NELLO SPIRITO DEL CHAN

(In The Spirit of CHAN)

(Una Introduzione al Buddhismo Chan)

di Master SHENG-YEN - TRADUZIONE ITALIANA a cura di Aliberth Meng –

Per gentile concessione di Dharma Drum Publications (for free distribution)

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Nello Spirito del Ch'an - Una Introduzione al buddhismo Ch'an - di Maestro Sheng-Yen

Una finestra sul mondo dello Zen Cinese (Ch'an)

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Questo piccolo libretto è un breve sommario del pensiero buddhista Ch'an distillato da materiali pubblicati ed inediti del Maestro Sheng-Yen. Esso viene qui tradotto nella speranza di fornire ai principianti ed al pubblico in generale una nuova e fresca prospettiva sul ‘sé’, sulla mente, e sulla natura delle nostre relazioni ed interazioni nel mondo.

Gli studenti di altre denominazioni e tradizioni spirituali buddhiste vi troveranno un’utile guida per comprendere le fondamentali idee di base e i metodi del Ch'an.  

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Per promuovere la saggezza e la compassione nel nostro mondo, Dharma Drum Pubbl. si è proposta di fare questo e altri libretti del Venerabile Maestro Sheng-Yen, disponibili per la distribuzione libera in tutto il mondo. La nostra possibilità di distribuire libretti come questo dipende solamente dalla loro gentilezza ed assistenza. Possono essere inviati contributi -- deducibili negli Stati Uniti -- spedendoli a Dharma Drum Pubblicazioni, all'indirizzo suindicato, e noi sinceramente ringraziamo i finanziatori di questo e degli altri libretti che già abbiamo prodotto in passato. Si prega di farci conoscere il vostro gradimento ad unirvi con noi nel diffondere ovunque a tutte le persone l'insegnamento della saggezza e della compassione.  ISBN 1-890684-02-3 - PER LA DISTRIBUZIONE LIBERA -  

RICONOSCIMENTI Dell’ EDITORE  - Direttore editoriale:Venerabile Bhikshu Guo-gu - Redattore: David Berman  

Assistenza editoriale: John Anello - Produzione: Venerabile Bhikshu Guo-gu - Dharma Drum Pubblicazioni ringrazia per qualsiasi aiuto da parte di qualunque fedele discepolo dei Tre Gioielli per patrocinare la pubblicazione di questo libretto.  

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                                     NELLO SPIRITO DEL CHAN – di Maestro Sheng-Yen

 

Sommario:

Prefazione

1)     Nello Spirito del Chan-

2)     Mettere in Moto la Ruota del Dharma-

3)     La Natura della Sofferenza-

4)     L’Origine della Sofferenza-

5)     La Cessazione della Sofferenza

6)     Note Conclusive

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PREFAZIONE    

Questo libro consiste di due separati discorsi del Venerabile Maestro Chan Sheng-Yen tenuti, in tempi diversi, al Centro di Meditazione Chan in Elmhurst, New York. Queste conferenze ebbero luogo tra il novembre ed il dicembre del 1998.  

Il primo è una finestra aperta sul mondo dello Zen Cinese (Ch'an). Nello Spirito del Ch'an è un conciso esame delle origini e dello sviluppo del buddhismo Ch'an, ed una introduzione ai principi essenziali ed alle visioni della teoria e pratica buddhista Ch'an. Vi sono rivelati due speciali metodi di meditazione Ch'an, dedotti dal Cao-dong (tso-dong, cioè il Soto) e dalla tradizione di Linji (Lin-chi), in una maniera chiara ed ispirante, e un utile metodo quotidiano per rilassare il corpo e la mente.  

Il Maestro Sheng-Yen, autore di questo libro, è una gemma vivente del mondo contemporaneo buddhista. Inoltre la sua grandissima conoscenza dei testi buddhisti e la personale esperienza della saggezza del Buddha, la sua costanza nel ritenere i precetti, la sua promozione all’istruzione del buddhismo, e la dedica dei voti per, come direbbe lui, "fare di questo mondo una terra pura", definiscono la sua unica e importante caratteristica. Lui è uno degli insegnanti dell'ultima generazione che giunsero dall'Oriente per insegnare il buddhismo nell'Ovest.  

L’altro discorso tratta delle Quattro Nobili Verità del buddhismo che Shakyamuni Buddha espose 2,500 anni fa a cinque dei suoi monaci più vicini. Esso fu il primo insegnamento che egli presentò dopo la sua stessa profonda Illuminazione. Come guida per i principi della pratica del buddhismo, le Quattro Nobili Verità sono ancor oggi assai attinenti, perché parlano delle verità perenni circa l’esistenza umana.  

È nostra sincera speranza che il commentario di Sheng-Yen sulle Quattro Nobili Verità, fornirà ai lettori una chiara comprensione del loro significato, come pure una ispirazione per integrare gli insegnamenti nella loro propria vita.  

In effetti, le sue chiare parole sono arrivate e hanno aiutato molte persone in ogni parte del mondo. Per il beneficio di tutti coloro che, in questi tempi complicati, desiderano cominciare a percorrere il sentiero dell’Illuminazione, possa questo libretto offrire luce e direzione alle persone in tutto il mondo.  

            Ven. Guo-gu Bhikshu, New York, 2000 

 

  

CAPITOLO I°) NELLO SPIRITO DEL CH'AN 

 

Forse alcuni di voi hanno sentito le frasi "Il Ch'an non è basato sulle parole e sul linguaggio" e "Il Ch'an è una trasmissione aldifuori degli insegnamenti conven-zionali". Ma se il Ch'an non si affida alle parole, perché si dovrebbe leggere un libro sul Ch'an? Non è una contraddizione? Però, anche se il Ch'an non è basato sulle parole, fra le tante sette del buddhismo in Cina, esso è quello che ha lasciato dietro di sé il maggior numero di scritture. La mèta primaria di queste scritture, tuttavia, è di insegnare che "il Ch'an non è basato su parole e linguaggio" e che "il Ch'an è una trasmissione aldifuori degli insegnamenti convenzionali." C'è quindi una ragione perché voi leggiate questo libro.  

La parola "Ch'an" può significare ‘illuminazione’, e l’illuminazione può essere intesa come ‘realizzare "il significato primario", o "la verità ultima". Nel Ch'an, c’è anche ciò che è chiamato "significato secondario", o "la verità convenzionale". La verità convenzionale può essere espressa in parole e concetti, ma la verità primaria, o ultima, del Ch'an non può essere espressa a parole. Talvolta, nella tradizione Ch'an, la verità ultima è paragonata alla luna, e la verità convenzionale al dito che indica la luna. Nessuno confonderebbe il dito per la luna. Le parole, il linguaggio, le idee e i concetti sono come il dito e possono esprimere solo la verità convenzio-nale. Queste parole e concetti solamente indicano la verità ultima. La verità ultima può essere chiamata mente, natura originaria, o Buddha-natura. E’ qualcosa che ciascuno deve sperimentare da se stesso. Non potrà mai essere descritta in un modo pienamente completo.  

Qual’ è l’origine del Ch'an? Fu il monaco Bodhidharma che portò il Ch'an dall'India in Cina, circa nel 500 a.C., più di mille anni dopo la morte di Shakyamuni Buddha. Ma la storia indiana contiene poche registrazioni di questo periodo, così si conosce relativamente poco sulle origini della pratica Ch'an.  

Noi conosciamo storie e leggende che descrivono le origini del Ch'an. Quella più famosa è il resoconto della trasmissione del Dharma a Mahakashyapa, uno dei capi discepoli del Buddha, e che divenne il primo Patriarca nel lignaggio del Ch'an. La storia è questa: un giorno durante un sermone al Picco dell’Avvoltoio, il Buddha teneva un fiore nella mano davanti all’assemblea e non parlava. Nessuno sembrò capire ciò che questo gesto significasse, ma solo Mahakashyapa sorrise. Il Buddha disse, "Il Tesoro dell'Occhio del Vero Dharma, la Meravigliosa Mente del Nirvana; soltanto Mahakashyapa li comprende". Questo evento marca l'inizio del lignaggio Ch'an e la trasmissione Maestro-discepolo, che continua ai giorni nostri. Questa storia fu sconosciuta alla storia buddhista fino alla dinastia Sung del decimo-secolo. Ma la verità letterale della storia non è importante quanto il messaggio che essa contiene sulla natura del Ch'an.  

Shakyamuni Buddha aveva altri due discepoli, uno molto brillante e l'altro un pò ottuso. Il primo discepolo, Ananda, aveva una mente potente ed una memoria favolosa. Tuttavia, egli non raggiunse l’illuminazione se non dopo la morte di Buddha Shakyamuni. Ananda pensava che il Buddha avrebbe ricompensato la sua intelligenza con l’illuminazione. Ciò non accadde. Dopo che il Buddha fu entrato nel nirvana, Ananda sperò che Mahakashyapa l'avrebbe aiutato.  

Dopo il trapasso del Buddha, Mahakashyapa tentò di raggruppare insieme 500 discepoli illuminati per raccogliere e registrare gli insegnamenti del Buddha. Egli poté trovarne solamente 499. Alcuni gli suggerirono di invitare Ananda, ma Maha-kashyapa disse che Ananda non era illuminato, e perciò non era qualificato per l’assemblea. Egli disse che non avrebbe radunato tutti gli altri, piuttosto che permettere la presenza di Ananda.  

Ma Ananda insistette. Tre volte egli fu mandato via da Mahakashyapa. Allora, Ananda disse, "Il Buddha è entrato nel nirvana. Ora solamente tu puoi aiutarmi a raggiungere l’illuminazione!". Mahakashyapa disse, "Io sono molto occupato e non posso esserti di aiuto. Solamente tu puoi aiutarti. Alla fine, Ananda comprese che doveva contare solo sui suoi propri sforzi, se voleva raggiungere l’illuminazione. Così egli andò in un luogo solitario ed appartato. Stava appena quasi per sedersi, quando di colpo raggiunse l’illuminazione! Perché? In quel momento lui non fece affidamento su nessuno e perciò lasciò cadere tutti i suoi attaccamenti.  

Un'altra storia descrive il discepolo un po’ ottuso, chiamato Suddhipanthaka, cioè ‘Piccolo Sentiero’. Tutti, fuorché Piccolo-Sentiero, erano in grado di ricordare gli insegnamenti del Buddha. Se lui tentava di ricordare la prima parola di una frase, dimenticava la seconda, e viceversa. Il Buddha gli diede il compito di scopare per terra, poiché lui non sembrava adatto per fare nessun’altra cosa.  

Dopo che ebbe scopato per terra per un bel po’ di tempo, ‘Piccolo Sentiero’ disse a se stesso, "La terra è pulita, ma è la mia terra-mente è pulita?". A quel punto egli lasciò cadere tutto dalla sua mente. Andò a visitare il Buddha che fu molto lieto della sua realizzazione, ed affermò che ‘Piccolo Sentiero’ si era illuminato.  

Negli antichi testi, queste sono registrate come storie vere, ma il loro significato va oltre il loro contesto originale. La prima storia illustra che nella pratica, la conoscenza e l'intelligenza non necessariamente garantiscono l’illuminazione e la seconda storia mostra che anche una persona un po’ stupida può raggiungere l’illuminazione. Anche se Buddha Shakyamuni, Mahakashyapa, e Shariputra erano persone di grande cultura, il Ch'an ha meno a che fare con la grande erudizione che non col problema della mente piena di attaccamenti. Alla illuminazione si può giungere solamente quando la propria mente si è sbarazzata degli attaccamenti.  

Si dice che ventotto generazioni di trasmissioni si succedettero dal tempo di Mahakashyapa al tempo di Bodhidharma, il quale è considerato il primo Patriarca del Ch'an Cinese. I suoi insegnamenti furono trasmessi con una sola linea per cinque generazioni, fino al tempo del Sesto Patriarca, Huineng (638-713), i cui numerosi discepoli stabilirono molti rami, alcuni dei quali sopravvivono ancor oggi. Io sono il 62° possessore del lignaggio Ch'an da Huineng, e la 57° generazione nella tradizione Linji (810?-866). Nel lignaggio di Cao-dong (Soto), io sono il 50° discendente di generazione del co-fondatore, il Maestro Dong-shan (807-869).  

Il Ch'an non è precisamente il buddhismo che Bodhidharma portò dall'India, ma egli però portò in Cina alcune intuizioni, e la tradizione Ch'an si riferisce a queste. Egli insegnò che tutto viene dalla mente, che la natura della mente è la natura-di- Buddha, che la Buddha-natura è inerente in ogni essere senziente, ed anche che il metodo essenziale per realizzare questa natura originale è di “vedere la mente”. Queste idee erano controverse quando all’inizio furono presentate in Cina, perché esse sembravano contraddire le più complicate filosofie e pratiche di altre scuole buddhiste, ma sono realmente proprio buddhismo di base, ridotto alla sua essenza.  

C'è una famosa storia sulla illuminazione del discepolo di Bodhidharma, Hui-ké, che illustra la nuda natura del Ch'an di Bodhidharma. Huikè andò da Bodhidharma e disse, "Maestro, potresti calmare la mia mente, per me?" Bodhidharma disse, "Dammi qui la tua mente ed io te la calmerò!". Hui-kè la cercò all’intereno di sé e poi disse a Bodhidharma che lui non poteva trovare la sua mente. Bodhidharma allora disse, "Ecco, vedi, io già ho calmato la tua mente, per te!". Questo è il resoconto dell’illuminazione di Hui-kè. Coloro tra voi che sono stati in un ritiro ed hanno sofferto di molto dolore alle gambe per sedersi in meditazione, non hanno affatto bisogno di fare così. Purtroppo, voi non avete incontrato Bodhidharma.  

C'è un importante opera attribuita a Bodhidharma, chiamata I Due Ingressi e Le Quattro Pratiche, in cui egli descrive più esplicitamente che gli esseri senzienti devono darsi da fare per realizzare la loro vera natura. I "due ingressi" sono l’ingresso tramite il principio e l’ingresso tramite la pratica. L’ingresso attraverso il principio significa vedere direttamente il principio primario, o la natura originale, senza far affidamento su parole, descrizioni, concetti, esperienze, o qualunque processo pensante. L’ingresso attraverso la pratica si riferisce all'addestramento graduale della mente.  

Bodhidharma descrive l’ingresso tramite il principio come segue: "Abbandonando il falso, si ritorni al vero; non si facciano discriminazioni tra se stesso e gli altri. In contemplazione, la mente di uno dovrebbe essere stabile ed immobile, come un muro". Questo può sembrare il sentiero diretto e facile per l’illuminazione ma è in realtà il più difficile. Se noi pensiamo all’illuminazione stessa di Bodhidharma come un'Ingresso tramite il principio, poi noi dovremmo dire che essa arrivò solamente dopo una vita di pratica, culminata nei suoi nove anni di meditazione davanti ad un muro, in una caverna sul Monte Song. In realtà, il metodo usato per compiere l’Ingresso tramite il principio è precisamente in questa frase, "La propria mente dovrebbe essere stabile ed immobile, come un muro". Questo non vuol dire che la mente deve essere bianca come il muro; al contrario; essa deve essere vigile e chiara, illuminando tutto con la consapevolezza e rispondendo con compassione. Questo è l’ideale, ed è lo stato di mente che si riferisce all’Ingresso tramite il principio.  

Il secondo Ingresso per ottenere la realizzazione è tramite la pratica. Qui, Bodhidharma discute quattro specifici metodi: accettare il castigo karmico, adattarsi alle situazioni, non cercare nulla e mantenere l’unione con il Dharma. Ogni pratica è progressivamente più avanzata, e perciò, esse dovrebbero essere seguite nell’ordine. Accettare il castigo karmico coinvolge il riconoscere gli effetti karmici di causa e conseguenza. Karma è un termine Sanskrito che letteralmente si traduce come "azione." Quando noi eseguiamo un'azione, si produce una forza karmica che rimane, e porta ad una conseguenza futura, o nell'esistenza presente o in una successiva. L’effetto karmico di una particolare azione non è fissato in modo permanente, perché il continuo produrre nuove azioni modifica di conse-guenza la forza karmica, ma in ogni caso, c’è sempre una relazione di causa-ed-effetto, e la conseguenza sarà simile in natura alla causa. Perciò, quando noi affrontiamo le avversità, dovremmo capire che stiamo ricevendo il castigo karmico di innumerevoli azioni precedenti fatte nelle innumerevoli vite precedenti. Quando paghiamo qualche nostro debito, noi dovremmo sentirci felici di poterne avere la possibilità. Se abbiamo questa visione, allora quando arriva la sfortun, noi saremo tranquilli e senza rancori. Noi non patiremo le emozioni disturbanti, né saremo scoraggiati o depressi. Questa è un'importante pratica. Il Karma, o legge di causa ed effetto, dovrebbe essere capito ed applicato insieme col concetto buddhista di cause e condizioni. ‘Cause e condizioni’ descrive il fatto che le cose accadono a causa delle molte condizioni che arrivano insieme. Noi non dovremmo, e non possiamo, sfuggire le nostre responsabilità ed il castigo causati dal nostro karma. Ma noi dovremmo tentare di migliorare le nostre condizioni e il nostro karma. Se le cose possono essere migliorate, noi dobbiamo tentare di farle migliorare. Se non possono essere cambiate, allora noi dovremmo accettarle con equanimità, come castigo karmico. Si potrebbe facilmente confondere il principio di ‘cause e condizioni’ con quello di ‘causa e conseguenza’. In effetti, i due principi sono intimamente connessi l'uno con l'altro, ed è difficile parlare riguardo ad uno senza menzionare l'altro. Dal punto di vista di ‘causa e conseguenza’, noi possiamo dire, che il primo evento è la causa e quello successivo è la conseguenza. Un evento conduce al successivo. Tuttavia, una causa da sola non può portare ad una data conseguenza. Deve accadere qualcos’altro, che deve venire insieme con la causa, per condurre ad una conseguenza. Questo ‘venire insieme’ di eventi e fattori, è riferito come ‘cause e condizioni’. Un uomo e donna insieme non conducono automaticamente all’avere bambini. Altri fattori devono entrare insieme nell’ordine perché la causa (i genitori) conduca alla conseguenza (i bambini). I genitori, i figli, e gli altri fattori coinvolti, sono tutte le cause e le condizioni considerate.

