L’intelletto è basato sul tempo e noi non possiamo vivere senza tempo; eppure, dietro il tempo vi è l’eternità. Occorre, perciò, afferrare quest’eternità. E’ lo stesso discorso dell’Osservatore e dell’osservato, se non c’è l’uno, non può esservi l’altro. Così, il tempo è la manifestazione dell’eternità, tuttavia questa è senza tempo e non si può concepire, mentre il tempo è chiaramente comprensibile dall’intelletto umano. Perciò, per essere concepibile, l’eternità si avvale del tempo e, tuttavia, il tempo limita e nasconde l’eternità. Dunque vi è questa contraddizione. Come per l’Osservatore e la coscienza individuale; come per l’Assoluto ed il relativo…
L’osservatore individualizzato (unità di coscienza) sta all’Osservatore Assoluto come il tempo sta all’eternità. Perciò, è il sé personale che deve afferrare questa eternità e questo dovrà accadere per mezzo dello intelletto, fino a raggiungere la condizione del Sé Universale in cui l’intelletto sarà costretto ad annullarsi nella Vacuità….CHI E’, dunque, che afferra l’eternità? Ovviamente andrà cambiata la dinamica con cui l’intelletto opera.
Nel nostro consueto modo di vivere, l’intelletto opera con dei meccanismi attivati dall’abitudine, quindi la persona, pur possedendo questo bene supremo che è l’intelletto, non ha la facoltà di coglierne l’essenza. Lo adopera e basta. Il lavoro che andrà fatto, nello specifico, è di iniziare a mettere sotto una lente di ingrandimento l’essenza stessa di questo intelletto. Cioè si deve usare l’intelletto per conoscere l’intelletto! Diversamente dalla maggioranza degli individui che usano l’intelletto per far tutto ciò che, spontaneamente, fanno durante la loro esistenza, il bravo meditante Zen indirizza il suo intelletto, la sua luce conoscitrice, verso se stesso! Soltanto in questo modo egli potrà afferrare l’eternità.
Penso che non vi sia necessità di andar oltre, su questo argomento. Avrete capito qual è il principio che muove lo spirito dello Zen. E’ quel profondo potere, la misteriosa energia che stravolge i meccanismi abituali per riprogrammarli nell’intento di guidare l’Essere a conoscere se stesso! Cioè, a conoscere la Mente!.
Quando si avvera questo ‘dietrofront’ della persona, che non sentirà più bisogno di estremizzarsi all’esterno, ma avrà il forte stimolo di addentrarsi all’interno di sé, accade un istantaneo e immediato ritorno a QUELLA COSA che siamo sempre stati e non sapevamo di essere!
Perciò l’intelletto, il bene supremo, viene finalmente usato per ritornare alle sue radici, per conoscere la sua provenienza, per comprendere la sua vera essenza. E, poiché l’intelletto non è altro che uno degli strati della coscienza, questo suo rivolgersi verso se stesso è una rivoluzione di TUTTA la coscienza. E’ la rivoluzione dello Spirito che, finalmente, può accostarsi ed afferrare l’Assoluto!
Nel buddhismo vi sono due Vie che portano alla conoscenza del Sé: la Via analitica e quella sintetica. Il Buddha dapprima insegnò il metodo analitico. La Via analitica è quella che, appunto, possiamo applicare con il ragionamento concettuale, per mezzo della eliminazione di elementi che non servono alla causa. Quindi se, per esempio, io capisco che una vita ha una certa durata, è assurdo che io dia a questo tempo un valore superiore a quello che ha. Io so che la mia esistenza psicofisica e corporea è iniziata nel giorno in cui sono venuto al mondo e finirà quando sarò costretto a lasciare questo mondo. Siamo tutti d’accordo su questo, nessuno può dire il contrario. E questo è un metodo analitico. Come pure quello di analizzare la composizione delle cose, degli oggetti materiali.
