di SUBHANA Barzaghi Sensei -
Discorso dedicato alla memoria di Padre Bede Griffiths, dato nella Sesshin primaverile1993, al Gorrick’s Run Zendo. [Questo documento può essere acquisito da un anonymous coombspapers nella sottodirectory FTP o al Server di http://coombs.anu.edu.au/CoombsHome.html] aggiornato: 2 maggio 1994]----------------------
Questo testo mostra alcuni dei più fondamentali e delicati problemi religiosi. Perciò, dovrebbe essere letto, citato e analizzato attentamente. Esso è stato pubblicato originalmente in MMC Summer 1993 pp 1-6. Tutti i diritti appartengono a Subhana Barzaghi Sensei, Kuan-Yin Zen Center, NSW, Australia – Ed., "Mind Moon Circle", Sydney Zen Center, 251, Young St., Annandale, Sydney, NSW 2038, Australia. ----------------------------------------------------------------------
"La Morte È un Sacramento". di Subhana Barzaghi Sensei
Nella nostra cultura, non appena noi cominciamo a parlare della morte, si fanno scongiuri per ogni sorta di immagini su qualcosa di dolce o deprimente, oppure tragico o doloroso. La nostra cultura Occidentale è particolarmente brava a nascondere la morte e a farla diventare qualcosa di alieno. Noi immediatamente copriamo un cadavere e lo chiudiamo dietro a delle porte chiuse, lo copriamo con un foglio sterile, in qualche modo negando l’attinenza della morte alla vita. Vi è una tale grande paura dell'estinzione che noi trattiamo la morte come un tabù. Noi viviamo con questa ansia della morte, come se fosse una negazione dei nostri diritti all’auto-determinazione continua e perpetua._
La mia primissima esperienza della morte non fu certamente piacevole. Io stavo lavorando come nurse al Lorna Hodgkinson Sunshine Home in Sydney. Io di solito avevo la custodia di ben ventotto indisciplinati ragazzi mentalmente ritardati, ma in quell’occasione ero stata trasferita alla guardia geriatrica ed ero stata assegnata ad un paziente mentalmente ritardato che stava morendo. Io penso di esservi stata assegnata perché nessun’altra persona volle prendersi cura di lui. Quando andai là, lui poteva a malapena parlare ed affermare le sue necessità. L'odore che emanava era repulsivo: dato che faceva tutto nel letto; c'erano dappertutto escrezioni. Io non sapevo proprio come tollerare questa situazione: avevo solo ventun anni. Man mano che i giorni passavano, egli peggiorò e morì. Ricordo che sentii che questo era un modo molto tragico e ripugnante di morire, perché non ebbi nessun modo di soddisfare i bisogni di questa persona e neanche di comunicare con lui. Io mi sentii totalmente inadeguata. Andai diritta all'ufficio della direttrice e dissi, 'Se lei non mi fa di nuovo trasferire alla custodia dei bambini, avrà una nurse in meno, lunedì mattina'. Io non credo che in quei giorni fossimo preparati per la morte o come trattare con essa. Io di sicuro non ero preparata, in nessun modo. Molti anni più tardi, io ebbi un’altra esperienza, completamente diversa da quella. Quando per sette anni fui un'ostetrica, facendo nascere a casa i bambini, in un'occasione stavo assistendo dei cari amici. Il parto non stava progredendo molto bene e mostrava ovvi segnali che la donna e il travaglio avevano bisogno di attenzione. Quindi noi la trasferimmo all'ospedale. Durante il momento della spinta si poteva dire che qualcosa non andasse per il verso giusto. Le contrazioni erano molto, molto difficili per lei, diversamente da altre situazioni in cui ero stata, così noi trovammo qualcosa a livello energetico. Quando si cercò di trovare il battito cardiaco del bambino sul monitor, non c'era battito. Questa non è una cosa non-comune a questo punto del parto: quando il bambino è così in basso nel canale uterino, non sempre si può raccogliere il battito cardiaco. E tuttavia, il dottore stesso sentì che doveva tirar fuori questo bambino. Quando il bambino uscì, era morto. Il padre, che aveva fatto molto lavoro su di sé, era una persona molto interessante, molto spontanea. Egli si lasciò appena uscire un potentissimo urlo che attraversò tutto l'ospedale. La nurse scoppiò in lacrime e corse fuori dalla stanza. Il dottore si pulì e non seppe che cosa dire. Quindi noi eravamo là. Io ero con questa coppia e questo bimbo morto. Ciò che decidemmo di fare fu solo di andarcene diritti fuori dell’ospedale. Prendemmo il bambino con noi. Nessuno ci fermò, essi non sapevano proprio come rispondere, in ogni caso. Salimmo nel loro furgone e ci dirigemmo da qualche parte nel mezzo della notte, e noi tutti seduti nel van ci passavamo di mano il bambino morto e cominciammo a cantare ed a parlare al bambino. C'era ovviamente un enorme dolore ed eravamo pieni di lacrime, ma io fui anche stupita, guardando questo bambino in faccia, di come fosse squisitamente pacificato e sereno. Così ebbi la più intensa emozione di un’incredibile pace, ed allo stesso tempo di straordinario dolore. Io non potei dormire per tre giorni; fu un'esperienza molto strana, ma anche un’esperienza molto bella. Queste mie prime esperienze mi portarono