BUDDHIST LEGENDS - 3 Vols. (Translated from the original Pali text of the Dhammapada Commentary)I Jataka: Una Visione delle Storie del Buddismo 

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  I testi dei ‘Jataka’ - le storie del Buddha nelle sue precedenti nascite, o dell’Essere che si è sforzato di raggiungere la Buddhità Assoluta (Purna Buddhattva), comprendono solo una piccola parte, anche se forse la più popolare, nel vasto corpus dell’antica letteratura Buddista - maggiormente i discorsi del Grande Maestro, o tutto ciò che fu espresso dalla sua bocca. Questi discorsi - la base della letteratura Buddista, furono registrati e sistemati in tre sezioni,  in simultaneità, o con tutta probabilità, durante la stessa vita del Buddha, sotto il nome di ‘Tipitaka’, un termine che combina il 'ti', con 'pitaka', ed ha un significato che corrisponde a 'tre-canestri'. Ognuno dei ‘Tre-Canestri’ - e cioè, Suttapitaka, Vinayapitaka e Abhidhammapitaka, che sono i loro nomi. Tutti si riferiscono ai discorsi del Buddha. Il Suttapitaka è la sezione che fa riferimento ad eventi casuali ed ai vari avvenimenti, il Vinayapitaka, quella delle regole per monaci, e l’Abhidhammapitaka, quella della filosofia più elevata. I discorsi di ciascuna sezione sono stati classificati in varie divisioni, ognuna delle quali comprende un testo indipendente con un titolo indipendente. E quindi, il Vinayapitaka contiene cinque testi, l’Abhidhammapitaka, sette, ed il Suttapitaka, cinque.  

Inoltre, la maggior parte dei testi che sono contenuti nel ‘Tipitaka’, sono raccolte di varie scritture che si estendono in molti volumi. I cinque organi del Suttapitaka sono noti come Nikaya, ognuno dei quali comprende un numero di testi indipendenti. Il Khuddakanikaya, uno di questi cinque Nikaya, ha quindici parti, il Jataka invece ne ha uno solo. Questa stessa vastità della primitiva letteratura Buddista ne definisce la sua grandezza e magnificenza. Ed a parte il Tipitaka, anche tutta questa letteratura è stata divisa in nove parti, forse da qualche altro gruppo di discepoli del Buddha. Ed il Jataka fa parte di questa classificazione come una delle sue nove parti. Inoltre, anche il Tipitaka allude a questa classificazione. Ovviamente, il Tipitaka e questa classificazione in nove organi, furono fatti durante la vita del Buddha e furono similmente antichi.  

A parte aggiunte, elaborazioni o cancellature, i Jataka furono quindi le storie emanate direttamente dalla bocca del Grande Maestro. Come riportato dalle scritture tradizionali Buddiste, nella notte della sua Illuminazione il Buddha disse, "Quando la mia mente fu concentrata, purificata, luminosa e immacolata… io la diressi alla conoscenza della memoria delle mie vite passate". Ovviamente, i Jataka - le storie delle 'vite passate' che il Buddha visse, come l'Essere che si sforzò di raggiungere ‘Purna Buddhattva’, si rivelarono come il suo stesso ricordo pronunciato ai suoi discepoli. Poco dopo, i Jataka da racconti di storie, furono trasformate come la maniera più efficace di interpretare un 'sutra' - una regola, un aforismo, o un evento, non solo nel Buddismo canonico, ma in tutte le sue sètte. E non solo una grande sezione della letteratura buddista fu re-interpretata in termini di storie, ma i Jataka emersero come lo strumento più efficace di comunicare i codici e la filosofia buddista per tramite degli eventi. Il Singalese Atta Kathayen, che si ritiene scritto almeno prima del 3° secolo a.C., e portato a Sri Lanka da Mahendra, figlio ed emissario dell’Imperatore Ashoka, è una forte trasformazione dei canoni e codici buddisti, sulla linea dei Jataka.  

I Jataka nella Letteratura del Mondo

I Jataka ebbero un’immensa influenza anche nella letteratura non-buddista. Non più presenti oggi, salvo ciò che di essi sopravvive nei suoi commentari da successivi studiosi come Bana, Dandi, Kshemendra o Somadeva. Il Brahatkatha, un’opera di Andhrite, uno studioso del I° secolo d.C., sembra esser stato largamente basato sui Jataka. Ed anche il Katha Saritasagara di Somadeva include molti Jataka.  

I Jataka, sono la fonte-radice per un gran numero di storie nel Pancha-tantra, salvo per il fatto che diversamente dai Jataka, che puntavano ad istruire le masse comuni, le storie del Pancha-tantra furono composte per istruire i principi.  

L’ Hitopadesha di Narayana, un altro ben noto classico Sanskrito, che include una vasta serie di valori etici e di cose che aiutano nella vita, ha usato molte delle storie dei Jataka per elaborare i suoi canoni, sebbene abbia preso queste storie dal Pancha-tantra.  

Tutti i libri di narrativa che pubblicano storie morali, il Vaitala Panchavinshati, Sinhasana Dwatrishika, Shukasaptati…, sono in debito verso i Jataka per il loro materiale ed il loro carattere di storie raccontate. Anche la letteratura Jainista ha una forte parte di storie. Infatti, essa condivide molte caratteristiche dei Jataka. Il vasto ed ampio schema dei Jataka - che hanno un inizio nel presente, ricollegandosi al corpo principale della storia dal passato, e producendo una regola per il futuro, fu più tardi universalmente adottato per molti testi, Brahamanici o Jainisti.  

I Jataka furono il primo, e forse il più energico, strumento dell’espansione del Buddismo verso Oriente. I Jataka sono presenti, in una forma o nell'altra, nelle tradizioni Birmana, Cinese, Khotanese, Singalese, Sogdiana, Tibetana e Tochariana - sia religiose che letterarie. Seppure tramite il Pancha-tantra, le storie dei Jataka si infiltrarono perfino nelle letterature medievali dell'Iran, Siria, Germania, Iraq, Turchia, Grecia, Roma, quindi praticamente in tutta l'Europa. In Europa, nelle opere di Boccaccio, Poggio, La Fontaine, Chaucer e Shakespeare, molti dei Jataka o sono ri-scritti o vi sono loro varianti. La più curiosa è la trasformazione dell'eroe dei Jataka, il Bodhisattva, in 'Josaphat dell'India' ed il suo assorbimento nella gerarchia e folclore Cristiano. Il santo cristiano del 7° secolo, San Giovanni Damasceno, non solo narrò le avventure del Bodhisattva come Barlaam e Josaphat, ma nel corso del tempo Josaphat fu anche canonizzato come santo Cristiano.  

I Jataka: Storie di Nascita del Bodhisattva  

In Pali, o più correttamente in Magadhi, la vera lingua dell’antica letteratura buddista, di cui Pali è la nomenclatura formale, Jataka significa 'relativo-alla-nascita'. Un pò come la teoria dell'evoluzione, il Buddismo vedeva ogni entità come un qualcosa evoluto dopo una lunga catena di nascite, un fiore a cui occorrevano milioni di anni prima che potesse evolversi come un fiore. Così, un Buddha nasce dopo molti eoni. Ovviamente, un Essere che si è sforzato di raggiungere la Buddhità doveva prendere milioni di nascite prima che questa mèta fosse realizzata. Quindi, i Jataka, le storie delle nascite del futuro Buddha, o l'Essere destinato ad essere il Buddha, furono obbligati a rivelare eventi di milioni di sue nascite. Tuttavia, in realtà, i Jataka registrano solo 547 nascite del Bodhisattva - l’Essere che si sforzò per divenire alla fine il Buddha - o piuttosto, questo è stato fissato adesso come il numero finale degli eventi delle sue nascite, i Jataka. Questi 547 Jataka non includono il Mahagovinda Jataka, benché esso abbia una menzione in molti testi primitivi, anche nel Nidana-katha, il prologo al Jatakatthakatha. Similmente, alcune storie sono ripetute con lo stesso nome, o con un altro, in diversi Nipata, capitoli sotto i quali sono stati sistemati questi 547 Jataka. Quindi, il numero delle storie dei Jataka potrebbe essere anche di più o poco meno. Il numero dei Nipata è 22.  

Nel Buddismo formale, le storie dei Jataka si estendono in tre parti, note come Nidana - Dure Nidana, Avidure Nidana e Santike Nidana. Tutti i 547 Jataka sono messi sotto Dure Nidana. Essi coprono la vita del Bodhisattva dalla sua nascita come Sumedha, l'asceta che si sottomise ai piedi di Dipankara, il predecessore di Gautama, col voto di mantenere lo sforzo finché non avesse ottenuto l’assoluta Buddhità, alla sua nascita come principe Vessantara in cui avrebbe raggiunto il Mahanirvana - l’eterna-salvezza. Come Vessantara, il Bodhisattva prende l'ultima nascita prima del suo conseguimento di ‘Purna Buddhattva’ nella sua successiva nascita come Gautama-Siddartha. L'evento di questa nascita è così narrato nell'ultimo Jataka, il n. 547. La storia di Sumedha è il primo di tutti i 547 Jataka. Essa accade all'inizio del Dure Nidana. Questa parte è qualcosa come un prologo alle 547 storie dei veri Jataka. Narra anche le vite dei 27 Buddha che precedettero Gautama, il Buddha attuale, come pure le dieci perfezioni che il Bodhisattva raggiunse nel corso delle sue 547 nascite e che i vari Jataka illustrano. Avidure Nidana copre la storia del Bodhi-sattva dall tempo in cui, privato del Tushita Loka, il cielo più alto, egli discende nell'utero di Mahamaya Devi, fino al suo conseguimento della Buddhità come Gautama. Dettagli di vari luoghi dove il Grande Maestro soggiornò e in cui narrò alcuni dei Jataka sono invece compresi nel Santike Nidana.  

Il Karma e la Rinascita della Coscienza  

Ogni Jataka ha il suo proprio ruolo-guida dell’eroe, altri caratteri, serie di eventi, luoghi in cui il dramma è avvenuto, e la perfezione che esso rivela. Però inerentemente in ogni Jataka questo ruolo-guida da eroe è il Bodhisattva, l'Essere che si è sforzato per poter raggiungere lo Stato di Buddha, o Colui-destinato-ad-essere il Buddha nella sua nascita finale. Questo definisce l’unità strutturale ed anche spirituale dei Jataka, ognuno dei quali sembrerebbe essere altrimenti indipendente e distaccato.  