Inoltre, la condizione (un certo dharma) che si interseca con una causa (un altro dharma) può esser stata essa stessa causata da qualcos’altro, e così via, in tutte le direzioni all’infinito attraverso lo spazio ed il tempo. Tutti i fenomeni sorgono a causa di cause e condizioni. Ogni fenomeno che sorge è in sé una conseguenza di una causa precedente ed è sorto a causa del venire insieme di cause e condizioni. Questo ci porta al concetto del sorgere condizionato, noto anche come originazione dipendente, il che significa che tutti i fenomeni, o dharma, non importa quando o dove accadono, sono tutti interconnessi. Poiché tutti i dharma sono le conseguenze di cause e condizioni, il loro sorgere è condizionato. Questo include non solo il sorgere e l’apparire, ma anche il perire e lo scomparire. Una persona che nasce è un fenomeno, e pure un persona che muore è un fenomeno; un bolla che si forma è un fenomeno, ed un bolla che scoppia è un fenomeno; un pensiero che appare è un fenomeno, ed un pensiero che scompare è un altro fenomeno. Tutti i dharma sorgono e periscono a causa di cause e condizioni. Mi si permetta di fare una distinzione tra dharma e Dharma. Un dharma con la "d" minuscola si riferisce ad ogni fenomeno. Dharma con la "D" maiuscola si riferisce al Buddha-dharma, cioè gli insegnamenti del Buddha, i metodi di pratica ed i principi e concetti che sono sottoposti ad una pratica. Ma ricordate, anche gli insegnamenti dei Buddha ed i metodi di pratica sono essi stessi fenomeni, o dharma. La seconda delle quattro pratiche raccomandate da Bodhidharma è di "adattarsi alle condizioni". Questo richiede anche una comprensione del principio di cause e condizioni. Adattarsi alle condizioni, significa che noi dovremmo fare del nostro meglio all'interno delle costrizioni del nostro ambiente. Se le circostanze per noi sono fortunate per qualcosa di buono che ci accade, noi non dovremmo essere eccessivamente eccitati. La buona sorte, come la cattiva, è il risultato della retribuzione karmica. Perché dovremmo sentirci eccitati quando stiamo solamente godendo i frutti delle nostre proprie opere? È come prelevare soldi dai nostri propri conti bancari. Al tempo stesso, noi non dovremmo essere eccessivamente orgogliosi, perché la buona sorte, come la cattiva, è il risultato di molte cause e condizioni arrivate insieme. Come possiamo rastrellare credito per i nostri affari, quando essi dipendono così tanto dalla buona volontà degli altri, dai sacrifici dei nostri genitori, dalle circostanze della Storia? La pratica di adattarsi alle condizioni significa che bisogna accettare il proprio karma, o legge di causa e conseguenza, senza essere eccessivamente gioiosi e soddisfatti di sé, oppure delusi e depressi.

Accettare la retribuzione karmica e adattarsi alle condizioni sono pratiche molto utili nella vita quotidiana. Esse ci permettono di migliorare le nostre condizioni e il nostro karma e mantenere un atteggiamento positivo verso la vita. Esse ci aiutano a goderci l'equanimità di fronte alle circostanze che mutano, migliorano il nostro comportamento e mantengono armoniose le nostre relazioni. Questi insegnamenti di Bodhidharma non sono difficili da capire e ogni persona, anche se ordinaria, può avvalersene. Se noi possiamo applicarli nelle circostanze quotidiane, potremo adempiere alle nostre responsabilità e miglioreremo le nostre opportunità. In tal modo, la vita sarà più significativa. La terza delle quattro pratiche di Bodhidharma è la pratica di "non cercare nulla". C'è un detto Cinese che dice, "La gente alleva i bambini per essere aiutata nella vecchiaia, e accumula il cibo per i periodi di carestia". Oggi, le persone in Occidente non allevano più i bambini solo per essere mantenute in vecchiaia, ma probabilmente ancora accumulano il cibo, o ricchezza, per i periodi difficili. Questo atteggiamento non è certo quello di ‘non cercare nulla’. Nella pratica di non-cercare-nulla, noi ci impegnamo diligentemente e con costanza in attività utili, senza però aver il pensiero che queste attività siano per il nostro guadagno personale, ora e in futuro. Noi non cerchiamo benefici personali. Questa terza pratica non è facile né semplice, ed è ad un livello più alto della seconda pratica. Infatti, per evitare l'attività totalmente egocentrica dobbiamo fare il difficile passo di comprendere che il ‘sé’ non esiste.

Ciò che noi comunemente pensiamo che sia il ‘sé’ è un'illusione. Esso, in se stesso non è nient’altro, se non un mero nome che noi diamo alla nostra continua inter-azione con l'ambiente circostante. Noi vediamo, sentiamo, odoriamo, gustiamo, tocchiamo e pensiamo costantemente, ed è proprio questa cascata di sensazioni, percezioni, e giudizi che, pensiero dopo pensiero, identifichiamo come il nostro Sé. Tuttavia, dire che il ‘sé’ è un'illusione, non vuol dire che esso sia una allucinazione. Il ‘sé’ non è un miraggio. Noi diciamo che il sé è illusorio perché non è un'entità stabile ma, piuttosto, una serie di eventi che stanno sempre cambiando in risposta ad un ambiente continuamente mutevole. Il sé non è una cosa che resta stabile, e perciò noi diciamo che il sé è un'illusione. Per la stessa ragione, tutti i fenomeni sono considerati illusioni; ovvero, tutti i fenomeni sono ‘senza un sé’. Tutte le cose cambiano momento per momento, evolvendo e trasformandosi in qualcos’altro. Il ‘sé’, perciò, è un’esistenza incessantemente falsa che interagisce con un ambiente falso. La pratica di ‘non-cercare-nulla’ è una pratica avanzata, perché è la pratica del non-sé. Sebbene per le persone è normale cominciare ad imparare e praticare il buddhismo per riceverne beneficio, poi però l’egocentrismo, tramite la pratica, alla fine precipita via. Esse si trovano impegnate perché gli altri hanno bisogno del loro aiuto, e offrono loro ciò di cui hanno bisogno. Una persona così, non pensa più neanche a raggiungere l’illuminazione. Quando avrete cessato di interessarvi al vostro proprio conseguimento, allora sarete illuminati. Diversamente, ci saranno sempre pensieri sottili, vaganti, e l'attaccamento al desiderio di fare qualcosa per voi stessi. Se volete liberarvi da tutte le irritazioni mondane e se desiderate la liberazione dalle sofferenze, voi siete ancora legati al vostro ‘sé’. Soltanto quando  non vi preoccuperete più della vostra propria illuminazione, voi sarete veramente illuminati. La pratica di ‘non-cercare-nulla’ è la pratica di questo stato illuminato.

La quarta delle pratiche di Bodhidharma, "l’unione col Dharma" è il dogma di base del buddhismo, cioè che tutti i fenomeni sono instabili e non hanno un intrinseco sé. Nella pratica dell’unione-col-Dharma, tentiamo di sperimentare personalmente questa impermanenza e il ‘non-sé’ tramite la contemplazione diretta della vacuità. Questa è la pratica Ch'an più elevata, e conduce al conseguimento più alto. È la pratica che ci permette di giungere al punto di "Ingresso tramite il principio" di cui abbiamo parlato all’inizio.

Ma dove comincia un praticante? Diverse "nétte buddhiste impiegano vari metodi di pratica che possono essere usati dai principianti, come leggere le scritture, fare dei voti, fare prostrazioni, aver consapevolezza del Buddha e contare i respiri. Tutti questi metodi ci aiutano per andare da una mente dispersiva, che è confusa, emotiva ed instabile, ad uno stato mentale che è tranquillo e in armonia col nostro ambiente. La prima cosa che noi dovremmo davvero fare è di rilassare il corpo e la mente. Se ci rilassiamo, noi saremo più sani e più stabili e ci relazioneremo più armoniosamente con gli altri. C'è un buddhista laico che viene al Centro di Ch'an e che è molto nervoso. Il suo nervosismo fa innervosire anche le altre persone. Quando ti parla, il suo corpo è teso, come se stesse quasi per attaccarti o per difendersi. Le persone reagiscono sempre a questo tipo di comportamento; ne sono disturbate. Quando gli dissi di rilassare il suo corpo, lui rispose con voce tesa e sforzata, "ma io sono già rilassato!". Lui è continuamente timoroso ed insicuro, ed a causa dei problemi causati da questi sentimenti, è venuto al Centro di Ch'an in cerca di aiuto. Lui voleva imparare la meditazione, così io gli insegnai a rilassare gradualmente il suo corpo e poi la sua mente. Se non siamo capaci di rilassarci, non c'è nessun modo in cui si possa meditare; e se noi non possiamo meditare, la pratica di non-cercare-nulla è totalmente impossibile. Quest’uomo era impaziente e pensava che se lui si fosse illuminato tutti i suoi problemi sarebbero scomparsi. Lui mi disse, "Maestro, io non voglio una cosa qualsiasi; Io voglio solo il metodo per essere rapidamente illuminato. Me lo dia al più presto possibile". Io risposi, "Un tale metodo non è mai stato inventato. Se io potessi inventare un metodo veloce e garantito per l’illuminazione, probabilmente potrei venderlo per molto, molto denaro".

Ora io ho inventato il seguente metodo, ed io lo offro esente da spese a chiunque desideri impararlo. Il metodo è di rilassare il corpo e la mente. È facile e semplice. Ma nessuno mi chieda se può condurre all’illuminazione. Prima si dovrebbe essere capaci di rilassarsi, e poi potremo parlare di illuminazione. Chiudete gli occhi, poi mantenetevi dritti sul cuscino o sulla sedia, e rilassate i muscoli. Completamente rilassate i vostri occhi. È molto importante che le palpebre siano rilassate e non si muovano. Non dovrebbe esserci tensione nei bulbi oculari. Non applicate in alcun modo forza o tensione. Rilassate i muscoli facciali, le spalle, e le braccia. Rilassate l’addome e mettete le vostre mani nel grembo. Se sentite il peso del vostro corpo, esso dovrebbe essere a posto. Non pensate ad alcunché. Se arrivano pensieri, li si veda, li si lasci andare, e si presti attenzione al respiro che entra ed esce dalle narici. Ignorate ciò che le altre persone stanno facendo. Concentratevi solo sulla pratica, dimenticatevi del vostro corpo, e rilassatevi. Non intrattenete dubbi sul fatto se ciò che state facendo sia utile. Il principio di questo metodo è rilassarsi --essere naturali e chiari. Fate sessioni di pratica brevi ma frequenti; ogni sessione dovrebbe essere circa da cinque a dieci minuti. Se le fate più lunghe, vi sentirete probabilmente stanchi e vi addormenterete. Potete usare questo metodo più volte al giorno; esso vi rinfrescherà corpo e mente ed eliminerà molte delle confusioni della vostra vita quotidiana. Gradualmente otterrete la stabilità di corpo e mente che vi renderà possibile, alla fine, di entrare nella porta del Ch'an.

Il Ch'an è spesso definito come "la porta senza porta". La "porta" è sia un metodo di pratica che un sentiero verso la liberazione; tuttavia, questa porta è "senza-porta" perché il Chan non fa affidamento su nessun specifico metodo per aiutare un praticante a realizzare la liberazione. Il metodo-senza-metodo è il metodo più elevato. Allorquando il praticante lascerà cadere la mente egocentrica, la porta di ingresso al Ch'an si aprirà naturalmente. L'ostacolo primario nel raggiungimento della saggezza è l'attaccamento al ‘sé’. Quando siete davanti a persone, cose, e situazioni, immediatamente la nozione di "Io" sorge al vostro interno. Quando vi attaccate a questo "io", di conseguenza siete costretti a categorizzare e giudicare tutto: "Questo è mio; e quello non lo  è. Questo è buono per me; quello no. Questo mi piace; quello lo odio". L'attaccamento all'idea di ‘sé’ rende impossibile la vera chiarezza. Ma come definiremmo il non-attaccamento? Secondo il Ch'an, il non-attaccamento significa, che quando siete di fronte alle circostanze e trattate con le altre persone, non c'è alcun "io" in relazione a qualunque cosa possa essere apparsa davanti a voi. Le cose sono proprio come sono, vivide e chiare. Voi potete rispondere adattandovici e offrendo qualsiasi tipo di cose di cui c’è bisogno. La chiara consapevolezza di come le cose sono, in questo stato di non-sé, è ciò che il Ch'an chiama la saggezza. Dare agli altri qualunque cosa di cui essi possano avere bisogno, senza pensare a sé, è ciò che il Ch'an chiama compassione. La saggezza-e-compassione descrivono la consapevolezza e la funzione della mente illuminata. Nel Ch'an, queste due qualità non possono essere separate, ed ambedue sono  dipendenti dall’abbandonare l’attaccamento al sé.

Allorché la scuola Ch'an si evolse, si svilupparono due forme di pratica, le quali corrispondono grosso modo ai ‘Due Ingressi’ di Bodhidharma, quello tramite il principio e l'altro tramite la pratica. Il metodo dell'illuminazione silenziosa è la specialità della tradizione Cao-dong (Soto), mentre la tradizione di Lin-ji (Rinzai) preferisce il metodo dei gongan (kung-an) e huatou. Entrambi gli approcci possono condurre all’illuminazione ed alla realizzazione del non-sé. Il termine Illuminazione Silenziosa, o Mo-chao, è associato con il Maestro Hongzhi Zhengjue (1091-1157) della dinastia Song, anche se la pratica stessa può essere rintracciata almeno fin dai tempi posteriori a Bodhidharma ed il suo concetto di ‘Ingresso tramite il principio’. Cinque generazioni più tardi, il grande maestro Yongjia (Yung-kya) (665-713) parlò di "chiarezza e immobilità" nel suo ‘Canto dell’Illuminazione’. ‘Immobilità’ si riferisce alla pratica di far tacere la mente, e ‘chiarezza’ si riferisce alla contemplazione, che illumina la mente con la luce della consapevolezza. Lo stesso Hongzhi così descrisse il "sedere silenziosamente": "Il vostro corpo siede silenziosamente; la mente è inerte, immobile. Questo è genuino sforzo in pratica. Corpo e mente sono in totale riposo. La bocca è così immobile che intorno ad essa può crescere il muschio. Erba germoglia dalla lingua. Fatelo senza mai smettere, ripulendo la mente finché non ottiene la stessa chiarezza d’un laghetto autunnale, brillante come la luna che illumina il cielo di sera". In un altro punto, Hongzhi dice, "Nella seduta silenziosa, qualunque reame possa apparire, la mente è assai chiara a tutti i dettagli, anche se tutto rimane dov’è originariamente, al suo posto. La mente resta su un pensiero per diecimila anni, pur non dimorando in nessuna forma, all’interno o all’esterno".

Per comprendere l'Illuminazione Silenziosa C'han, è importante capire che mentre non ci sono pensieri, la mente è ancora molto chiara, molto consapevole. Devono esservi sia il silenzio che l'illuminazione, Secondo Hongzhi, quando non c'è niente che accade nella mente, si è consapevoli che non sta accadendo nulla. Se uno non è consapevole di ciò, questa è proprio la malattia Ch'an, non lo stato Ch'an. Così in questo stato, la mente è trasparente. In un certo senso, non è proprio esatto dire che nella mente non è presente niente, perché la mente trasparente è là. Ma è esatto, nel senso che nulla può diventare un attaccamento od ostruzione. In questo stato, la mente è senza forma o caratteristica. Vi è presente il potere, ma la sua funzione è di riempire la mente con l’illuminazione, come il sole che splende dappertutto. Quindi, l'illuminazione silenziosa è la pratica in cui non c'è niente che si muove, benché la mente sia brillante ed illuminante.  