ad interrogarmi, cos’è la morte? Quando il corpo muore, cos’è che rimane? Questa è una domanda importante, e la troviamo ancor più pienamente nella nostra miscellanea di koans. Il koan è, "Quando vi siete separati in terra, acqua, fuoco, ed aria, dove siete andati?" Il training Zen e qualunque esperienza religiosa veramente profonda dovrebbero rispondere a queste domande sulla vita e la morte, o almeno pacificare ogni nostra paura. Vi sono certi paralleli tra il sonno profondo e la morte. Ogni notte, quando ci mettiamo a letto per dormire, noi entriamo nel nostro mondo di sogno, la nostra coscienza e tutti i nostri sensi cominciano ad affievolirsi e il mondo scompare; tutti i drammi, i piaceri, i successi e i fallimenti si dissolvono nel silenzio. La nostra attitudine a dormire è il benvenuto per il sonno profondo: è un sollievo, perché esso allevia molti degli stress quotidiani. Eppure noi vediamo la morte con una tale paura ed ansietà. L'apparente divisione tra nascita e morte non è così totale come si immagina. La domanda è, chi è che muore? Che cosa muore? Nella nostra pratica, c’è già una piccola morte del corpo, e noi possiamo morire cento volte senza che ciò tocchi la grande morte della mente. Questa grande morte della mente è molto importante. La morte della mente fa nascere la saggezza, e questa saggezza è uno stato senza tempo, illimitato, proprio qui ed ora, dove non c'è nessun ‘sé’ in cui prendere rifugio. Quando noi ci facciamo la domanda, chi sono? o cosa sono? è l'io che è non-conosciuto. Cosa siete voi, lo dovrete scoprire. In ogni modo, noi possiamo descrivere solo quello che non siamo. Voi non siete il mondo; voi non siete neanche nel mondo. È più giusto dire che il mondo è in voi. Nello Zen, noi chiamiamo questa esperienza, 'Io, solo e sacro, nell'intero universo'. Un altro modo di dire questo, è, 'La Buddha-natura è ciò che pervade l'universo intero'. Non vi è separazione, e quando noi diciamo, 'Io, solo e sacro nell' intero universo', noi non intendiamo questo presuntuoso e impacciato piccolo 'io'. Così la morte serve agli interessi più profondi di una vita religiosa, nel rammentarci della vacuità dei desideri e dei programmi di acquisizione e interesse personale. Ci tiene sotto scacco, in un certo senso. Tutta la nostra competitività sembra pazzia quando non possiamo portare niente con noi. La nostra maturità spirituale e la libertà risiedono nella capacità e prontezza a lasciar andare la nostra auto-importanza. Quando ero a Los Angeles, circa sei anni fa, mi fu regalato un biglietto per un dramma veramente interessante. Si chiamava 'AIDS-us' (Aiutaci) Era un dramma diverso da altre opere che avevo visto prima. C'era un auditorium molto piccolo e non c'era una barriera tra gli attori e le persone dell pubblico, nessuna separazione. Tutte le persone sul palcoscenico erano malate di AIDS, ed esse soltanto si alzavano e parlavano delle loro vite, e come esse fossero straordinariamente diverse da quando presero l’AIDS. Ed invece di ‘morire per AIDS’, esse riprogrammarono il loro pensiero in 'vivere con l’AIDS'. Fu una potente esperienza davvero straordinaria per queste persone e per le persone del pubblico. Non vi era un occhio che fosse rimasto asciutto. E questo accadeva nei primi giorni, quando c’era ancora molta paranoia ed incomprensione riguardo all’AIDS. Alla fine del dramma, tutte le persone del pubblico appena si alzarono in piedi, si abbracciarono e si salutarono l’un l’altra. Ci fu una totale interruzione della paura; non c'era nessun senso di alienazione; ognuno abbracciava l’altro. Era un pubblico assai giusto, e il ricordo di quei giorni fu una vera e sorprendente esperienza per me. Certamente fu il mio primo contatto con qualcuno che aveva l’AIDS, e in particolare un intero gruppo di persone. Più tardi, essi portarono quel dramma alla Casa Bianca per raccogliere fondi per le persone che avevano l’AIDS. Ora è disponibile un’interessante ricerca su chi è vicino all’esperienza di morte. La cattedra del Dipartimento di Parapsicologia della Bristol University ha fatto delle inchieste su persone che avevano avuto esperienze di pre-morte. Essa le esplorò con una serie di approcci, dal medico al religioso. L'argomentazione biologico-medica è che la ragione per cui le persone vedono costantemente una grande luce alla fine di un tunnel è perché il cervello sta per essere privato dell’ossigeno, e quindi tutto diventa buio; le persone sperimentano così qualcosa come l’attraversare un tunnel ed uscire alla luce sull'altro lato. Questi argomenti possono spiegare il perché c'è un tunnel, ma non possono spiegare perché alla fine vi sia una luce. Essi non hanno trovato una risposta per questo! Quella ricercatrice stava forse cercando un diretto approccio scientifico, però disse che il buddhismo aveva delle risposte migliori. Perché, il Buddhismo dice che il ‘sé’ è soltanto un mero costrutto e che esso si è ri-creato più e più volte, vita dopo vita. Ed al momento della morte la struttura fisica