Questo presenta anche l'unico enigma del pensiero Buddista, che rifiuta la teoria della permanenza del ‘sé’ o la sua trasmigrazione, ma però asserisce la dottrina della rinascita. Il Buddismo chiarisce l'enigma dicendo semplicemente che una fiaccola è accesa da un’ altra, ma nel processo la fiamma della prima non trasmigra nell'altra, né è permanente; o, un verso recitato da una persona è imparato da un’altra, ma nel processo il verso non lascia la bocca di colui che lo recita, ed entra negli orecchi dell'altro che lo immagazzina nella sua memoria. Il ‘sé’, instabile com’è, è definito da ciò che uno è e da quello che lui fa, ed inoltre che lui ha una spontanea volontà di essere quello che è e fare quello che lui preferisce. In noce, uno è quello che i suoi atti lo fanno essere; uno è nato come i suoi atti lo hanno plasmato; e lui eredita solamente i suoi atti - buoni o cattivi. Il desiderio porta a fare un’azione - l'atto; ma se non c’è nessun desiderio non c'è nessun atto, come pure nessuna nascita o ri-nascita. L'ignoranza genera il desiderio, e l’Illuminazione - la vera conoscenza, comporta la sua fine. Quindi, l'estinzione del desiderio è la fine del ciclo di nascita e morte.  

Strutturalmente, ogni Jataka ha due parti, una è il 'Gatha', e l’altra, il 'Katha'. Il Gatha è il 'Sutta', il nocciolo dell’aforisma, o scopo di ciò che è mostrato, e Katha, la parte di storia con cui è illustrato il Gatha. Per esempio, nel Vannupatha Jataka la parte ‘Gatha’ avviene verso la fine. Essa conclude che le persone che si sono sforzate hanno trovato l’acqua perfino scavando la terra sabbiosa del deserto. Similmente, gli abili monaci dovrebbero raggiungere la pace della mente sottoponendosi ad un instancabile sforzo. Due storie parallele illustrano questo aforisma. Una si riferisce ad un nobile di Shravasti, e l’altra ad un Banjara, un mercante che si muove da un luogo all’altro per commerciare. Quando il Buddha stava a Jetavana, un giovane nobile di Shravasti arrivò da lui. Per cinque anni lui rimase col Buddha. Dopo che lui ebbe imparato tutte le adatte tecniche di meditazione prese commiato e andò nella foresta per fare la penitenza e raggiungere l’Illuminazione. Passò tre dei quattro mesi del suo soggiorno sotto la pioggia, ma la sua mente non era in pace. Egli allora si ricordò che il Buddha aveva classificato gli uomini in quattro tipi, ed il quarto erano quelli che avrebbero raggiunto l’Illuminazione in prossime nascite, e non ora. Usandolo come una scusa, concluse che lui di certo apparteneva al quarto tipo, e rimandando tutti gli sforzi per le prossime nascite egli ritornò dal Buddha a godere la gloria della sua compagnia. Così fu portato davanti al Buddha, e dopo aver saputo che lui aveva rinunciato allo sforzo, il Buddha gli chiese se lui non fosse lo stesso uomo industrioso che in una delle sue nascite precedenti con il suo sforzo aveva salvato la vita ad uomini e buoi di cinquecento carri scavando l’acqua sotto il deserto. I monaci curiosi pregarono il Buddha per dir loro come era successo. E quindi, il Buddha narrò la seguente storia.  

‘Tanto tempo fa, quando Kashi era governata da re Brahmadatta, il Bodhisattva era nato come Banjara. Quando ne ebbe l’età, lui cominciò a commerciare con cinquecento carri. Un giorno, per la sua destinazione egli dovette attraversare un lungo deserto con sabbia impenetrabile che durante il giorno ardeva come fuoco e non rivelava la strada. Quindi, si poteva viaggiare solamente durante la notte e con l'aiuto di una competente guida che sapeva dire la giusta direzione dalla posizione delle stelle. Una notte cruciale, quando la loro scorta di acqua era pressocché finita, la guida che era a bordo del carro pilota si addormentò. I buoi del suo carro girarono all’indietro e con loro tutti gli altri. Quando poi venne il giorno, essi scoprirono di esser tornati sullo stesso luogo da dove erano partiti la sera scorsa. E l’acqua intanto era finita. Tutti erano disperati, salvo il Bodhisattva. Lui li persuase a scavare per trovare acqua. Dopo che la terra fu scavata alla profondità di molti piedi affiorò una roccia e con essa finirono tutte le speranze ed anche il loro sforzo. Il Bodhisattva, comunque, discese quietamente nello scavo. Quivi, egli sentì un debole suono mormorante da sotto la roccia. Sentì che un flusso d’acqua fluiva sotto di essa. Egli chiese al suo servitore personale di rompere la roccia, cosa che lui fece e da sotto la pietra eruppe un getto di acqua fresca e chiara, e così con il grande sforzo di un comune servitore furono salvate le vite di tutti gli uomini e buoi’. La storia si conclude col Gatha - il cuore aforistico. Una parte del Jataka è dedicata poi all’interpretazione del Gatha. Alla fine, il Buddha rivela che questo monaco che ora aveva rinunciato allo sforzo, in quella nascita era il servitore che ruppe la pietra, che altri erano alcuni qui presenti, e che lui stesso era il Bodhisattva.  

Il Vannupatha Jataka è stato così chiamato come il suo soggetto principale - vannupatha, ‘strada attraverso la sabbia’. Alcuni Jataka sono stati chiamati dalla prima parola che c’è nel Gatha, alcuni dal nome del principale argomento, ed altri secondo la nascita che ebbe il Bodhisattva - come elefante, pesce, scimmia o qualche altra cosa. Alcuni di questi nomi sono stati intagliati nelle sculture del 2° secolo a.C. a Bharhut, e quindi la loro autenticità difficilmente potrebbe esser messa in dubbio.  

I Jataka, Un Mondo esclusivamente Umano.  

Nelle sue molteplici nascite il Bodhisattva fu asceta, un re, dio-albero, un Brahmino, e simili. Talvolta nacque come elefante, leone cavallo, sciacallo, cane ecc., ed almeno tre volte come un Chandala (fuori-casta); ed una volta perfino come Giocatore d'azzardo. In riguardo alle storie - le parti Katha relative a queste nascite, più studiosi asseriscono che molte di esse furono aggiunte in seguito tra il 5° secolo a.C. ed il 2° secolo d.C.. E però, i Jataka sono la più antica forma di narrativa nella letteratura del mondo. Il mondo dei Jataka è assolutamente umano. Quale che sia la nascita di un essere - uomo, uccello, animale, serpente, dio, Kinnara, Yaksha, Gandharva, fantasma…, esso si comporta da essere umano e parla il suo linguaggio usando la sua dizione ed idioma.  

Come il Vannupatha Jataka, tutti i Jataka hanno quattro componenti; primo, la presente storia; secondo, la storia dal passato; terzo, l’interpretazione di ogni Gatha; e quarto, la rivelazione del Buddha su chi era ciascun soggetto e la correlazione di ogni evento con il presente.  

La storia del passato comincia invariabilmente con parole come 'tempo fa un re di nome … governava… '. Le parti precedenti non hanno un volume fisso. Nell’ Apannaka Jataka - che è il primo, la storia attuale è alquanto vasta ma la storia dal passato è relativamente breve, ed il numero di Gatha è uno solo. Al contrario, nel Mahajanaka Jataka la storia presente comprende più o meno un paio di frasi, mentre la storia del passato ed il numero di Gatha è piuttosto grande. Rivolgendosi ai monaci il Buddha disse: 'Non solo ora, il Tathagata (Buddha) ha rinunciato al mondo anche in precedenza'; e dicendo così lui cominciò a narrare la storia della nascita del Bodhisattva come Mahajanaka.  

‘Tempo fa, il re Mahajanaka governava Mithila. Egli aveva due figli, Aritthajanaka e Polajanaka. Dopo la sua morte, il suo figlio più vecchio Aritthajanaka divenne il re, e Polajanaka, il suo deputato. Un giorno, uno dei servitori del re lo informò che il suo più giovane fratello stava cospirando per ucciderlo. Polajanaka di conseguenza fu arrestato, incatenato e messo in una segreta del palazzo reale. Qui, in nome della sua veridicità, lui invocò i poteri divini ed in effetti le catene si ruppero e la porta si aprì. Quindi, egli si recò presso un vicino villaggio. Qui molte persone gli si riunirono intorno e lui allora divenne il capo-tribù di quella provincia. Con l'intenzione di vendicarsi di suo fratello per l’errore che aveva fatto, lui attaccò Mithila e la mise sotto assedio. Prima di uscir fuori ad affrontare gli assalitori, Aritthajanaka disse a sua moglie di prendersi cura del bambino che aveva nel suo utero, in caso lui fosse ucciso nella battaglia. Ma presto lei seppe della morte di suo marito e quindi si travesti da donna povera vestita di cenci, e così lei lasciò il palazzo con pochi beni personali ed arrivò a Champanagar. Qui un Brahmino la vide e coi suoi poteri spirituali seppe che lei aveva nel suo utero un essere insolito, nientemeno che il Bodhisattva. Così egli l'adottò come sua sorella. E allorchè il Bodhisattva divenne adolescente, insistè presso sua madre di dirgli chi lui fosse, e quando seppe di essere il principe di Mithila, decise di riprendersi il suo regno. I ricchi beni che sua madre aveva portato con sé avrebbero potuto aiutarlo a creare un grande esercito per riottenere il suo stato, ma egli prima di ciò volle moltiplicare la sua ricchezza. Quiindi prese una parte dei beni di sua madre, comprò enormi quantità di merci e si mise in viaggio.  

Dopo sette giorni ed avendo coperto una lunga distanza, il suo battello si ruppe in mezzo al mare. Le persone più deboli presero a lamentarsi, piansero ed affogarono. Invece, il Bodhisattva si preparò a nuotare. Senza una goccia d’acqua da bere lui nuotò per sette giorni. All'ottavo giorno, la dea Mani-Mekhala, protettrice di chi va per mare, lo vide. Lei identificò il Bodhisattva. Tuttavia, per rimuovere ogni dubbio decise di esaminarlo. Così, agghindata come una fanciulla ben-vestita lei gli fece molte domande, ad ognuna delle quali lui rispose in modo appropriato. Egli le disse che lui stava ancora nuotando quando gli altri erano affogati. Questo sforzo, per quanto non trasformato in successo, era il suo messaggio. Compiaciuta dal suo discorso, lei gli chiese dove voleva andare, e secondo il suo desiderio lo trasportò a Mithila.  

Intanto il re di Mithila, Polajanaka era morto senza un successore. Egli aveva solamente una figlia, Shiwali Devi. Polajanaka aveva messo quattro condizioni per chiunque avesse voluto essere il re di Mithila, ed una era che costui fosse piaciuto a Shiwali. Tutti fra i notabili del re si proposero, ma nessuno fu trovato appropriato. Alla fine, il Bodhisattva Mahajanaka, che stava in un giardino fuori di Mithila, fu notato e fu trovato appropriato. Anche a Shiwali lui piacque e così si sposarono. Essi ebbero due figli. E lui governò per circa settemila anni.  