Sappiamo che i fenomeni, pur apparendoci a sé stanti, come un tutt’uno, indipendenti uno dall’altro, in realtà non sono così organicamente sostanziali in se stessi. Questa campanella, questo libro, se fossero esistenti dalla loro parte, avrebbero dovuto essere da sempre così e per sempre rimanere così. Invece sappiamo che, in questo mondo, tutto si forma e si trasforma costantemente. Questa campana, prima, era metallo che, venendo fuso e aggregato in una forma, ha dato origine a ciò che noi conosciamo e chiamiamo “campana”. E, se noi la distruggiamo, tornerà ad essere metallo e nient’altro. La stessa cosa si può dire di questo libro e di tutto ciò che ci circonda e che noi conosciamo come oggetti della nostra conoscenza. Un qualsiasi oggetto esistente di per sé, dalla sua parte, eterno e indistruttibile, non può e non potrà mai esistere. Questo è il metodo analitico con cui possiamo conoscere delle verità che non fanno parte del comune modo di intendere e interpretare la realtà.
Così, per poter conoscere il nucleo energetico e spirituale della persona, cioè il Sé, il metodo analitico non è adatto né sufficiente, perché è impossibile da usare, così come è impossibile trovare e conoscere l’essenza ultima di tutti i fenomeni. Eppure, come è stato detto dai Saggi del passato e come lo stesso Zen asserisce, il Sé esiste e può essere conosciuto e sperimentato. Questo paradosso, tipico dello Zen, che stabilisce che il Sé è impossibile a esistere, eppure esiste, è la chiave di tutto il metodo di auto-conoscenza del Ch’an. Per cui diventa necessario utilizzare un sistema alternativo: il metodo sintetico. Senza la nozione di un Sé, tutta la struttura filosofica dell’Essere, come pure la nostra stessa struttura sociale si dissolverebbe. Eppure il buddhismo rifiuta apertamente qualsiasi speculazione sulla esistenza del Sé, come fatto di accettazione apriori-stica. Allora, come è possibile risolvere questo dilemma?
Il dilemma si risolve con il metodo sintetico, cioè con la teoria dell’eliminazione. Così come, quando si sbuccia una cipolla, strato dopo strato, arriviamo a scoprire che al centro, nel nucleo, non vi è assolutamente nulla, al punto che, alla fine, non abbiamo più nessuna cipolla, ma solo gli strati che abbiamo separato; allo stesso modo, quando disintegriamo tutti i fenomeni, compresi gli esseri viventi e le persone, alla fine, non trovando nulla, scopriremo che QUEL NULLA è il Sé! Tuttavia, per l’intelletto umano, la cipolla continuerà ad essere qualcosa di sostanziale ed i sensi ci diranno che la cipolla stessa è qualcosa di intero, di individuale, di separato da altri oggetti.
Perciò, dobbiamo utilizzare il metodo sintetico e comprendere che, come per la cipolla, tutti i fenomeni hanno in se stessi un nucleo di energia invisibile che permette loro di essere aggregati intorno a quel nucleo e di apparire come cose a sé stanti. Quando togliamo tutti gli strati della cipolla, la cipolla scompare. Allora, cos’è che ha permesso agli strati di attanagliarsi tra loro fino a formare la cipolla?
Questo esempio della cipolla è molto illuminante, perché la stessa cosa accade a tutti i fenomeni, compresi gli stessi esseri umani, convinti di essere qualcosa di sostanziale.
Il metodo analitico può arrivare facilmente alla distruzione dell’oggetto. Ma esso, purtroppo, non arriva alla distruzione del SOGGETTO, il quale pensa: “Io però esisto, altrimenti CHI avrebbe potuto distruggere l’oggetto?”. Di conseguenza, la distruzione del soggetto è difficile; col metodo analitico non si ottiene. L’esempio della cipolla però ci aiuta, così si può comprendere che, come quel NULLA che permette alla cipolla di esistere, anche il soggetto è un nulla che permette alle cose di esistere, includendo nelle cose, perfino se stesso! Queste dichiarazioni sono la base della comprensione dello Zen e della Verità; coloro che le comprendono intuitivamente si illuminano di colpo! Il SE’ è quel NULLA che permette l’esistenza di QUEL QUALCOSA che pensa, che vede, che sente, e che vive all’interno della persona!
