindi, ignota. 

   Anche se io, in vari periodi, ho letto l’intero Dulwa, attualmente posso trovare le mie note solo sul terzo e quarto volume. Per convenienza degli studenti, nell'indice seguente, io non solo ho annotato le storie non tradotte, ma anche quelle tradotte da Schiefner e da me, i cui riferimenti di pagina sono in copia del Kandjur nel l’Ufficio Biblioteca Britannica dell'India. Io ho aggiunto anche brevi riferimenti ai vari Jâtaka che si trovano nel Djang-lun, nell'edizione di Schmidt di quell’opera. Fra le storie non tradotte nel Dulwa ne ho scelte cinque dal quarto volume, ed una dal sedicesimo volume del Mdo (Sûtra); e benché esse non siano le migliori che si potevano forse trovare, io le offro come equi esempi di questo stile di storie, nella speranza che possano essere trovate interessanti. 

{Segue un catalogo di storie di rinascita nel Dulwa, di circa 4 pagine, che non ho riprodotto.} 

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TRADUZIONE N. 1 -.--IL TESORO NASCOSTO. 

[DULWA, Volume IV., Pagine 274-276.] 

  ‘Mendicanti, in un villaggio di montagna viveva anticamente un uomo molto ricco che si sposò una donna della sua stessa casta. Dopo un po' lei dette alla luce una figlia, e nel ventunesimo giorno dopo la sua nascita essi fecero una grande festa, e chiamarono la loro figlia Gdu-bu-chan "Colei-che-ha-un-braccialetto". 

   E in seguito nacque un figlio, ed il padre pensò: "Poiché ora ci è nato un creatore di debiti ed un diminutore di mezzi, io prenderò le merci ed andrò a venderle all’estero". E lui pensò anche: "Questa mia moglie è graziosa e giovane; se le dò troppi soldi mentre starò via, lei li spenderà con qualche altro uomo; quindi io le darò solo pochi soldi prima di andarmene". Quindi lui le diede pochi soldi, versò il resto in un vaso dorato, al cui collo allacciò una collana di perle e lo nascose vicino l’albero orecchio-di-cavallo [1] nel cimitero, dopodiché partì per terre straniere. Là egli ricavò una grande ricchezza, e si risposò con una donna che gli diede molti figli. 

   Dopo un po', la sua prima moglie, coi suoi due bambini, dovette trovarsi un lavoro ed a dipendere dalla gentilezza dei loro parenti. Quindi il figlio disse: "Dove è mio padre?" 

   "Figlio mio", rispose la madre, "lui è in tale paese, in tale città, ho sentito dire, e vive in una grande ricchezza; vai da lui, e se lui te ne dà un pò, sarai in grado di guadagnarti la vita." 

   Quindi il figlio se ne andò in cerca di suo padre, arrivò nella città in cui lui viveva, e proprio mentre stava vagando in strada, suo padre lo riconobbe, lo chiamò e gli disse: "Da dove vieni e dove stai andando? " Ed il giovanotto gli raccontò la sua storia. 

   Allora il padre pensò: "In verità, questo è mio figlio", e l'abbracciò e gli disse di non far sapere a nessuno che lui era suo padre, e gli dimostrò un grande affetto. I suoi altri figli dissero: "Chi è questo ragazzo, padre?" "È il figlio di uno dei miei amici", lui rispose. Allora essi pensarono: "Se lui gli è così affezionato, significa solo che è suo figlio". Quindi cominciarono a ordire contro di lui, pensando che fosse rimasto senza madre. 

   Poi il padre pensò: "Tra quelli che odiano, ve ne sono di maggiori e minori, ma questi (gli altri miei figli) cercheranno un'occasione per uccidere questo ragazzo, così io lo manderò via. Ma se io lo mando via con qualcosa, essi l'uccideranno per strada per prendere i suoi soldi; quindi io gli darò una cosa di cui nessuno (neanche lui) è a conoscenza". Quindi gli disse: "Se con perizia ed intelligenza tu scavi la terra ad est vicino l'orecchio del cavallo nel sobborgo del villaggio, alla distanza di un yojana, troverai una parte della mia ricchezza; dai a tua sorella la collana di perle che sta intorno al collo del vaso ed il resto è tuo, vai per la tua strada". 

   Sulla strada del ritorno, i suoi fratellastri lo fermarono e gli dissero: "Cosa hai dunque avuto da nostro padre?" "Nulla" lui rispose, "se non questo segreto" (e lui glielo disse). "Nostro padre lo ha ingannato", essi si dissero, "Lasciamolo andare", quindi loro gli permisero di andare per la sua strada. Dopo un po' lui arrivò alla sua casa, stanco, stravolto dalla fatica. 

   Sua madre gli disse: "Hai ottenuto qualcosa da tuo padre?" 

   "Solamente questo segreto, ma non credo che non ci sia nulla." 

   "Figlio" lei rispose, "lui ti ha ingannato, puoi cercare per tutta la strada, ma non troverai nulla"

   "Madre", rispose il figlio, "quell'uomo nobile non mi ha ingannato", e poi lui spiegò il segreto. "Villaggio" significa quello dove lui nacque; "sobborgo" significa dove sono bruciati i cadaveri; "vicino l'orecchio del cavallo" significa l’albero dell’orecchio-di-cavallo; "vicino" significa ciò che implica la parola; "nella terra ad est" significa ad est; "la distanza di un yojana" significa quanto può misurare un giogo… 

   Avendo spiegato così il senso del verso, appena fu scuro, lui andò al cimitero, e guardando intorno, vide un albero fatto ad orecchio di cavallo, ed avendo misurato la lunghezza[2] di un giogo sul suo lato orientale, scavò un pò e trovò un vaso dorato con una collana di perle intorno al suo collo. Lui gioiosamente lo prese, lo portò a casa, e dette la collana di perle a sua sorella, tenendo per sé il resto dei gioielli.

Cosa ne pensate, voi mendicanti? A quel tempo, io ero il padrone di casa, e colui che allora era il figlio, ora è questo dottore che esattamente interpreta i miei (enigmatici) pensieri’. 

[1] Shing rta-rna, in Tibetano.]

[2] Il testo riporta ‘Dpag-ts'ad-kyis bchal’, mentre nel paragrafo precedente in cui vi è la stessa frase l'ultima parola è ‘bchad’. Io reputo che sia corretto bchal (da bjal "per misurare"), poiché bchad (che significa "tagliare") non mi sembra me avere alcun senso in questo collegamento.] 

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TRADUZIONE n. 2.--L'EREMITA E L'ELEFANTE. 