Un giorno, lui stava visitando il giardino reale. Sulla porta c’erano due alberi di mango, uno carico di frutti dolci, e l’altro, senza frutti ma verde e ben saldo. Egli mangiò un mango e pensò che ne avrebbe mangiato qualcun altro più avanti. Ma, quando egli vi ritornò l'albero era quasi sterile. Allora chiese spiegazioni al giardiniere, il quale spiegò che per tradizione chiunque poteva prendere i suoi frutti dopo che il re aveva mangiato il primo. Le persone non solo strapparono tutti i frutti ma anche le sue foglie e ramoscelli. Lui poi mostrò l'altro albero senza frutti in cui nemmeno una foglia era stata strappata. Il Bodhisattva allora pensò che i possedimenti sono preda di distruzione. E tutto ciò che era senza possedimenti non sarebbe stato distrutto. Così, lui decise di cedere il potere reale e il palazzo poiché essi abbondavano dei più grandi possessi’.   This picture shows a scene from palace life, in which Mahajanaka watches a dance performance arranged by his wife Sivali to keep him tied to worldly life. She clearly has eyes only for him.

Questo ritratto mostra una scena di vita al palazzo reale, in cui Mahajanaka guarda uno spettacolo di ballo approntato da sua moglie Shiwali per tenerlo agganciato alla vita mondana. Ovvia-mente lei ha occhi solamente per lui.  

Ma un giorno lui si rase la testa, si mise i vestiti da asceta e lasciò il palazzo. Sentendo della sua partenza Siwali corse da lui, pianse e lo implorò di non lasciarla, ma non vi riuscì. Lei provò ad usare diversi metodi per fermarlo, ma tutti andarono a vuoto. Allora lei decise di andare a stare con lui. Così ebbero varie discussioni ma Mahajanaka non volle deviare dalla sua determinazione. Dopo aver compreso che lui non sarebbe più ritornato, Shiwali svenne. Ma il distaccato Bodhisattva se ne andò comunque. La sua rinuncia era già assoluta. Poi, dopo sette giorni lui ritornò in città, ma non come re, bensì come un monaco insegnante. Discorsi tra il Bodhisattva e tutti gli altri, Mani-Mekhala, Shiwali, il giardiniere, Narada, Migajina, una ragazza incontrata per strada, il creatore di canestri, e suo figlio Dirghayukuamara, ed altri ancora, sono Gatha che sono stati simultaneamente interpretati. Alla fine, il Buddha rivela la correlazione di tutti i caratteri con quelli presenti al suo tempo, con lui stesso che è Mahajanaka.  

Le Dieci Perfezioni (paramita): Loro Applicazioni nei Jataka: 

I Jataka incarnano in sé-stessi le dieci 'paramita' o Perfezioni - i princìpi cardinali del Buddismo, che da soli conducono alla Buddhità Assoluta. Di esse, 'Dana' o la generosità, è la prima. Le altre nove perfezioni sono 'Shila' o virtù - freno morale; 'Nekkhamma' o rinuncia; 'Panna' o saggezza, benché essa sia pienamente raggiunta solamente dopo la Illuminazione; 'Viriya' o sforzo, che è anche sviluppo dell’abilità; 'Khanti' o l'indulgenza - pazienza; 'Sachcha' o veridicità; 'Abhitthana' o risoluzione - determinazione; 'Metta' o la amorevole gentilezza, un’attitudine mentale che ci spinge a trattare tutti gli altri come se essi sono parte di noi stessi; e, infine, 'Upekkha' o equanimità - l'imperturbabilità della mente in tutte le condizioni, piacevoli o dolorose.  

Nel Jataka-Nidana, è stato usato un separato esempio per definire ognuna di esse; come un vaso d’acqua per definire il 'Dana'. Quando è rovesciato, il vaso non trattiene l’acqua. Quindi, quando una mano generosa dà, non dovrebbe riavere indietro nulla. Tutti i 547 Jataka illustrano uno o l'altro queste dieci perfezioni. Molti di loro, anche se non tutti, di conseguenza sono stati raggruppati in parti del Jataka-Nidana. Sia i summenzionati Vannupatha e Mahajanaka Jataka  rivelano il grande sforzo (viriya) del Bodhisattva.  

La generosità è il tema di molti Jataka in cui il Bodhisattva è nato come uomo, ma anche come animale. Il re Shiwi, nel Shiwi Jataka, dona al Brahmino entrambi i suoi occhi, benchè il Brahmino ne avesse chiesto solo uno. Il Principe Vessantara dona il suo divino elefante ad un altro stato, benché il suo stesso stato patisca la carestia come effetto, e lui stesso poi venga privato del suo regno. Nel Shaddanta Jataka, l'elefante re Shaddanta si toglie tutte le sue sei zanne col suo stesso tronco e le dà al cacciatore affinchè le porti alla regina di Banarasa, che era stata il suo geloso consorte nella nascita precedente.  

La scimmia Kapi, nel Mahakapi Jataka, salva dalla morte il Brahmino che lo aveva colpito con una pietra e che gli aveva spaccato la testa. Il Shankhapala Jataka rivela l'indulgenza eccezionale; il Vidhura Pandita Jataka, una straordinaria saggezza e imperturbabilità, ed infine, lo Hansa Jataka la amorevole gentilezza... 

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                          ALCUNE STORIE DEL JATAKA 

        Favole moralistiche del Buddhismo Antico

                 Tradotte dal Sanscrito da Ellen C. Babbitt ,  New York, 1912 

Analizzati da Eliza Fegley. Adattati da John Bruno Hare nel marzo, 2004.

Questo testo è di dominio pubblico. Questi archivi possono essere usati per qualunque scopo non-commerciale, purché venga riportato questo avviso. Tratto da www.sacred-texts.com

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INDICE:

Prefazione - Nota dell’editore 

I. La Scimmia ed il Coccodrillo 

II. Come la Tartaruga Salvò la Sua Vita 

III. Il Mercante di Seri 

IV. La Tartaruga che non sapeva fare a meno di Parlare 

V. Il Bue Che Vinse la Scommessa

VI. La Strada  Sabbiosa

VII. La Disputa delle Quaglie 

VIII. La Misura di Riso 

IX. Il Timido Coniglio Sciocco 

X. Il Mercante Saggio ed il Mercante Sciocco 

XI. L'Elefante ‘Volto-Gentile’ 

XII. Il Cervo di Banyan 

XIII. I Principi ed il Folletto d'Acqua- 

XIV. L'Elefante Bianco del Re 

XV. Il Bue Che Invidiava il Maiale 

XVI. Il Nero della Nonna

XVII. Il Granchio e la Gru

XVIII. Perché il Gufo non è il Re degli Uccelli 

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PREFAZIONE  di FELIX ADLER :Tempo fa, fui incantato dal fascino dei Racconti del Jataka e mi resi conto dell'uso eccellente che si sarebbe potuto fare di essi per l'insegnamento dei bambini. Le sue lezioni ovvie sono assai appropriate per i bambini, ed oltre che ovvie sono assai profonde nei significati, così da poter essere imparate tali e quali e approfondite successivamente. L’impostazione Orientale inoltre aggiunge un fascino supplementare. Sono assai felice che Miss Babbitt abbia avuto l’intenzione di mettere insieme questa raccolta, e la raccomando liberamente ad insegnanti e genitori.     F. A.

                                                                                              

NOTA dell’EDITORE 

I ‘Jataka’, o Racconti sulle Nascite, formano uno dei libri sacri Buddisti e si riferiscono alle avventure del Buddha nelle sue esistenze precedenti, essendo il miglior carattere di ogni storia identificato con il Grande Maestro. Queste leggende furono costantemente presentate nei discorsi religiosi dei maestri Buddisti per illustrare la loro fede nelle dottrine o per magnificare la gloria e la santità del Buddha, un pò come i predicatori medievali in Europa usavano i loro sermoni presentando favole e storie popolari per risvegliare il fiacco interesse dei loro ascoltatori. 

Scene scolpite dal Jataka, trovate sulle ringhiere intagliate nelle reliquie dei sacrari di Sanchi, Amaravati e Bharhut, indicano che questi "Racconti-delle-Nascite" erano ampiamente noti già nel terzo secolo a.C., e furono poi considerati come parte della storia sacra della religione. All’inizio, probabilmente i Racconti furono dati in forma orale, ed è incerto quando essi furono messi insieme in forma sistematica. 

Mentre alcune delle storie sono Buddiste e dipendono dal particolare costume o idea del Buddismo, altre sono antiche favole, rimasugli del folklore popolare che sono apparse sotto vari aspetti attraverso i secoli, venendo poi usati dal Boccaccio o Poggio, soltanto come allegre favole, o da Chaucer che inconsapevolmente mise una storia Jataka in bocca al suo patrono, quando racconta "l’albero Ryotoures".  Un caratteristico umorismo e gentile serietà distinguono queste leggende che insegnano molte salubri lezioni, fra cui il dovere della gentilezza verso gli animali. Il Dott. Felix Adler nella sua "Istruzione Morale dei Bambini", dice: 

“Le Storie del Jataka contengono verità profonde, e sono calcolate per imprimere delle lezioni di grande bellezza morale. La storia del Mercante di Seri che lasciò tutto ciò che aveva in cambio di un piatto dorato, assai bene incarna la stessa idea della parabola della Perla senza-prezzo, nel Nuovo Testamento. La storia delle Misure di Riso illustra l'importanza di una vera stima dei valori. La storia del Cervo di Banyan, che offrì la sua vita per salvare un giovane capriolo, illustra un auto-sacrificio del genere più nobile. La storia della Strada Sabbiosa è una delle più delicate della raccolta. E poi egli aggiunge che questi Racconti "…sono, come ognuno deve ammettere, nobilmente concepiti, elevati nel significato, e molti di questi utili sermoni potreb-bero essere predicati come testi essenziali".  

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STORIE DEL JATAKA 

 

I.) LA SCIMMIA  ED IL COCCODRILLO 

Parte Prima 

Una Scimmia viveva su un grande albero su una sponda del fiume. Nel fiume c’erano molti coccodrilli. Un Coccodrillo guardava da lungo tempo le Scimmie, ed un giorno lui disse a suo figlio: "Figlio mio, prendi una di quelle Scimmie per me. Io voglio il cuore di una Scimmia per mangiarlo". 

"Come potrei prendere una Scimmia?" chiese il piccolo Coccodrillo. "Io non vado sulla terra ferma, e la Scimmia non viene nell'acqua." 

"Usa la tua intelligenza e troverai un modo", gli disse la mamma-coccodrillo. 

Ed il piccolo Coccodrillo pensò e ripensò. Alla fine, egli disse a se stesso: "Ora so cosa devo fare. Prenderò quella Scimmia che vive sul grande albero in riva al fiume. Essa desidera attraversare il fiume per andare sull'isola in cui la frutta è più matura". 

Quindi il Coccodrillo nuotò fino all'albero dove viveva la Scimmia. Ma egli era un Coccodrillo stupido. "Oh, Scimmia", lui chiamò, "vieni con me fino all'isola dove c’è la frutta matura".  