Domanda di DINO: - Scusa, ma tutto ciò mi ricorda l’<Io penso> Kantiano! –
Aliberth: - Beh, diciamo che Kant, attraverso metodi sperimentali, eterodossi, si è accostato molto al tema del Sé della persona. Però, mentre nelle teorie filosofiche occidentali si specula e si ipotizza intorno all’entità pensante, che non può essere sostanzialmente sperimentabile, nell’insegnamento buddhista si esclude anche la stessa entità, dal punto di vista dello sperimentatore. Altrimenti si darebbe conforto all’idea di un Dio esterno alla persona.
Ad ogni modo, il buddhismo non nega Dio sostenendo che Dio non esiste! Perché, per il buddhismo, chi vorrebbe negare l’esistenza di un Dio, non ha esistenza esso stesso. Dunque non può esservi uno che neghi Dio proponendosi come esistente egli stesso! Vi sarebbe la contraddizione di essere proprio Colui che si vuole negare! Il buddhismo non è ateo. Attenzione! Il buddhismo fa riflettere. Com’è possibile dire “Dio esiste” oppure “Dio non esiste”? Se non vi fosse qualcuno a dirlo, da che cosa potrebbe scaturire l’esistenza o la non-esistenza di Dio? Perciò, “Dio esiste” e “Dio non esiste” sono entrambe affermazioni irreali supportate da una irrealtà che si sente falsamente esistente. Se questa entità irreale sapesse di non esistere realmente come potrebbe sostenere l’esistenza o la non-esistenza di chicchessia? Allora si potrebbe dire, con una conclusione comoda: “Dio esiste, perché io posso dire che Dio esiste!”. Quindi, Dio esiste finché io posso affermarlo e Dio non esisterebbe allorché smettessi di poterlo affermare! Questo è quanto lo Zen vorrebbe farci comprendere. Al nostro silenzio corrisponderebbe il silenzio di Dio e non viceversa. Perciò il buddhismo dice: “ Non cercare Dio, cerca che COSA c’è dentro di TE ed elimina questa tua idea mentale di Dio!”. Secondo questo ragionamento, l’IO PENSO Kantiano altro non è che un’altra idea mentale di qualcuno che NON CONOSCE realmente CHI E’ COLUI CHE PENSA!
Con il metodo della cipolla, se noi cerchiamo al nostro interno, non riusciremo a trovare l’io. Ma il solito benpensante, che vuole arrivare subito alle conclusioni, dichiarerebbe: “L’Io è colui che cerca”. Se l’io è colui che cerca ciò vuol dire che questo io esiste soltanto quando è in fase di ricerca, così pure quando pensa, esiste soltanto nel pensiero di chi pensa. Dunque questo IO non può avere una esistenza assoluta, perché nei momenti in cui non pensa, non cerca e non sperimenta, non sarebbe presente. Così l’equazione “Io uguale colui che cerca”, non può sussistere. Bisogna fare un’equazione in cui, colui che cerca, è esistente solo nel momento in cui sta compiendo l’azione di cercare. Di conseguenza l’Io è esistente soltanto nel momento in cui è un “Io” e non quando sussistono tutte le altre possibilità di esistenza.
Per questo motivo si deve procedere, per mezzo del metodo sintetico, alla ricerca dell’Io. Questa equazione sorge come una “illogicità”, rispetto al consueto modo logico di trarre delle conclusioni. Ma, anche questa, è una logica. Una logica che ‘smonta’ la logica, secondo la “Reductio ad absurdum” del sommo filosofo buddhista Nagarjuna, che fu l’inventore della ‘logica antilogica’. Ma questa equazione è la chiave della comprensione dello Zen e della Vacuità. Attraverso il portare i processi alla loro disgregazione, si arriva a comprendere. E’ come il metodo della cipolla. Nell’Induismo (esattamente nei Sutra del Vedanta-Advaita) vi è una ingiunzione che è assai illuminante: “NETI, NETI, TAT TVAM ASI” che, all’incirca, sta a significare “Non questo, né quest’altro, Tu sei Quello!”. Dove per “Quello” si intende proprio quel nucleo Assoluto e Informale, che è l’unica Vera Realtà (BRAHMAN) e il suo corrispettivo nel cuore degli esseri viventi (ATMAN). Anche nella visione di Nagarjuna, e cioè la “Reductio ad absurdum” della “Via di Mezzo” (MADHYAMIKAKARIKASUTRA), la Verità è “Neti Neti”. Non è qualcosa che è, né è qualcosa che non è e, neppure, è qualcosa che è e non è. Insomma, la Realtà è un qualcosa da scoprire ex-novo. Non possiamo affidarci alla nostra conoscenza intellettuale o concettuale, essa non potrebbe mai permetterci di “cogliere” la Verità della Realtà nell’unico modo in cui Essa esiste: assolutamente libera da interpretazioni e ideazioni da parte della mente umana.