Un gongan è la storia di un avvenimento tra un Maestro ed uno o più discepoli, che comporta una comprensione o esperienza della mente illuminata. L'incidente di solito, ma non sempre, comporta un dialogo. Quando l'incidente è ricordato ed è registrato, diventa un "caso pubblico", che è il significato letterale del termine. Spesso ciò che fa registrare valore all'incidente è che, come effetto dell'inter-scambio, un discepolo abbia un risveglio, un'esperienza di illuminazione. Un giorno un monaco chiese al Maestro Chao-chou, "Un cane ha la Buddha-natura?". Il Maestro rispose, "Wu", volendo dire no. Questo è un gongan fondamentale, forse il più famoso di quelli registrati. Ecco un altro gongan, che riguarda ancora Chao-chou. Chao-chou aveva un discepolo che incontrò una vecchia donna, e le chiese, "Come si arriva al Monte Tai?" Lei disse, "Continua solo ad andare!". Appena il monaco riprese il cammino, sentì il commento dell’anziana donna, "Lui ci va realmente!". Più tardi, il discepolo raccontò questo a Chao-chou, che disse "Penso che andrò a vedere da me stesso". Quando incontrò la vecchia, Chao-chou fece la stessa domanda e lei diede la stessa risposta: "Continua solo ad andare!". Appena Chao-chou andò via sentì la vecchia dire come la volta scorsa, "Lui realmente ci va!". Quando Chao-chou fu tornato, disse all’assemblea, "Ho visto quella donna!". Cosa scoprì Chao-chou su quella anziana donna? Quale è il significato di questo lungo e oscuro gongan?

Intorno al periodo della dinastia Song (960-1276), i maestri Ch'an cominciarono a usare gongan registrati come soggetto di meditazione per i discepoli. I praticanti furono costretti ad investigare il significato dei gongan storici. Per penetrare il significato del gongan, lo studente deve abbandonare conoscenza, esperienze, e ragionamenti, in quanto la risposta non è accessibile con questi mezzi. Egli deve trovare la risposta con il ‘can-gongan’ (pronuncia: tsan-kung-an), cioè "investigare il gongan". Questo richiede di spazzar via dalla coscienza tutto fuorché il gongan, generando alla fine la "sensazione-di-dubbio", che è una forte sensazione di stupore e meraviglia nonché un intenso desiderio di conoscere il significato del gongan.

Relativamente simile, ma non identico, al gongan è il huatou. Un huatou -letteralmente, "testa della parola detta" - è una domanda che un praticante fa a se stesso. "Cos’è Wu?" e "Chi sono Io?", sono huatou comunemente usati. Nella pratica del huatou, si dedica la propria piena attenzione all’incessante ripetizione della domanda. I metodi gongan e huatou sono simili nel fatto che il praticante tenta di risvegliare la sensazione di grande-dubbio, per poi alla fine fracassarlo e risvegliarsi all’illuminazione. Il maestro Ch'an Dahui Zonggao (Ta-hui)(1089-1163), uno dei più grandi fautori della pratica del huatou, sostenne che la meditazione seduta è necessaria per stabilizzare la mente errante prima che uno studente possa efficacemente usare un gongan o il huatou. Una mente dispersiva è carente di focus o energia necessaria per generare il grande dubbio, così nell'addestrare i miei studenti, io prima dò loro un metodo per unificare la mente dispersiva. Una volta che la mente dello studente è stabile e concentrata, l’applicazione di gongan o huatou può causare il sorgere del grande dubbio. Questo dubbio non è il dubbio ordinario in cui si dubita della verità di un'asserzione. È l'incertezza fondamentale, il dilemma esistenziale, che sottostà a tutte le nostre esperienze - la questione di chi siamo noi ed il significato della vita e della morte. Poiché la domanda inerente nel gongan o huatou non può essere risolta con la logica, il praticante deve ritornare continuamente alla domanda, alimentando la "massa di dubbio" finché essa è come una "ardente palla di ferro conficcata nella sua gola". Se il praticante può persistere e non permette all'energia di dissiparsi, la massa di dubbio alla fine scomparirà in un'esplosione che può spazzar via ogni dubbio dalla mente, nient’ altro lasciando se non la natura originale della mente, cioè l’illuminazione.

È anche possibile, e forse più probabile, che l'esplosione non avrà la sufficiente energia da ripulire completamente la mente dagli attaccamenti. Perfino un grande Maestro come Dahui non penetrò sufficientemente in profondità nella sua prima esperienza esplosiva. Il suo insegnante Yuan-wu (1063-1135) gli disse, "Tu sei morto, ma ora sei ritornato alla vita". La sua illuminazione fu confermata nella sua seconda esperienza. Perciò, è molto importante avere un bravo Shifu (istruttore), o un insegnante affidabile, che possa guidarci attraverso tutti i livelli di pratica. All'inizio, tentare di generare il grande dubbio prima che la mente sia sufficiente-mente stabile sarebbe, come minimo, inutile e, nella ipotesi peggiore, potrebbe generare molta ansia. Ed infine, ogni esperienza che si ha come risultato della pratica deve essere confermata da un Maestro esperto. Solo un genuino maestro saprà la differenza fra una vera illuminazione ed una falsa. La pratica di gongan e huatou è un approccio aggressivo ed esplosivo verso l’illuminazione; la pratica dell'illuminazione silenziosa è un metodo più pacato. Tuttavia, entrambi richiedono la stessa base: una mente stabilizzata ed unificata. Ed entrambi hanno lo stesso scopo: la realizzazione della natura della mente, che è la natura della vacuità, la Buddha-natura, la saggezza e l’Illuminazione.    JJJ

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Capitolo 2°) Mettere in Moto la Ruota del Dharma  

(Discorsi sulle Quattro Nobili Verità del buddhismo) del Ven. Maestro Sheng-Yen 

 

Poco dopo aver realizzato la piena illuminazione, il Buddha volle condividere la sua scoperta con tutti gli esseri senzienti. Egli viaggiò per cento-cinquanta miglia da Bodhgaya, in cui aveva sperimentato l'illuminazione sotto l'albero bodhi, alla città di Sarnath presso Benares. Il suo scopo era di cercare cinque monaci [1.1] con cui egli aveva in precedenza praticato l'ascetismo. I monaci l'avevano lasciato quando lui rifiutò l'ascetismo per seguire la Via di Mezzo. Ora che egli si era illuminato, nella sua grande compassione volle aiutare i suoi amici a trovare il sentiero per la liberazione. Quindi il suo primo insegnamento come Buddha fu per questi cinque monaci in un boschetto vicino a Sarnath, chiamato ‘Parco dei Cervi’.  

   

Il Primo Insegnamento del Buddha

In questo suo primo insegnamento [1.2], il Buddha espose una Via di Mezzo tra l'ascetismo e l'indulgenza, e insegnò anche le Quattro Nobili Verità. Con questo insegnamento egli mise in moto la Ruota del Dharma – ovvero gli insegnamenti del buddhismo. Perciò, le Quattro Nobili Verità sono la base del Buddhadharma. Comprendere, praticare e realizzare le Quattro Verità Nobili significa realizzare l'intero Buddhadharma. Benché fino ad un certo punto la maggior parte dei buddhisti possano capire le Quattro Nobili Verità, non tutti possono aver chiarezza riguardo a tutte le loro implicazioni. Oggi, perciò, io proverò a spiegare e tenterò di chiarire queste quattro verità come dette dal Buddha.  

Quando il Buddha espose le Quattro Nobili Verità, egli prima partì con ciò che esse erano. Egli disse che esse sono, ‘la verità della sofferenza, la verità dell'origine della sofferenza, la verità della cessazione della sofferenza e la verità dell'uscita dalla sofferenza per mezzo dell’Ottuplice Nobile Sentiero [1.3]. Questo è il primo dei "tre giri e dodici processi" [1.4] della Ruota del Dharma.  

Che cosa significa questo? Come insegnato dal Buddha, ognuna delle nobili verità implicò tre giri, o aspetti, della Ruota. All'interno di ogni nobile verità, i tre giri o aspetti, erano: primo, capire quella nobile verità; secondo, mettere in pratica la propria comprensione di quella nobile verità; e terzo, completare e realizzare gli effetti di quella nobile verità. Così, la sequenza è capire, praticare, e realizzare. La pratica completa delle Quattro Nobili Verità consiste così di dodici processi [1.5], che, quando sono completati, assicurano il proprio ingresso nel Nirvana.  

Perciò, comprendere il significato delle Quattro Nobili Verità è il primo giro. Come risultato del primo giro, gli asceti compresero la natura della sofferenza e le sue cause. I Buddha inoltre spiegarono la necessità di andar oltre il solo comprendere le Quattro Nobili Verità, ma di mettere in pratica quella conoscenza. Per esempio, conoscendo le origini del soffrire, noi dovremo abbandonare quel tipo di azioni che provocano l'accumulazione delle sofferenze. Si avrà una ferma convinzione che la cessazione è possibile, e si praticherà il sentiero per realizzarla. Così il secondo giro significa credere ed agire in base a quelle verità.  

Il Buddha disse ai suoi discepoli che egli stesso, realizzando quelle quattro verità, aveva infatti compiuta la cessazione, ed aveva adempiuto il sentiero che elimina dal soffrire, e si era liberato. Ed ora stava insegnando loro come realizzare la liberazione per se stessi. L'esistenza della sofferenza, le cause del soffrire, la cessazione della sofferenza e l'eliminazione del soffrire furono pienamente capite e praticate, e la sofferenza stessa cessò. Così, il terzo giro è la realizzazione, il risultato del praticare le verità.  

Come risultato dei tre giri della Ruota del Dharma da parte del Buddha, perfino i cinque monaci meno dotati furono illuminati [1.6], e divennero arya, i Risvegliati, i primi discepoli del Buddha, ed i primi monaci del sangha - la comunità buddhista. Poi, per quarantanove anni il Buddha continuò ad esporre le Quattro Nobili Verità e tutti gli altri insegnamenti del Buddhadharma, finché alla fine egli entrò nel grande Nirvana. Ma prima di ciò, egli ammonì sempre i suoi discepoli e seguaci di attenersi ai precetti (vinaya) [1.7], di accettare il Dharma come loro insegnante, e di prendere la liberazione (nirvana) come loro ultima mèta.  

Cosa significa attenersi ai precetti? Significa vivere in modo etico, armonioso e con stabilità. Cosa significa accettare il Dharma come insegnante? Significa prendere le Quattro Nobili Verità come insegnamento fondamentale e capire che l’esistenza è caratterizzata dalla impermanenza. Significa capire che tutte le cose sono prive di esistenza indipendente inerente, e sono vuote di un ‘sé’. Significa credere nella cessazione della sofferenza e nella certezza della liberazione ultima nel Nirvana. Comprendere tutto ciò è praticare i tre sigilli del Dharma (o, i tre marchi distintivi dell’esistenza): sofferenza, impermanenza e non-sé (vacuità). E come si realizzano i tre sigilli? Bisogna cominciare con la pratica delle Quattro Nobili Verità.  

Cosa significa avere la liberazione come propria mèta? Avere la liberazione come propria mèta significa che si deve pienamente comprendere l’operato del sorgere condizionato – cioè, che tutte le cose sorgono come risultato di molte diverse cause e condizioni. Per capire la natura della nostra esistenza, noi dobbiamo cominciare col capire i dodici anelli del sorgere condizionato o dipendente [1.8] (pratityasamutpada), che determinano la forma e il sentiero della nostra vita così come essa si svolge. Se uno può contemplare questi dodici anelli collegati, egli potrà totalmente capire le cause della sofferenza, come pure l'uscita dal soffrire dirigendosi verso la liberazione [1.9].  

Quindi, le Quattro Nobili Verità includono gli insegnamenti completi del Buddha ed includono i tre sigilli del Dharma, ed i dodici anelli del sorgere condizionato. Per cui, per realizzare la mèta delle Quattro Nobili Verità, bisogna capire ed anche contemplare la sofferenza, l’impermanenza, il non-sé e il sorgere condizionato.  

Benché il buddhismo possa essere diviso nelle varie scuole come il Theravada, il Mahayana, il Vajrayana, la Scuola Improvvisa e quella graduale [1.10], e così via, tutte hanno come loro base le Quattro Nobili Verità senza di cui non potrebbero essere considerate buddhiste. Dopo questa breve introduzione, ora procederemo rapidi per arrivare ad una comprensione più profonda delle Quattro Nobili Verità.  

   

Perché le Verità sono Nobili  

In generale, noi possiamo dire che tutti gli esseri liberati (arya), come gli arhat e i buddha, hanno completamente penetrato le Quattro Nobili Verità. E poiché queste verità pervadono la comprensione di questi santi esseri, noi le chiamiamo nobili. Esse sono chiamate nobili anche perché comprendendole e praticandole, anche noi possiamo raggiungere la liberazione.  

Gli arya si risvegliarono alla prima nobile verità della sofferenza ed alle sue varie origini. Prima c’è la sofferenza per calamità catastrofiche, disastri naturali, e altre minacce da parte dell'ambiente. Secondo, possiamo isolare paure e incerte fonti di sofferenza. E terzo, vi sono infiniti tipi di afflizioni auto-generate che noi possiamo sperimentare. Questi ultimi tipi di sofferenze sono chiaramente più di tipo mentale come origine e come manifestazione. Così, i risvegliati sono pienamente consa-pevoli delle molteplici origini della sofferenza che ci tiene nella oceanica sofferenza del samsara, il ciclo di nascita e morte.  

Seconda nobile verità, è che la causa fondamentale della sofferenza è l’ignoranza che si manifesta come brama, avversione e illusione. L’ignoranza a sua volta ci porta a compiere azioni che provocano la sofferenza. L’azione, che è il significato letterale del termine karma, include le azioni vere e proprie, nonché i pensieri e le parole. Quindi ciò che noi chiamiamo l'origine o causa della sofferenza in realtà è il karma - la forza che spinge le condizioni esistenti nella nostra vita verso un risultato futuro, una sorta di energia che ci conduce verso una certa direzione. È un'energia composita, generata dalle illusioni e dalle afflizioni degli esseri dotati di mente, e che li spinge a compiere certe azioni. Queste stesse azioni provocano che vengano piantati altri 'semi’ (cause e condizioni) per ulteriori conseguenze. Quando i semi maturano, la forza risultante diventa un potenziale che ci spinge nel futuro, portandoci ancora in particolari esperienze di sofferenza.  

La terza e la quarta nobile verità, derivano dalla profonda comprensione realizzata dagli arya, sulla effettiva non-esistenza della sofferenza, e quindi sulla possibilità della sua cessazione. Il Buddha espose vari approcci per arrivare alla cessazione della sofferenza. Fra questi, il più importante è un modo etico di vita, cioè avere una condotta che non provochi la sofferenza a nessuno. Poi, dobbiamo coltivare la consapevolezza così da non creare le cause per una sofferenza futura. Se siamo inconsapevoli delle cause della sofferenza, noi la prolunghiamo creando le stesse cause ancora e ancora. Quando siamo consapevoli delle cause della sofferenza, noi possiamo smettere le nostre azioni negative, così che ne possa risultare una liberazione dalla sofferenza.  

Infine, noi chiamiamo queste verità nobili, perché sono genuine, senza tempo, e necessarie. Esse sono genuine perché nulla può contraddirle, screditarle, o sosti-tuirle, e così praticandole si sperimenterà la loro genuinità. Esse sono senza tempo perché la sofferenza e la fine della sofferenza non sono limitate ad una particolare cultura o periodo di tempo. Finché c’è la sofferenza, gli esseri senzienti si sforzeranno a far cessare tale stato. E infine, esse sono necessarie perché per giungere alla cessazione noi invero dobbiamo praticare il sentiero che conduce alla liberazione.  

   

Causa ed Effetto, Mondano e Trascendente

Uno sguardo più ravvicinato alle Quattro Verità Nobili ci mostra che esistono due tipi di causa ed effetto. Uno è chiamato 'causa-e-effetto-mondano', che porta alla sofferenza; l'altro invece è chiamato 'causa-e-effetto-trascendente', che porta alla liberazione.  

Causa-e-effetto-mondano ha luogo nel tempo e spazio, e qualsiasi cosa che esiste nello spazio-tempo è caratterizzato da impermanenza. Ieri, voi non eravate qui in questa sala; oggi siete qui e mi state ascoltando; dopo il discorso ve ne andrete. Quando come individui noi sperimentiamo questo, stiamo proprio sperimentando l’impermanenza. Questo senso di cambiamento dà anche un senso di continuità alla nostra vita. Ma via via che passano i giorni, le nostre vite stanno arrivando anche ad una conclusione, giorno dopo giorno. Quindi l’impermanenza in essenza è questo procedere dalla nascita alla morte, dall’esistenza alla non-esistenza.  