"Come faccio a venire con te? " chiese la Scimmia. "Io non so nuotare".  

"Tu no,- ma io sì. Io ti prenderò sulla mia schiena", disse il Coccodrillo.  

La Scimmia era avida, e voleva la frutta matura, così saltò sulla schiena del Coccodrillo. "Andiamo! " disse il Coccodrillo. "Tu mi stai dando un’eccellente cavalcata!" disse la Scimmia.  

"La pensi così? Bene, ti piace questo?" chiese il Coccodrillo, immergendosi.  

"Oh, no!" pianse la Scimmia, appena andò sott’acqua. Essa aveva paura di scappare, perchè non sapeva come fare sotto l'acqua. Quando il Coccodrillo ritornò su, la Scimmia schizzando e soffocando disse, "Oh Coccodrillo, perché mi hai portato sott’acqua,?"

"Perchè così potrò ucciderti, tenendoti sott’acqua", rispose il Coccodrillo. "Mia madre vuole mangiare un cuore di Scimmia, ed io le porterò il tuo!". 

"Avrei voluto che tu mi avessi detto che volevi il mio cuore", disse la Scimmia, "così l'avrei portato con me". 

"Strano!" disse lo stupido Coccodrillo. "Vuoi dire che hai lasciato il tuo cuore là sull'albero?" 

"Certo, è proprio ciò che voglio dire", disse la Scimmia. "Se tu vuoi il mio cuore, dobbiamo tornare all'albero per trovarlo. Ma ormai siamo così vicini all'isola dove c’è la frutta matura, per favore prima portami là". 

"No, Scimmia", disse il Coccodrillo, "io ti riporterò diritto al tuo albero. Non pensare più alla frutta matura. Trova il tuo cuore e portamelo subito. Poi vedremo se andare all'isola".- "Va bene", disse la Scimmia. 

Ma non appena salì sulla riva del fiume che – swiff! La Scimmia saltò sull’albero. 

Dal ramo più alto essa chiamò il Coccodrillo in basso nell'acqua: 

"Il mio cuore è quassù! Se lo vuoi, vieni a prenderlo qui!" 

 

Parte Seconda 

La Scimmia presto si mosse via da quel albero. Essa voleva allontanarsi dal Coccodrillo, perchè voleva vivere in pace. Ma il Coccodrillo la trovò, giù lungo il fiume, mentre viveva su un altro albero. 

Nel mezzo del fiume c’era un'isola piena di alberi da frutta. 

A metà strada tra la riva del fiume e l'isola, vi era una grande pietra di color rosa che spuntava fuori dall'acqua. La Scimmia avrebbe potuto saltare sulla pietra, e poi sull'isola. Il Coccodrillo guardò la Scimmia mentre saltava dalla riva del fiume alla pietra, e poi fin sull'isola. 

Egli pensò tra sé e sé, "Ogni giorno la Scimmia verrà sull'isola, ed io la prenderò di notte mentre farà ritorno verso casa". 

La Scimmia faceva dei pranzi eccellenti, mentre il Coccodrillo nuotava lì intorno, stando in osservazione di giorno. Verso notte il Coccodrillo strisciò fuori dell'acqua e si posò sulla pietra, perfettamente immobile. 

Quando arrivò il buio fra gli alberi, la Scimmia partì per tornare a casa. Corse giù verso la riva del fiume, e là si fermò.  

"Cos’ è successo alla pietra?" pensò la Scimmia. "Non l’ho mai vista così alta prima d’ora. Deve esserci il Coccodrillo sopra!". Così essa andò sull'orlo dell'acqua e chiamò: "Hei, Roccia!". Nessuna risposta. Allora chiamò di nuovo: "Hei, Roccia!" 

Tre volte la Scimmia chiamò, e poi disse: "Perché, Amica Roccia, stanotte non mi rispondi?" 

"Oh", pensò lo stupido Coccodrillo, "si vede che di notte la pietra risponde alla Scimmia. Stavolta dovrò rispondere io al posto della pietra". 

Quindi lui rispose: "Sì, Scimmia! Cosa c’è?" 

La Scimmia rise, e disse: "Oh, sei tu, Coccodrillo, eh?" 

"Sì", disse il Coccodrillo. "Ti sto aspettando qui. Io ti mangerò". 

"Oh, stavolta mi hai preso in trappola", disse la Scimmia. “Non ho altro modo per andare a casa. Spalanca la tua bocca così io posso saltare diritto dentro di essa!".  

Ora la Scimmia sapeva bene che quando un Coccodrillo spalanca la sua bocca, esso chiude sempre gli occhi. Così, mentre il Coccodrillo se ne stava sulla pietra con la bocca spalancata e gli occhi chiusi, la Scimmia saltò. 

Ma non nella sua bocca! Oh, no! Essa saltò sulla cima della testa del Coccodrillo, e poi rapidamente saltò sulla riva. Poi salì subito sul suo albero. 

Quando il Coccodrillo capì il tiro che la Scimmia gli aveva giocato, disse: "Scimmia, sei molto astuta e non conosci la paura. Dopo questo ti lascerò in pace!”. 

"Grazie, o Coccodrillo, ma io starò lo stesso sempre in guardia!", disse la Scimmia.  

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II°) COME LA TARTARUGA SALVO’ LA SUA VITA -

Un Re una volta aveva costruito un lago nel suo cortile per far giocare in esso i giovani principini. Essi vi nuotavano dentro, e con le loro barche e zattere navigavano su di esso. Un giorno il re disse loro di aver chiesto agli uomini di mettere dei pesci nel lago. 

I ragazzi corsero subito a vedere i pesci. Ora, insieme ai pesci, c'era una tartaruga. I ragazzi si dilettavano coi pesci, ma essi non avevano mai visto una tartaruga, e avevano paura di lei, pensando che fosse un demone. Così corsero piangendo dal Re loro padre, dicendo:”C'è un demone sulla riva del lago!" 

Il re ordinò che i suoi uomini prendessero il demone, e lo portassero al palazzo. Quando la tartaruga fu portata a palazzo, i ragazzi piangendo fuggirono. Il re voleva molto bene ai suoi figli, così ordinò agli uomini che gli avevano portato la tartaruga di ucciderla. "Come la uccideremo?" essi si chiesero. "Riduciamola in polvere", disse uno. "No. Cuciniamola al forno sui carboni ardenti", disse un altro.  

Così, si parlava di un piano dopo l’altro. Allora un vecchio che aveva sempre avuto paura dell'acqua disse: "Gettatela nel lago, là dove dalle pietre esce fuori verso il fiume. Così sarà uccisa certamente". 

Quando la tartaruga sentì quello che aveva detto il vecchio, tirò fuori la sua testa e chiese: "Amico, cosa ho fatto per meritarmi una cosa orribile come quella? Le altre proposte erano abbastanza cattive, ma gettarmi nel lago! Non parlate di una cosa così crudele!" 

Quando il re sentì ciò che disse la tartaruga, egli disse ai suoi uomini di prendere subito la tartaruga e di gettarla nel lago. 

La tartaruga rise tra sè e sé, non appena scivolò giù nel fiume fino alla sua vecchia casa. "Bene!" disse, "Per fortuna quelle persone non sanno come io sono sicura nell'acqua!"

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III°) IL MERCANTE DI SERI 

C'era una volta a Seri un Mercante  che vendeva ottone e oggetti di metallo. Lui andava da città in città, in società con un altro uomo che anche vendeva ottone e pentole. Quest’altro secondo uomo era avido, prendendo tutto quello che lui poteva per nulla, e dando meno di quanto lui poteva per ciò che comprava. Quando arrivavano in una città, essi dividevano le loro strade. Ciascuno andava su e giù per le strade che aveva scelto, strillando, "Vendo pentole. Vendo ottone!" Le persone uscivano dalle loro case, e comprava-no, o commerciavano, con loro. 

In una casa viveva una povera vecchia e la sua nipotina. La sua famiglia una volta era stata ricca, ma ora l'unica cosa che essa aveva lasciato di tutta la ricchezza era una pentola tutta d’oro. La nonna non sapeva che quella era una pentola d’oro, ma lei l’aveva tenuta perché in passato suo marito era abituato a mangiare fuori. Essa stava su una mensola fra altre pentole e tegami, e non veniva usata spesso. 

Il Mercante avido passò davanti a questa casa, chiamando, "Comprate i miei vasi! Comprate i miei tegami!". La nipotina disse: "Oh, Nonna, compra qualcosa per me!". "Mia cara", disse la vecchia donna, "noi siamo troppo poveri per comprare qualsiasi cosa. Io non ho niente neanche da commerciare".  

"Nonna, vedi quello che il Mercante ti può dare per la vecchia pentola. Noi non la usiamo, e forse lui la prenderà e in cambio ci darà qualcosa che noi vogliamo".  

La vecchia donna chiamò il Mercante e gli mostrò la pentola, dicendo, "Signore, vuole prendere questo, e dare alla piccola qui qualcosa in cambio?". 

L’uomo avido prese la pentola e la graffiò in un lato con un ago. Così scoprì che era una pentola d’oro. Allora sperando di poterla avere per nulla, così lui le disse: "Cosa vale? Neanche un mezzo-denaro!". Egli gettò quindi la pentola in terra, e se ne andò via. 

In quel momento passò l’altro Mercante. Con l’altro c’era l’accordo che entrambi sarebbero poi passati nelle strade che l’altro aveva lasciato. Egli chiamò: "Comprate i miei vasi! Comprate le mie pentole! Comprate il mio ottone!". 

La bambina lo sentì, ed implorò la sua nonna di vedere quello che lui avrebbe dato per la pentola. 

"Bambina mia", disse la nonna, "il Mercante che è stato prima quì gettò la pentola per terra e se ne andò via. Io non ho altro da offrire in cambio". 

"Ma, Nonna", disse la ragazzina "quello era un uomo disonesto. Questo sembra piacevole. Chiedi a lui. Forse lui ci darà qualche piccolo piatto di latta!". 

"Chiamalo, allora, e mostraglielo", disse la vecchia donna. 

Appena il Mercante prese la pentola nelle sue mani, seppe subito che era di oro. Egli disse: "Tutto ciò che io ho qui non ha così valore come questa pentola. È una pentola d’oro. Io non sono abbastanza ricco per comprarla".  

"Ma, signore, un Mercante che passò qui qualche momento fa la gettò per terra, dicendo che non valeva mezza-moneta, e se ne andò via", disse la nonna. "Per lui non valeva nulla. Se se Lei la valuta, se la prenda, magari dando alla piccola qualche piatto che a lei piace". 

Ma il Mercante non voleva averla in questo modo. Egli diede alla donna tutti i soldi che aveva, e tutte le sue merci. "Mi dia solo otto centesimi", lui le disse. 

Quindi lui prese i centesimi, ed andò via. Andando giù al fiume, lui pagò gli otto centesimi al barcaiolo perché lo portasse attraverso il fiume.  