Addirittura, per la mente umana, c’è la convinzione che la speculazione filosofica ipotizzata nel raffigurare il vero modo di essere della Realtà, sia del tutto inconcepibile perché darebbe l’idea di essere piuttosto una specie di Inesistenza, di Vuoto metafisico. Insomma una sorta di Nulla. Dobbiamo però capire che questo Nulla è lo stesso Nulla che permette agli strati della cipolla di stare uniti insieme! Quindi, è qualcosa di più straordinario di un semplice Vuoto privo di tutto. Questa Vacuità, effettivamente non può venir compresa in maniera concettuale ma, poiché risulta essere la chiave della Comprensione finale, deve necessariamente sostituirsi al nostro consueto modo di ragionare. Poiché l’Io, così come comunemente lo intendiamo, non può essere ritenuto valido per il Ch’an, dobbiamo assolutamente sforzarci di cogliere il senso di questa Vacuità, prima in modo elementare, ma in seguito decisamente nel modo corretto, seguendo le istruzioni del metodo Ch’an.
Così come, col metodo analitico, abbiamo potuto distruggere mentalmente l’oggetto, ora ci accingiamo a distruggere mentalmente lo stesso soggetto col metodo sintetico. Rinunciando alla ricerca di un soggetto e insediandoci nello spazio vuoto della meditazione, possiamo comprendere la Verità nascosta. Sostituiamo l'ingombrante Io con l’impersonale Sé e affidiamo tutto il compito della ricerca a questo Sé. Come se, al nostro interno, creassimo uno spazio nel quale si possa insediare questa Suprema Autorità che prende il controllo sulla nostra persona.
Al momento, detta così, la cosa può spaventarci perché la nostra mente razionale esprimerebbe tutti i suoi dubbi e le sue paure ancestrali. “Ed io, che fine faccio?”, sembrerebbe sentirla dire… ma, in seguito, quando la pratica meditativa si sarà rafforzata e stabilizzata, non avremo più nessun dubbio e nessuna paura. Cominceremo a capire che quella Autorità Suprema è la nostra vera Identità, la nostra vera Natura che era stata oscurata e interrata dalla presunta identità egoica, succhiatrice della Energia Divina.
Questo Io vampiro che si è impadronito del Potere Supremo, oltre a presentarci la Realtà in modo deformato, continua il suo demoniaco compito ingannatorio impedendoci di liberarci di lui, cosicché ci rende impossibile capire che le cose non stanno così come vuole farcele apparire. Infatti, l’Io, cosi come comunemente ci appare, non può essere reale, perché esso è, a sua volta, uno strato intorno a quel Nucleo vuoto cui non possiamo dare una fisionomia. Se fossimo tentati di dargli una fisionomia, diventerebbe ancora un fantomatico Io irreale.
Ecco perché, nello Zen, lo stato che si manifesta durante la meditazione profonda è chiamato “non-mente”. Non come forma di negazione, ma come indicazione che la mente ordinaria, attiva durante la nostra vita quotidiana, non può essere considerata testimone della realtà. Quindi, soltanto con l’apertura della mente vuota e vibrante dello stato meditativo, cioè la “non-mente”, è possibile penetrare e insediarsi nella condizione dell’autentica Realtà delle cose così come sono. E’ la disgregazione che conduce all’Illuminazione, è l’abbandono di ogni tentativo, da parte della mente, di ottenere le cose concettualmente, che portano al Nirvana. Infatti, quando non avremo più desiderio delle risposte logiche, ci giungerà la risposta sintetica e intuitiva. Questa, sarà l’unica giusta, perché non sarà suggerita né mediata dall’Io ignorante e fallace.