[DULWA, Volume IV., Pagine 277-278.] 

   ‘Mendicanti, nell’antichità vi era un certo selvaggio paese in cui non c’erano villaggi, ma solo boschetti, fiori, e diversi tipi di alberi da frutta piacevoli da vedere, ed anche deliziosi ruscelli. Qui viveva un eremita del clan Kauçika; il suo cibo e bevande erano frutti caduti, radici, e pura acqua, pelli e fascine gli fornivano il vestiario, e cervi ed uccelli venivano al suo eremitaggio. 

   Ora un giorno accadde che un elefantessa partorisse lì vicino, ma il piccolo era appena nato quando la madre sentì un leone ruggire; quindi, piena di terrore, lei abbandonò il piccolo, dopo averlo ricoperto di frasche, e fuggì. 

   Dopo un po' l'eremita uscì dalla sua capanna, e guardando all’intorno scorse il piccolo elefante senza una madre, ed il suo cuore fu toccato dalla compassione, cercò dappertutto la madre, ma non trovandola, lui prese il piccolo in casa e lo allattò e lo alimentò come lui poté.  

   Quando (l'elefante) divenne grande, non era più adatto a stare nella capanna dell'eremita, in quanto lui rompeva gli arbusti, strappava via i rami i frutta-alberi, e faceva molte altre dannose azioni. L'eremita lo sgridava ma lui non lo teneva in conto. Quando le sue cattive passioni si erano mostrate, lui lo aveva avvertito, ma l’elefante non lo badava. Dopo un po' l'eremita lo sgridò in termini più forti, ed allora (l'elefante) lo assalì, l'uccise, e fuggì distruggendo tutta la capanna,. 

   Un deva successivamente disse questi versi: 

"Il vizioso, colui che è sempre cattivo, non è un buon compagno;

"Così fu che nell’eremitaggio del Kâuçika il benvoluto elefante divenne cattivo. 

"Gentilezza, cibo e bevande, non ti servono con chi è malvagio,

"Perché, sicuramente, nell’eremitaggio Kâuçika successe

"Che l’elefante fece morire il suo buon amico santo." 

   Il Beato poi disse: "Mendicanti, che cosa ne pensate? Colui che allora era l'eremita, ora sono io stesso, e colui che allora era l'elefante, ora è Devadatta (il malvagio cugino del Buddha) che sia ora come allora non riconosce la sua stessa ingratitudine." 

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TRADUZIONE N.3.-- L’INGRATO GIARDINIERE. 

[DULWA, Volume IV., Pagine 283-285.] 

   Nei tempi antichi, o mendicanti, su una montagna viveva un fabbricante di ghirlande. Il suo bel giardino floreale era sull’altro lato di un ruscello, ed ogni giorno lui attraversa il ruscello per cercare i fiori. Un giorno, mentre attraversava il ruscello, lui vide un bellissimo frutto di mango che galleggiava sull'acqua. Lui lo prese e lo diede al custode della porta (del Re); Il custode lo diede all'assistente, e lui lo diede al Re, ed il Re lo diede alla sua regina. 

   Quando la regina lo assaggiò, ne fu così compiaciuta dal suo sapore che lei disse al Re: "Marito mio, mi piacerebbe avere ancora uno di questi mango". Quindi il Re disse all'assistente: "Da chi hai avuto quel mango?" "Dal custode", lui rispose. "Bene, dì al custode che la regina ne vuole ancora".- Quindi l’assistente lo disse al custode, che disse: "Io lo ebbi dal giardiniere". 

   Allora il Re disse: "Signori, chiamatemi questo giardiniere". Quindi, furono chiamati gli uomini del Re, e lui disse loro: "Dite al giardiniere che il Re ordina che lui porti un altro mango da dove lui trovò il primo." 

   Ora, non è giusto disubbidire gli ordini di un sovrano di uomini, così (il giardiniere) pieno di timore riverenziale, prese le provviste ed andò in cerca di altri mango e arrivò là dove aveva trovato il primo. Sul lato della montagna, lui trovò un albero di mango in cui nessun uomo mai era stato, ma solo le scimmie. Il giardiniere esaminò l'albero da lontano (e scoprì) che non poteva essere raggiunto a causa di un grande baratro; ma lui era così intenzionato di prendere quei frutti che si appostò là per molti giorni finché le sue provviste non furono tutte esaurite. 

   Allora egli pensò: "Se io rimango qui senza provviste, rischio di morire. Se solamente vi fosse stata un po’ di acqua (nel baratro?) facendo degli scalini alla fine potrei arrivare fin sù all'albero", e così lui si afferrò alle rocce tentando di scalarle, ma non potè arrivare al mango ed anzi precipitò giù. 

   Ora, il futuro Buddha (Gotama) era nato su quella montagna come scimmia, ed era un capo delle scimmie. E così successe (letteralm., tramite il potere del fato, accadde) che lui ed il suo clan erano lì sulla montagna, e arrivando sul luogo vide in quale atroce angoscia il giardiniere si trovava, e inoltre sapendo sia quello che lui aveva fatto e le circostanze del caso, tentò di aiutarlo, e siccome nessuna delle scimmie riusciva a tirarlo fuori, decisero di fare un piedistallo di pietre e con questo sistema di poterlo tirare su. Così, poco a poco, accumulando le pietre, loro finalmente poterono tirar su il povero fabbricante di ghirlande, completamente esausto, e infine lo trascinarono fuori. 

   In quei giorni, le bestie erano in grado di parlare la lingua degli umani, così le scimmie gli chiesero: "Come ti è successa questa disavventura?"- E quando lui gliela ebbe raccontata, il Buddha futuro pensò: "Siccome sarebbe pericoloso per lui andare via senza questi mango, io gliene prenderò alcuni" e questa nobile creatura, sempre desideroso e ben disposto ad aiutare gli altri, nonostante la sua fatica, scalò l'albero, strappò i frutti, e l’uomo ne mangiò di essi tanti quanti ne volle, e ne portò via tanti quanti ne poteva portare. Ora, poiché i futuri Buddha (cioè, i Bodhisattva) sacrificano loro stessi per tutte le creature, qui questo capo-scimmia sacrificò se stesso. Lui disse all'uomo: "Maestro, io sono stanco, devo riposarmi per un po’ di tempo". "Fai come vuoi", lui rispose. Quindi la scimmia si sdraiò e si mise a dormire. 