Ben presto, il Mercante avido risalì alla casa dove aveva visto la pentola d’oro, e disse: "Mi porti quella pentola, ed io vi darò qualcosa per essa". 

"No", disse la nonna. "Lei disse che la pentola era senza valore, ma un altro Mercante ha pagato un gran prezzo per essa, e l’ha portata via." 

Allora il Mercante avido si adirò, gridando, "Per colpa di quell’altro uomo io ho perso una piccola fortuna. Quella pentola era di oro."  

Così lui corse giù sulla riva del fiume e, vedendo l'altro Mercante che era sulla barca nel fiume, strillò: "Ehi, Barcaiolo! Ferma la tua barca! " 

Ma l'uomo nella barca disse: "Non si fermi!" Quindi lui arrivò alla città che stava sull'altro lato del fiume, e visse bene per tutto il tempo con i soldi che la pentola gli aveva portato.  

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IV°) LA TARTARUGA CHE NON SAPEVA FARE A MENO DI PARLARE 

Una tartaruga viveva in uno stagno ai piedi di una collina. Due giovani Oche selvatiche, cer-cando il cibo, videro la tartaruga, e si misero a parlare con essa. Il giorno seguen-te le Oche vennero di nuovo a trovare la tartaruga e fecero subito conoscenza. Presto erano diventati grandi amici. 

"Amica tartaruga", dissero un giorno le Oche, "noi abbiamo una bella casa lontano da qui. Noi domani andremo in volo da essa-. Sarà un viaggio lungo ma piacevole. Vuoi venire con noi?". "Come potrei? Io non ho ali", disse la tartaruga. 

"Oh, ti porteremo noi, se soltanto tu terrai la tua bocca chiusa, e non dirai una parola a nessuno", dissero loro. 

"Posso farlo", disse la tartaruga. "Prendetemi con voi. Farò esattamente come voi desiderate". 

Quindi il giorno seguente le Oche portarono un bastone e tennero i due lati con il loro becco. "Ora prendi in mezzo questo bastone nella tua bocca, e non dire una parola finché non giun-giamo a casa", dissero loro. Le Oche salirono poi nell'aria, con la tartaruga tra di esse, tenendo fermo il bastone. 

I bambini del villaggio videro le due Oche che volavano insieme alla tartaruga e gridarono: "Oh, guarda la tartaruga su nell'aria! Guarda le Oche che portano una tartaruga attaccata ad un bastone! Non si è mai visto nulla di più ridicolo!". 

La tartaruga guardò in giù e prese a dire, "Bene, e se i miei amici mi portano, a voi che interessa?", così dicendo, essa lasciò la presa e, cadendo giù, precipitò morta ai piedi dei bambini. 

Appena le due Oche si sollevarono, esse sentirono le persone che dicevano, vedendo la povera tartaruga, "Quella povera bestia non ha saputo tenere la sua bocca chiusa. Ha voluto per forza parlare, e così ha perso la sua vita."  

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V°) IL BUE CHE VINSE LA SCOMMESSA 

Molto tempo fa, c’era un uomo che possedeva un Bue molto forte. Il proprietario era così orgoglioso del suo Bue, che con ogni uomo che incontrava si vantava di come era forte il suo Bue. 

Un giorno che il proprietario era andato in un villaggio, disse agli uomini di quel luogo: "Io pagherò una scommessa di mille pezzi d’argento se il mio forte Bue non ce la farà a trascinare una fila di cento carri." 

Gli uomini risero, e dissero: "Molto bene; porta il tuo Bue, e noi allacceremo cento carri in una fila e vedremo se il tuo Bue saprà trascinarli a lungo." 

Quindi l’uomo portò il suo Bue nel villaggio. Una folla si raggruppò per vedere la cosa. I cento carri furono messi in fila, ed il forte Bue fu assoggettato al primo carro. Poi il proprietario frustò il Bue, e disse: "Svegliati disgraziato! Vai avanti, canaglia! " 

Ma siccome al Bue non era mai stato parlato così, quindi restò ancora fermo. Né i colpi né le male parole, riuscirono a farlo muovere. Alla fine il pover’uomo dovette pagare la sua scommessa, e malinconicamente andò a casa. Là lui si gettò sul suo letto e pianse: "Perché il forte Bue ha agito così? Un tempo lui trasportava molto facilmente I carichi più pesanti. Perché mi ha fatto vergognare di fronte a tutte quelle persone?". Poi si si lasciò andare ad un sonno ristoratore. 

Alla fine, l’uomo si alzò ed andò al lavoro. Quando andò a dar da mangiare al Bue quella sera, il Bue si rivolse a lui e disse: "Perché oggi mi hai frustato? Non mi avevi mai frustato prima. Perché mi hai chiamato 'disgraziato' e 'canaglia'? Non mi avevi mai chiamato così prima!". 

Allora l’uomo disse: "Io non ti tratterò più male. Mi dispiace di averti frustato e di averti chiamato con quei brutti nomi. Io non farò mai più così. Perdonami." 

"Va bene", disse il Bue. "Domani torneremo nel villaggio ed io trascinerò i cento carri per te. Tu sei stato sempre un buon padrone per me, fino ad oggi. Domani riguadagnerai quello che hai perso." 

Il mattino seguente il proprietario alimentò ben bene il suo Bue, ed appese una ghirlanda di fio-ri sul suo collo. Quando si recarono al villaggio gli uomini risero di nuovo all'uomo. Essi dis-sero:"Sei venuto a perdere ancora più soldi?" 

"Oggi io pagherò una scommessa di due mila pezzi d’argento se il mio Bue non sarà abba-stanza forte da tirare i cento carri", disse il proprietario. 

Così di nuovo i carrelli furono messi in fila, ed il Bue fu assoggettato al primo. Una gran folla venne di nuovo a guardare. Il proprietario disse: "O buon Bue, mostraci come sei forte! O creatura dolce ed eccellente!" E glii accarezzò il collo e lisciò i suoi fianchi. Subito il Bue tirò con tutta la sua forza. I carri si mossero finché l'ultimo carrello non arrivò dove erano stati i primi. Allora la folla gridò, e i paesani pagarono la scommessa all'uomo, dicendo: "Il Suo Bue è il più forte che abbiamo mai visto." Quindi il Bue e l’uomo tornarono a casa, felici.  

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VI°) LA STRADA SABBIOSA 

Una volta, molto tempo fa, un Mercante, coi suoi beni impacchettati in vari carri, arrivò ad un deserto. Egli era in viaggio proveniente da un paese sull'altro lato del deserto. 

Il sole splendeva sulla finissima sabbia, facen-dola essere calda come la pancia di una stufa. Nessun’uomo alla luce del sole avrebbe potuto camminarvi sopra. Ma di notte, dopo che il sole era calato, la sabbia si sarebbe rinfrescata, e allora gli uomini avrebbero potuto viaggiare su di essa. 

Quindi il Mercante aspettò fino a che scese il buio, e poi venne fuori. Oltre ai beni che doveva vendere, prese alcuni vasi di acqua e di riso, e legna da ardere, così che il riso poteva essere cucinato.  

Lui ed i suoi uomini cavalcarono per tutta la notte. Un uomo faceva da guida. Egli, poiché conosceva le stelle, seguendole avanzava cavalcando per primo e guidava gli altri conducenti. 

Allo spuntar del giorno tutti si fermarono e si accamparono. Legarono i buoi, e li alimentarono. Poi accesero dei fuochi e cucinarono il riso. Infine stesero un gran tendone su tutti i carri ed i buoi, e tutti gli uomini si coprirono sotto di esso fino al tramonto. 

Appena fece sera, essi di nuovo accesero i fuochi e cucinarono il riso. Dopo cena, piegarono il tendone e lo misero via. Misero le briglia ai buoi, e, appena la sabbia fu fresca, essi ripresero il loro viaggio attraverso il deserto. 

Notte dopo notte essi così affrontarono il viaggio, mentre durante il calore del giorno riposavano. Alla fine, una mattina la guida disse: "Ancora una sola notte e poi usciremo dalla sabbia". Gli uomini furono contenti nel sentire questo, perché tutti erano stanchi.  

Quella sera, dopo cena il Mercante disse: "Potete ormai gettare via quasi tutta l'acqua e la legna da ardere. Da domani saremo nella città. Aggioghiamo i buoi e partiamo". Quindi la guida prese il suo posto in testa alla fila. Ma, invece di mettersi a guidare i conducenti, lui si distese nel carro sui cuscini. Egli presto si addormentò velocemente, perché non dormiva da molte notti, e di giorno la luce era stata così forte che non aveva mai potuto dormire bene. 

Tutta la notte i buoi procedettero. Vicino allo spuntar del giorno, la guida si svegliò e guardò le ultime stelle che si affievolivano nella luce. "Alt!" egli gridò ai conducenti. "Noi siamo nello stesso luogo dove eravamo ieri. Si vede che i buoi hanno girato in tondo mentre io dormivo". Così, essi liberarono i buoi, ma per loro non c'era più acqua da bere. Essi la notte prima avevano gettato via l'acqua. Quindi gli uomini posero di nuovo il tendone sui carri, ed i buoi si distesero giù, stanchi ed assetati. Anche, gli uomini si stesero giù dicendo, "Abbiamo buttato la legna e l’acqua – ormai noi siamo perduti". 

Ma il Mercante disse fra sé e sé, "Questo per me non è il momento di dormire. Io devo trovare l’acqua. I buoi non possono proseguire se non hanno acqua da bere. Gli uomini devono avere l’acqua. Loro non possono cucinare il riso senz’acqua. Se non ci penso io, saremo tutti perduti!" 

Egli camminò su e giù, guardando vicino a terra. Alla fine egli vide un ciuffo di erba. Ci deve essere acqua qui sotto, o quell'erba non sarebbe là", lui disse. Allora ritornò indietro, gridando ai suoi uomini, "Portate la vanga ed il martello! " 

Essi saltarono su, e corsero con lui alla macchia dove cresceva l'erba. Cominciarono a scavare, e dai e dai essi colpirono una roccia e non poterono più scavare. Allora il Mercante saltò giù nel buco che essi avevano scavato, e mise il suo orecchio sulla pietra. "Sento l’acqua che scorre sotto questa roccia", disse loro. "Non dobbiamo smettere!" Poi il Mercante uscì su dal buco e disse ad un giovane servitore: "Ragazzo mio, se tu smetti, siamo tutti perduti! Vai giù e tenta di scavare!" Il ragazzo stette diritto in piedi, sollevò il martello sopra alla sua testa e colpì la pietra più forte e duro che poteva. Lui non si sarebbe fermato. Essi dovevano essere salvati. E giù colpi col martello. La pietra stavolta si ruppe. Ed il ragazzo fece appena in tempo ad uscire dalla buca prima che si riempisse di acqua fresca. Gli uomini bevvero come se non potessero averne mai abbastanza, e poi dettero da bere ai buoi, e li bagnarono.  