del ‘sé’ comincia a cedere: in quel momento, corpo e mente stanno svanendo. E così noi possiamo testimoniare la Chiara Luce, la Vacuità. E questo spiega anche le costanti esperienze da parte delle persone dell'unità interconnessa con il tutto, in quelle esperienze di pre-morte. Vi è una serie di credenze sulla morte che noi possiamo aver sottoscritto a quel punto. La visione scientifica è che noi viviamo una sola volta; noi moriamo una sola volta; la morte è l'estinzione totale. Questo, chiaramente, è molto razionale, e non c’è nessuna prova che possa sostenere qualche altra visione, null’altro è disponibile. La prospettiva Cristiana è che c'è vita dopo la morte; per quelli che trovano Dio, il regno dei Cieli è aperto per l'eternità; per quelli che rifiutano Dio, c'è l’inferno per l'eternità; la terra non è che una breve dimora, un banco di prova per il nostro amore verso Dio. La prospettiva buddhista della morte è che noi siamo tutti come le onde sull'oceano; ciascuna onda nasce e muore ripetutamente, a seconda della sottostante forza fondamentale; vi è poi una rinascita finché non si raggiunge l’illuminazione, finché non gettiamo via la ruota del samsara. Una variazione di ciò, è che c'è la reincarnazione, fino alla dissoluzione dell'ego, quando lo spirito diviene uno con l'assoluto. Io non sono ancora certa riguardo alcune di queste credenze. Anni fà, quando avevo diciannove anni ed ero al monastero di Kopan, feci là il mio primo ritiro di meditazione. Io fui abbastanza ingenua nel prenotare un ritiro di trenta-giorni. Il monastero di Kopan si trova in Nepal, appena fuori Kathmandu, e i Lama residenti, Lama Zopa e Lama Yeshe, erano meravigliosi maestri. Per tutti gli studenti principianti essi usavano far fare loro la meditazione sulla morte per almeno due settimane. Poi, se quello non era sufficente, noi dovevamo meditare sui reami dell’inferno per altre due settimane. Cominciammo quel ritiro in 150 persone e circa trenta di noi lo finirono. Essi ci dicevano sempre, 'La ragione per cui noi cerchiamo persone che vogliano meditare, è perché la morte motiva le persone a praticare'. Io allora non ero molto sicura di ciò! Ma, venti anni dopo, mi sono trovata a pensare che i lama avevano là qualcosa di importante: essi non erano così eccentrici e folli come io originariamente pensavo. Il buddhismo Tibetano si concentra molto sulla comprensione del processo del morire e della morte. I lama dicevano sempre che il momento della morte è l’opportunità più efficace, perché è allora che noi abbiamo accesso alla natura fondamentale della mente. Questa manifesterà la luminosa Chiara Luce; ed essa si potrà manifestare naturalmente. Questo è un punto cruciale, perché è a quel punto che noi possiamo raggiungere la liberazione. Tuttavia, noi normalmente non riconosciamo quel punto, perché già qui ed ora nella nostra pratica, nella nostra vita quotidiana, nella nostra vita ordinaria, noi non lo conosciamo. Quindi, essi enfatizzano che è proprio qui ed ora nella nostra pratica, in questa stessa vita, che noi dobbiamo incontrare quella grande mente non-manifesta, stabilire qui ed ora quell’essenziale riconoscimento. Proprio dopo quel ritiro di trenta-giorni, io lasciai in aereo Kathmandu per ritornare in India. Io fin da bambina avevo sempre avuto paura di dover morire giovane: quella paura me la portavo dietro quasi ogni giorno. Io so che anche alcuni di voi qui hanno quella paura. Quella mattina mi svegliai e pensai, 'Ok. Sto per morire'. Invece di dire a me stessa, come di solito avrei detto, 'Oh Subhana, non essere così paranoica e deprimente', dopo aver meditato sulla morte per due settimane su al monastero di Kopan, io pensai, 'OK, va bene, vada come deve andare!'. Così, decisi che qualunque cosa che avessi fatto quel giorno doveva essere completa di per "né. Qualunque movimento, come alzare il braccio, riportarlo giù, era completo; in quel momento era la morte. Bere il mio tè: quella era l’ultima volta che stavo per bere una tazza di tè. Mangiare il mio toast: quella era l’ultima volta. Quindi, un’incredibile preziosità c’era riguardo ad ogni cosa. E servì un tempo incredibilmente lungo per comprimere la mia valigia. Pensai che forse io stavo temporeggiando, per non prendere quell’aereoplano. Alla fine, quel pomeriggio presi l'aereo: mi ci volle un giorno intero per arrivare. Eravamo in un piccolo aereo, e stavamo superando una formazione di turbolente nubi aldisopra di Kathmandu; il leggero aereoplano vi stava rollando sopra. Io pensai, 'Questo è proprio come la mia vita: che è in mezzo ad un’infinita formazione di nubi turbolente, e vi rimbalza sopra su e giù'. Poi nell’ istante successivo l'aereo entrò in un cielo aperto e blu, molto chiaro; e sotto si potevano vedere i coloratissimi campi dell’India. E benché non fosse un’esperienza di risveglio, essa riuscì a darmi speranza ed ispirazione. Mi dette un’intuizione che forse vi è qualcosa che non muore, che non può essere distrutta, ed ogni tanto ne abbiamo una