Per sperimentare l’impermanenza noi dobbiamo esistere nel continuum di spazio-tempo. Il nostro senso di spazio può essere grande o piccolo - possiamo sentire una moltitudine di spazi o uno spazio molto limitato. La differenza è la chiave di come noi sperimentiamo l’attività delle cause e condizioni. Questi vari fattori venendo e disperdendosi insieme ci danno il senso del tempo. Il fatto che i diversi aspetti delle nostre vite si spostano, si alterano e si trasformano, risulta da queste relazioni causali. Le attività di cause a condizioni che hanno luogo nello spazio, sono inseparabilmente unite nel tempo, quindi noi sperimentiamo tempo e spazio insieme. Come ho già detto prima, il mondo è ciò che arriva insieme nello spazio-tempo, e questa esperienza di continuo cambiamento è l’impermanenza.  

Detto in  parole semplici, la trascendenza del mondo è la libertà dalle cause-e-effetti-mondani, libertà dalla sofferenza nel tempo-spazio. Tutti i risvegliati – arhat e buddha – non sono più vincolati da tempo e spazio, e perciò nemmeno più influenzati dalla sofferenza che l’impermanenza porta. Per questo motivo lo stato di trascendenza-dal-mondo è uno stato di liberazione.  

In che modo le realtà mondana e trascendente si riferiscono alle Quattro Nobili Verità? La Causa-e-effetto-mondana include le prime due verità della sofferenza e dell'origine della sofferenza. La sofferenza in realtà è un effetto del vivere nel tempo e spazio, e la sua origine è la nostra ignoranza, come vera natura di vivere nella realtà mondana.  

Di sicuro, voi state pensando che deve esservi qualche sorta di felicità nella vita, e in realtà ci sono molte occasioni di gioia e felicità nella vita. Il Buddha stesso non negò questi stati di gioia e felicità, ma quando parlò dell’impermanenza come sofferenza, egli aveva in mente quel modo molto sottile di impermanenza che permea anche la gioia che noi sentiamo. Perfino dentro la felicità c’è la perdita e decadimento. Questa felicità si affievolirà proprio come qualsiasi altra cosa. Nulla nel tempo e spazio, nulla nel mondo, dura o può essere veramente acquisito, per quanto grande sia il nostro desiderio che le cose siano altro da ciò che esse sono. Questa sofferenza include la nostra incapacità ultima (cioè, assoluta) di sfuggire la vecchiaia, la malattia, e la morte. Poiché noi non siamo i nostri propri maestri, sia a livello ordinario come pure a quello molto sottile, la sofferenza è inerente in tutti gli aspetti della nostra esperienza.  

La Causa-e-effetto-trascendente-dal-mondo si riferisce alle terza e quarta verità della cessazione della sofferenza e del sentiero che conduce fuori dalla sofferenza. La cessazione è lo stato in cui la causa-e-effetto-mondana è abbandonata, non c'è più nessuna accumulazione di karma, e si è realizzato il nirvana. Si è liberi dalla sofferenza, ed il processo per giungere a questo stato è il Sentiero (Dharma). Più tardi elaboreremo il modo di praticare il Sentiero.  

Così, quando il Buddha girò la Ruota del Dharma, egli insegnò anche che il sentiero della liberazione è il sentiero che serve per andare dal modo mondano di agire, pensare e parlare, al modo che trascende il mondo. E dopo soli tre giri della Ruota del Dharma, tre esposizioni delle Quattro Nobili Verità, tutti i cinque monaci mendicanti realizzarono la liberazione.  

   

Karma e Retribuzione  

In precedenza, abbiamo detto che la sofferenza ha origine nel karma. Perciò, ogni sofferenza è la retribuzione (castigo), che si può intendere sia come retribuzione karmica o castigo risultante. La retribuzione karmica è l'operazione delle cause e condizioni sottostanti che azionano l’energia karmica. Il castigo risultante è quello che noi sperimentiamo soggettivamente come risultato delle forze karmiche che sono costrette a venire. Il castigo risultante assume la sembianza di diversi tipi di sofferenze. In un discorso successivo noi chiariremo i diversi tipi di sofferenze, ma per ora vorrei solo riaffermare che la sofferenza si origina nel karma.  

Come si crea il karma? Fondamentalmente, il karma è creato dal funzionamento dei sei organi di senso, occhio, orecchio, naso, lingua, corpo, e mente. Questi sei organi non sono necessariamente essi la causa della sofferenza; piuttosto è il nostro averli a cuore che provoca la sofferenza. Noi li manteniamo cari perché tramite essi abbiamo una nozione del nostro proprio corpo, a cui ci attacchiamo e ci aggrappiamo come se fosse perfetto, amabile, e permanente; e soprattutto, perché tramite esso noi abbiamo un senso di identità, un senso di ‘sé’. Noi, di conseguenza, generiamo passioni che dominano il nostro comportamento, e che mettono in moto le forze karmiche che ci proiettano nel futuro.  

La terza verità della cessazione è riferita all'estinzione delle nostre contaminazioni mentali (afflizioni) dagli organi di senso. Come ho già detto questi organi non sono in se stessi la causa del problema. Le colorazioni che noi aggiungiamo alla nostra esperienza, attraverso l'attaccamento, è la causa del problema. Quindi se i sei organi di senso, contaminati dalla mente che vi aderisce, si può dire che siano l'origine della sofferenza, altrettanto si può dire che, la fine di tali contaminazioni sta a significare la cessazione della sofferenza.  

La quarta verità è il sentiero che conduce verso la cessazione, noto come il Nobile Ottuplice Sentiero. Benché questo sentiero ed i suoi otto aspetti sembrano facili da capire, essi sono estremamente ricchi ed inclusivi. Il sentiero include la triplice pratica di precetti (sila), la concentrazione meditativa (samadhi) e la saggezza (prajna). Esso include anche molte altre pratiche, come i cinque metodi di rendere immobile la mente [1.11], e le quattro basi della consapevolezza per sviluppare l’intuizione. [1.12]  In congiunzione con le Quattro Nobili Verità, vi sono anche delle pratiche molto particolareggiate note come i sedici aspetti delle Quattro Nobili Verità [1.13]. Questi aspetti possono essere usati come oggetti di meditazione, cominciando con la consapevolezza del respiro (calma), e procedendo con lo sviluppo della consa-pevolezza meditativa (intuizione). Tutti questi metodi conducono al sentiero della 'Visione' (risvegliando a) la natura della realtà.  

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Sommario  

Abbiamo parlato di molte cose, dal girare la Ruota del Dharma, all’impegnarsi sul sentiero, fino al raggiungimento dello stato di Arhat tramite la cessazione. Finora abbiamo fatto soltanto un breve sommario delle Quattro Nobili Verità. Tuttavia, dal momento in cui ho finito di parlare dei tre giri, voi sareste dovuti divenire tutti degli Arya, come i cinque monaci (risate…). Ma nel caso che alcuni di voi non abbiano ancora raggiunto l’illuminazione, e se il discorso di oggi è sembrato un po’ troppo adescante, per favore ritornate domenica prossima, così parleremo più in dettaglio delle Quattro Nobili Verità. Spero di rivelarne tutti i differenti livelli delle loro implicazioni sottili. Se io vi dicessi che i livelli diventano sempre più profondi, potrei spaventarvi, e così vi dirò che io tenterò di renderli sempre più chiari.  

Ora noi abbiamo del tempo per alcune domande.  

Domanda: Come possiamo alleviare la sofferenza di ogni giorno?  

Shifu: Noi sperimentiamo la vita di ogni giorno come un peso che sembra venire dall'ambiente, ma esso invece origina principalmente nel nostro proprio corpo e mente. Questo pesante carico è la realtà dell’impermanenza. A causa di questo particolare peso che sentiamo e sperimentiamo, noi riteniamo che la sofferenza sia inerente alla nostra vita. La felicità è un provvisorio sollievo da questo peso, dopodiché riappare il senso di impermanenza e, tramite essa, la sofferenza.  

Tuttavia, si può sperimentare una felicità che è meno soggetta all’impermanenza. La particolare felicità di cui il Buddha parla è la gioia del Dharma. Più noi pratichiamo il Dharma, e più felicità avremo. Se noi realmente ci impegnamo nel Dharma, fino al momento della piena liberazione, noi saremo estremamente felici, perfino euforici.  

Domanda: Nella vita quotidiana, spesso noi incontriamo la sofferenza della malattia, come un parente ammalato terminale che desidera essere alleviato della sua sofferenza. Quale è la corretta visione per un buddhista che capisca veramente l'essenza delle Quattro Nobili Verità? Come si può alleviare quella persona di tale sofferenza, qualunque sia la causa?  

Shifu: Uno si impegna nelle Quattro Nobili Verità; capisce la sofferenza e l'uscita dalla sofferenza, come essa si collega a noi. Se una persona ammalata è ancora consapevole e ricettiva, ci può essere l'opportunità di aiutare quella persona a praticare. Noi non possiamo impiantare le Quattro Nobili Verità nella mente di un'altra persona, ma possiamo aiutarla almeno a capire le origini della sofferenza, e farla cominciare a praticare le Quattro Nobili Verità. Ma se quella persona non è ricettiva o non è in grado di comprendere, allora le Quattro Nobili Verità non potranno aiutarla. Noi possiamo alleviare il suo dolore e così via, però quella non è la fine della sofferenza esistenziale né la liberazione da essa. Le medicine e gli altri metodi di sollievo non sono ciò che noi intendiamo con cessazione. Solamente l’impegno nella pratica può liberare qualcuno dalla sofferenza che è descritta nelle Quattro Nobili Verità.  

Una volta che un mio amico era in punto di morte, io tentai di dargli alcuni insegnamenti, ma questa persona era totalmente agitata, addolorato ed in agonia, e non era ricettivo. Poiché quello non poteva funzionare, io semplicemente sedetti vicino al mio amico e mi misi quietamente a recitare il nome del Buddha. Questo in una certa misura funzionò, perché la mia presenza al lato del suo letto e la stabilità della mia mente forse lo influenzarono direttamente in un modo non-verbale, così che lui gradualmente fu capace di calmarsi.  

Se recitare il nome del Buddha non è efficace, potete provare a meditare vicino a quella persona. Questo può sembrare forzato ma può essere efficace. Il requisito indispensabile è di impegnarsi realmente nella mediazione, cosìcché la vostra mente molto stabile e calma e quella dell'altra persona, possano venire ad una reciproca risposta. Quella persona può direttamente calmarsi di conseguenza. Ma se la vostra mente è dispersiva o impropriamente influenzata dall'ambiente o con molti pensieri vaganti, questo probabilmente non funzionerà.  

 

Capitolo 3°: La Natura della Sofferenza  

La scorsa settimana noi discutemmo sul giro della Ruota di Dharma nel Parco dei Daini in cui il Buddha diede il suo primo insegnamento delle Quattro Nobili Verità ai cinque asceti monaci. Abbiamo pure parlato dei significati di base delle quattro verità, e del sentiero che va dalla sofferenza alla liberazione. Ora continueremo con l’esaminare la prima nobile verità e la natura di sofferenza, strato su strato, sperando di trovarne il chiarimento come pure i significati più profondi.  

Ci sono vari approcci da cui poter cominciare a condividere con voi la conoscenza delle Quattro Nobili Verità. Invero, la loro profondità può essere rivelata tramite le tante tradizioni del buddhismo, ma come fonti io mi affido alle antiche scritture, come i nikaya, i primi sutra Pali, anche noti come agama, e dal shastra Sanskrito chiamato Abhidharmakosha (Trattato sul Beneficio della Conoscenza) [2.1]. Altri approcci includono quello del Madhyamika (Via di Mezzo) [2.2] e dello Yogachara (Mente-unica) [2.3], due predominanti scuole indiane di pensiero molto autorevoli nella loro spiegazione delle Quattro Nobili Verità. Nel buddhismo Cinese, oltre ai due lignaggi Chan--Linji e Caodong (Rinzai e Soto), c'era il Tientai e le tradizioni di Hua-yen [2.4], ciascuna col suo proprio modo di spiegare le Quattro Nobili Verità. Quindi, avendo questo in mente, io farò prima dei commenti dal punto di vista della tradizione buddhista più antica e più fondamentale.  

   

Tre Aspetti della Sofferenza  

La prima nobile verità è la verità dell'esistenza della sofferenza. Il Buddha insegnò che la sofferenza dovrebbe essere vista da tre aspetti [2.5]: il primo dei quali è la sofferenza della sofferenza, il secondo, la sofferenza del cambiamento e il terzo, la sofferenza onnipervadente dei cinque skandha, che discuterò successivamente.  

   

La Sofferenza della Sofferenza  

La sofferenza della sofferenza è la sofferenza ordinaria che noi possiamo sentire nel corpo e nella mente. Esempi di sofferenza della sofferenza sarebbero il disagio causato dalla malattia, o l’essere separati da chi si ama. Questi tipi di sofferenza ognuno li può riconoscere. Ma ad un livello più fondamentale, la sofferenza della sofferenza significa che noi non siamo in grado di essere nostri propri maestri. Noi siamo continuamente sotto l'influenza e il condizionamento di altre forze, tanto da parte dell'ambiente esterno quanto delle esperienze e attività della nostra propria mente e del corpo. Tutti questi condizionamenti sono 'messi-in-moto-da-altro', perché tutte le cause e condizioni che costituiscono un particolare momento sono dipendenti dall’accadere di altre cose, sia nell'ambiente o nel nostro proprio corpo. Questo è chiamato 'sorgere-condizionato' o 'originazione-dipendente'. Ad un livello più profondo, noi non siamo precisi nel controllo delle nostre menti e dei pensieri. Questa incapacità di controllare il nostro stesso essere è sofferenza.  

Quando riflettiamo in profondità su noi stessi, noi vediamo che abbiamo le nostre proprie prospettive e visioni sulle cose. Fino a questo punto ci sembra di avere un controllo della nostra mente. Ma quando però diamo uno sguardo più ravvicinato

ai nostri processi pensativi, spesso il pensiero precedente ed il pensiero seguente si contraddicono l'un l'altro. In Cinese questo stato si chiama 'la battaglia tra i cieli e gli umani', ed è il conflitto tra la mente razionale ed i nostri sentimenti. Quando noi sappiamo che una certa azione è corretta, i nostri sentimenti possono essere opposti - ciò che pensiamo e ciò che sentiamo possono essere in conflitto. Noi pensiamo di avere una certa personalità e certi tratti ma quando ci guardiamo più da vicino, ci sembra di avere personalità multiple e infatti siamo quasi nevrotici. Noi pensiamo in un modo, ed agiamo in un altro. In situazioni diverse, abbiamo personalità completamente differenti. Questo conflitto tra modi diversi di essere nella stessa persona può provocare molta sofferenza.  

Noi possiamo tentare di usare i nostri poteri mentali e fisici per mantenerci in salute e in benessere, ma col tempo sentiamo che il nostro corpo sta subendo dei cambiamenti, sta diventando più vecchio, ed è più soggetto alla malattia. Se pure il nostro proprio corpo non ci dà retta, quanto controllo su di esso realmente abbiamo? Se siete un leader o un insegnante, potete credere di avere un controllo sulle altre persone, ma vi sono dei limiti, comunque, per quanto si possa voler manipolare gli altri. Alla fine, non c'è nessuna persona, a parte voi stessi, su cui potete contare. Siete realmente soli. E anche questa incapacità di aver il controllo e sentirvi a vostro agio nell'ambiente circostante è una fonte di sofferenza.  

Le persone vorrebbero poter contare su qualcun altro, oltre che su se stesse. Alcuni miei discepoli hanno una così forte dipendenza in me, da dirmi, "Shifu, Lei deve prendersi cura della Sua salute. Come possiamo affidarci a Lei se Lei non ci fosse?" Qui io sto pensando a me, "neanch’io posso contare su di me, e qui arriva gente che vuole poter contare su di me!"(risate…). Così io dico loro di non contare su di me, ma sul Dharma, perché è il Dharma ciò su cui io stesso faccio affida-mento. Io oggi sono qui, ma potrei morire domani, così io incoraggio tutti voi per fare affidamento anche sul Dharma, di essere concentrati nel Dharma.  

   

Sofferenza del Cambiamento  

Il secondo aspetto della sofferenza è la sofferenza del cambiamento. La caratte-ristica dominante dell’esistenza è il continuo fluire. Il Libro Cinese dei Mutamenti, l'I-ching, dice che tutte le cose sono continuamente nello stato del divenire. Per contrasto, il buddhismo dice che le cose sorgono e simultaneamente periscono – e nella nascita vi sono già comprese creazione ed estinzione. Non è che il processo di morire comincia dopo la nascita, ma proprio che la morte sta nel fatto di essere nati. Nella creazione c’è l’estinzione; nell'estinzione c’è la nascita. L'unica costante è il cambiamento – vale a dire, l'impermanenza.  