La risposta, generata dalla Intuizione Superconscia (Prajna), sarà l’Illuminazione Istantanea e sarà dovuta all’applicazione del metodo, che è indicato col nome di “Processo graduale”, cioè la preparazione al momento cruciale. Tutto ciò richiede, naturalmente, fiducia e completa adesione al metodo e all’applicazione, sia nella fase meditativa formale sia durante la nostra vita quotidiana. Con un’attenta coscientizzazione dei nostri stati mentali, così da trasformare il nostro vivere quotidiano in autentica vita spirituale, contemporaneamente e nell’istante della nostra presa di coscienza.
Quello che dobbiamo finalmente capire è che l’unica vera cosa da perseguire, in tutta questa storia, è il processo. Soltanto applicando il metodo di Osservazione diretta e attenta al nostro intero essere psicofisico, noi convertiamo l’energia individuale in Energia Assoluta e ristabiliamo le dovute gerarchie nel campo della Pura Coscienza. L’Io perderà le sue attribuzioni individuali e lascerà il posto al più qualificato Sé superiore che, seppur non valutato come entità a sé stante da parte dello Zen, pure rispecchia la reale situazione metafisica idonea alla decisione di scomparsa dell’identificazione egoica.
Lo sforzo che si deve attuare consiste nella capacità di rimanere spettatori ingiudicanti della propria mente. Aprire e coltivare questa valvola di energia capace di essere sempre lì, presente a tutto ciò che ci riguarda, in modo soggettivo ma anche in modo passivo. Perché la vera difficoltà sta nel saper vedere senza giudicare, senza far partire la catena sequenziale dei nostri pensieri discorsivi, che ci costringono ad uscire da noi stessi e correre dietro alle opinioni, alle idee personali ed ai giudizi di parte. E’ difficile ma non impossibile. E in ogni modo, la difficoltà è commisurata al grado di applicazione, a quanto tempo manteniamo questo proposito durante la nostra quotidianità e non solamente per quel poco tempo dedicato alla formale seduta meditativa. Il vero lavoro diventa l’incrementare e dare importanza alla consapevolezza, iniziando dall’attenzione rivolta al respiro e alle sensazioni corporee, per finire con l’indagine introspettiva nel nostro sistema mentale.
Quando qualcuno mostra di interessarsi alla Meditazione, nostro compito è quello di verificare che questa persona sia adatta al Ch’an. Se la persona si presenta piena di congetture, di opinioni personali e la sua intenzione di praticare è volta solo al desiderio di migliorare le sue condi-zioni psicofisiche di salute, allora si cerca di capire se queste sue intenzioni possano essere degli ostacoli per una pratica corretta. In primo luogo, pertanto, gli si rende difficile la partecipazione. Cosicché si verificano le sue reazioni, dovute al radicamento, nella sua mente, di un Io fortemente stabilito a funzionare in modo dualistico. Se il principiante non mostra di comprendere la sua propria condizione di imprigionamento egoistico ma, anzi, reagisce con tutta una ridda di pensieri e di punti di vista personali, allora è meglio lasciar perdere. Gli si consiglierà caldamente di rivolgersi a qualche altra disciplina, o a qualche altro passatempo. In quanto, quest’individuo, non potrà proprio, per il momento, affrontare il lavoro che porta alla risoluzione dei suoi processi egoici e non sarà in grado, almeno finché il suo karma non lo permetterà, di aprire la sua mente al Sé trascendente.
Nei testi si afferma che le Vie spirituali abbiano una loro velocità di esecuzione, nel portare i discepoli dall’avvio iniziale fino al traguardo finale. E si dice, anche, che se gli altri sentieri sono paragonabili a mezzi di trasporto più o meno veloci (ad esempio viaggiare a piedi, o in carrozza, o in auto, o in treno) lo Zen è paragonato ad una meteora, o ad un missile interstellare. Quindi, essendo il più veloce di tutti, richiede una abilità ed una preparazione che non possono essere approntate efficacemente in soltanto questa vita attuale. Si ritiene che la preparazione Ch’an sia iniziata, negli adepti, fin da quando il Ch’an è apparso sul pianeta. Di conseguenza, coloro che hanno qualche segreta speranza che la loro motivazione produca il frutto di una abile pratica, devono anche augurarsi di aver iniziato questo sentiero da migliaia di anni (ovviamente nelle loro vite precedenti).