visione. Che vi è un qualcosa di più grande che contiene tutto ciò. Un altro motivo per cui i Lama Tibetani dichiaravano che era così importante meditare sulla morte ed i reami infernali, fu perché ci raccontarono una storia, una spiegazione, riguardo ai sei reami di esistenza. Essi sono i ‘paradisi-Tushita’ o reami paradisiaci; i reami dei semi-dèi; i reami umani; i reami animali; i reami dei Preta, cioè degli spiriti affamati, o demoni; e infine, i reami infernali. I Lama ci dissero che era così prezioso rinascere nel reame umano. Se si rinasce nei reami infernali vi è così tanta sofferenza che si può solo sopravvivere; tutto ciò che si può fare è convivere con il dolore. Quindi nei reami infernali non c’è lo spirito di raggiungere il Sentiero e cercare la realizzazione. Lo stesso avviene con l'altro estremo del felice reame paradisiaco. Esso è così felice e piacevole, ci fa provare così tanta felicità e beatitudine, che neanche in quel reame vi potrà mai essere nessuna ricerca o indagine interiore. Il reame umano fu sempre considerato il Sentiero mediano, il reame intermedio in cui sono bilanciati sia il piacere che il dolore. Esso ci rende abili per esplorare più in profondità il significato della vita. Talvolta io trovo più utile pensare ai ‘reami’ come stati mentali piuttosto che luoghi o mondi. Noi possiamo attraversare questi stati mentali anche in un solo giorno, qui nella sesshin. Se noi si volesse trasferire quei reami all'attuale, l’equilibrio tra il piacere ed il dolore è in questo reame intermedio: l’equilibrio non è conficcato in cielo! Ciò non è il Sentiero. Nella terra di mezzo vi è una certa equanimità, è il perfetto luogo maturo per risvegliare la mente. Quando noi pensiamo alla nascita e morte, incontriamo il concetto di karma. Recentemente, ho letto 'Il Libro Tibetano del Vivere e Morire', di Sogyal Rinpoche. Lui dà una metafora così bella su karma e rinascita che voglio condividerla con voi. Io ero sempre dubbiosa circa il concetto di karma. In qualche modo non riuscivo mai a metterci la mia testa, come poterli mettere insieme. Sogyal illustra questo fatto nell’esempio seguente. In una serie di rinascite, le esistenze successive non sono come le perle di una collana, in cui esse sono tenute insieme tutte intorno ad un filo, come un'anima permanente. Non è così, egli dice: è più come una serie di dadi o blocchi, tutti accatastati uno sull'altro, o uno che sostiene l'altro. Non c'è nessuna identità tra ciascun blocco, però essi sono connessi tra loro in modo funzionale. Uno supporta funzionalmente l’altro. È più così, che non come un ‘sé’ permanente, o anima permanente, che attraversa tutte le esistenze. Tra i blocchi vi è solo una condizionalità. Se applichiamo questa comprensione ora, proprio adesso in questo momento, noi abbiamo un’intera serie di momenti-mente, un’intera serie di coscienze. Vi è il vedere, vi è il sentire, vi è il pensare, vi è il provare sensazioni. Ci sono solo questi momenti di coscienza, funzionalmente connessi. Infatti, noi ci sediamo proprio con quella consapevolezza, con quella consapevolezza vuota. Non c'è nessun ‘sé’ permanente che tenga legato se stesso con tutto il resto. Noi lo sentiamo solo sorgere e andarsene via, in ogni momento, proprio qui ed ora. Quando stiamo con quella serie di momenti-mente ed essi così velocemente accadono; ed alla mente sta accadendo di avere vista, udito, pensiero, sensazioni ad un ritmo incredibile - noi osserviamo l'impermanenza. Noi siamo assai consapevoli del cambiamento e del continuo flusso. L’impermanenza ha diversi doni, ma il suo dono più grande risiede sepolto in profondità. La paura dell'impermanenza che si risveglia in noi, la paura che nulla sia vero o reale, che nulla duri, di fatto è un grande amico. Perché ci spinge a farci le domande, ‘Se tutto muore e tutto cambia, qual’ è la verità? C'è qualcosa oltre le impermanenti apparenze della vita? C'è qualcosa che sopravviva a tutte le morti del mondo, a tutti i cambiamenti?’ Ci sono vaste implicazioni in questo fatto fondamentale dell’impermanenza. Quando vediamo realmente nell’ impermanenza, noi possiamo vedere nella natura vuota delle cose e possiamo anche vedere che non c’è alcun ‘sé’. Queste tre facce della verità - impermanenza, vacuità, e ‘non-sé’ – sono proprio ora e qui, in ciascun momento. Spesso, anche un amico che muore può farci avere un lampo di questa eterna ed infinita realtà. Vi è una tale energia nella nascita; ma anche nella morte vi è una energia meravigliosa, intorno a qualcuno che sta morendo. Può far risvegliare qualcosa in noi. Quando qualcuno sta morendo, chiunque sia intorno a quella persona ha l'opportunità di essere toccato da quella natura di vita-morte-vita. E’ un'opportunità molto preziosa. La vita e la morte non sono opposti nemici, ma sono complementari all'interno della totalità. Quando noi siamo in contatto con ciò, siamo in contatto con questa non-morte, questo non-cambiamento, e tutto ciò porta una profonda pace. Ma, per la maggior parte