   Allora l’uomo pensò: "Io sono senza provviste, e se al ritorno mangio il mango, cosa potrei dare al Re?! Io ucciderò questa scimmia, prenderò la sua carne come cibo, e mi metterò in cammino". E così il crudele uomo, lasciando da parte ogni pensiero per la vita seguente, lo uccise con una pietra. 

   Una divinità cantò questi versi: 

"Non c’è aiuto e neanche miracoli, come pure benefici e parole amichevoli,

Che possano essere resi da alcuni uomini, che invece li hanno dimenticati"

   Cosa pensate, mendicanti? Colui che a quel tempo era il capo-scimmia, ora sono io, e colui che era allora il giardiniere ora è Devadatta. 

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TRADUZIONE N.4.-- IL BOSCAIOLO E L'ORSO. 

[DULWA, Volume IV., Pagine 286-288.] 

   Nei tempi antichi, nella città di Benares viveva un uomo povero che si sosteneva vendendo legno. Un giorno, egli si alzò di mattina presto e, prendendo la sua ascia e il suo carretto, se ne partì per la foresta a tagliare la legna. All’improvviso, cominciò a cadere la pioggia, accompagnata da un violento vento. L’uomo cercò dappertutto un luogo di riparo ed andò di albero in albero, ma ovunque andasse la pioggia lo infradiciava a pelle, così lui lasciò gli alberi e prese rifugio in una caverna. 

   Ora in questa caverna viveva un orso bruno, e quando l’uomo lo vide, si spaventò e avrebbe voluto fuggire, ma l'orso gli disse: "Ma perché hai paura?" Però l'uomo era ancora spaventato ed intimidito. Dopo un po' l'orso con un braccio lo strinse al suo petto e gli diede una quantità di radici e frutta (di quella con cui gli uomini si cibavano). 

   Il temporale durò per sette giorni senza che il dio-della-pioggia la fermasse; ma poi quando i sette giorni erano passati ed era venuto l'ottavo giorno, il temporale cessò. Allora l'orso, avendo guardato tutt’intorno all'orizzonte, prese una quantità di radici e frutta, (li diede all'uomo), dopodiché gli disse: "Figlio, la nuvola di pioggia se n’è andata, il temporale è finito, vai pure in pace". L’uomo si gettò ai piedi dell'orso e disse: "Padre, come posso dimostrarti la mia gratitudine?" "Figlio", lui rispose, "non dire a nessuno dove io mi trovo, e mi avrai ripagato". "Farò come hai chiesto", disse l’uomo e avendo fatto un giro intorno all’orso (come segno di rispetto), si inchinò a lui ed andò via. 

   Quando arrivò a Benares, egli incontrò un cacciatore che stava andando a cacciare un cervo, che gli disse: "Camerata, dove sei stato questi ultimi giorni? Quando insorse quell’improvviso temporale, tua moglie e e la tua famiglia pensarono che tu fossi stato ucciso da qualche bestia selvatica; essi erano terrorizzati e sono stati in atroce disperazione. E dimmi, quanti uccelli e cervi hai ucciso per poter mangiare durante i sette giorni del temporale?" E l’uomo gli raccontò quello che era accaduto. Allora l'altro disse: "Mi dici dov’è questo luogo tranquillo in cui vi è quell’orso?" E l’uomo rispose, "Però, promettimi che in futuro tu non andrai in quella parte della foresta in cui esso vive". E l’altro glielo promise. Ma tempo dopo, il cacciatore lo ingannò con la promessa di dargli due-terzi della carne dell'orso (se fosse andato insieme a lui in quel luogo tranquillo), e portandosi dietro il coltello da caccia[1], loro si incamminarono per il tranquillo luogo boschivo del nobile orso, e infine, l’ingrato uomo disse a quello più crudele: "Ecco la tana dell'orso". Ed il cacciatore, per ucciderlo, dette fuoco alla caverna. Soffocato dal fumo, addolorato nel cuore, con gli occhi pieni di lacrime, il nobile orso cantò questi versi: 

"Io vissi in una selvaggia caverna, nutrendomi con radici, frutta, ed acqua, 

"Con sentimenti gentili verso tutti gli esseri; a nessuno io ho fatto del male; 

"Ma quando è venuta l'ora della morte, allora più niente può essere utile. 

"Desideri degli esseri e atti indesiderabili, per quanto non piacevoli ad uno,

"Sono doverose necessità che si susseguono gli uni dopo gli altri"[2] 

 e con queste parole lui morì. 

   Quando gli uomini lo ebbero macellato e finirono di scuoiare la carcassa, il cacciatore disse a colui che era stato l'autore di questo crimine: "Prendi la tua parte di due-terzi della carne", ma lui distese in fuori le sue mani e si abbattè di colpo per terra, e quando l’altro cacciatore vide questo, esclamò "Ahimè! Ahimè!" e gettando via la sua razione di carne se ne andò via. 

   Sentendo che era avvenuto un grande miracolo, una gran folla si diresse là dove era accaduto, ed anche il Re Brahmadatta vi andò. Ora, in qualche luogo sul lato della montagna, c’era un monastero (sanghârâma), e Re Brahmadatta, con occhi meravigliati, prese la pelle dell'orso con l'intenzione di mostrarla ai monaci che lo occupavano, quindi si recò al monastero, e distendendo la pelle per terra, lui vi si mise seduto davanti ai loro piedi, e raccontò loro l’intera storia. Quando poi ebbe finito, un monaco anziano (Sthavira) che era anche un santo uomo (Arahat), recitò questi versi: 

"Mahârâja, questo non è un orso comune. 

"Ha lo splendore di un Futuro Buddha (Bodhisattva). 

"Mahârâja, tu e tutti i tre mondi 

"Dovrete giustamente rendergli omaggio." 

   Allora il Re pensò: "Esso dovrà essere onorato", e i Monaci dissero: "Sire, gli porga omaggio, perché egli è un Buddha futuro di questo periodo mondano". Poi Re Brahmadatta, le sue regine, figli, ministri, contadini, e tutto il popolo del paese, presero legna di soave profumo ed andarono al luogo dove giaceva il corpo dell'orso, ed avendo raccolto in un mucchio tutta la carne e le ossa, il Re disse: "Ora mettetelo sulla legna di soave profumo, e quando lo avrete fatto, dategli fuoco". Quindi loro ammucchiarono quella legna dal soave profumo, ed avendo mostrato grandi segni di onore ai resti, dettero fuoco alla pila e dopodiché essi costruirono un monumento (ch'oürten) sul posto, e su di esso  misero parasoli, bandiere, e banderuole, e qui vi si fecero grandi offerte in determinati periodi. Tutti quelli che presero parte in questo grande lavoro andarono poi nel paradiso (svarga). 