Infatti, non si può certo immaginare che qualcuno abbia il “desiderio” di imparare il Ch’an per uno scopo mondano e personale, perché questo sarebbe già sintomo di non appartenenza alla “Famiglia” dei reincarnati che stanno continuando la pratica Ch’an in questa vita (con la speranza che sia l’ultima).
Lo Zen è un viaggio nell’iperspazio della mente e dello spirito e non una passeg-giata immaginaria, come può accadere in altri sentieri spirituali assai soft, in cui si sovrappongono teorie di fantasia alle normali immaginazioni illusorie della mente umana. Lo Zen è una istintiva necessità di distruggere al più presto ogni nostro abituale concetto per scoprire la Verità ripartendo da zero. Ecco perché è una Via di Illuminazione istantanea per chi ha la facoltà, la costanza, la fede e la volontà, nonché una buona dose di lungimiranza, di voler comprendere che nelle proprie mani vi è un ferro rovente capace di fondere tutta la nostra ignoranza.
Con lo Zen il predestinato s’illumina, risolve e abbraccia l’Infinito. Intanto egli risolve la vita, la sua esistenza ed i problemi ad essa connessi. Poi la sua illuminazione può, per il momento, essere sufficiente a questo primo scopo e, in seguito, può sfociare addirittura nella Grande Illuminazione. In questa, l’adepto si risolverà e rifluirà nella pura Energia Cosmica, creando universi di Bontà affinché tutti gli altri esseri possano, a loro volta, seguire le sue orme. Lo spirito dei Buddha, come pure quello di altri grandi Esseri, aleggia costantemente su tutti noi, su tutta l’umanità sofferente. Essi sono Energie pure che, unite ad altre energie a noi sconosciute, dirigono la loro positività sulle menti degli Esseri di buona volontà, chiamandoli a raccolta per aderire alla Famiglia. E’ la Natura autentica dello Spirito che chiama i suoi figli prigionieri nella personalità umana e lo Zen è il miglior metodo per ricevere questa energia in una maniera furente ed efficace. Un’energia che dà il potere di accettare l’inconcepibile, l’astruso, l’impossibile, in quanto la mente umana non sarebbe capace di sostenere la verità definita come Nulla.
Quando tutto è negato deve pur rimanere qualcosa. C’è qualcosa di non materiale, di non visibile, composto di sola pura energia incommensurabile che permette all’individuo di aggregare su “quella stessa cosa” il corpo, la mente e la sua stessa esistenza. Ma non è possibile percepire quel “qualcosa” per mezzo delle nozioni del mondo umano, regno del particolare e della relatività. Quel qualcosa o “Nulla”, cui giungiamo dopo aver eliminato tutte le nozioni individuali, non deve essere concepito in senso relativo o particolare. Infatti se la nostra mente pensa al Nulla, lo immagina in senso relativo, e quindi non può essere “quel” Nulla. Generalmente noi diciamo che “nulla” si contrappone a “qualcosa”, ma questo ‘nulla’ non è il Nulla Assoluto, è solo un nulla relativo. Qui, noi indichiamo proprio un “QUALCOSA” che è identico al “NULLA”. La teoria del ‘non-sé’ (anatman) non indica che esso sia il Nulla Assoluto o la Vacuità ma, semplicemente, indica che non può esservi un nulla relativo, come pure non può esservi un “Pieno” relativo, se non in opposizione, l’uno con l’altro, in modo dualistico.
Perciò il Sé Supremo è al di sopra ed oltre la comprensione concettuale della mente umana la quale, al massimo, può concepire il sé relativo, in altre parole l’identità, la persona, l’io individuale, il singolo essere vivente. E’ un mistero che non si può risolvere concettualmente. La mente relativa ha la possibilità di sondare l’Assoluto ma, quando cerca di spiegarlo non ha i mezzi ed i termini per poterlo spiegare, è costretta a ricorrere a termini e mezzi relativi che non possono arrivare a spiegare l’Assoluto. Per questo motivo, noi possiamo sperimentare l’Assoluto, ne cogliamo la realtà ma, poi, quando cerchiamo di analizzarlo e di concettualizzarlo, non possiamo farlo e, se lo facciamo, lo facciamo in una maniera che ci devia e ci porta fuori dalla verità.