del tempo, noi non desideriamo essere consci della nostra mortalità e della cessazione di tutto ciò che abbiamo conosciuto, o vissuto, o che abbiamo amato, o per cosa abbiamo lavorato. Nessuno di noi può dire come ci si potrà relazionare alla nostra morte incombente. Ma se vivremo più consapevoli della morte, adesso ed in ciascun momento, potremo salutare l'alba e gli uccelli e le stelle della notte con molta più presenza e immediatezza. La vita non è nient’altro che il perpetuo fluire di nascita, morte, e rinascita. La morte mostra se stessa in ogni momento. Perfino quando pensiamo c'è un inizio, uno stato intermedio ed una fine di ogni singolo pensiero. C'è un inizio, intermedio e fine anche del respiro. C'è il canto dell'uccello che poi ritorna al silenzio. Quindi, in questo momento c’è la nascita, e in questo momento c’è la morte. Questo momento è una rinascita, e questo momento è immortale. Possiamo noi abbracciarlo in questo modo? Un libro che al momento sembra che ognuno stia leggendo, 'Women who run with the Wolves’ (Donne che corrono con i Lupi), di Clarissa Pincola Estes, ha una descrizione della Donna-Scheletro. Essa dice che se incarniamo la vecchia donna saggia, lei accoglie la morte nel suo cuore, e fa morire il suo fuoco. Lei conosce la morte come generatrice-di-vita, e come distributrice-di-morte. E inconsapevolmente le donne praticano ogni mese questi cicli di nascita, morte, e rinnovamento, attraverso il costante ciclo di riempire e svuotare il nostro fluido vitale: ogni ciclo lunare. Questi cicli mestruali della Donna-Scheletro fluiscono in profondità attraverso i nostri corpi, durante tutta la nostra vita. Questa è davvero una serie di nascite e morti. Ma se noi ci attacchiamo alla vita con la paura della morte, o di dover perdere la nostra macchina, la nostra casa, i nostri amici, i nostri figli, questa paura crea qualcosa come artigli di morte nella mente. L’essenziale vita e amore non potranno mai lasciarvi perché voi siete proprio quello... E quando ci saremo risvegliati non ci attaccheremo più a niente. Non c’è nulla di conscio né di inconscio. È quello, il puro cuore della consapevolezza. È quella, la vera nudità che è oltre ogni apparenza. Tutto esiste nella sua luce. L'essenza della consapevolezza non muore né rinasce. È questa immutabile realtà. E la vita e la morte poi si sono sposati nella ‘vacuità’. Nel 3°Caso dell’Hekiganroku, 'Il Gran maestro Baso è indisposto', questo maestro sta morendo e il capo-monaco gli chiede, 'Come sta sentendo questi giorni, la Sua riverenza?' E il grande maestro risponde, 'Buddha davanti al Sole, Buddha davanti alla Luna'. Che cosa voleva intendere egli con 'Buddha davanti al Sole, Buddha davanti alla Luna'?-. Quest’uomo sta morendo. Sia che egli stia male o bene, il maestro è in pace. In altre parole, egli vede tutte le esperienze come la Natura-di-Buddha. Quando un paio di anni fa stavo a San Francisco, io ebbi una magnifica opportunità. Ero in visita da John Tarrant Roshi e c’era anche il Governatore Jerry Brown, un ex-gesuita. Una sera egli ci disse, 'C'è un notevole uomo su a Berkeley: perché non andiamo a trovarlo?' Il nome di quell’uomo era Padre Bede Griffith: alcuni di voi l'hanno sicuramente conosciuto. Egli era un prete Cristiano che visse in India per circa trenta anni, e che nel suo ashram sembrava essere in grado di assimilare tutti i tipi di pratiche. Quando essi cantavano, ad un certo punto era un canto buddhista, poi un minuto dopo era un canto Indù, e subito dopo un canto Cristiano. Lui includeva tutte queste cose. Noi andammo al No-Gate-Center-Zen in Berkeley. Si stava facendo una piccola Zen-sesshin, giù in basso, con un insegnante di Zen che teneva un discorso. Noi andammo di sopra per incontrare Padre Bede Griffith. Quando arrivammo, lui era seduto sul suo letto. Egli era abbastanza vecchio, non stava molto bene né poteva camminare facilmente. Indossava una tunica arancione, che lui portava in ogni momento. Era un piccolo vecchio meraviglioso, con i capelli color argento e con una lunga barba bianca. E Jerry gli fece una domanda veramente interessante. Gli chiese, 'Cos’è la morte?'- E Padre Bede Griffith tutt’ad un tratto divenne eccitato e spalancò gli occhi pieno di gioia ed entusiasmo, e disse, 'La morte è un sacramento. Io sto completamente aspettando la mia morte'. Io ero seduta sul letto vicino a lui e fui frastornata. Io non incontrai mai più uno con un tale entusiasmo per la morte, e tale gioia e amore per la morte. 'Io sto aspettando del tutto ansiosamente la mia morte'. Il suo atteggiamento verso la morte significava che egli stava vivendo la vita al massimo. Il suo dono di non aver nessuna paura è il più grande regalo che noi possiamo fare a noi stessi e agli altri. Quando noi facciamo questo regalo, allora davvero la vita è un ‘sacramento’, noi utilizziamo la vita al massimo. Possano quindi tutti gli esseri ricevere questo dono di non aver nessuna paura.----------------------------------------------- ---fine del file.