Possiamo vedere l’impermanenza in molti modi, che corrispondono ai tre aspetti della sofferenza. Il primo è l’impermanenza nei riguardi della diretta esperienza individuale di nascere, vivere e morire. Il secondo è l’impermanenza nei riguardi della sofferenza accompagnata dal continuo cambiamento come fatto di esistenza. Il terzo aspetto è l’impermanenza nei riguardi del sorgere condizionato e della susseguente estinzione di tutti i fenomeni. Se noi possiamo comprendere queste dimensioni dell’impermanenza nella sofferenza, possiamo riconoscere anche la verità della vacuità e del non-sé.  

Il carattere Cinese ‘hua’ significa 'sofferenza del cambiamento', ma ha anche la sfumatura di 'distruttibile.' Una cosa che oggi è qui, può non esserci più domani. Questo è così, perfino con l’attività della nostra mente, momento per momento. Un pensiero fa spazio al successivo, pensiero dopo pensiero, in un continuo fluire. Questo è il significato di 'sofferenza del cambiamento'.  

Può sembrare che nella vita si possa aver raggiunto certi risultati o scopi, ma anche questi stanno continuamente cambiando. Alla fine, non c'è nessuna cosa come un risultato, obiettivo o mèta, che sia stato veramente raggiunto, perché qualsiasi cosa esiste è priva di permanenza. Invece, noi abbiamo bisogno di capire che il mondo è un infinito processo, senza inizio né fine. Quando guardiamo alle nostre realizzazioni da questo punto di vista, noi vediamo che il frutto dei nostri sforzi sono essi-stessi il prodotto del cambiamento. Qualcosa doveva cambiare per venire dal nostro punto di partenza fin dove siamo noi ora. Quando finalmente noi otteniamo ciò che vogliamo, perché mai il processo di cambiamento dovrebbe improvvisamente fermarsi? Per questa ragione, noi non dovremmo cercare di considerare i nostri guadagni come qualcosa su cui contare per sempre. Il successo non è una realtà fissa o stabile, e può essere anche molto fugace.  

Una volta, ho incontrato un tale che era da poco diventato professore. Io gli dissi, "Congratulazioni per esser diventato un professore!". Questo è ciò che lui aveva raggiunto, ciò che aveva progettato per la sua vita. Poi, un po’ dopo, gli dissi, "E’ proprio una sfortuna che un giorno lei dovrà andare in pensione, o addirittura morire!"(risate…). Non è che io volessi versare acqua fredda sul suo risultato; Io stavo tentando di incoraggiarlo a raggiungere una più profonda visione del modo in cui le cose esistono – cioè, che esse cambiano e nulla è permanente. Perciò, io lo incoraggiai per cercare un livello più profondo di intuizione nel suo proprio essere e del modo di essere del mondo, perché con questa penetrante saggezza, ognuno può avviarsi ad essere libero dalla sofferenza del cambiamento, cioè dalla sofferenza dell’impermanenza.  

 
Sofferenza Onnipervadente  

Il terzo aspetto della sofferenza, la sofferenza penetrante o onnipervadente, ha un duplice significato. Il primo è che la sofferenza è sperimentata da tutti gli esseri – quindi nessuno può sfuggirla. Il secondo significato è associato col quarto skandha, la volizione. Per spiegare questo, dovremo prima discutere nel loro insieme i cinque skandha.  

Il buddhismo insegna che un essere umano è composto di cinque aggregati, o skandha. Come tutte le forme di esistenza, i cinque aggregati sono caratterizzati da due realtà fondamentali - entrata in esistenza (creazione) e cambiamento (estinzione). Ancora una volta questo ci porta alla impermanenza, come comune tracciato nei tre aspetti della sofferenza. Tuttavia, perfino questo è solo un livello grossolano di comprensione. La sofferenza onnipervadente si riferisce anche ad una sottostante corrente di coscienza, in cui l’attaccamento e la brama possono trasformarsi rapidamente in odio e repulsione. È un genere assai sottile di soffe-renza psicologica.  

Il primo aggregato è la forma, e si riferisce all’aspetto fisico e materiale del nostro corpo. Gli altri quattro sono mentali, ed all'interno di questi vi sono divisioni più sottili. Il secondo aggregato è la sensazione. Il terzo è la percezione, ma si può chiamarlo anche concezione. Il quarto è la volizione o discriminazione che, come ho detto, gioca un ruolo-chiave nella sofferenza onnipervadente. Infine, l'ultimo aggregato è la coscienza.  

Sensazione e percezione si possono capire anche in termini di processi mentali. 'La mente' è un termine molto generico, ma dal punto di vista della psicologia buddhista, in questa mente noi vediamo due cose diverse: la mente discriminante, o mente primaria, e i fenomeni mentali. La mente discriminante è come un Re che controlla i suoi generali, le truppe, e così via. Il secondo e il terzo aggregato, sensazione e percezione, è come una parte di questa mente Reale, e questi due stati della mente possono essere suddivisi in altrettanti 175 diversi stati mentali.  

La mente discriminante contiene - si potrebbe dire, possiede - i suoi stati mentali, come l’avidità, la gelosia, la gioia, il piacere - un intero esercito di pensieri negativi come pure positivi. E così, la mente ed i suoi stati si rafforzano mutuamente l'una con gli altri. Gli stati mentali non sono la mente; essi sono solo i soldati che obbe-discono agli ordini della mente, aiutandola a sostenersi e perpetuarsi. Sebbene anche la volizione sia  un aggregato mentale, insieme a sensazione e percezione, essa però funziona ad un livello assai più sottile. Essendo l'aggregato che obbliga all’azione, la volizione fa sì che tutti gli esseri viventi siano in un continuo stato di movimento e di attività. Per questa ragione essi non possono sfuggire dalla forma più sottile della sofferenza onnipervadente.  

La sofferenza pervade i tre reami di esistenza che costituiscono il samsara [2.6]: il reame del desiderio, il reame della forma ed il reame della non-forma. E’ così perché questi reami sono caratterizzati da attaccamento, sia ordinario che sottile. Prendete una persona con grandi realizzazioni, la cui coscienza estremamente raffinata è libera dagli attaccamenti più comuni di avidità, odio, gelosia, e tutte le altre più infime discriminazioni. Quella persona è giunta allo stato di samadhi 'né concettualizzante né non-concettualizzante' - il samadhi di pura coscienza infinita. In questo stato molto elevato, essa è libera dalla sofferenza della sofferenza e dalla sofferenza dell’impermanenza, ma è tuttavia ancora soggetta alla sofferenza onnipervadente.  

I tre reami di cui sopra, sono dimensioni di esistenza dove gli esseri risiedono in dipendenza del loro livello di coscienza. Fin quando uno non trascende questi tre reami, non si è liberi dalla sofferenza. Nel reame del desiderio, in cui esistono gli umani, noi abbiamo tutti e tre i livelli di sofferenza. Anche se uno dimora in un profondo samadhi, in cui è libero dalla sofferenza dell’impermanenza, quel tale individuo ritornerà nel mondo samsarico allorché si troverà ad uscire dal samadhi. Per questo motivo, non importa quanto raffinato sia il suo livello di coscienza, finché c'è l’attaccamento, l’individuo sperimenterà la sofferenza onnipervadente.  

Il Buddha parlò di otto tipi di sofferenza che gli esseri umani devono sopportare: nascita, vecchiaia, malattia, morte, separazione da ciò che si ama, confronto con i nemici, incapacità di mantenere ciò che si brama e, infine, la sofferenza dei cinque aggregati. Di questi otto tipi di sofferenza, i primi sette sono contenuti nei cinque skandha. Ciò è chiamata 'l’ininterrotta sofferenza dei cinque skandha', e si vuole intendere che la sofferenza onnipervadente è rinnovata in continuazione dall'esistenza degli aggregati.  

Secondo gli Agama e l'Abhidharmakosha, vi è un'altra dimensione di intendere i cinque skandha, cioè 'afferrare'. [2.7] L’afferrare sorge quando una facoltà sensoriale interagisce con un oggetto di senso, creando l'attaccamento, e conse-guentemente, la sofferenza. Questo “afferrarsi” all'esperienza sensoriale assicura la continuità dei cinque skandha, vita dopo vita. Gli oggetti da afferrare non sono solo i desideri, ma anche l’odio e l’illusione. In parole povere, l’afferrare provoca la sofferenza ed a sua volta, la sofferenza provoca la continuità dei cinque aggregati attraverso le rinascite. Su questa base, noi manteniamo i veleni dell'avidità, odio, e ignoranza, che ci costringono alle future rinascite. A causa dei cinque skandha, noi generiamo, ancora e sempre, le vessazioni, cioè irritazioni e frustrazioni. Quindi, le vessazioni causano il sorgere dei cinque skandha, e questi provocano le vessazioni. Essi sono inseparabili, e si causano mutuamente l'un con l'altro.  

Nel compendiare i cinque skandha, possiamo dire che essi pervadono i tre reami di esistenza, che non c'è sofferenza che sia separata dai cinque skandha. Però, il buddhismo dice anche che tramite la pratica del Buddha-dharma noi possiamo essere liberati dalla vera sorgente della nostra sofferenza - i cinque aggregati.  

   

La Lezione del Sutra del Cuore

Il Sutra del Cuore afferma assai chiaramente: "Il bodhisattva Avalokitesvara, mentre era assorto nella profonda prajnaparamita, vide che tutti i cinque skandha sono vuoti e con ciò trascese ogni sofferenza". Il vero punto della Via buddhista non è solo comprendere la sofferenza, ma anche vedere la vacuità della stessa. Noi possiamo utilizzare l'insegnamento dei cinque skandha per chiarire le diverse dimensioni della sofferenza, realizzare la natura vuota degli skandha, e con ciò trascendere la nostra propria sofferenza.  

Quando noi percepiamo i cinque skandha, nello stesso modo come fu fatto dal Bodhisattva Avalokitesvara, simultaneamente c'è liberazione. Questo è perché nel vedere la vera natura della nostra esistenza, noi vediamo che simultaneamente essa è sofferenza, impermanenza, vacuità, e assenza di un sé. Qual’è la relazione tra queste quattro? Prima, c'è l’impermanenza. Quando non si penetra nella realtà dell’impermanenza, c’è la sofferenza. Essendo nella sofferenza, si sente che c'è un 'io' che sperimenta la sofferenza. Ma per Avalokitesvara, la natura della sofferenza fu rivelata in un modo triplice. È instabile, vuota e priva di un sé, quindi senza la sofferenza. Perché è così? Perché sviluppando l'intuizione penetrante con la pratica del Buddha-dharma, uno è liberato dalla sofferenza. Tramite un profondo ‘insight’ nell’evidenza dell’impermanenza, arriviamo a riconoscere l'assenza del sé. Così Avalokitesvara percepì l’impermanenza e la vacuità e, attraverso la vacuità, comprese che non c'è nessun ‘sé’. Ma noi, con una visione illusa, sperimentiamo soltanto la sofferenza, come davvero reale, permanente, e 'mia'. Ed a causa del nostro aggrapparci ed afferrarci agli attaccamenti, non possiamo sfuggirla.  

 

Sommario  

Quindi, cosa c’è di buono in tutto questo discorso sulla sofferenza e l’eliminazione della sofferenza? Ora che sapete cos’è la sofferenza, spero che la sua conoscenza possa esservi di aiuto. Io spero anche che abbiate una comprensione dei tre sigilli del Dharma- sofferenza, impermanenza e nessun-"né. Ma la mia esperienza è che molti discepoli e studenti, laici o monaci, pur avendo sentito più e più volte tutto questo, continuano ancora a sperimentare la sofferenza. Spesso mi sono trovato ad ascoltare le loro lamentele e ho chiesto loro, "Perché non pratichi il Buddha-dharma?" E la loro risposta spesso è stata, "Praticare? Conosco tutto sulla pratica. Io conosco la sofferenza, conosco l’impermanenza, conosco la vacuità, e conosco l’assenza del sé. Nonostante tutto ciò, io sono ancora adirato ed irritato". Questo è realmente lo stato delle cose con molte persone. Noi già conosciamo tutte queste cose, eppure ciò non ci può aiutare a non essere irritati. Perché è così? Perché la nostra ignoranza fondamentale non è stata sradicata. Noi siamo ancora sottoposti all’avidità, odio, ed illusione, e perciò subiamo ancora la sofferenza. Noi sappiamo di essere ancora ignoranti ma siamo persistenti nella nostra ignoranza, e questa è la vera ignoranza.  

Vedervi tutti venir qui a sentirmi parlare di sofferenza mi ha reso molto felice, ed essendo così felice, mi sono lasciato andare a parlare di sofferenza, sofferenza, e ancora sofferenza. Ciò significa che con il vostro permesso, dovrò continuare la settimana prossima a parlarvi delle Quattro Nobili Verità. Anche se il soggetto del nostro discorso è la sofferenza, io sono felice di parlarvene. E ci sono molte altre cose meravigliose da seguire, come l'origine, la cessazione e, finalmente, l’uscita e l'estinzione della sofferenza stessa. E questo mi farà ancora più felice. (Risatine ed applausi…)  

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Capitolo Tre: L'Origine della Sofferenza  

Nel primo di questi discorsi, abbiamo dato un chiarimento generale delle Quattro Nobili Verità. Nel secondo discorso, abbiamo esaminato in profondità la prima nobile verità - la verità della sofferenza. Oggi, voglio parlare della seconda nobile verità, la verità dell'origine della sofferenza.  

Molto spesso noi ci troviamo in situazioni difficili e diamo la colpa agli altri per i nostri problemi. Qualche volta biasimiamo perfino Dio o altre divinità per le nostre difficoltà. C'è un detto Cinese, "Il cielo è senza occhi", che significa che le divinità non ci stanno guardando. Alcuni buddhisti potrebbero biasimare anche il Buddha in cui essi hanno preso rifugio. Quindi, a meno che noi non ci rendiamo conto di ciò che sta accadendo nella nostra vita personale, è assai facile biasimare gli altri per le nostre tribolazioni. In particolare, noi dovremmo prestare molta attenzione alla sofferenza nella nostra propria vita, e in che modo quella sofferenza si origina. Noi dobbiamo proprio capire la vera origine della nostra sofferenza.  

Per origine della sofferenza, noi intendiamo ciò che sta causando le nostre attuali esperienze di vita. Qualsiasi cosa che noi sperimentiamo in questo preciso momento è il risultato del nostro karma. Nel senso più semplice, il termine karma significa azione; perciò, il karma è il risultato di tutto ciò che noi abbiamo fatto in passato. Quindi quando parliamo di karma, stiamo parlando di cause ed effetti, o conseguenze.  

Gli effetti del karma non riguardano solo questa vita attuale, che è abbastanza corta, ma anche le innumerevoli vite passate e future. Quindi quando noi capiamo veramente che la sofferenza è il risultato di cause stabilite nelle vite precedenti, stiamo acquisendo una visione più ampia di dove siamo, in relazione alle nostre esperienze. Noi capiremo anche come le azioni di questa vita influenzeranno la sofferenza futura.  

L’operato del karma non sempre provoca una ovvia sofferenza. Noi possiamo essere testimoni che nella nostra vita vi sono anche numerose occasioni di felicità e di buona sorte. A volte, possiamo anche sentirci benedetti. Tuttavia, quando ci sentiamo benedetti, quando abbiamo successo, quando tutte le cose vanno per il verso giusto, possiamo diventare arroganti e presuntuosi. Noi possiamo pensare, "Ho lavorato sodo per poter avere il mio successo. Io dovrei essere orgoglioso e perciò sentirmi bene!". Eppure, quando le cose si rivoltano contro di noi, quando la buona sorte se ne va, noi cominciamo a biasimare gli altri o gli eventi esterni per le nostre disgrazie o sfortuna.  

Questo tipo di mentalità dimostra che noi realmente non capiamo il vero operato del karma. Se avessimo una chiara visione della nostra situazione nel mondo, saremmo meno miopi e potremmo estenderla oltre questa vita attuale. Potremmo vedere che il successo, le benedizioni, e la buona fortuna sono dovuti al karma che è stato creato nel passato, in tempi senza inizio. Capiremmo di non essere il solo fattore, ma di essere solamente uno fra i molti che sono responsabili della nostra buona sorte. Comprenderemmo anche che le difficoltà e le tribolazioni nella nostra vita ci sono anche a causa delle azioni nelle vite passate.  

Quelli che hanno questa visione più ampia del mondo saranno meno soggetti a soffrire, più liberi da presunzione, arroganza, e lamentazioni. Costoro capiranno che tutto ciò che essi sperimentano in questo momento è il risultato di atti che sono avvenuti in questa e nelle vite passate. Quando noi capiamo questo, non c'è più nessun bisogno di essere così orgogliosi, o disperati, in qualunque situazione. Questo tipo di comprensione è utile poiché ci libera da atteggiamenti negativi che possono essere la causa della creazione di ulteriore karma e sofferenza.  