Poi essi radunarono assi e gioghi supplementari ed accesero un fuoco, e cucina-rono il loro riso. Sentendosi meglio, essi si riposarono durante il giorno poi misero una bandiera sul pozzo così che gli altri viaggiatori potessero vederlo.  

Al tramonto, si rimisero in marcia e la mattina successiva arrivarono alla città, dove il Mercante vendette i suoi beni, e poi tutti fecero ritorno a casa.  

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VII°) LA DISPUTA DELLE QUAGLIE 

Vi fu un tempo in cui molte quaglie vivevano insieme in una foresta. La più saggia di esse era il loro leader. 

Vicino alla stessa foresta viveva un uomo che si guadagnava la vita prendendo le quaglie e vendendole. Ogni giorno lui ascoltava il richiamo del leader che chiamava le altre quaglie. Dai e dai questo cacciatore di uccelli, imitando il richiamo, fu capace di chiamare le quaglie. Sentendo la nota le quaglie pensavano che fosse il loro leader che le chiamava. 

Quando si furono riunite insieme, il cacciatore gettò la sua rete su di esse e poi si recò nella città, dove presto vendette tutte le quaglie che aveva preso. 

Il saggio leader capì il piano del cacciatore per prendere le quaglie. Così chiamò a raccolta gli uccelli e disse loro, "Questo cacciatore sta catturando molti di noi in tale modo, noi dobbiamo farlo smettere. Io ho pensato ad un piano, che è questo: La prossima volta che il cacciatore getta una rete su di voi, ognuno deve mettere la Sua testa attraverso uno dei piccoli buchi della rete. Poi, tutti insieme dovrete volare via fino al cespuglio più vicino. Così potrete liberarvi della rete sul cespuglio e sarete liberi”. 

Le quaglie dissero che il piano era buono e che la prossima volta che il cacciatore avesse gettato la rete su di loro, lo avrebbero messo in atto. 

Il giorno dopo, il cacciatore tornò e chiamando gli uccelli li radunò insieme. Poi gettò la rete su di loro. Le quaglie alza-rono la rete e volarono via con essa fino al più vicino cespuglio dove la lasciarono. Poi andarono volando dal loro leader per dirgli che il suo piano aveva funzionato bene.  

Il cacciatore si proccupò quando la sera trovò la sua rete sulle spine e se ne tornò a casa a mani vuote. Il giorno dopo successe la stessa cosa, ed anche il successivo. Sua moglie era adirata perché lui non portava più soldi a casa, ma il cacciatore disse, "Il fatto è che le quaglie ora stanno lavorando insieme. Quando la mia rete è su di loro, esse volano via con lei, lasciandola poi su un cespuglio spinoso. Ma nonappena le quaglie cominceranno a litigare tra di loro io sarò in grado di prenderle ancora". 

Non molto tempo dopo, una delle quaglie vedendo sul terreno del cibo, scese per errore sulla testa di un’altra. "Chi è che cadde sulla mia testa?" strillò adirata la seconda quaglia. "Sono stata io; ma non volevo. Non ti arrabbiare", disse la prima quaglia, ma la seconda quaglia era ormai adirata e le disse brutte cose. 

Presto tutte le quaglie presero parte a questa disputa. Quando il cacciatore venne quel giorno a gettare la sua rete su di esse, questa volta le quaglie anziché volare via con essa, si misero a questionare, "Adesso alza tu la rete!", l'altra di rimando disse, "No! Alzala tu!". "Cercate di alzarvi tutte", dissero le quaglie che erano all’altro lato. "No, non lo facciamo!" dissero le prime, "Cominciate voi e poi lo faremo anche noi!", ma nessuna cominciò da nessuna parte. 

Quindi le quaglie continuarono a litigare, e mentre stavano litigando il cacciatore le prese tutte nella sua rete. Lui le portò in città e le vendette per un buon prezzo.  

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VIII°) LA MISURA DI RISO 

Una volta, un re disonesto aveva nella sua corte un uomo chiamato l’Estimatore. L’Estimatore era colui che stabiliva il prezzo che doveva essere pagato per cavalli ed elefanti e gli altri animali. Egli metteva anche il prezzo su oro, gioielli,e cose di questo genere. Quest’ uomo era giusto ed onesto, e stabiliva il corretto prezzo che doveva essere pagato ai proprietari dei beni. 

Il re non era contento di questo Estimatore, perché era onesto. "Se avessi un altro tipo di uomo come Estimatore, forse guadagnerei più ricchezza", pensava il Re. 

Un giorno, egli vide un misero e stupido contadino entrare nel recinto del palazzo. Il re fece subito chiamare il tizio e gli chiese se avesse gradito essere l’Estimatore. Il contadino disse che gradiva quella posizione. Quindi il re lo nominò Estimatore. Così cacciò via l’Estimatore onesto dal palazzo. 

Allora il contadino prese a stabilire i prezzi su cavalli ed elefanti, su oro e gioielli. Lui non conosceva il loro valore, così diceva ogni cosa che capitava. Poiché il re lo aveva nominato Estimatore, le persone dovevano vendere i loro beni per il prezzo che stabiliva lui. 

Un giorno un rivenditore di cavalli portò cinquecento cavalli alla corte di questo re. L’Estimatore arrivò e disse che essi valevano una mera misura di riso. Quindi il re ordinò che al mercante di cavalli fosse data la misura di riso, e che i cavalli fossero messi nelle stalle di palazzo. 

Il mercante di cavalli andò poi a cercare l'uomo onesto che era stato l’Estimatore, e gli raccontò ciò che era successo. "Cosa devo fare?" chiese il mercante di cavalli. 

"Io penso che tu dovrai fare un presente all’Estimatore, così che lui ti faccia dire e fare ciò che tu vuoi dire e fare", disse l'uomo. "Va’ da lui e dagli un eccellente regalo, poi digli: 'Tu hai detto che i cavalli valevano una misura di riso, ma ora dimmi ciò che vale una misura di riso! Puoi valutarmela stando al posto del re?' Se lui dice che può, vai con lui dal re, ed anch’io sarò là!". 

Il mercante di cavalli pensò che questa era una buona idea. Quindi portò un bel presente all’Estimatore, e disse quello che l'altro uomo gli aveva detto di dire. 

L’Estimatore prese il regalo, e disse: "Sì, posso andare davanti al re con te e io posso dire quello che vale una misura di riso. Ora te la valuto!". 

"Bene, andiamoci subito!” disse il venditore di cavalli. Così essi andarono davanti al re ed ai suoi ministri nel palazzo. 

Il rivenditore si prostrò di fronte al re, e disse: "O re, io ho appreso che la misura di riso è il valore dei miei cinquecento cavalli. Ma il re sarà disponibile a chiedere all’Estimatore qual’ è il valore della misura di riso?" 

Il re, non conoscendo ciò che era accaduto, chiese: "E allora, Estimatore, qual è il valore dei cinquecento cavalli?" 

"Una misura di riso, O Re!" disse lui. 

"Molto bene, dunque! Se cinquecento cavalli hanno il valore di una misura di riso, qual’ è il valore della misura di riso?" disse ancora il Re. "La misura di riso vale la Sua intera città", rispose lo stupido contadino. 

I ministri batterono le mani, ridendo, e dicendo, "Che sciocco Estimatore! Come può tale uomo avere questo ufficio? Noi pensavamo che questa grande città fosse oltre qualunque prezzo, ma questo uomo dice che vale solo una misura di riso!". Allora il re si vergognò, e cacciò via il contadino sciocco.

"Io ho cercato di far piacere al re mettendo un prezzo contenuto sui cavalli, ed ora invece guarda cosa mi è successo!" disse l’ex Estimatore, mentre fuggiva tra la folla che rideva.

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IX°)  IL TIMIDO CONIGLIO SCIOCCO

Una volta un Coniglio si era addormentato sotto un albero di palme. Tutt’ad un tratto si svegliò, e pensò: "Oddio, se il mondo dovesse finire, cosa succederebbe mai di me?" 

In quel momento, alcune Scimmie lasciarono cadere una grossa noce di cocco. Questa precipitò a terra proprio dietro al Coniglio. 

Sentendo il rumore, il Coniglio disse: "Ecco! La terra sta crollando!"- Egli saltò sù e corse via più velocemente che poteva, senza neanche guardare per vedere cosa avesse provocato il rumore. 

Un altro Coniglio lo vide correre, e gli gridò dietro, "Perché stai correndo così velocemente?"- "Non chiederlo a me!" piagnucolò il primo. 

Ma l'altro Coniglio gli corse dietro, implorando di fargli sapere quale fosse il problema. Allora il primo Coniglio disse: "Non lo sai? La terra si sta rompendo!". 

E così continuò a correre, ed il secondo Coniglio corse con lui. 

Un successivo Coniglio che essi incontrarono, si mise a correre con loro quando sentì che la terra stava per rompersi. 

Uno dopo l’altro, altri Conigli si aggiunsero, finchè vi furono un centinaio di Conigli che correvano così veloci quanto potevano andare. Così, incontrarono un Cervo, gridando anche a lui che la terra stava per rompersi tutta. Il Cervo allora corse con loro. Il Cervo gridò ad una Volpe di venir via anch’essa perché la terra stava per rompersi. Essi corsero via tutti, e perfino l’ Elefante si aggiunse. 

Alla fine, il Leone vide tutti gli animali correre, e li sentì strillare che la terra stava per crollare. Lui pensò che doveva esserci un errore, così corse ai piedi di una collina di fronte a loro e ruggì per tre volte. Questo li fermò, perché essi riconobbero la voce del Re degli Animali, e loro lo temevano. 

"Perché state correndo così veloci?" chiese il Leone. 

"Oh, Re Leone", loro gli risposero, "la terra sta per spaccarsi!" 

"Chi è che ha visto che si spaccava?" chiese ancora il Leone. 

"Io no!”, disse l'Elefante. "Chiedi alla Volpe - fu lei a dirmelo".  "Nemmeno io lo so”, disse la Volpe. 

"Sono stati i Conigli a dirmelo", disse infine il Cervo. 

Uno dopo l'altro, i Conigli dissero: "Io non lo vidi, ma un altro Coniglio mi disse questa cosa". 

Finalmente il Leone arrivò dal Coniglio che aveva detto per primo che la terra stava per spaccarsi. "È vero che la terra sta per rompersi?" chiese il Leone. 

"Sì, O Leone, è così!", disse il primo Coniglio. "Stavo dormendo sotto una palma. Mi svegliai e pensai, 'cosa mi succederebbe se la terra dovesse essere distrutta?' In quel preciso momento, io sentii il rumore della terra che si spaccava e fuggii". 

"Allora", disse il Leone, "Tu ed io risaliremo al luogo dove la terra cominciò a spaccarsi, e vedremo qual’è la questione." 

Quindi il Leone mise il piccolo Coniglio sulla sua schiena, e loro andarono via come il vento. Gli altri animali li aspettarono ai piedi della collina. 