   Cosa dite, ora, mendicanti? Colui che a quel tempo era l'orso bruno, ora sono io stesso; e colui che allora era l'uomo ingrato ora è Devadatta. 

[1. Lam-mts'on, o "coltello-da-viaggio", probabilmente un grande coltello come il ‘Gorkha kukree’ usato per aprire un sentiero attraverso la giungla. 

[2. il senso di queste ultime due righe non è molto chiaro, anche se senza dubbio è simile al senso generale del testo.] 

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TRADUZIONE N.5.- L'ELEFANTE E LO SCIACALLO. 

[DULWA, Volume IV., Pagina 385.] 

   Nei tempi antichi, in un sito di montagna c’era una grande stagno pieno di fiori di loto, in cui viveva un elefante, e vicino, uno sciacallo. Una volta l'elefante andò allo stagno a bere, quando lo sciacallo arrivò e gli disse: "Se non vuoi avere una discussione con me, levati dalla mia strada". 

   L'elefante pensò: "Se io distruggessi questo sacco di letame coi miei piedi, o il mio tronco, o le mie zanne, non sarebbe bene che io mi comporti così, perché lui è troppo vile; in verità, la sua stessa lordura lo ucciderà. Quindi gli recitò questo verso: 

"Io non ti ucciderò coi miei piedi, né con le mie zanne, e neppure col mio tronco; 

"Chi è sporco sarà ucciso dalla sua lordura, e tu allora morirai per corruzione." 

   Poi l'elefante pensò ancora: "Io rinuncerò a questa strada e prenderò una scorciatoia, perché io non dubito che lui mi seguirebbe"; così rapidamente uscì dalla strada ed andò via. Ma lo sciacallo pensò: "Una mia semplice parola lo ha spaventato, e così è fuggito", e poi gli andò dietro. L'elefante, allora, percependo che lo sciacallo era vicino, con tutta la sua grande forza, gli gettò addosso dello sterco che lo colpì; e così lui morì. 

   Cosa pensate, mendicanti? Quello che allora era l'elefante, ora sono io stesso, e colui che era lo sciacallo, ora è Devadatta. 

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TRADUZIONE N.6.- LO SPLENDORE DELL’ORO (SUVAR.NAPRABHÂSA), 

IL RE DEI PAVONI. [Dal ÇRÎGUPTA SÛTRA, MDO, Volume XVI., Fogli 427-451.] 

   Nell’antichità, il Re Brahmadatta regnava in Benares; e la sua ricchezza, i tesori, e i possedimenti erano enormi, ed i suoi magazzini erano pieni. Ora Re Brahmadatta aveva una moglie il cui nome era "Incomparabile", e lei era bella e grandiosa, ed aveva un viso molto grazioso. Questa principessa era molto cara al Re, e lui le soddisfaceva ogni capriccio e voglia. 

    In quello stesso periodo, sul pendio meridionale del Monte Kâilâsh, la grande montagna, viveva il re dei pavoni, di nome Suvar.naprabhâsa ("Splendore dell’Oro") che aveva un seguito di 500 seguaci. I suoi fianchi erano lucenti, come pure il suo corpo, e il suo becco era come un gioiello. Ovunque egli fosse andato, veniva riconosciuto come il più grande di tutti i pavoni. 

   In una certa occasione, questo Re dei pavoni fu sentito cantare nel mezzo della notte all'interno della città di Benares, ed in città ognuno parlava di lui. Alla moglie di Re Brahmadatta accadde di essere sul terrazzo del suo palazzo quando fu sentito questo suono, e così lei interrogò il Re. "Sire", lei disse, "Di chi è questa voce così dolce che provoca tale emozione e delizia?" 

   Il Re rispose: "Mia regina, sebbene io non ho visto (il suo possessore), dai suoi accenti deve essere quello di Suvar.naprabhâsa, il re dei pavoni, che vive sul pendio meridionale del Monte Kâilâs. Allora la Regina disse: "Sire, io ti imploro che questo re di pavoni sia portato qui". Re Brahmadatta disse: "A che serve che io lo veda fendere l'aria?" Ma la Regina disse: "O mio Re, se tu non mi lasci vedere questo Suvar.naprabhâsa io ne morrò." 

   Quindi Re Brahmadatta, che era innamoratissimo di lei, fu toccato; e così disse: "Io manderò tutti i miei capocaccia e gli ammaliatori di uccelli". Quindi Re Brahmadatta chiamò tutti i suoi cacciatori e uccellatori e disse loro: "È riportato, signori, che sul pendio meridionale del Monte Kâilâs, vive il re dei pavoni, Suvar.naprabhâsa, i cui fianchi e il corpo sono lucente, e il cui becco è come un gioiello: andate a prenderlo con la rete, intrappolatelo e portatelo qui. Se ci riuscite, bene; se però fallite, io vi manderò tutti a morte." 

   Quindi i cacciatori e uccellatori, temendo per le loro vite, presero le loro reti e tutte le trappole e si avviarono per il pendio meridionale del Monte Kâilâs. Quando arrivarono là, stirarono le reti e misero le loro trappole nel luogo dove viveva il re dei pavoni, così che reti e cappi di fili erano tutt’intorno, ma benché essi aspettarono sette giorni, sfiniti ed affamati, non furono capaci di prendere il re dei pavoni. 

   Alla fine, il re dei pavoni, preso da compassione per loro, venne e disse ai cacciatori: "Voi, uomini di violenza, perché siete qui, sebbene stanchi ed affamati?" Essi gli risposero: "Il motivo è, o re dei pavoni, che Re Brahmadatta ci ha ordinato di venire a prendere con reti e trappole, il re dei pavoni Suvar.naprabhâsa, i cui fianchi e corpo sono lucente ed il cui becco è come un gioiello, il quale vive con cinquecento seguaci sul pendio meridionale del Monte Kâilâs. Se lo riportiamo giù, è bene, ma se non lo facciamo, saremo tutti messi a morte; quindi noi, temendo per le nostre vite, siamo venuti qui a cercare di catturarti". Il re dei pavoni allora disse: "Uomini di violenza, voi non potete prendermi con trappole e reti; ma se il Re Brahmadatta vuole vedermi, tenga ben pulita Benares, spruzzata con acqua profumata, decorata con fiori, distenda tendoni bianchi, innalzi bandiere e metta incensieri che fumino con incenso, trovi carri pronti con sette vari tipi di pietre preziose, e poi se lui fra sette giorni verrà qui circondato dal suo intero esercito, io verrò con lui a Benares". 