   

L’ Operato del Karma  

Come si manifesta ed entra in essere il karma, nella nostra vita? Il significato del carattere Cinese ‘chi’ è 'origine-della-sofferenza', ma ha anche la sfumatura di 'accumulazione'. Origine significa poi sia 'la fonte' che 'l'accumulazione'. Possiamo già aver capito che la fonte è il karma, ma cos’è l'accumulazione? Per far sì che il karma possa manifestarsi, devono entrare in campo altri fattori. Questi fattori sono ‘le cause e condizioni’ che sono create dalle nostre irritazioni (klesha, [3.1]), e che quindi ci portano ad accumularle. Quindi l'accumulazione si riferisce alle irritazioni, ed al karma che le irritazioni generano. La causa principale della sofferenza è il karma, ma esso deve essere accompagnato alle cause e condizioni accumulate, per manifestarsi nel momento presente. I fattori che fanno maturare o manifestare il karma sono le irritazioni, le nostre afflizioni emotive. Con il lavorar insieme dell'accumulazione di causa (karma), e condizioni (klesha), noi abbiamo una più ampia e totale visione dell'origine della sofferenza. Questi due elementi si includono e si accrescono mutuamente l'un l'altro, creando delle ripercussioni che alla fine entrano in essere. Questa è la visione più sottile e più vicina alla verità dell'origine della sofferenza.  

Io rimanderò a più tardi una particolareggiata discussione dei klesha. Prima, però, assicuriamoci di capire l'origine della nostra sofferenza. Noi abbiamo due cause di sofferenza interrelate tra loro: una è il karma, l'altra sono i klesha – che sono il sorgere di effetti maturati da una continuità di irritazioni. La nostra esperienza del presente non è priva di causa; che ha le sue origini ed ora si manifesta attraverso il condizionamento. Perché queste due cause arrivano insieme in primo luogo per causare tutta la nostra sofferenza? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo parlare dell’intenzione.  

   

Karma ed Intenzione  

Avendo una generale comprensione del karma, ora noi possiamo rivelare un altro livello più sottile di karma. Quando agiamo, quell'azione è accompagnata di solito dalla nostra intenzione. Secondo i sutra buddhisti, infatti, il karma è ‘intenzione’, nel senso di essere un’energia che spinge gli effetti di una particolare azione a maturare nel futuro.  

C'è il karma-come-intenzione e il karma-come-intenzione-manifestata. Il Karma-come-intenzione è il lavorìo della nostra mente prima che noi ci impegnamo in una azione. Per esempio, quando noi pensiamo di fare qualcosa di buono o cattivo questo è karma-come-intenzione, ma l’azione si ferma subito lì. Invece, il Karma-come-intenzione-manifestata significa che dopo che si ha una intenzione buona o cattiva, si agisce in tal senso. Spesso le persone non sembrano essere consapevoli quando stanno facendo qualcosa di buono o di cattivo. Esse neppure riescono a distinguere fra il bene ed il male, figuriamoci se comprendono che in realtà esse lo stanno proprio facendo. Ma se parliamo del karma-come-intenzione-manifestata, chiaramente noi vogliamo dire che uno comprende ciò che sta facendo, sia esso il bene o il male.  

   

Come si Manifesta il Karma  

Riguardo a come il karma si manifesta nella nostra vita, ve ne sono di quattro tipi. Il primo è la maturazione, o karma di fruizione; poi c’è il karma risultante; poi c’è il karma residuo, o karma che non è ancora giunto a conclusione; e infine c'è il karma simultaneo, in cui il risultato giunge immediatamente insieme con l'azione. Dove ci troviamo noi in relazione a questi gradi di karma? In ciascun momento della nostra vita noi non siamo veramente sicuri se stiamo sperimentando, per esempio, il karma risultante. Noi non siamo sicuri in che misura stiamo creando nuovo karma, se le nostre azioni hanno risultati durevoli o residui, e neppure noi comprendiamo il karma simultaneo. Io non cercherò di penetrare in tutti e quattro i tipi di karma, ma oggi per il nostro scopo è assai importante il karma di fruizione.  

Perciò, ora noi parleremo del karma di fruizione, o karma in maturazione. Il karma creato con il karma-come-intenzione non è grande come il karma creato da quello realmente manifestato e messo in atto. D’altra parte, allorché il nostro pensiero si trasforma in karma-come-intenzione-manifestata, le reali ripercussioni nel mondo saranno ben più grandi e la retribuzione karmica per quell'azione sarà anche più pesante. Il 'castigo' in relazione al karma ha un significato neutro, che dipende da tipi di cause e tipi di risultati.  

Il Karma può maturare in tre modi: tramite il pensiero, con la parola, e tramite le azioni. Il Karma-come-intenzione che però non matura in karma-come-intenzione-manifestata è un 'karma nascosto', poiché esiste soltanto nella propria mente. Opposto a questo vi è il 'karma manifesto', che si riferisce al karma-come-intenzione, più la parola e/o l’azione. Collegando questi all’intenzione, noi vediamo che il karma può maturare solo come intenzione; e cioè, intenzione più la parola, ed intenzione più l’azione.  

Perciò, solo pensare di uccidere qualcuno può creare il cattivo karma? Quando si comprende il karma come causa ed effetto, si vedrà che perfino i pensieri in realtà accumulano karma. Anche solo pensare e avere l'idea di uccidere qualcuno, mette in moto una relazione causale con eventuali ripercussioni. Questo tipo di pensieri costituisce la nostra vita mentale, e se c'è sufficiente accumulazione essi possono manifestarsi in parole o azioni. Nei sutra, il Buddha dice che nel mondo samsarico non c’è una sola azione, o anche un solo pensiero insorgente, che sia escluso dal creare karma. Tutti gli esseri senzienti che agiscono o pensano, sono centrati sull’attaccamento a se stessi ed a causa di ciò continuano a creare karma. Perciò, quand’anche noi si abbia soltanto pensieri di uccidere, come praticanti buddhisti dovremmo generare un senso di contrizione e praticare il pentimento.  

Generalmente parlando, quando uno si impegna in azioni negative (la causa), uno raccoglierà risultati negativi (l'effetto). Questo è il risultato causale del cattivo karma. Di conseguenza, quando uno si impegna in azioni virtuose, raccoglierà risultati virtuosi. Questo è il risultato causale del karma virtuoso. C'è un altro tipo di karma che non è né buono né cattivo, e più tardi ne parleremo. Generalmente parlando, comunque, il karma può essere buono, cattivo, o neutro.  

Il karma che risulta neutro ha il fattore determinante nello stato mentale che si produce prendendo parte all’azione, se ci sono sottili inclinazioni verso il bene o il male. Potrà ancora esservi una retribuzione che sia incline al bene o al male, ma sarà mite. Tuttavia, vi sono azioni karmiche genuinamente neutrali, con toni né salubri né insalubri e la retribuzione risultante non sarà né buona né cattiva.  

Gli esseri senzienti a causa del loro karma possono rinascere in uno dei sei modi o reami [3.2] di esistenza. Un essere senziente che prende parte in azioni salubri riceverà il premio rinascendo in uno dei tre reami superiori - il reame umano, o uno dei due reami celesti. Un essere senziente che prende parte in azioni insalubri riceverà il castigo rinascendo in uno dei tre reami inferiori - il reame animale, il reame degli spiriti o peggio, il reame degli inferni. Così il karma accumulato determina fra quale dei sei reami, e che forma si prenderà alla prossima rinascita.  

Viene fatta un'altra duplice divisione in accordo alla pratica del sentiero: Il karma contaminato e il karma puro. Il karma contaminato include i karma buoni, cattivi, e neutri, ed è l'origine della sofferenza. Il karma puro è creato dalla pratica del Buddha-dharma, il sentiero che conduce fuori della sofferenza. Impegnandosi in azioni dal karma puro, si potrà divenire liberati dall'origine della sofferenza.  

 
I Klesha  

In precedenza, abbiamo parlato di karma ed irritazioni, che si accumulano come cause e condizioni e causano la nostra sofferenza. Questo è ciò che il Buddha intendeva con ‘origine’ della sofferenza. In realtà, sono le nostre afflizioni emotive gli agenti che fanno maturare il karma, sia buono, cattivo, o neutro. Qualunque cosa che ci spinge a continuare il ciclo di esistenza è considerata l'origine della sofferenza. Un essere senziente completamente liberato delle afflizioni emotive, o irritazioni, non darà più origine alla sofferenza. Così, la cessazione dei klesha è il modo per uscire dalla sofferenza.  

Capire il ruolo emotivo delle afflizioni nel creare il karma è cruciale. Di queste, la più importante è l’avidyà, o ‘ignoranza fondamentale’. In Cinese, avidyà è tradotto con due caratteri che significano 'non brillante' o 'non chiaro', volendosi riferire alla luminosità e alla chiarezza della mente della saggezza (prajna). Senza questa prajna, si rimane nell’oscurità (avidyà) – cioè un tipo di ignoranza fondamentale, o innata, che governa il nostro modo di essere. Una volta che noi comprendiamo realmente in che modo le forze concomitanti dei klesha fanno maturare il nostro karma, diviene possibile cambiare queste condizioni per far cessare la sofferenza. Dopodiché, c’è meno probabilità che il karma maturi i suoi effetti.  

Ci sono sei irritazioni-radice, o klesha, che ramificano in altri innumerevoli fattori mentali negativi. Due tra i più pervasivi sono l’avidità e l’odio. Dall'avidità si crea il desiderio, la bramosia, e l'attaccamento. L’odio ha numerosi discendenti, come l’avversione, la rabbia, e la gelosia. L'avidità e l’odio sono come capi-criminali che attivano le loro bande di malviventi. Se si vuole eliminare la banda, è meglio andare diritti allo scopo. Una volta che ci si è liberati del capo, i subalterni si spar-paglieranno e si disperderanno. Una volta che noi abbiamo tagliato via le radici, i rami si appassiranno.  

Le sei irritazioni-radice si dividono in cinque afflizioni emotive: ignoranza, avidità, odio, orgoglio, e incredulità, con una sesta, che è l'afflizione delle visioni erronee. Le visioni erronee, sono modi di vedere il mondo che noi manteniamo da tempi senza inizio. In effetti, si potrebbe anche dire che tutte le sei irritazioni sono visioni errate. Tutte e sei sono i sottoprodotti di ciò che noi abbiamo fatto in passato, con una differenza. Le afflizioni emotive sono l'accumulazione di tutte le nostre azioni passate, emozioni e così via, mentre l'afflizione delle visioni errate include tutto il karma che noi abbiamo creato, più tutto quello che noi abbiamo imparato in questa attuale vita - le diverse visioni e punti di vista che noi abitual-mente manteniamo.  

   

Quattro Sentieri per l’Attualizzazione  

Riferite alle irritazioni emotive ed alle irritazioni derivate dai punti di vista, vi sono i quattro Sentieri all’attualizzazione. C'è il Sentiero dell'Accumulazione, il Sentiero della Visione, il Sentiero della Pratica ed il Sentiero della Realizzazione. Il sentiero dell'accumulazione è il riconoscere le irritazioni; cioè, il comprendere la verità dell'origine della sofferenza.  

Il sentiero della visione è il comprendere che cause e condizioni sono vuote di un ‘sé’ – cioè, vedere per la prima volta la verità della vacuità. Nel momento in cui si realizza il sentiero della visione, le irritazioni dei punti di vista sono terminate e la prospettiva corretta della realtà è ottenuta. Tale persona ha visto la verità, ma non ha ancora raggiunto la perfezione. Essa dovrà continuare a praticare così che le restanti irritazioni emotive profondamente radicate potranno essere soggiogate nel sentiero della pratica. Vedere la natura della realtà è solo l'inizio della pratica, che consiste nel sottomettere le proprie irritazioni emotive una alla volta, fino a che si arriva al sentiero della realizzazione. A quel punto, l'intero essere è in armonia, accordandosi con la natura della realtà, e ormai libero da tutti i sei tipi di irritazioni.  

Quindi l'ordine è che noi si cominci come persone ordinarie con le nostre irritazioni sul sentiero dell'accumulazione. Quando otterremo la realizzazione e vedremo la vacuità, saremo sul sentiero della visione. Entrando nel sentiero della pratica, noi sottometteremo le irritazioni una alla volta, facendole cessare. Quando la nostra pratica si conclude nella piena realizzazione, questo è il sentiero di attualizzazione di un Arhat. Nella scuola Mahayana, la piena realizzazione del Buddha, significa che tutte le irritazioni sono state eliminate.  

Tuttavia, finché noi non siamo nel sentiero della pratica e non eliminiamo le sei irritazioni-radice, noi saremo ancora spinti in futuri cicli di sofferenza. Per capire la lotta, dobbiamo parlare delle irritazioni secondarie che crescono selvaggiamente in fuori come rami dalle irritazioni-radice. Il Buddha parlò di 84,000 irritazioni e di conseguenza, di 84,000 pratiche di Dharma per tagliarle. Finché queste 84,000 irritazioni esistono, noi avremo 84,000 ostruzioni da dover superare prima che si possa arrivare a percepire la vera natura della realtà. Come eliminare queste 84,000 irritazioni? Francamente, sarebbe proprio uno sforzo enorme, titanico. Ma, come ho detto prima, noi non dovremmo preoccuparci dei rami. Ma solo arrivare alle radici. Tagliate le sei irritazioni-radice e alla fine le altre 83,994 appassiranno e si estingueranno da sole.  

Prima abbiamo detto che il karma-come-intenzione era meno severo del karma-come-intenzione-manifestata. Se noi pensiamo qualche cosa ma non la mettiamo in atto, ciò ha meno conseguenze nella retribuzione. Per analogia, si pensi ad una pentola d’acqua sulla stufa, e si immagini che l'acqua sia il karma-come-inten-zione. Ora immaginiamo di accendere una fiamma sotto la pentola. Si pensi alla fiamma come le nostre innumerevoli irritazioni. Alla fine, la fiamma ardente delle nostre irritazioni farà bollire l'acqua (il karma-come-intenzione) con parole o azioni (karma-come-intenzione-manifestata) con le successive conseguenze. Da questa analogia si può vedere che se noi, tanto per cominciare, spegnessimo la fiamma delle irritazioni, rimuoveremmo gli strumenti con cui vengono creati cicli futuri di karma e di sofferenze. Con questa comprensione, possiamo vedere che lo scopo di praticare il Buddhadharma è di eliminare le irritazioni, e con ciò  di limitare la sofferenza.  

Nel nostro primo discorso sulle Quattro Nobili Verità, abbiamo discusso dei dodici anelli del sorgere condizionato. I dodici anelli sono stadi nel ciclo delle nascite e morti (samsara), che determinano il sorgere condizionato, facendoci andare da uno stadio al successivo. Uno di questi anelli è l’esistenza – il venire ad essere dell'individuo. Nella catena dei dodici-anelli, il primo è l’ignoranza fondamentale (avidyà), che conduce all’attaccamento e così via. Alla fine, ciò fa sì che si arrivi all'undicesimo anello, il nostro venire in esistenza come un nuovo ciclo di nascita e morte. L’esistenza, o l'esistenza delle vite future, ha due qualità: quella del 'fluire con l’irritazione' e 'l'accumulazione di sofferenza'. A causa di queste due forze, e tramite esse, noi spingiamo il nostro essere nei cicli futuri di nascita e morte.  

Prima c’è un flusso ed una accumulazione che è in accordo con la nostra mente - il reame interiore. L’attività interna della nostra propria mente ci spinge verso la futura sofferenza e verso una continua stimolazione delle irritazioni. Poi c’è anche un flusso ed una accumulazione in accordo col mondo - il reame esterno. Nella precedente conferenza noi parlammo di mente primaria [3.3] e dei suoi oggetti mentali - la mente-Re e tutti i suoi subalterni che eseguono i suoi ordini. Questi fattori mentali si riferiscono ad avidità, odio, ignoranza, e a tutte le altre irritazioni, sia radici che rami. Quando queste irritazioni entrano in contatto con il reame esterno tramite la mente primaria, questo fa generare anche le ulteriori irritazioni e sofferenze. Sia il flusso che l'accumulazione possono avere luogo internamente, attraverso le nostre proprie afflizioni emotive, ed esternamente con la nostra mente che risponde al mondo esterno ed entra in contatto con esso. E questa è l'origine della sofferenza.  

   

Sommario  

Le Quattro Nobili Verità sono molto complesse, difficili da capire, e difficili da spiegare. Da tre domeniche consecutive noi stiamo parlando solo di sofferenza e dell'origine della sofferenza. Eppure dobbiamo ancora scoprire la terza e la quarta verità, la cessazione, e la via per uscire dalla sofferenza. Quando avrò finito, credo che voi dovreste avere una piena comprensione del cuore del Buddha-dharma, perché le Quattro Nobili Verità ne incorporano tutti gli aspetti. Noi possiamo usarli come una base per capire ciò che insegnò il Buddha, e possiamo altresì usarli nella nostra pratica. Anche se esse trattano di sofferenza, io sono sempre felice di parlare sulle Quattro Nobili Verità perché esse ci mostrano pure il modo di uscire dalla sofferenza. Se voi siete ancora interessati ad uscire dalla sofferenza, noi  continueremo la settimana prossima. Grazie per essere venuti.  