Quando essi furono vicini, il Coniglio lo disse al Leone, ed il Leone vide proprio il luogo dove il Coniglio stava dormendo. 

Inoltre, egli vide la noce di cocco che era precipitata in terra lì vicino. Quindi, il Leone disse al Coniglio, "Il rumore che hai sentito doveva essere quello della noce di cocco che precipitò a terra. Stupido Coniglio!" 

E così il Leone corse di nuovo dalle altre bestie, e disse a tutti loro ciò che era successo. Se non fosse stato per il saggio Re degli Animali, è probabile che essi starebbero ancora correndo.  

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X°) IL MERCANTE SAGGIO ED IL MERCANTE SCIOCCO 

C’era una volta, in un certo paese, un Mercante economo che, arrivando ad una grande città, comprò una grande provvista di beni. Lui caricò i carri coi beni che doveva poi vendere, allorchè avrebbe viaggiato attraverso il paese. 

Un giovane Mercante, più stupido, stava comprando beni nella stessa città. Anche lui avrebbe venduto ciò che aveva comprato, nei suoi viaggi attraverso il paese. 

Dunque, entrambi erano contemporaneamente pronti per partire. Il mercante economo pensò, "Noi non possiamo viaggiare insieme, perché per gli uomini sarà duro trovare legno ed acqua per tutti, e non ci sarà abbastanza erba per così tanti buoi. Uno o l’altro dovrebbe partire per primo". 

Quindi andò dal giovane e gli disse, "Vuoi partire prima tu o parti dopo di me?" 

L'altro pensò, "Sarà meglio per me andare per primo. Così viaggerò su una strada che non sarà tagliata. I buoi mangeranno l’erba che non è stata toccata. L'acqua sarà pulita. In più, venderò i miei beni al prezzo che più mi aggrada". Quindi lui disse, "Amico, partirò io per primo."  Questa risposta andò bene al Mercante economo. Egli si disse, "Quelli che vanno avanti renderanno lisci i luoghi grezzi. I fili d’erba vecchia saranno stati mangiati dai buoi che sono andati prima, mentre i miei buoi mangeranno quella appena cresciuta tenera e fresca. Quelli che vanno avanti scaveranno i pozzi da cui noi poi potremo bere. Io poi non avrò neanche il fastidio di mettere i prezzi, perché potrò vendere i miei beni ai prezzi messi dall'altro uomo." Quindi lui disse ad alta voce, "Molto bene, amico, tu puoi partire per primo". Il Mercante sciocco allora cominciò il suo viaggio. Lasciò ben presto la città e si trovò fuori nel deserto che avrebbe dovuto attraversare. Quindi riempì i suoi grandi orci con l’acqua, li caricò su un grande carro e cominciò il viaggio attraverso il deserto. 

Ora, sulle sabbie di questo deserto viveva un demone malvagio. Appena questo demone vide il giovane Mercante sciocco che arrivava, pensò, "Se posso fargli svuotare quegli orci, sarò presto capace di sottometterlo ed averlo in mio potere." 

Quindi il demone andò avanti lungo la strada e cambiò il suo aspetto in quello di un nobile gentiluomo. Poi dal nulla creò una bella carrozza, trainata da buoi color bianco-latte. Poi chiamò altri dieci demoni, li vestì come uomini e li armò con archi e frecce, spade e scudi. Sedutosi nella sua carrozza, seguita dai dieci demoni egli cavalcò fino ad incontrare il Mercante. Egli mise del fango sulle ruote della carrozza, appese alghe ed erbe bagnate sui buoi e sulla carrozza. Dopodiché fece indossare ai demoni vestiti tutti bagnati ed bagnò anche i loro capelli. Gocce di acqua gocciolavano giù dai loro volti, proprio come se avessero tutti attraversato un fiume. 

Appena i demoni si avvicinarono al Mercante sciocco, essi fermarono il loro carro ad un lato della strada, dicendo gentilmente, "Dove state andando?".  Il Mercante rispose, "Noi siamo partiti dalla grande città e stiamo attraversando il deserto per andare ai villaggi dall’altra parte. Voi state gocciolando acqua e fango, con muschi ed erbe. Forse che sulla strada da cui venite ha piovuto? Avete passato un fiume?" 

Il demone rispose, "La traccia scura che voi vedete oltre il cielo è una foresta. In essa vi sono stagni pieni di gigli d’acqua. Le piogge spesso cadono. Cosa avete in tutti quei carri?" 

"Beni da dover vendere", rispose il Mercante. 

"Ma in quell’ultimo grande carro pesante cosa portate?" chiese ancora il demone. 

"Vasi pieni d’acqua per il viaggio", rispose il Mercante. 

Il demone disse, "Avete fatto bene a portare con voi quest’acqua per andare così lontano, ma da qui in avanti non ce n'è più bisogno. Svuotate tutta quell'acqua, così proseguirete più facilmente" Poi aggiunse, "Ma noi vi abbiamo fatto perdere anche troppo tempo. Andiamo!". Ed essi ripresero il cammino finchè furono fuori dalla vista del Mercante. Poi il demone tornò alla sua dimora coi suoi seguaci per aspettare la notte. 

Il Mercante sciocco fece come il demone gli aveva suggerito e svuotò ogni vaso, non salvando neanche una tazza d’acqua. Essi viaggiarono per tutto il giorno e col tramonto la traccia nel cielo si affievolì. Non c'era nessuna foresta, la linea scura erano solamente nubi. Nessuna acqua si sarebbe trovata. Gli uomini non avevano più acqua da bere e nessun cibo da mangiare, perchè non avevano acqua per poter cucinare il riso, così andarono a letto assetati e senza cena. Anche i buoi avevano fame e sete e si lasciarono cadere giù per dormire qua e là. Nella tarda notte i demoni si precipitarono su di loro e facilmente portarono via tutto e tutti. Essi spinsero i buoi in avanti, ma non si curarono di portar via i carri carichi. 

Un mese e mezzo dopo questo fatto, il Mercante saggio seguì la stessa strada. Anche lui nel deserto fece l’incontro con quel demone, proprio com’era successo all'altro. Ma l’uomo saggio sapeva che quello era un demone, perché non faceva ombra. Quando il demone gli parlò degli stagni più avanti nella foresta e lo consigliò di gettare via i vasi d’acqua, il Mercante saggio rispose, "Noi non gette-remo via l'acqua che abbiamo finché non arriveremo al luogo dove vedremo che ce n'è ancora". 

Allora il demone se ne andò. Ma gli uomini che erano col Mercante dissero, "Signore! quegli uomini ci dissero che là c’è l'inizio di una grande foresta, e che da qui in avanti sta sempre piovendo. I loro vestiti e i capelli stavano gocciolando d’acqua. Lasciaci gettare via l’acqua dei vasi e andare più veloci con i carri più leggeri!" 

Fermando tutti i carri il Mercante saggio chiese agli uomini, "Qualcuno di voi ha mai sentito dire che vi sia un lago o uno stagno in questo deserto? Voi avete vissuto sempre qui vicino". 

"No, in effetti noi non abbiamo mai sentito di un lago o stagno", dissero loro. 

"Qualcuno di voi sente per caso un vento carico di umidità venirgli incontro?” chiese ancora il Mercante. 

"No, signore", loro risposero.  

"Qualcuno di voi può forse vedere annuvolarsi una pioggia,?" ribadi egli.

"No, signore, nessuno”,essi risposero. 

"Quegli individui non erano uomini, erano demoni!" disse il Mercante saggio. "Loro sono venuti fuori per farci gettare via l'acqua. Poi quando noi saremmo stati deboli ci avrebbero dato il colpo di grazia. Andiamo via subito e non gettiamo neppure una sola pinta di acqua". 

Quindi loro proseguirono e prima di sera raggiunsero i carri carichi che erano stati abbandonati dal Mercante sciocco. Quindi il Mercante economo mise i suoi carri distesi in un cerchio. In mezzo al cerchio pose i buoi coricati, ed anche alcuni degli uomini. Poi lui stesso con i capi in testa stettero in guardia, con le spade pronte e si misero ad aspettare i demoni. Ma i demoni non li infastidirono. Il giorno dopo, all’alba, il Mercante economo prese il meglio dei carri lasciati dal Mercante sciocco e proseguì in salvo attraverso il deserto verso la città. 

Là egli vendè tutti i beni con un buon profitto e ritornò con la sua compagnia alla sua propria città.  

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XI°) L'ELEFANTE ‘VOLTO GENTILE’ 

Una volta un re aveva un Elefante chiamato “Volto  Gentile”. L'Elefante fu così chiamato perché era gentile e buono ed aveva uno sguardo dolce. "Volto-Gentile non fa mai male a nessuno", diceva spesso il custode degli Elefanti. 

Ora, una notte alcuni ladri entrarono nel cortile e si sedettero in terra appena fuori della stalla dove Volto Gentile dormiva. Il discorso dei ladri alla fine svegliò Volto Gentile. 

"Questa è la strada per irrompere in casa", essi stavano dicendo. "Una volta nella casa uccideremo chiunque si svegli. Un ladro non deve avere paura di uccidere. Un ladro deve essere crudele e non deve avere pietà. Egli non deve essere mai buono, neanche per un momento." 

Volto Gentile pensò, "Questi uomini mi stanno insegnando come io dovrei agire. Io sarò crudele. Io non mostrerò pietà. Io non sarò buono - neanche per un momento". 

Così la mattina dopo, quando il custode venne a dar da mangiare a Volto Gentile, esso lo prese per il tronco e lo gettò in terra, uccidendolo. Un altro custode corse a vedere quello che stava accadendo, e Volto Gentile uccise anche lui. Per giorni e giorni Volto Gentile fu così brutto e cattivo che nessuno si fidava di andargli vicino. Il cibo gli fu lasciato vicino, ma nessuno osava avvicinarsi a lui.

Dai e dai, il re seppe di questo e spedì uno dei suoi uomini più saggi per scoprire cosa avesse addolorato Volto Gentile per farlo diventare così cattivo. Un tempo quel saggio uomo aveva già conosciuto Volto Gentile. Lui osservò attentamente l'Elefante e non riusci a trovare niente che potesse sembrare essere il motivo della cosa. 

Alla fine pensò, "Volto Gentile deve aver sentire parlare degli uomini cattivi. Ci sono stati alcuni cattivi uomini che hanno parlato qui?" chiese l'uomo saggio. 

"Sì", disse uno dei custodi, "una banda di ladri fu presa qui alcune settimane fa. Essi si erano raccolti nel recinto per parlare dei loro piani. Essi stavano parlando insieme vicino alla stalla dove Volto Gentile stava dormendo". 

Quindi l’uomo saggio ritornò dal re e gli disse, "Io penso che Volto Gentile abbia ascoltato un discorso malvagio. Se Lei spedirà degli uomini buoni che si mettano a parlare dove Volto Gentile possa sentirli penso che lui potrà essere ancora un buon Elefante". 