  Quando i cacciatori e uccellatori ebbero sentito ciò che aveva detto Suvar.naprabhâsa, re dei pavoni, essi ritornarono a Benares ed andarono da Re Brahmadatta, a cui dissero: "Ascolta, Sire! eravamo partiti con reti e trappole e quindi andammo sul lato meridionale del Monte Kâilâs. Poi noi abbiamo steso le nostre reti e messo le nostre trappole tutt’intorno al luogo dove viveva il re dei pavoni; ma pur avendo aspettato sette giorni, morsi dai tormenti della fame, non siamo stati capaci di prenderlo. Però, poi, il re dei pavoni, pieno di compassione venne e ci parlò, chiedendoci che cosa noi stavamo facendo, mentre tuttavia stavamo soffrendo la fame. Dopo di avergli detto il motivo della nostra venuta, lui ci disse, 'Se Brahmadatta vuole vedermi,' ecc. ecc. (come sopra)". 

  Dopo aver ascoltato i cacciatori e uccellatori, Re Brahmadatta sistemò la città di Benares così come era stato ordinato dal re dei pavoni (il resto come prima), e con eccellenti carri ornati di sette vari tipi di pietre preziose, e circondati da tutto il suo esercito, lui andò sul pendio meridionale del Monte Kâilâs, ed anche Suvar.naprabhâsa, il re dei pavoni, cavalcando un carro ornato dai sette tipi di pietre preziose, emise un canto che fu sentito dall'intero esercito. Allora, Re Brahmadatta, così contento che il suo cuore si colmò di gioia, rese omaggio davanti a Suvar.naprabhâsa, il re dei pavoni; si inarcò giù di fronte a lui, gli donò offerte, lo onorò, e poi essi risalirono insieme sul carro per andare verso la città di Benares. Quando giunsero alle porte di Benares, di nuovo egli emise il suo canto, e fu sentito in tutta la città; ed in tutta la città, uomini, donne, ragazzi, e ragazze, si precipitarono tutti alle porte. 

   Poi Re Brahmadatta onorò ancora il re dei pavoni, e gli rese omaggio, gli donò offerte, lo onorò, ed andando al suo palazzo, cercò la Regina e le disse: "Principessa, il re dei pavoni, Suvar.naprabhâsa, sta arrivando alla tua abitazione." Ora, il Re Brahmadatta faceva egli stesso offerte (quotidiane) di frutti e fiori a Suvar.naprabhâsa, re dei pavoni; però, tuttavia, un giorno accadde che il Re, essendo occupato, pensò; "Chi può fare le offerte a Suvar.naprabhâsa, il re dei pavoni?" e così ritenne che, essendo intelligente e assai istruita, potesse farlo la Regina "Incomparable". Quindi Re Brahmadatta chiamò sua moglie e le disse: "Principessa, per favore fai tu le offerte a Suvar.naprabhâsa, il re dei pavoni, nello stesso modo come ho fatto io"; e la consorte di Re Brahmadatta offrì fiori e frutta al re dei pavoni. 

   Ora, successe che in una certa occasione, la Regina commise adulterio ed era incinta; perciò, temendo che Suvar.naprabhâsa, re dei pavoni, se ne accorgesse pensò: "Se questo re dei pavoni non parla, Re Brahmadatta non sentirà di questo, e così non vorrà uccidermi". Quindi questa donna diede cibo e bevande avvelenate al re dei pavoni; ma più lei gliene dava, più sano egli appariva, più bello, più piacevole e più risplendente lui diventò, e la Regina era colma di stupore. Ma il re dei pavoni, Suvar.naprabhâsa, le gridò: "Tu, birbantella, tu vigliacca, io ti conosco bene! Tu hai pensato così perché sei rimasta incinta da un altro uomo e questo uccello lo sa, quindi se lui non parla, il Re non lo saprà e non ti metterà a morte. Quindi tu mi hai dato cibo e bevande avvelenate, ma tu non potevi sapere che esse non mi uccidono!" 

   Nel sentire queste parole, la Regina cadde di colpo per terra facendosi male al volto, ed avendo perso molto sangue (sangue arterioso), fu colpita da una grave malattia che provocò la sua morte, e dopo la sua morte lei rinacque in un inferno. 

   In quel periodo, colui che era Brahmadatta, il re di Benares, ora è Shâriputra, ed io ero il re dei pavoni, "Splendore dell’Oro". 

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                                                                                           (Traduzione Italiana di Aliberth)

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VALÂHASSA JÂTAKA 

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Storia n. XIV.- Una Storia (Jâtaka) Tratta  dal Testo Tibetano.

di H. WENZEL, PH.D. (JOURNAL OF THE ROYAL ASIATIC SOCIETY. [New Series, Volume XX] [London, Trübner and Company] [1888] {Scanned and edited by Christopher M. Weimer, April 2002}

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         Nella Storia del Tibet, chiamata Rgyal-rabs-gsal-vai-me-lo’n ('Lo specchio che illustra il lignaggio dei re) noi troviamo, come sesto capitolo, la storia qui tradotta che corrisponde al Valâhassa Jâtaka (Fausböll, ii. 127., anche nella Grammatica Pali di E. Müller, p. 128 seg.). Come si vedrà, la storia qui appare in una veste più ricca, e quasi-drammatica, con l’aggiunta di alcuni tratti caratteristici, come ad es. il meraviglioso cibo che fa dimenticare agli uomini i loro guai passati, ecc., ecc. (cap. Odissea, ix. 94 seg.). Il ‘Rgyal-rabs’ è un’opera del 17° secolo d.C. Esso inizia con l'evoluzione dell'universo (nel cap.1, Rockhill, Vita del Buddha p. 1 seg.), nel cap. 2, dà un breve esame della vita del Buddha, nei cap. 3 e 4, riferisce degli inizi dekl buddhismo, nel cap. 5, dei meriti di Avalokiteçvara nel diffondere la Legge in Tibet, e poi, nel cap.6, arriva alla nostra storia. Prosegue poi con l'origine della razza tibetana da una scimmia ed un râkshasî (cap. 7), l'inizio del lignaggio reale (cap. 8), ed infine, i principali contenuti e scopo del libro, la vita e le azioni del Re Sro’n-btsan sgam-po (cap. 9-17), con i quali il libro si chiude con una sorta di appendice, che contiene l'ulteriore storia del paese al tempo dello scrittore. 