Qui sta la vera difficoltà, nel fatto che il Sé non esiste e tuttavia esiste. Perciò, afferrare la dottrina dell’ANATMAN o Non-Sé nel suo significato ultimo è oltre la concezione della mente comune, la quale è costretta a fermarsi in anticipo. Il Buddha si rifiutò di rispondere a domande sul problema della realtà ultima ed alcuni considerarono questo rifiuto come una risposta negativa circa l’esistenza dell’atman. In realtà, questa sorta di agno-sticismo del Buddha non asserisce un sistema negativo, anzi si dovrebbe afferrarlo in una maniera positiva e ciò è estremamente difficile per chi, evitando la ricerca personale e la risposta intuitiva dettata dalla propria esperienza, vorrebbe sempre avere esplicite risposte già confezionate.
Il Buddha si rifiutò di rispondere soltanto perché la discussione sarebbe stata oltre la portata delle menti ordinarie. Perciò rifiutò di trattare questo problema meta-fisico mettendo in evidenza, piuttosto, il significato etico e morale dell’importanza di una non-esistenza inerente dell’Io. Il Buddha aveva scoperto che la causa della sofferenza in questa vita è l’attaccamento all’Io, come pure alle cose bramate dall’Io, poiché l’Io crede che, sia egli stesso sia le cose, entrambi esistano in modo inerente e permanente. Per liberarsi di questo attaccamento e della conseguente sofferenza, il metodo più pratico consiste nel negare la sostanzialità delle entità individuali, vale a dire la sostanza del ‘sé’.
Accade che noi ci attacchiamo del tutto inconsciamente a questo nostro sé, e persino quando crediamo di essere altruisti, questa stessa nozione, inculcata nelle nostre menti, implica forte adesione al nostro pensiero, cioè al sé. E’ assai difficile essere consapevoli del sé e tuttavia non dipenderne. Questo essere consciamente inconsapevoli, o inconsciamente consapevoli, è il punto cruciale della maggior parte dei problemi filosofici. Quindi il consiglio è semplice. Dobbiamo diventare consciamente consapevoli del nostro dipendere dall’innata idea di un sé.
L’uomo, solitamente, ha due forme di consapevolezza ordinaria: inconsapevolezza conscia, cioè sapere di non sapere, oppure inconscia consapevolezza, cioè non comprendere ciò che si sa. L’unica possibilità di eliminare questa innata biforca-zione coscienziale è quella di essere finalmente consciamente consapevoli, in cui si sa, e si è ciò che si sa. Ecco la caduta del bisogno delle domande e delle risposte. Col metodo sintetico la mente comune viene, più o meno, persuasa del fatto che non vi è alcun reale sé nell’individuo ma, contemporaneamente, viene informata sull’esistenza di una Realtà più eccelsa e più alta che, in qualche modo, ingloba e comprende un Sé universale. Vale a dire il Sé che non è soggetto al mutamento ed all’impermanenza, al contrario di quello presunto individuale che dura lo spazio di una vita!
La dottrina del Buddha è la dottrina del divenire, cioè del mutamento costante e questo è un accostamento analitico che non solo disseziona ogni fenomeno in parti infinitesimali, ma perfino le più piccole parti sono soggette sempre più all’analisi e, quindi, alla disgregazione. Come possiamo ben vedere, in questo mondo tutte le cose mutano, ogni cosa è transitoria ed il Buddha insegnò che questa transitorietà deriva dalla natura composita di tutte le cose, poiché tutte le cose sono formate da aggregati composti. Poiché tutte le cose sono composte, esse sono soggette alla decomposizione e, questo, significa mutamento. Ma, se ogni cosa muta, se non vi è nulla che possa definirsi permanente, perché ci attacchiamo alle cose? Non ne vale la pena. E’ vero che in questo mondo vi sono cose degne di ammirazione, ma il ragionamento analitico ci dice che invecchiando, poi è inevitabile trasformarsi in moribondi e, infine, in bianchi scheletri senza vita.