 

Capitolo Quattro: La Cessazione della Sofferenza

 

Oggi completerò la mia presentazione delle Quattro Nobili Verità del buddhismo. Nei tre precedenti discorsi abbiamo discusso la verità della sofferenza e la verità dell'origine della sofferenza. Ora continueremo con la terza e quarta nobile verità: la cessazione della sofferenza, ed il sentiero della cessazione.  

 

Il Significato della Cessazione

La vera cessazione non è il processo di eliminare la sofferenza; la vera cessazione è uno stato di completa realizzazione. Significa aver completamente eliminato l'afflizione emotiva ed aver pienamente realizzato il Sentiero; è la liberazione dalle cause e dagli effetti della sofferenza, ed è uno stato in cui non ci sono più i flussi – le contaminazioni-radice della brama, del divenire, e dell’ignoranza, che ci trat-tengono nel samsara, che è il ciclo di nascita e morte.

La causa della sofferenza è la nostra resistenza al soffrire e il tentare di sfuggire le tribolazioni. Noi ci aiutiamo quando possiamo trovare il significato nella nostra sofferenza e facciamo in modo di convivere con le nostre difficoltà, ed anche quando possiamo capire ed accettare la sofferenza come il risultato dei nostri propri pensieri ed azioni. Quanto più noi riconosciamo le cause della sofferenza e sperimentiamo realmente i suoi effetti, tanto più realizziamo un certo grado di liberazione, e cominciamo ad essere liberi da essa. Per analogia, se non siamo rilassati quando sediamo in meditazione, le nostre gambe e la schiena possono farci male. In questo caso, la causa è il nostro corpo che prende una postura di meditazione; l'effetto è il disagio. Perciò, abbiamo causa ed effetto di sofferenza. Ma se troviamo un valore nella meditazione, allora ad un certo punto saremo liberati dal disagio della seduta. Non che il disagio scompare, ma noi non avremo più l’idea di resistergli o di sfuggirlo, e così la nostra mente sarà già libera. Questa è solo un'analogia, ma si può dire che questo è proprio un tipo di cessazione della sofferenza.

 

Realizzare la Natura della Vacuità

La vera cessazione è il realizzare pienamente la natura della vacuità ed il liberarsi dal ciclo di nascita e morte. Come si può realizzare pienamente la natura della vacuità? Per comprendere la vacuità noi dovremmo prima capire il funzionamento delle cause e condizioni. I fenomeni entrano in esistenza attraverso il 'sorgere condizionato', che è il venire insieme di cause e condizioni che vicendevolmente si influenzano l'un l'altro. Tutto è in un continuo flusso; da un istante all’altro nulla rimane uguale a se stesso. Qualunque causa o condizione che colpisce un oggetto trasformerà l'intero. Attraverso questa continua trasformazione tutti i fenomeni sorgono, si deteriorano, ed alla fine cessano e scompaiono. Poiché tutto è in un flusso costante senza identità o una natura permanente, non ci può essere nulla che sia identificabile come un 'sé' separato. Noi chiamiamo 'vacuità' questa qualità di non-sé nei fenomeni. Noi chiamiamo 'non-sé' questo vuoto, o assenza, di realtà sostanziale.

Coloro che realizzano la natura della vacuità comprendono che anche la loro vera natura stessa è quella del flusso, del cambiamento, e dell’impermanenza. Essi sperimenteranno direttamente che la mente, il corpo, e l’ambiente circostante, è pervaso da un’unica qualità dinamica di vacuità. Essi vedranno la Buddha-natura. Realizzare profondamente e pienamente la Buddha-natura significa diventare un arhat, un essere nobile che ha ottenuto la cessazione. Significa avere le quattro caratteristiche di un arhat: (1) che tutte le contaminazioni sono state purificate, (2) che tutto ciò che doveva essere fatto è stato fatto, (3) che tutte le rinascite future sono state esaurite, e (4) che la liberazione dal karma e dalla retribuzione stessa è stata realizzata. Questo è realizzare la vera natura della vacuità.  

 

Nirvana

In Sanskrito, il termine ‘nirvana’ significa 'estinzione-quiescenza'. L'estinzione è la completa cessazione della sofferenza e la conclusione del ciclo samsarico. Quiescenza significa che l'ignoranza fondamentale e le sue irritazioni sono state acquietate, estinte, che non sorgeranno più. Ci sono due livelli di nirvana: nirvana con residuo e nirvana senza residuo. Un arhat che ha realizzato il nirvana con residuo è stato liberato da tutte le contaminazioni mentali ma ancora gli rimane il residuo karmico del corpo. Il corpo è ancora soggetto alle disgrazie che possono accadere ad un corpo, ma questo residuo non ha le irritazioni causate dall'avere un corpo come la persona ordinaria. L'arhat sperimenta ancora eventi dolorosi e situazioni difficili, ma essendo completamente libero dai klesha - desiderio, odio, ed illusione – ha una mente che non soffre. Così fu per molti dei discepoli del Buddha che si erano illuminati. Il secondo tipo di nirvana è il nirvana senza residuo (parinirvana), in cui il ciclo della vita termina senza traccia dei cinque skandha, e perciò non trascina con sé alcun castigo futuro. Dal punto di vista della liberazione individuale, un arhat o un buddha che entra nel nirvana senza residuo non dovrà più apparire nei tre reami di esistenza. Da punto di vista del sentiero del bodhisattva [4.1] vi sono alcune importanti differenze, ma per ora voglio solo focalizzare il modo in cui il nirvana si relaziona con la cessazione. Ciascuno di questi tipi di nirvana è raggiunto al quarto livello di fruizione [4.2] del sentiero di un arhat, il livello di 'non-più-apprendimento'. Le tre tappe precedenti sono stadi chiamati ‘ancora-con-apprendimento’, dove c'è ancora un bisogno di praticare.

In effetti, parlare di liberazione può essere quasi una forma di adescamento e di allettamento, ma finché noi non diventeremo arhat questi stati elevati non hanno relazione con noi. Parlare troppo di nirvana può rendere insignificante il sentiero, perciò dobbiamo continuare a parlare del sentiero stesso.  

 

L'Ottuplice Nobile Sentiero

Quando il Buddha espose le Quattro Nobili Verità ai cinque monaci asceti al Parco dei Cervi, spiegò la quarta nobile verità come la Via per uscire dalla sofferenza. Con ciò, egli intendeva l'Ottuplice Nobile Sentiero che sono le otto pratiche che possono condurci alla cessazione. Esse sono ‘corretta visione, corretta intenzione, corretto parlare, corretta azione, corretto modo di vivere, corretta perseveranza, corretta consapevolezza e corretta concentrazione. Questo Ottuplice Sentiero è la Via di Mezzo tra gli estremi dell'indulgenza al piacere e dell'ascetismo. Seguendo il sentiero del piacere, non ci si libererà dalla sofferenza, perché felicità e piacere non sono durevoli, ed inevitabilmente prima o poi, tutti dovranno incontrare la disgrazia, la malattia, e la morte. D'altro canto, l’ascetismo con la sua durezza e l’auto-tormento non può, da solo, condurre alla saggezza ed alla liberazione dell’ attaccamento. Liberi da questi due estremi, si dovrebbe seguire la stabile Via di Mezzo dell’Ottuplice Sentiero. Dato che non abbiamo ancora realizzato la verità della cessazione, noi ci troviamo ancora nelle quattro condizioni di sofferenza di nascita, vecchiaia, malattia e morte. Per aiutarci a cessare questo ciclo, il Buddha ci insegnò a praticare l’Ottuplice Sentiero, gli otto modi di essere tramite i quali possiamo giungere alla cessazione. Prima, però, voglio assicurarmi che si capisca la differenza tra il processo della cessazione e la realizzazione della cessazione. L’Ottuplice Nobile Sentiero è un processo graduale che serve per far cessare le nostre irritazioni e la sofferenza che ne consegue, inclusa l'irritazione-radice della ignoranza. Man mano che si realizza l’ottuplice sentiero, diminuiranno le irritazioni e la sofferenza. Il sentiero è graduale, ma il risultato ultimo è la realizzazione della completa cessazione. Mentre si è sull’ottuplice sentiero, noi dovremmo praticare anche le cinque più alte preparazioni di fede, generosità, precetti, concentrazione, e ‘insight’ (visione profonda). Esse sono state chiamate ‘preparazioni’ perché più noi avanziamo sul sentiero, più raggiungiamo elevati livelli di adempimento di questi requisiti. Ma non si dovrebbe capire le cinque preparazioni come separate dall’ottuplice sentiero. Più ci impegnamo nelle cinque preparazioni e più andiamo in profondità sull’ottuplice sentiero. Quando discuteremo l’ottuplice sentiero nei dettagli, noi ci riferiremo anche alle più alte cinque preparazioni. A causa di limiti di tempo io non potrò discutere qui gli otto percorsi nei dettagli, dato che essi meritano da soli almeno una intera conferenza, però tenterò di spiegarli, ognuno brevemente, e riferirlo alla cessazione e liberazione.  

 

Corretta Visione

Il primo nobile sentiero, la corretta visione, è la corretta comprensione del vero Dharma, specialmente le Quattro Nobili Verità, il tre sigilli del Dharma (tre segni di esistenza), e i dodici anelli del sorgere condizionato. Noi abbiamo discusso questi concetti in precedenti discorsi. La prima più alta preparazione, la fede, è connessa moltissimo con la Corretta Visione. Come buddhisti, noi non dobbiamo affidarci ad una fede cieca, ma ad una fede basata su una comprensione corretta del Dharma. Così com’è, tra gli otto percorsi, la corretta visione può essere il più importante nel realizzare la cessazione.  

 

Corretta Intenzione

Il secondo nobile sentiero è la corretta intenzione, che vuol anche dire 'corretto pensiero' e 'corretta riflessione'. Come buddhisti, noi dovremmo mantenere visioni corrette, ma dovremmo anche integrarle nel nostro modo di pensare e nel nostro vero essere. Per compiere questo, noi dobbiamo riflettere su quello che abbiamo sentito e imparato. In relazione alle Quattro Nobili Verità, noi dobbiamo capire le origini della sofferenza nelle nostre stesse azioni, e dovremmo considerare tutte le circostanze come una potenziale sofferenza. Dopo aver compreso l'origine della sofferenza, noi svilupperemo una corretta aspirazione e capiremo che la stessa sofferenza può essere eliminata. Con questo convincimento, noi integriamo le Quattro Nobili Verità nel nostro modo di pensare e nel nostro proprio essere, e ci impegniamo nel sentiero. Questo è ciò che si intende con la corretta intenzione.  

 

Corretto Parlare

Il corretto parlare è la coltivazione dei quattro precetti che governano i nostri discorsi. Il primo precetto è dire sempre la verità ed astenersi dal dire il falso, tra cui quello più grave è di dichiararsi un buddha, quando non lo si è, e dichiararsi un essere illuminato quando non lo si è. Il secondo è frenarsi dal calunniare o dire parole divisive che possano creare discordia. Il terzo è di parlare piacevolmente e cortesemente, e frenarsi da un linguaggio aspro che può provocare sofferenza ad altri. Il quarto è frenarsi dal chiacchierare in modo frivolo, e dal pettegolezzo vano o malevolo. Quando sono praticate come virtù, queste regole del corretto parlare aiutano a purificare le nostre menti e le conseguenti azioni.  

 

Corretta Azione

La corretta azione si riferisce al sapersi astenere dall'uccidere, dal rubare, da una condotta sessuale sbagliata, dal mentire e dal prendere intossicanti. Questi sono fondamentalmente i cinque precetti che si devono accettare quando prendiamo rifugio nel Buddha, nel Dharma, e nel Sangha. Osservare questi cinque precetti è la corretta azione. Corretta azione si riferisce anche al soffrire, in quanto l’azione è karma, e finché creiamo karma che porta a soffrire, la cessazione non è possibile.  

 

Corretto Modo di Vivere

Corretto modo di vivere significa procurarsi il proprio sostentamento in accordo al Buddha-dharma, e facendo questo, non provocare danno a sé o ad altri. Ci sono perciò vari tipi di modi di vivere corretti, e vari tipi di modi di vivere sbagliati. Il Buddha bandì un certo modo di vivere procurato attraverso il rompere i precetti di corretto parlare e corretto agire. Tipi sbagliati di sostentamento includono anche tutto ciò che uno guadagna tramite le falsità, tramite l’auto-incensamento, tramite le pratiche occulte, tramite false dichiarazioni su di sé, e tramite l'esagerazione. Ci sono sottili distinzioni fra questi, ma tutti loro comportano la falsità, e lo sfruttare gli altri. In connessione con il corretto modo di vivere, il Buddha disse nei nikaya, "...Questa vita santa non è fatta per ingannare persone, né per fare progetti, né per profitto, favori, ed onori... questa vita santa è vissuta allo scopo di limitarsi, di abbandonare l'illusione, le passioni, per arrivare alla cessazione". [4.3]

 

Corretto Sforzo, o Perseveranza

Il sesto nobile sentiero è il corretto sforzo, o perseveranza, e si riferisce ai quattro modi corretti di esercitarsi, o sforzarsi: (1) eliminare le azioni insalubri che sono già sorte, (2) prevenire dal far sorgere azioni insalubri che non sono ancora sorte, (3) sviluppare atti salutari che non sono ancora sorti, e (4) far aumentare gli atti salutari che sono già sorti. Per 'atti’ o ‘azioni’, si intendono atti fisici come pure le parole e i pensieri. Corretto sforzo significa sforzarsi di raggiungere nel Dharma qualunque cosa che sia raggiungibile tramite la fede, la diligente applicazione, e la perseveranza.  

 

Corretta Consapevolezza

Di solito, le nostre menti sono piene di un intero esercito di distrazioni e pensieri discorsivi. Corretta consapevolezza significa essere liberati da queste afflizioni mentali, così che vi sia una sola cosa che rimane nella mente, e cioè il sentiero della pratica. Un approccio alla pratica di consapevolezza è quello di contemplare i sei oggetti della consapevolezza: il Buddha, il Dharma, il Sangha, i vari precetti, i meriti di rinunciare alle mondanità, ed i meriti delle buone azioni. Le sei pratiche consapevoli sono realmente i prerequisiti indispensabili per impegnarsi nei quattro fondamenti della consapevolezza di corpo, sensazioni, della mente, e dei dharma (oggetti mentali ed esterni). Non è necessario praticare tutte le sei pratiche della consapevolezza prima di praticare le quattro basi, o fondamenti. Si può anche scegliere una sola delle sei come pratica preparatoria. Una volta che ci siamo impegnati nei quattro fondamenti, o basi, della consapevolezza, noi possiamo entrare nell'ottavo nobile sentiero della corretta concentrazione.  

 

Corretta Concentrazione

La corretta concentrazione consiste di un intero repertorio di pratiche di samadhi [4.4]. Non è possibile qui dare tutti i dettagli, basti sapere che essi includono gli stadi dei sette espedienti: i primi cinque sono metodi per stabilizzare la mente [4.5], il sesto, sono le quattro basi della consapevolezza, e il settimo è il sentiero della visione, che è il primo livello del sentiero di un arhat. Per avere una corretta concentrazione vi sono anche le pratiche dei sedici aspetti [4.6] delle Quattro Nobili Verità, che furono brevemente discusse nella prima conferenza.  

 

La Cessazione ed i Dodici Anelli

Per cominciare il processo della cessazione, dobbiamo necessariamente capire i dodici anelli del sorgere condizionato, e in che modo essi sono cause ed effetti della sofferenza. I dodici anelli sono gli stadi che un individuo sperimenta tramite il ciclo samsarico di nascita e morte. Il primo (1) è l'ignoranza fondamentale: cioè essere ignoranti della natura impermanente e instabile dell’esistenza ed essere contaminati dai veleni di desiderio, odio, ed illusione. Questo collegamento dà il via al secondo anello, (2) l'azione, o gli impulsi volizionali, in cui vengono piantati i semi del karma. Il terzo anello (3) è la coscienza, la forza mentale attiva che ci spinge da un ciclo di vita al successivo. Nel quarto anello (4), il nome-e-forma, noi entriamo nella fase della vita attuale in cui i residui karmici di coscienza e forma fisica si riuniscono per divenire alla fine un individuo. Il quinto anello (5), le sei entrate, o facoltà sensoriali, che sono le nostre finestre di interazione col mondo. Si noti che, oltre ai sensi normali, la coscienza è la sesta facoltà sensoriale; Il sesto anello (6), il contatto, è l'interazione delle facoltà sensorie con l'ambiente circostante. Il settimo anello (7), la sensazione, discrimina fra le varie esperienze considerandole piacevoli, dolorose, o neutre. L'ottavo anello (8), il desiderio, è il risultato delle interazioni tra le facoltà dei sensi ed i loro oggetti sensori. Il nono anello (9), l’attaccamento, è in pratica l'ottavo anello messo in atto. Quando la brama per l’esistenza diventa attaccamento, il proprio re-ingresso di nuovo nel mondo samsarico è imminente. Il decimo anello (10) è l’esistenza, la creazione di un nuovo ciclo del karma nella forma di un essere senziente. Una volta che c'è la sensazione, inevitabilmente c'è desiderio, quando c'è desiderio c’è attaccamento; una volta che c’è l’attaccamento, c'è l’esistenza; una volta che c'è l’esistenza, c'è l'undicesimo anello (11), la nascita. L’individuo nato di recente ha ricevuto la sua retribuzione di karma precedente e sta facendo partire un nuovo giro di creazione del karma. Il dodicesimo anello(12), vecchiaia e morte, completa il ciclo corrente. Una volta che c'è la nascita inevitabilmente ci saranno vecchiaia e morte. Quindi questi sono i dodici anelli del sorgere condizionato.  