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(e la sua ANIMA SEPARATA) -
di SUBHANA BARZAGHI, SENSEI (Primavera 1991)
[Questo documento (aggiornato: 29 settembre 1993) può essere acquisito da un coombspapers anonymous nella sottodirectory FTP o COOMBSQUEST sul nodo di COOMBS.ANU.EDU.AU-.WWW al Server di http://coombs.anu.edu.au/CoombsHome.html]]----------------
Questo testo mostra alcuni dei più fondamentali e delicati problemi religiosi. Perciò, dovrebbe essere letto, citato e analizzato attentamente. Esso è stato pubblicato originalmente in MMC -Summer 1991, pp 2-4. Tutti i diritti appartengono a Subhana Barzaghi Sensei, Kuan-Yin Zen Center, NSW, Australia – Ed., "Mind Moon Circle", Sydney Zen Center, 251, Young St., Annandale, Sydney, NSW 2038, Australia. ------------------------------------------------------------
- La Storia di Seijo – di Subhana Barzaghi Sensei -
Durante la dinastia T'ang, viveva un uomo chiamato Chokan, che aveva due figlie. Quando la più grande di età delle due morì, lui si dedicò alla più giovane, Seijo. Allorché lei fu cresciuta, lui si preoccupò di trovare un marito appropriato per lei e alla fine selezionò un giovane buono e forte. Ma Seijo aveva già preso come suo innamorato il suo cugino Ochu... _
Lei fin dall'infanzia era cresciuta con lui in un’unione beata, e si considerava la sua fidanzata. Quando Chokan le annunciò che stava andando al villaggio per chiamare il giovane da lui scelto, Seijo divenne abbattuta e triste. Ochu, incapace di sopportare la prospettiva di essere testimone del tradimento, lasciò il villaggio senza dire addio. Prese la sua barca e remò nella notte. Mentre remava, egli osservò il contorno di un figura correre lungo la banca. Allora si diresse verso la riva per vedere chi era; e vide che c'era Seijo, in lacrime, disonorata e adamantina. Allora, essi viaggiarono insieme verso una terra lontana in cui vissero come marito e moglie. Passarono così cinque anni. Seijo diede alla luce due bambine. Ma benché amasse Ochu e le sue figlie, lei era ancora depressa per l'onta che aveva fatto a suo padre. Tutto ciò lei lo disse ad Ochu. Ed egli ammise che anche lui desiderava ardentemente ritornare alla sua terra natia. "Dai, torniamo ed imploriamo il perdono", lui le disse.
E così essi ritornarono. Al porto, Ochu lasciò Seijo e le bambine, mentre lui si recò al villaggio. Andò direttamente alla casa di Chokan, confessò tutta la storia e prostrandosi, chiese perdono per il loro ingrato comportamento. Chokan lo ricevette gentilmente. "Quale ragazza intendi?" lui chiese. "Sua figlia Seijo", rispose Ochu. "Questo non è possibile", disse Chokan. "Seijo è qui in casa con me. Poiché tu lasciasti il villaggio senza dirle addio, lei è rimasta qui, assai depressa; ma lei ora sta qui".
Confuso, Chokan rifiutò l'invito di Ochu di andare con lui giù al porto. Però, spedì un servitore per controllare la barca. Quando il servitore ritornò, riportandogli che Seijo era davvero là che aspettava, Chokan fece entrare Ochu nella casa. "Lei non ha mai parlato da quando tu te ne sei andato via", lui disse. "È come se fosse assente nella mente, o drogata. Ora io vedo che la sua anima decise di seguirti". Così dicendo, lui portò Ochu nella stanza di Seijo. Sentendoli parlare, Seijo sorse dal suo letto, ancora senza dire parola, e andò fuori al villaggio, proprio dove Seijo e le sue figlie erano ferme vicino al carro che le aveva portate sù dal porto. La Seijo silenziosa si fece avanti per salutarla e non appena fece questo, le due furono riunite.
Chokan allora parlò a Seijo. "Fin da quando Ochu lasciò questo villaggio, tu non hai più detto una parola, e sei stata sempre assente nella mente come se fossi stata drogata. Ora io vedo che la tua anima aveva lasciato il tuo corpo ed era stata con Ochu". A ciò, Seijo rispose, "Io non sapevo di essere qui in casa ammalata e a letto. Quando seppi che Ochu aveva lasciato questo villaggio nell'angoscia, io quella notte seguiì la sua barca, sentendo come se fosse un sogno. Io stessa non sono sicura quale fosse il vero io - quello che era con te, ammalata in letto, o quello che era con Ochu come sua moglie".
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Questa storia è un’utile metafora per ciascuna delle nostre vite e dà anche rilievo al processo di realizzazione. Il modo in cui vorrei avvicinarmici, è andar oltre il contenuto della storia e invece concentrarsi sul processo. La prima parte del processo è la separazione, l'illusione della dualità; la seconda parte, essendo il punto di svolta, è il senso del desiderio; mentre la terza parte, è la riunione e la trasformazione. Il nostro studio del koan qui ci richiede di fare il punto su ‘chi è la vero Seijo?’ Non è sufficiente dire che esse erano una fin dall'inizio. Noi dobbiamo cercare la vera Seijo qui ed ora.