   Per molto tempo, l’opera è stata parzialmente conosciuta solo grazie agli estratti della traduzione mongola, chiamata Bodhimor, messa nelle note dell'edizione di J. Schmidt della Mongolian historian Ssanang Ssetzen. Per la mia copia dell’opera, ho usato due rotoli, uno appartenente in precedenza a Mr. Jäschke, ora nel Museo Britannico; l'altro della Biblioteca dell’Università di San Petersburg (25181 -569), per il quale sono debitore alla gentilezza di Mr. Saleman. Il primo è quasi corretto, l'altro offre una lettura un pò diversa, ed ha una sillabazione un pò particolare, per non dire difettosa. 

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Il Sesto Capitolo, (relativo) a come (Avalokiteçvara), trasformandosi in un Re dei Cavalli, operò per il bene degli esseri viventi. 

     (Secondo il Sutra Za-ma-tog), il nobile Avalokiteçvara ebbe in (così) molti modi beneficiato gli esseri viventi, allo scopo di dare l’esempio di come scegliere la virtù e rifiutare il peccato, quando assunse la forma del re dei cavalli, Bhalaha[1], onde operare (ulteriormente) per il bene degli esseri viventi. A quel tempo, molti mercanti del Sud dell’India che avevano pochi meriti, erano partiti verso l'oceano esterno per cercare gioielli. Con le molte merci che ciascuno portava, essi erano a bordo di un grande vascello, (ma) dopo il passare di sette giorni essi furono messi in pericolo da un malefico vento, quindi: [2] "A mezzogiorno, una nube scura come una densa nebbia oscurò la luce del sole e diffuse l'oscurità (dappertutto); un terribile vento rosso sembrò scuotere le fondamenta della terra, (tanto che) perfino i poderosi alberi della foresta furono sradicati. Le onde del mare schizzavano come leoni, ed i frangenti frustavano cielo e terra. I mercanti si tenevano l'un l'altro, e chiamando (forte) i nomi dei loro parenti, essi piangevano; lamentandosi atterriti, indifesi ed esausti, piangevano sanguinanti lacrime, mentre il vascello andava a distruggersi". Poi i mercanti si legarono ad alcune travi [3] della nave distrutta, e, guidati in una direzione da un vento impetuoso, furono portati verso l'isola di Shringhala (sic!) che era (un luogo di dimora) dei Râkshasîs (una sorta di arpìe - n.d.T.). Allora i mercanti, chiamandosi per nome l'un l'altro, approdarono su una spiaggia (lett. all’asciutto). Quando i Râkshasîs divennero consapevoli di questo, essi si trasformarono in donne giovani e molto belle e, portando molto cibo e bevande, loro arrivarono davanti ai mercanti e li salutarono, 'Siete stanchi? Avete sofferto dolore?'- E così, avendoli ingannati con questi saluti, poi li riempirono di cibo e bevande. I mercanti, essendo ignari che quelli erano Râkshasîs, e vedendo in loro solo donne molto belle, erano molto felici, e conversarono con loro. Poi, i Râkshasîs dissero con un’unica voce: "Voi, o mercanti, non dovete andare nella parte superiore della valle"[4]. E quindi, ciascuna delle donne condusse in casa sua un mercante, dove loro divennero marito e moglie, e si divertirono insieme. 

   Poi si sentì una voce (proveniente dal cielo): "I mercanti che devono subire (le conseguenze di) cattive azioni da kalpa (precedenti), portati da un vento contrario, sono caduti in mano di coloro che hanno il potere di ucciderli, come animali intrappolati in una rete e non hanno assolutamente alcun mezzo di salvezza. Infatuati dal pensiero di sposarsi, essi presero erroneamente i Râkshasîs per dèe, e, riempiti di cibo ingannevole, dimenticarono le sofferenze precedenti come un sogno, e la loro anima è contenta". Da ciò, il grande capitano capì che questa era l'isola dei Râkshasîs, e, con lamenti dolorosi, lui pensò; "Ora essi sono felici, ma quale sarà la loro fine?" e così ora era molto infelice. Poi, riflettendo: "Cosa può significare il loro averci proibito di andare nella valle superiore?" Il capitano, di notte quando la sua propria moglie si era addormentata, partì e giungendo infine alla valle superiore egli sentì lamenti e lagnanze all'interno di una casa di ferro[5] senza porte. Riflettendo su ciò che poteva essere, lui ascoltò e dalla lingua capì che li c’erano altri mercanti dell'India. Quindi lui salì sul tronco di un albero [6]  che stava lì vicino e chiese "Chi è là?"- Gli uomini all’interno risposero: "Siamo mercanti che hanno perso la propria strada". Alla domanda: "Da quanto tempo state chiusi qui?" loro risposero: "Come accaduto a voi, la nostra nave guidata da un vento contrario ci ha fatto arrivare qui, e condotti su da quelle donne, non riconoscendole che loro erano Râkshasîs, noi siamo diventati mariti e mogli. Mentre ci dilettavamo così insieme, siete arrivati voi su quest’isola e noi fummo messi in questa casa di ferro senza porte; ora noi saremo mangiati uno alla volta. Tu, prenditi a cuore il nostro disagio e paura della morte, e vai via subito, perché ora c'è una chance di fuggire; poi (una volta) che anche voi sarete confinati in questa casa di ferro, non ci sarà più speranza di salvezza". Il capitano disse ancora: "In verità non c’è alcun mezzo di fuga", e loro dissero, "Un mezzo di fuga c’è. Anche noi pensammo di dover fuggire, ma, attaccandoci alla concupiscenza, fummo presi (di nuovo); Voi (ora) non attaccatevi a nulla e nessuno, e fuggite. Ed il mezzo per fuggire è questo: se attraversate da qui, c'è un piccolo passaggio sul lato nord in una distesa di sabbia dorata, c’è un pozzo turchese (gÿu) il cui orlo è circondato da un prato (vai.dûrya)[7]. Nella sera del quindicesimo (giorno del mese) [8] verrà qui il meraviglioso Re-cavallo Bha-la-ha, sulla cui groppa possono stare cento uomini, accompagnando (o forse soltanto: come) un raggio-di-luna. E dopo aver bevuto dal pozzo turchese, dopo aver mangiato dal prato vai.dûrya [9], ed essendosi rotolato tre volte nella sabbia dorata, ed essendosi scosso una volta, facendo fuoriuscire la sua voce da cavallo, come una voce umana, egli dirà: 'O mercanti indiani, chiunque è venuto in (questa) isola dei râkshasîs, tutti quelli che riescono a salire sulla mia schiena, io li riporterò al loro paese'. [10] Quando questo meraviglioso cavallo parlerà così, montatelo, e, non aderendo a qualsivoglia piacere e godimento, o a figli (che voi avete qui), chiudete solo gli occhi, e fuggite via di corsa". Il capitano pensò, 'Così (noi) dobbiamo agire', e ritornò indietro. Quando andò al letto di sua moglie, il râkshasî capì tutto, e disse queste parole:[11] "Mercante pervertito, tu distruggerai la tua stessa vita; se dirigi i tuoi pensieri a qualsiasi altra cosa (che a me), tu morirai; dove sei stato, signore di mercanti?" Il mercante mentì, "Io andai mûtram utsrash.tum" (non c’è traduzione).