Di conseguenza, senza attendere il responso dell’analisi, noi tutti siamo già scheletri, senza scampo. E questa è una conclusione di tipo sintetico. Avete capito il meccanismo? Tuttavia, sostenere che allora tutto è vano, è anch’esso un ragionamento analitico e la ragione non sempre opera in modo efficace. Altrimenti, noi non avremmo dovuto neanche più nascere. Evidentemente c’è una Ragione Superiore per cui si nasce e, probabilmente, è proprio quella di cambiare il nostro modo di ragionare. Quando vediamo un bel fiore o uno bel panorama non ci mettiamo ad analizzare o a teorizzare: restiamo semplicemente in ammirazione senza sentir il bisogno di attaccarci a queste sensazioni. E questo sembra essere il giusto modo di comportarci e di esprimere la nostra gratitudine all’esistenza. Perché l’intelletto umano non deve operare in modo demoniaco, come invece fa quando esprime il desiderio e la razionalità. L’apprezzamento del bello deve andar oltre il ragionamento analitico e farci utilizzare un altro metodo per raggiungere la comprensione del vero scopo dell’esistenza e della concezione del Sé Reale.
Abbiamo visto che, col metodo analitico non vi è alcuna sostanza permanente dell’Io, e tuttavia non riusciamo a liberarci dalla nozione del sé. Quindi, non è certo l’esperienza diretta che ci testimonia l’esistenza del sé: perciò, da dove proviene questa nozione? Quando cerchiamo di afferrare il sé nel regno dei sensi e dell’intelletto, lo perdiamo sempre di vista. Eppure questa presenza del sé la assumiamo intimamente, altrimenti non si riuscirebbe ad andare avanti. Arriviamo in questo mondo senza sapere come e perché e, successivamente, cominciamo ad analizzare con il ragionamento che il nostro esistere è impossibile. Così facendo, il ragionamento non potrà mai farci giungere ad una soluzione finale. Ciononostante siamo sempre perseguitati da questa impressione di un sé.
Deve necessariamente esservi un’altra soluzione a questo quesito. In matematica abbiamo l’uno e, da questo uno, si snocciola tutta la successione numerica, fino all’infinito. Ma, essendo i sensi umani limitati ed imperfetti, noi non potremo mai giungere all’infinito. Si continua a sommare un numero dopo l’altro e si presume che la serie prosegua all’infinito. In questo modo quando diciamo “uno”, quell’uno implica già l’infinito, perché la matematica è basata sulla nozione di “uno”. L’uno è infinito e l’infinito è uno…. Ecco il metodo sintetico. Ma non abbiamo mai potuto sperimentare l’infinito con l’intelletto o con i nostri sensi. Pertanto ogni esperienza individuale e particolare deve essere un’esperienza dell’infinito stesso. Ed anche senza questa specie di ragionamento, non si potrebbe proprio continuare a ragionare né raggiungere quel punto fondamentale, che non avremmo potuto raggiungere col ragionamento. Se il ragionamento si rivolgesse a, e in, se stesso, scoprirebbe che la risposta è già lì. Per sua stessa natura, però, il ragionamento esce sempre da se stesso e, per questo motivo, fallisce lo scopo. Non dovrebbe andare fuori da se stesso, ma ritornare a se stesso.
Questa è ciò che definisco una nozione sintetica. L’accostamento analitico al problema del sé fu collaudato dagli antichi buddhisti. Ma in seguito, come ho già detto, fu necessario comprendere non solo il nulla relativo ma il Vuoto Assoluto. A questo provvide il Ch’an dei Patriarchi con gli Insegnamenti sulla Non-Mente e sulla Vacuità. Per concludere, racconterò ora una storiella Zen per illustrare come raggiungere questo scopo:
“Un monaco chiese al suo maestro: - ‘Che cos’è il mio Io?’ –
Il maestro rispose :- ‘… Il mio Io!’ -.
Ed il monaco :- ‘Come potrebbe il tuo Io essere il mio Io?’ –
Allora il maestro, con molta pazienza, ribatté: - ‘No, infatti quello è il tuo Io!’-. JJ
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