Il primo aspetto che vorrei indicare è lo spirito di Seijo, che è stato separato. Se prendessimo questa storia come la nostra stessa storia, quante volte noi stessi ci dividiamo, viviamo la nostra vite in un modo frammentato e non-rispondente, scollegato dall'ambiente, e dalle persone che ci stanno intorno? Se iniziamo la nostra giornata con un bagno, non siamo ancora sotto la doccia che già stiamo pensando a che cosa vogliamo per colazione. Poi cominciamo la colazione e, dopo i primi due bocconi, stiamo già progettando cosa fare per il giorno. Perciò, noi tendiamo a vivere in questo modo smemorato e sconnesso. Noi vediamo in questa drammatica analogia che Seijo era come un fantasma, viveva in casa coi suoi genitori e non sapeva nemmeno che lei si trovava a casa. Anche noi spesso siamo divisi da questo momento presente, o volendo essere in qualche altro posto, o sognando il coniuge ideale, o volendo essere qualcosa di più di ciò che noi siamo. Noi siamo fantasmi per i nostri bambini, quando siamo preoccupatai per la nostra carriera, o per le ipoteche o anche se abbiamo il pensiero di salvare il pianeta.
Questo ci è ovvio quando cerchiamo di applicare questo semplice atto di sederci su un cuscino, per essere consapevoli del nostro respiro, quando qualcosa dal passato, qualche fantasia, una qualche immaginaria telenovela sorgerà e ci prenderà e improvvisamente siamo oltre il nostro cuscino e passiamo i successivi venti minuti vagando all’interno della nostra testa.
Se poi guardiamo alla nostra vita, in quanti ruoli ci dividiamo? Genitore, partner, lavoratore, membro di un sangha, o di una comunità, attivista pacifista, studente - nessun regista di film di Hollywood metterebbe un attore in così tanti ruoli, eppure noi assumiamo tutti questi ruoli ogni santo giorno. Seijo era una moglie e madre di due bambini in una città lontana. Seijo era una figlia malata a casa sua. Quando ci dividiamo dal momento presente, noi esauriamo la nostra energia vitale e siamo fondamentalmente inefficaci. In questa storia, Seijo era completamente abbattuta e depressa.
Se la nostra attenzione non è focalizzata noi non siamo più congruenti. Possiamo star a pensare ad una cosa, sentirne un’altra, dire qualche altra cosa, e fare qualcosa completamente diversa. Se guardiamo dentro il nostro spaccato psicologico ed emotivo, quali saranno le emozioni con cui per noi è più difficile stare tra quelle che incontriamo? Spesso noi evitiamo o sopprimiamo i sentimenti e le sensazioni sgradevoli. Essere con essi e includerli nel nostro zazen è il nostro continuo vantaggio. Proprio nel mezzo del nostro dolore e difficoltà troviamo una grande libertà.
Quindi la nostra pratica di consapevolezza momento dopo momento, è di portarci a casa proprio in questo preciso istante, di guarire le divisioni nella nostra psiche e di lasciar andare quel psico-logico conflitto. L'alba del cuore e la stabile luce dell’intuizione profonda emergerà facendoci dolcemente e fedelmente ritornare alla pratica di stare con le cose proprio così come esse sono.
Se siamo preoccupati per il futuro o impensieriti da rabbia o paure, anche se il nostro bambino sta proprio quì davanti, esso in realtà per noi non esisterà. Egli sarà come un fantasma e anche noi stessi potremmo star vivendo come fantasmi. Se voglio stare con mio figlio, io ho bisogno di ritornare al momento presente, tenerlo nelle mie braccia e connetterlo al mio respiro, ed allora potrò risvegliare naturalmente quella preziosità festosa e quella danza dell'amore per la vita.
Se guardiamo più in profondità, troveremo che (come disse Yasutani Roshi), "La fondamentale illusione dell’umanità è il presupporre che "io" sono qui e "tu" sei là fuori". Questa fondamentale illusione di un separato ‘sé’ permanente è la causa-radice di molta della nostra sofferenza. Noi siamo presi da concetti dualistici di soggetto/oggetto, "né-stesso/altri, identità/vacuità, vero/falso
corpo/spirito. Seijo non era meramente limitata a questo corpo ed anima, ed anche noi siamo non-limitati, noi siamo questa grande vita, che non è né è uno né due.
Se, con la visione del Bodhisattva, noi arriviamo a vedere che l'attualità della nostra quotidiana vita e l’essenza del mondo sono intrinsecamente una e la stessa, un indivisibile intero, allora le nostre azioni quotidiane, come guidare la macchina, alimentare i bambini, pulire la casa, sono tutte vere e proprie manifestazioni del Tao. Nuvole, colori, suoni e odori, sentimenti e pensieri, sono tutti la rete interconnessa di Indra e la stessa struttura e corpo del Buddha.