Dopodiché il capitano assemblò gli altri mercanti, disse precisamente loro ciò che era accaduto, e tutti furono unanimamente d'accordo a fuggire. Poi, nella sera del quindicesimo giorno, essi diedero un narcotico ai râkshasîs, e quando questi si furono addormentati, il capitano condusse avanti i giovani mercanti, e, attraversato il piccolo passaggio, arrivarono tutti al lato nord, sulla sabbia dorata davanti al pozzo turchese, vicino al prato vai.dûrya, (luogo ove) il re-cavallo Ba-la-ha sarebbe giunto. E dopo breve tempo il re-cavallo venne giù dal cielo su un raggio lunare, con la luce dell'arcobaleno. Dopo che questo cavallo eccellente ebbe bevuto dal pozzo turchese, mangiato dal prato di vai.dûrya, si fu rotolato tre volte sulla sabbia dorata, e si fu data una scossa, egli disse con una voce umana: "Mercanti! lasciate ogni qualsiasi cosa sia rinchiusa nell’isola dei râkshasî, montate sulla mia schiena; non aderite all'amore delle donne râkshasîs, dei vostri bambini, di qualunque godimento o altre cose. Chiudete gli occhi,[12] io vi porterò al vostro proprio paese". Allora il capitano disse: "Tu, eccellente cavallo magico, noi mercanti eravamo partiti insieme per le isole dell'oceano a cercare gioielli, ma, poiché i nostri meriti erano finiti, la nostra grande nave fu distrutta sull'oceano, da un vento contrario noi fummo guidati all’isola-râkshasî. Là noi entrammo nelle case dei malvagi râkshasîs che volevano ucciderci. Ora, per noi non c’è altro mezzo di fuga, perciò imploriamo l'aiuto del misericordioso signore dei cavalli". Avendo così parlato, il capitano montò sul collo del cavallo e si attaccò al suo orecchio [13], e gli altri mercanti montarono sulla schiena. Dicendo: "(Ora) non desiderate i letti delle râkshasî, i loro figli, né qualsiasi godimento (che voi avete avuto là), non pensate neanche a quello, ma finché non saremo giunti alla fine del mare, tenete chiusi I vostri occhi", il signore dei cavalli li portò attraverso il cielo. Quando le donne Râkshasîs capirono questo, esse uscirono (dalle loro case) conducendo i loro bambini, e così parlarono: "Come potete (davvero) abbandonare queste dimore, abbandonare l’armoniosa comunità di marito e moglie, abbandonare i figli generati dal vostro corpo, abbandonare il (nostro) cibo saporito e le bevande celestiali, voi o perfidi, spudorati mortali uomini!" Così parlando, alcune (di esse) alzarono i loro bambini al cielo, alcune sventolarono i loro indumenti. Quando i giovani mercanti sentirono questo, fu come se furono colpiti da una freccia nell’intimo dei loro cuori, e pensando, '(Questo) in realtà è assai vero', essi girarono gli occhi verso il basso e, escluso il capitano, tutti, presi dal desiderio, guardarono in giù e precipitarono. (Gli uomini) caduti in giù furono afferrati dai râkshasîs che, gettando via il loro precedente bel corpo, apparvero nella (vera) forma râkshasî, con teste pelose, con i loro seni messi sulle spalle, e mostrando le loro zanne al posto dei denti cominciarono a mangiarli, senza aspettare neanche un momento. Quando il re dei cavalli ebbe finito, lui disse al mercante, "Guarda coi tuoi occhi e smonta." Così, quando lui aprì i suoi occhi e vide che nessuno dei giovani mercanti era sul cavallo, fu profondamente addolorato, e poi, piangendo, così disse: "O nobile re-cavallo, dove sono i miei giovani mercanti?". Il nobile cavallo, colpendo la terra con il suo piede anteriore e versando lacrime, disse: "(Quei) poveri mercanti che, al contrario di te, essendo privi di meriti non ricordarono il loro proprio paese Jambudvîpa, ma si aggrapparono all'isola dei malvagi Râkshasîs, perirono; non ricordando i loro genitori ed i cari amici, ma attaccandosi alle piacevoli forme delle giovani râkshasîs, perirono; non ricordando i loro legittimi [14] figli, ma aggrappandosi agli illusori bambini râkshasî, perirono. Ahimè, voi esseri miseri! quando questi uccisi discepoli del maestro-diamante sono entrati nell'inferno Avîci, cosa potrebbe mai fare un prete (bLama) estremamente misericordioso (per loro)? Se loro, cercando i loro figli, sono pervertiti (nella mente) e trasportati da un vento contrario, cosa possono fare i loro genitori, perfino con il loro più grande affetto?[15] Se i giovani mercanti, non ascoltando la parola dell’utile dottrina, rivolsero giù gli occhi e caddero, che mai potrà fare il volante re-cavallo? O Mercante, non piangere, ma cerca di ascoltarmi: 'La gioia ed il dolore di questa vita sono come l'illusione di un sogno, come una cataratta, come un lampo nel cielo, perciò non desiderare mai la gioia del mondo (sa.msâra)'."