 

Le Quattro Nobili Verità e I Dodici Anelli

Come si riferiscono alle Quattro Nobili Verità i dodici anelli? La prima nobile verità, l'esistenza della sofferenza, è riferita ai sette anelli di coscienza, nome-e-forma, le sei facoltà di senso, contatto, sensazione, nascita, e vecchiaia/morte. La seconda nobile verità, l'origine della sofferenza, è riferita ai cinque anelli di ignoranza, azione, desiderio, attaccamento ed esistenza. Riguardo alle Quattro Nobili Verità, si potrebbe dire che la serie di cinque, sono le cause, e la serie di sette, gli effetti, e cioè, che il nostro essere è stato preso nel ciclo della sofferenza. L'origine della sofferenza causa la sofferenza; la sofferenza dipende dal suo aver origine, e non potrà esisterà senza di essa.  

 

La Contemplazione dei Dodici Anelli

Per dar inizio alla cessazione, noi possiamo praticare la duplice contemplazione diretta ed inversa dei dodici anelli del sorgere condizionato. La contemplazione diretta fa luce sull'esistenza della sofferenza, facendoci chiedere, "Qual’è l'origine della sofferenza?". Seguendo la catena causale dell’esistenza noi contempliamo prima in che modo l’ignoranza fondamentale avvìa il ciclo della vita. L’ignoranza poi condiziona l’azione, e l’azione condiziona la coscienza. Dalla coscienza, noi contempliamo nome-e-forma, poi le sei facoltà dei sensi e così via. E alla fine noi vediamo che il desiderio ci porta all’attaccamento. E dato che c’è l’attaccamento, c'è l’esistenza, e se esistiamo allora siamo nati, poi ci ammaliamo, e moriamo. E ovviamente, c’è molta sofferenza tra la nascita e la morte. Contemplando questo processo noi possiamo arrivare ad una profonda comprensione dello stato in cui ci troviamo. Ecco la contemplazione diretta dei dodici anelli del sorgere dipendente e condizionato, ed il suo scopo è di aiutarci a realizzare la cessazione. Poi possiamo praticare la contemplazione inversa per realizzare la vacuità, la vera non-esistenza della sofferenza. Tuttavia, noi non dovremmo pensare alla contemplazione inversa partendo dall'ultimo anello, malattia e morte, e facendoci domande del tipo, "Cos’è che provoca malattia e morte?"-"Esse sono causate dall’esistenza"-"Cosa provoca l’esistenza?"-"L’esistenza è dovuta all’attaccamento", e così via, riandando indietro fino al primo anello. Non si deve far così. Nella contemplazione inversa noi seguiamo ancora gli anelli dal primo all’ultimo, ma piuttosto contempliamo che non c'è alcuna ignoranza fondamentale da cui cominciare. Si comincia con l’igno-ranza fondamentale, contemplando che una volta che non c'è ignoranza, non ci saranno più azioni illuse. Una volta che non ci sono più azioni illuse, non c'è più alcuna contaminazione della coscienza. Procediamo in questa maniera fino alle sei facoltà dei sensi, che naturalmente danno origine al contatto, ai desideri, al nostro attaccamento, esistenza, nascita e morte, e così via. Questa è la contemplazione inversa sulla cessazione della catena dei dodici-anelli del sorgere condizionato. È un modo graduale di impegnarsi nell’ottuplice sentiero, in particolare nel primo, la corretta visione, che essenzialmente è un antidoto per l’ignoranza fondamentale. Praticando la corretta visione, la corretta azione, e così via, si fa uso dell'ottuplice nobile sentiero per portare alla cessazione la catena dell’esistenza ciclica.

Questo approccio inverso può essere un modo di 'ricacciare-indietro' l’esistenza condizionata. Ma il primo passo è capire pienamente l'ignoranza fondamentale con cui noi veniamo al mondo. Nel buddhismo, il termine sanskrito ‘avidya’ significa “avere una basilare non-comprensione sulla natura del mondo”; nello specifico, esso significa la non-conoscenza dei tre sigilli del Dharma - impermanenza, sofferenza, e assenza di un sé. E questo ci costringe a creare il karma. In Cinese, il termine significa 'non-sapere', o 'non-chiarezza', sulla vera natura dell’esistenza; in altre parole, essere al buio, non illuminati dalla saggezza. Quindi, la mancanza di questa saggezza è il primo aspetto dell'ignoranza fondamentale; il secondo è che, essendo ignoranti, noi creiamo nuovo karma, ed il ciclo continua all’infinito. Quindi, noi abbiamo la contemplazione diretta sulle cause della sofferenza, e la contemplazione inversa sulla non-esistenza della sofferenza. Nella contemplazione diretta comprendiamo come entriamo nell’esistenza e nella contemplazione rivolta all’indietro comprendiamo di non aver alcun ‘sé’ indipendente. Entrambi i due metodi di contemplazione sono correlati ed è necessario che siano complementari l’uno con l'altro. Il punto di entrambe le pratiche è di imparare come realizzare la cessazione, per far cessare l’esistenza ciclica. Risvegliandosi alla vera natura, la vostra mente sarà libera dalle nubi dell’ignoranza - sarà luminosa di saggezza. Trascendendo l’ignoranza fondamentale, non ne sarete più condizionati. Questo non-condizionamento sarà reale per i restanti anelli della catena, uno dopo l'altro. Perciò anche nascita e morte saranno estinte - quando l'ignoranza fondamentale cesserà, alla fine c'è anche la cessazione di nascita e morte.  

 

Le Quattro Nobili Verità ed i Tre Sigilli

I tre sigilli del Dharma dicono che tutte le cose condizionate sono impermanenti, che ogni sofferenza è causata dall’ignoranza fondamentale, e che tutti i dharma sono privi di un ‘sé’. Colleghiamo queste idee alla comprensione della sofferenza, eliminando le cause della sofferenza, ottenendo la cessazione, e coltivando il sentiero. Il realizzare la prima nobile verità della sofferenza e la seconda nobile verità dell'origine della sofferenza, dipende dal realizzare l’impermanenza e l'assenza di un ‘sé’. La realizzazione consiste nel separarsi dalla sofferenza, e nel eliminare le sue origini. La terza, e la quarta nobile verità, ci dicono che per poter raggiungere l’estinzione-quiescenza dobbiamo impegnarci sul sentiero. Applicare il sentiero significa addestrarsi nei princìpi di impermanenza e assenza di un ‘sé’. Con questi principi in mente noi possiamo separarci dalla sofferenza; possiamo eliminare le sue vere origini. Quando avremo veramente capito che la sofferenza è impermanente e in realtà non esiste, quando veramente avremo compreso che la sofferenza fondamentalmente è vuota, noi staremo indirizzandoci in direzione della cessazione.

Questo conclude la nostra presentazione delle Quattro Nobili Verità. Grazie a tutti voi per essere venuti.

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Note

[1.1] Kondanna, Asaji, Wappa, Mahanama, e Bhaddiya (nomi in Pali), furono i primi seguaci del Buddha durante la sua pratica ascetica che fu caratterizzata da estrema austerità e credenza nell'anima eterna (atman).

[1.2] In seguito registrato come Il Sutra del Girare la Ruota del Dharma. (Pali: Dhammachakka-pattavana Sutta).

[1.3] L'Ottuplice Nobile Sentiero consiste delle pratiche di: corretta visione, corretta intenzione, corretto parlare, corretta azione, corretto modo di vivere, corretto sforzo, o perseveranza, corretta consapevolezza, e corretta meditazione. [1.4] Vedi ‘La Via alla Buddhità’, Ven. Yin-shun, Wisdom Public., 1998 pp.174-178

[1.5] I tre giri e i dodici processi sono così compendiati:

Prima nobile verità: Questa è la nobile verità della sofferenza

                    La verità della sofferenza deve essere capita

            La verità della sofferenza è stata capita.

Seconda nobile verità: Questa è la nobile verità della causa della sofferenza

                La causa della sofferenza deve essere abbandonata

                La causa della sofferenza è stata abbandonata.

Terza nobile verità: Questa è la nobile verità della cessazione della sofferenza

         La cessazione della sofferenza deve essere sperimentata

         La cessazione della sofferenza è stata sperimentata.

Quarta nobile verità:

    Questa è la nobile verità del sentiero che libera dalla sofferenza

    Il sentiero che libera dalla sofferenza deve essere praticato

     Il sentiero che libera dalla sofferenza è stato compreso.

[1.6] L'ordine di illuminazione dei monaci (secondo La Vita del Buddha di Edward Thomas, p.88) suggerisce che vi fossero tre insegnamenti, o giri, della Ruota del Dharma, prima che tutti e cinque i monaci si fossero risvegliati. Prima Kondanna da solo, poi Wappa e Bhaddiya, poi Mahanama ed Asaji.

[1.7] Il Tripitaka, i Tre canestri del Canone buddhista, consiste del vinaya (regole di disciplina per monaci), sutra (discorsi del Buddha), e abhidharma (analisi filosofica e psicologica).

[1.8] I dodici anelli (nidana) del sorgere condizionato sono le forze causali di base del samsara, il ciclo di nascita e morte. Essi sono chiamati 'anelli’ perché formano sequenzialmente la catena causale dell’esistenza senziente. Questi anelli sono: (1) l'ignoranza fondamentale, (2) l'azione, (3) la coscienza, (4) il nome-e-forma, (5) le sei facoltà dei sensi, (6) il contatto, (7) la sensazione, (8) il desiderio, (9) l’attaccamento, (10) il venire ad esistere, (11) la nascita, e (12) la vecchiaia e morte. Il 'Sorgere condizionato' si riferisce al fatto che tutti i fenomeni sono il risultato dell'interazione tra innumerevoli fattori, collegati in un nesso di causa ed effetto. Ci si riferisce ad essi anche come i dodici anelli di originazione dipendente.

[1.9] Il quarto discorso in questa serie include la contemplazione dei dodici anelli.

[1.10] Theravada: il primo buddhismo che espose il Sentiero dell'arhat. Mahayana: il buddhismo successivo che espose il Sentiero del bodhisattva. Vajrayana: un ramo del Mahayana che espose la coltivazione esoterica. Scuole improvvise e graduali: due approcci all’illuminazione all'interno del buddhismo Chan Cinese, associati con le scuole Lin-chi e Tsao-tung (Zen: Rinzai e Soto).

[1.11] I cinque metodi di stabilizzare la mente: (1) consapevolezza del respiro, (2) contemplazione delle impurità del corpo, (3) memoria consapevole del Buddha e dei bodhisattva, (4) meditazione sulle quattro illimitate consapevolezze (bontà, compassione, gioia, equanimità), infine (5) contemplazione di cause e condizioni. [1.12] I quattro fondamenti (o basi) della consapevolezza, descritti nel (Pali) Sattipatthana-sutta sono: (1) consapevolezza del respiro, (2) consapevolezza delle sensazioni, (3) consapevolezza della mente, e (4) consapevolezza degli oggetti mentali (i dharma).

[1.13] I sedici aspetti o attributi delle Quattro Nobili Verità: prima nobile verità --impermanenza, sofferenza, vacuità, assenza di un ‘sé’; seconda nobile verità --causa, origine, condizione, completamento; terza nobile verità -- cessazione, pace, beatitudine, rinuncia; quarta nobile verità -- vero sentiero, conoscenza, risultato, eliminazione (dell’illusione). Per una discussione più dettagliata dei sedici aspetti, vedi ‘Le Quattro Nobili Verità’, Ven. Lobsang Gyatso, Snow Lion Publ., 1994.

[2.1] Un sutra (Pali: sutta) è un discorso registrato o insegnamento del Buddha; un shastra è un trattato o commentario su un sutra, o aspetti di un sutra. Shastra è più comunemente associato col tardo Canone Sanskrito Mahayana, opposto al primitivo Canone Pali.

[2.2] Scuola di pensiero Mahayana, fondata dai Maestri Indiani Nagarjuna e Arya-deva (2°sec. d.C.) che si astiene dall'asserire posizioni estreme, non asserendo né l'esistenza né la non-esistenza delle cose.

[2.3] Scuola di pensiero Mahayana, fondata dai Maestri Indiani Maitreyanatha, Asanga, e Vasubandhu (5°sec.d.C.) in cui la nozione centrale è che tutte le nostre esperienze sono una 'mente-unica', cioè, aldifuori del processo intelligente, non c’è realtà; così, il mondo è una costruzione della mente.

[2.4] Delle cinque scuole tradizionali ('case’) di Chan --Weiyang, Yunmen, Fayan, Lin-chi, e Tsao-tung -solamente le ultime due esistono ancora. Esse corrispondono alle sette Rinzai e Soto dello Zen.

[2.5] Il triplice aspetto della sofferenza è esposto nel Visuddimagga (Il Sentiero della Purificazione, di Buddhagosha (5°sec. d.C.)

[2.6] Il Samsara è il ciclo di nascita e morte, attraverso il quale gli esseri senzienti trasmigrano, e nel buddhismo è associato a Nirvana, lo stato di trascendenza dal samsara.

[2.7] Sanskrito: trishna, Pali: tanha, letteralmente 'sete', 'attaccamento', 'brama'. [3.1] Il Visuddimagga, (vedi nota 2.5), enumera dieci klesha (variamente tradotti come 'contaminazioni', 'passioni', 'impurità', 'irritazioni', 'illusioni), che sono: odio, desiderio, illusione, orgoglio, visioni errate, dubbio, rigidità, eccitabilità, essere spudorati, e senza coscienza. Altre analisi limitano il numero ai primi sei, conside-randoli come irritazioni-radice da cui derivano tutte le altre irritazioni.

[3.2] I Sei Reami (o modalità) di esistenza sono tre reami superiori e tre reami più bassi. Il reame in cui si rinasce risulta dalla direzione e completamento del proprio karma. I tre reami superiori sono gli umani, i semi-dèi (asura), e gli esseri celesti (deva). I tre reami inferiori sono gli animali, gli spiriti adirati (preta), e gli esseri infernali (naraka). Tutti gli abitanti dei sei reami dimorano nel samsara e perciò sono soggetti a rinascita.

[3.3] 'Mente primaria' qui si riferisce collettivamente alle sei coscienze sensoriali che sono le sei facoltà di senso, che interagiscono coi loro oggetti di senso a cui corrispondono. Le sei facoltà di senso sono: vista, udito, odorato, gusto, tatto, e conoscenza.

[4.1] Il sentiero dell’arhat ed il sentiero del bodhisattva sono spesso distinti, il primo essendo il sentiero della liberazione individuale, mentre l’altro è il sentiero dell’illuminazione che si rinvìa, finché tutti gli esseri senzienti non sono liberati. [4.2] I quattro livelli di fruizione di un arhat sono: (1) 'Colui che è entrato nel flusso', uno che ha sradicato le visioni errate, ma non è completamente libero dalle contaminazioni di desiderio, odio, ed illusione; (2) 'Colui che tornerà una- sola-volta', uno le cui contaminazioni sono ancora solo leggermente presenti, e che ritornerà soltanto una volta; (3) 'Colui che-non-ritorna', chi è libero dalle cinque catene di: ego, dubbio, rituale, sensualità, e invidia; e non rinascerà; e (4) 'l'Arhat', colui che ha raggiunto lo stato di non-più-necessità-di-apprendere, che ha eliminato tutte le contaminazioni, ed è libero dalle catene dell’esistenza.

[4.3] Anguttara-nikaya (Raccolta Graduale), dalla sezione-sutra del Tripitaka.

[4.4] Samadhi: stato di assorbimento meditativo profondo, in cui l'individuo fa esperienza di estrema uni-direzionalità della mente, e sospensione del senso del tempo. Il buddhismo descrive molti tipi e livelli di samadhi.

[4.6] Vedi Capitolo Uno, nota 1.11.      

 

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