Un’altra notevole maniera in cui noi manteniamo la nostra idea di separazione è l’attaccamento
alle nostre opinioni fisse, alle nostre visioni e credenze. Ecco perché Thich Nhat Hanh creò il primo precetto nell’ "Ordine dell’Inter-essere" (che significa essere in contatto con, o continuare a realizzare): Non essere idolatri riguardo a qualsiasi dottrina, teoria o ideologia – e ciò include lo stesso buddhismo. Questo ci incoraggia a sperimentare direttamente da noi stessi la verità. Ciò che spesso si intromette, sono le nostre stesse preoccupazioni auto-egocentriche. È quando usciamo dal nostro stesso modo, quando lasciamo andare, che il il grande universo si apre.
Se ritorniamo alla storia, c'è qualcosa di molto bello in questo processo, nel desiderio di Seijo di ritornare a casa. In essenza, tutti noi abbiamo questo profondo desiderio di ritornare alla nostra vera casa, però spesso questo è mascherato dall'ignoranza e dai veli dei nostri desideri umani. Spesso è il dolore e lo scontento che ci conducono alla ricerca della verità, ed è il nostro anelito per la pace interiore e l'armonia che ci fa voltare indietro. La nostra sofferenza e la nostra gioia ci riporteranno ancora e ancora alla nostra pratica.
Quando il Buddha disse che la prima Nobile Verità è: "La Vita è Sofferenza", che cosa voleva dire? L'asserzione non fu fatta da una morbida visione deprimente della vita. Però se, momento per momento, siamo intimi e vicini con la instabile e impermanente natura di tutte le cose, noi dobbiamo riconoscere che c'è una insoddisfazione di fondo che vi sta sotto. Allora la domanda sorge: C'è qualcosa in più? Ciò che emerge è il bisogno di conoscere. E quindi, io so che nella mia stessa vita scaturì in me una grande passione per voler sapere ‘Chi io sono’, quello che io in realtà sono. Di fatto, fu quella passione e determinazione che mi hanno condotto ad incontrare Aitken Roshi ed è la stessa passione e determinazione che aveva il Buddha quando lui si sedette sotto l'albero della Bodhi. La nostra ricerca per la pace è, in realtà, la brama per l’infinito vuoto ‘sé’, il cuore che brama di riscoprire il suo proprio volto originale. È questo vero anelito che è la manifestazione del voto di Bodhisattva per salvare tutti gli esseri.
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Quindi noi facciamo il nostro zazen e rifiutiamo pazientemente di dominare le nostre fantasie, le opinioni critiche circa noi e gli altri, e ci voltiamo indietro come fece Seijo in quel momento. Noi giriamo la Ruota del Dharma quando incontriamo questo momento, questo è il nostro fuoco ed il nostro samadhi che gradualmente si approfondirà, il processo ha il suo proprio spiegamento e momento naturale.
La storia ha un finale bello ed ispiratore, simbolico del processo di realizzazione. La Seijo che stava a casa ammalata nel letto e la Seijo con i suoi due figli che viveva nella città lontana, si riunirono e divennero una. Ora, Seijo è qui con noi, lei ora ci sta invitando a scoprire la nostra affinità con le pietre e le nuvole, non a cambiare da una forma in un'altra, ma piuttosto a farci abili di sperimentare questa antica verità del ‘non-sé’.
Un altro aspetto che è riflesso in questa storia, probabilmente più attinente alle donne, è che noi abbiamo sperimentato le nostre vite in modo tradizionale, e definito noi stesse a seconda con chi siamo insieme. Per esempio, Seijo era una figlia in relazione ai suoi genitori, Seijo era una moglie in relazione a suo marito. La persona di cui noi siamo partner può spesso definire chi noi pensiamo di essere. Noi siamo continuamente in relazione, ogni momento è relazione ed in verità c’è solamente un’unica relazione. Tutte le cose non sono nient’altro che l’unico reale ‘Sé’, così noi siamo continuamente in relazione con il ‘sé’, con il nostro infinito vero ‘Sé’. La Seijo divisa divenne una, la nostra maturità è di non definire noi stessi soltanto con la persona che c’è nella nostra vita, ma fermarsi ed essere in comunione con il nostro vero volto originale senza definizione. Il vero ‘sé’ non conosce separazione né divisione.
“La luna e le nubi sono le stesse,
Montagne e valli sono differenti.
Tutti sono benedetti, tutto è benedetto.
Questo è uno? Questo è due?”
Sì, infatti l’esito è benedetto. La Via del Bodhisattva è far nascere il nostro anelito di ritornare a casa, trovare la nostra unità con tutti gli esseri. La luna e le nuvole sono le stesse, per natura tutti gli esseri sono essenzialmente il Buddha-Tao. Se noi non possiamo vedere nell’essenza del mondo, e riconosciamo solamente la nostra unicità e le nostre differenze, (le montagne e valli che sono differenti) questo modo di pensare ci getta direttamente nel caos. Un tale caos è evidente nella nostra società e si riflette nel modo in cui noi trattiamo il nostro ambiente.
Dharma/Gaia ci chiama a risvegliare la luce dell’alba ed a ricordarci che la luna e nubi sono le stesse, anche nelle nostre valli più oscure e nei momenti più difficili. Il giardino è annaffiato, Dharma/Gaia è nutrita, tutti sono benedetti, tuttie le cose sono benedette.
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(Testi tradotti da Aliberth – Alberto Mengoni – per i meditanti del Centro Nirvana e per i lettori del sito-)
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