Così il re-cavallo spiegò la dottrina delle quattro nobili verità, e portò il capo-mercante, quando ebbe asciugato le sue lacrime, nel luogo da cui lui (poteva) vedere la sua propria casa. Dopodiché, il re-cavallo volò via nel cielo come un arcobaleno che si dissolve. Quando il capo-mercante arrivò alla sua casa, i suoi genitori e parenti tutti si riunirono, ed abbracciandolo, piansero; poi loro lo salutarono. Dopo, vennero avanti i genitori e parenti dei giovani mercanti, e gridando, "Dov’è mio padre? Dov’è il mio fratello più vecchio? Dov’è mio zio? Dov’è mio nipote?" essi piansero. Poi il capo-mercante riunì i genitori e parenti dei giovani mercanti, ed esplicitamente disse loro come erano prima andati per mare, come il rosso e pernicioso vento aveva rovinato la loro nave; come loro erano stati portati da un vento contrario all'isola dei Râkshasî, come lì si fossero sposati, e generarono bambini; come lui poi aveva scoperto che quelle donne fossero Râkshasîs, ed aveva cercato la fuga; come gli uomini della casa di ferro gli avevano insegnato il modo di fuggire; come i giovani mercanti non avevano ascoltato le ammonizioni del re-cavallo ed erano precipitati, e così via. Poi lui li istruì nella vera fede che, poiché (tutte) le cose all'interno del globo sono mutevoli, si deve credere negli effetti nati dalle azioni (karman). Chiunque, aggrappandosi a questa vita, commette peccato, come i giovani mercanti che, guardando in giù, precipitarono, andrà vagando nel mondo, senza trovare una chance di salvarsi dalla rinascita nei cattivi stati di esistenza (durgati). Ma tutti quelli che, non aderendo a questa vita, hanno ricevuto la vera legge nelle loro menti, come il capo-mercante, dopo avere ottenuto la felicità del cielo e la salvezza, diventeranno buddha. 

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   La nostra versione della storia è quasi identica al cap. 49 della "Leggenda Romantica della Vita del Buddha", tradotta da Beal, p.332 e segg., e alcuni punti significativi sono stati annotati (vedi sotto Leg.Rom.). È menzionata anche da Hiuen Thsang nel Si-yu-ki, trad. Beal, ii. 240 e segg. Il fatto che le Râkshasîs (o Yakkhinîs del Pâli) sono simili alle Sirene di Homer, è stato indicato da Mr. Axon e Mr. Morris (Ind. Ant. x. 291), con il primo che dà anche un parallelo dalla mitologia malese. 

   Io credo che sia piuttosto chiaro, nella nostra versione, che con il nobile cavallo volante si intende la luna (candûpamâ kira buddhâ, Dh. 244). Egli arriva su, o con, un raggio lunare nel 15° giorno del mese. Diventa ancora più evidente nella versione del Rom. Leg., dove, inoltre, egli ha il significativo nome di Keçin 'Lunghi Capelli', che molto prima nel 'Rig-Veda’ è un epiteto di fiamme e paradisiaci corpi (S.Pet.Dict.). Ma, anche, è un epiteto di Vish.nu che cavalca il Garu.da, come è conosciuto dal Pañchatantra, libro I. storia 5. Perché tutti questi animali magici e divini sono della stessa razza. Oltre quelli notati nei commenti di Benfey sulla storia, Pañc. vol. i. 159 segg., l'uccello di legno è trovato in una storia degli Zingari di Transilvania, vedi ZDMG. xlii. 117 fr., e di nuovo nella seconda storia del Siddhi-Kür (ed.Jülg), p. 63 della traduzione, in cui Çuklaketu il figlio degli dèi, discende su di esso per recarsi dalla principessa; çukla 'brillante', è, con o senza paksha, la prima metà del mese, ed anche un epiteto di Vish.nu. Egli, in seguito, appare nella forma di un uccello, un’allodola (ibid. p. 64), che essendo stato ferito maliziosamente, si accorda con la principessa per visitarla il 15 di ogni mese (p. 65). Ovviamente, Vish.nu è il sole, ma la differenza di origine degli animali magici, rispettivamente da sole a luna, è lasciata andare in queste storie successive. 

   Nella storia buddhista, naturalmente, il divin cavallo è una rinascita del Signore Buddha (come nel Jâtaka, e nel Rom.Leg.), oppure di Maitreya (come nel Divyâvadâna); mentre nel Tibet esso è una incarnazione del santo patrono del paese, Avalokiteçvara. 

   Ma io non posso andare oltre questo, in questa assorbente questione dell'uccello o cavallo divino, che sta alla vera radice della mitologia comparata, come già adombrato nel "Herabkunft des Feuers" di A. Kuhn. Io vorrei solo richiamare l’attenzione, in conclusione, all'ultima forma che il cavallo divino ha preso in Occidente, nel "Flying Trunk" di Andersen; perché io penso che noi possiamo discernere qualcosa della stessa tendenza morale sia in questa che nella storia tibetana,-- il volo dal Sa.msâra! 

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Nota.--La parola valâha di cui Bâlâha è solo una Sanskritizzazione erronea, cp. Divyâv. 127, 17. 19, vâtavalâhakâ devaputrâ.h, e varshaval. dev. 'gli angeli delle nubi del vento e della pioggia', e Jât. I. 330, vassavalâhakadevarâjâ. Muñja-keça (Jât. II. 129, 9, cf. anche il meraviglioso cavallo Muñjakesi di re Udena, Dh. 160) 'che ha la criniera come canne dorate', cioè, come dei raggi', è anch’esso un epiteto di Vish.nu. Il 'Testa-Nera' del Jâtaka, indica probabilmente una nuvola--così noi avremmo la luna che emerge dalle nubi nere. 

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Note al Testo:

[1. Nel Divyâvadâna il suo nome è scritto Bâlâha, p. 120, 4 e segg.; là è una metamorfosi di Maitreya (122, 29). 

[2. Versi; cp. Rom. Leg. p. 333 (vedi sopra). 

[3. forse 'la corteccia'. 

[4. Rom. Leg. 334, "sud della città." 

[5. Rom. Leg. p. 335 vi è 'una città di ferro.' 

[6. Rom. Leg. l'albero hoh-hwen  (gioia unita). 

[7. Nella traslitterazione tibetana è scritto erroneamente vai-du-rya

[8. Rom. Leg. p. 336; Divyâv. 120, 3. 

[9. Rom. Leg.: avendo condiviso del cibo puro. 

[10. Cp. Divyâv. 120, 5. Rom. Leg. p. 337. 

[11. in Rom. Leg. 338 lui trova addormentati tutti i Râkshasîs.] 

[12. vedi Divyâv. 120, 21; anche Don Quixote, Parte II. cap. 41. 

[13. Jäschke tradurrebbe, 'si lanciò nell'orecchio', ma io non so come giustificare questo. Si intende come precauzione contro il sentire gli allettamenti dei râkshasîs'? Paragona con Odissea, xii. 178 f.] 

[14. questo probabilmente può voler dire 'naturale' come opposto a 'magico.' 

[15. questa frase sembra confusa.] 

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Tratto da: http://www.sacred-texts.com/bud/etc

 

(TRADUZIONE dall’INGLESE di Aliberth - Roma, 12/2007)

 

FINE

 

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