Quindi la stessa notte il re spedì un gruppo dei migliori uomini che si potessero trovare, facendoli sedere e parlare vicino alla stalla dove Volto Gentile viveva. Essi si dissero l'un l'altro, "E’ sbagliato far male a qualcuno. È sbagliato uccidere. Ognuno dovrebbe essere buono e gentile." 

"Ora, questi uomini mi stanno dando un altro insegnamento", pensò Volto Gentile. "Io devo essere gentile e buono. Io non devo fare male ad alcuno. Io non devo uccidere nessuno." E da allora in poi, Volto Gentile fu di nuovo domestico e buono come mai un Elefante avrebbe potuto essere.  

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XII°) IL CERVO DI BANYAN 

C'era una volta un Cervo color dell’oro. I suoi occhi erano come tondi gioielli, le sue corna erano bianche come argento, la sua bocca era rossa come un fiore, i suoi zoccoli erano duri e brillanti. Lui aveva un corpo grande ed una coda lunga e sottile.  

Esso viveva nella foresta di Banyan ed era il capo di un branco di cinquecento Cervi. Lì vicino viveva un altro branco di Cervi, chiamati Cervi Scimmia. Anche loro avevano un capo. 

Al Re di quel paese piaceva cacciare i Cervi e mangiare la carne di cervo. Non gli piaceva però andarci da solo così un giorno lui chiamò le persone della sua città chiedendo loro di andare a caccia con lui. 

Al popolo tutto ciò non piaceva perché mentre loro erano via nessuno faceva il loro lavoro. Quindi decisero di fare un parco e portare i Cervi in esso. Così il re avrebbe potuto andare e cacciare nel parco e loro potevano proseguire nel loro lavoro quotidiano. 

Quindi fecero un parco, vi piantarono l’erba e provvidero che i Cervi avessero l’acqua, costruirono un recinto tutto intorno ad esso e vi guidarono i Cervi. 

Poi chiusero il cancello ed andarono a dire al re che nel parco vicino lui avrebbe potuto trovare tutti i Cervi che voleva. 

Il re andò subito a cercare i Cervi. Prima vide là i due Cervi Reali, e garantì ad essi di risparmiare le loro vite. Poi controllò i loro grandi armenti. Talvolta sarebbe andato il Re a cacciare i Cervi, e talvolta sarebbe andato il suo cuoco. Nonappena alcuni Cervi li videro, cominciarono a tremare per la paura e si misero a correre. Ma quando venivano colpiti una volta o due, si lasciavano cadere giù morti. 

Il Cervo Reale di Banyan andò dal Cervo Reale delle Scimmie e disse, "Amico, molti Cervi sono stati uccisi. Oltre a quelli uccisi ci sono molti feriti. Dopo questo suppongo che un giorno dovrà essere ucciso uno del mio armento, ed il giorno dopo dovrà toccare ad uno del tuo armento. In questo modo si perderanno meno Cervi". 

Il capo-Cervo Scimmia fu d’accordo. Ogni giorno il Cervo di turno sarebbe andato e si sarebbe sdraiato, mettendo la sua testa sul ceppo. Così il cuoco sarebbe venuto e avrebbe portato via quello che giaceva là. 

Un giorno la sorte cadde su un Cervo-madre che aveva un piccolo. Lei andò dal suo re e disse, "O Reale Cervo delle Scimmie, lascia che il mio turno salti finché il mio piccolo sia grande abbastanza per farcela senza di me. Poi io andrò e metterò la mia testa sul ceppo". Ma il re non l'aiutò. Lui le disse che la sorte era toccata a lei e lei doveva morire. Poi lei andò dal Cervo Reale di Banyan e chiese a lui di salvarla. 

"Ritorna alla tua tribù. Andrò Io al posto tuo", disse lui. 

Il giorno dopo il cuoco trovò il Cervo Reale di Banyan disteso con la sua testa sul ceppo. Il cuoco andò dal re per informarlo di questo fatto. 

"Cervo Reale di Banyan! Non ricordi che io garantii la tua vita? Perché sei disteso qui?" disse il Re accorrendo sul posto.

"O grande Re!" disse il Capo dei Cervi di Banyan, "una madre venne col suo piccolo e mi disse che la sorte era toccata a lei. Io non potevo chiedere ad alcun altro di prendere il suo posto, così venni io". 

"O Cervo Reale di Banyan! Io non vidi mai una tale gentilezza e misericordia. Alzati! Io accordo la tua vita e quella della madre. Io non caccerò più alcun Cervo, né nel parco e né nella foresta."  

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XIII°) I PRINCIPI ED IL FOLLETTO D'ACQUA 

Una volta c’era un re che aveva tre figli. Il primo si chiamva Principe delle Stelle. Il secondo si chiamava Principe della Luna ed il terzo Principe del Sole. Il re fu così felice quando nacque il terzo figlio che promise di dare alla regina qualunque cosa che lei avesse chiesto. 

La regina serbò la promessa, aspettando finché il terzo figlio fu cresciuto, prima di chiedere al re di darle il beneficio. Nel ventunesimo compleanno del Principe Sole lei disse al re, "Gran Re, quando il nostro bambino più piccolo nacque tu dicesti di darmi un beneficio. Ora io ti chiedo di dare il regno al Principe Sole". 

Ma il re rifiutò, dicendo che il regno doveva andare al figlio più grande, perché gli apparteneva di diritto. Poi il diritto sarebbe andato al secondo figlio, e finché essi non fossero entrambi morti, il regno non poteva andare al terzo figlio. 

La regina andò via, ma il re capì che lei non fu soddisfatta dalla sua risposta. Lui temeva che lei avrebbe danneggiato i due principi più vecchi per far posto al Principe Sole. 

Quindi lui chiamò i suoi figli più grandi e disse loro che dovevano andare a vivere nella foresta fino alla sua morte. "Poi ritornerete e regnerete nella città che è vostra di diritto", disse lui. E piangendo lui li baciò sulla fronte e li spedì via.  

Proprio quando stavano uscendo fuori dal palazzo, dopo aver salutato il loro padre, il Principe Sole li fece chiamare e disse loro, "Dove state andando?". E quando seppe dove essi stavano andando e perché, lui disse, "Io verrò con voi, o fratelli miei!". 

Quindi essi se ne partirono insieme. Andarono così qua e là finché arrivarono alla foresta. Là si sedettero e rimasero nell'ombra in riva ad uno stagno.

Ad un certo punto, il fratello più vecchio disse al Principe Sole, "Va giù allo stagno a bere ed a bagnarti. Poi portaci da bere mentre noi rimaniamo qui". 

Ora il Re delle Fate aveva dato questo stagno ad un folletto d’acqua. Il Re aveva detto al folletto d’acqua, "Tu avrai in tuo potere tutti coloro che entrano nell'acqua eccetto quelli che ti daranno la risposta esatta a una domanda. Quelli che daranno la risposta esatta non saranno in tuo potere. La domanda è, 'Come sono le Buone Fate?'." 

Quando il Principe Sole andò nello stagno, il folletto d'acqua lo vide e gli fece la domanda, "Come sono le Buone Fate?" 

"Sono come il Sole e la Luna", disse il Principe Sole. 

"Tu non sai come sono le Buone Fate", strillò il folletto d'acqua, e così portò il povero ragazzo giù nella sua caverna. 

Dopo un po’, il fratello più grande disse, "Principe Luna, vai giù a vedere perché nostro fratello sta così a lungo nello stagno!" 

Appena il Principe Luna giunse sulla riva dello stagno  il folletto d'acqua lo chiamò e gli disse, "Dimmi come sono le Buone Fate!" 

"Come il cielo sopra di noi", rispose il Principe Luna. 

"Tu non lo sai!", disse il folletto d'acqua, e trascinò il Principe Luna giù nella sua caverna dove c’era il Principe Sole. 

"Deve essere accaduto qualcosa a quei due fratelli miei", pensò il più vecchio. Quindi andò anche lui giù allo stagno e vide le traccie dei passi dove i suoi fratelli erano passati per entrare in acqua. Però lui sapeva che in quello stagno doveva vivere un folletto d’acqua. Quindi strinse le mani sulla sua spada, e stette col suo arco pronto. Presto il folletto d'acqua arrivò nella forma di un boscaiolo. 

"Tu sembri stanco, Amico", lui disse al principe. "Perché non ti bagni nel lago e poi ti riposi sulla riva?" 

Ma il principe sapeva che costui era un folletto d’acqua e gli disse, "Tu hai portato via i miei fratelli!" 

"Sì",  ammise il folletto d’acqua. 

"E perché li hai portati via? " 

"Perché loro non risposero alla mia domanda", disse il folletto d'acqua, "ed io ho in mio potere tutti quelli che entrano nell'acqua eccetto quelli che sanno dare una risposta corretta." 

"Io risponderò alla tua domanda", disse il fratello più grande. E alla domanda che gli fece, rispose, "Le Buone Fate sono come il puro di cuore che teme il peccato, come il buono, che è gentile in parole ed atti". 

"O Principe Saggio, io ti riporterò uno dei tuoi fratelli. Quale ti porterò?" disse il folletto d'acqua. 

"Portami il più giovane", disse il principe. "Fu a causa sua che nostro padre ci ha spedito via. Io non potrei mai andar via con il Principe Luna e lasciar qui il povero Principe Sole." 

"O Saggio Principe, tu sai ciò che dovrebbero fare i buoni e sei gentile. Io ti riporterò entrambi i tuoi fratelli", disse il folletto d'acqua.  

Dopo di ciò i tre principi vissero insieme nella foresta finché il re morì. Allora essi risalirono al palazzo. Il fratello il più vecchio fu fatto re e lui volle che i suoi fratelli regnassero con lui. Egli costruì anche una casa per il folletto d'acqua nel territorio del suo regno.  

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XIV°) L'ELEFANTE BIANCO DEL RE

Una volta c’erano dei falegnami che vivevano su una riva di un fiume vicino ad una grande foresta. Ogni giorno i falegnami andavano in barca fino alla foresta per tagliare gli alberi e farli diventare legname. 

Un giorno mentre erano al lavoro, un Elefante venne da loro zoppicando su tre piedi. Esso alzò un piede ed i falegnami videro che era gonfio e dolente. Poi l'Elefante lo posò giù e gli uomini videro che nel piede dolente c'era una grande scheggia. Essi la estrassero e lavarono con cura la zampa indolenzita così che in breve tempo l’elefante stette di nuovo bene. 

Grato per la cura, l’Elefante pensò: "Questi falegnami hanno fatto molto per me, io dovrò ricambiare essendo utile a loro." 

Quindi, in seguito, l'Elefante aiutò i falegnami a tirar giù gli alberi ed a trasportare i tronchi. Talvolta quando essi tagliavano gli alberi lui rotolava i tronchi fino giù al fiume. Altre volte lui portava i loro attrezzi. Ed i falegnami lo alimentavano bene, mattina, mezzogiorno e sera. 

Ora questo Elefante aveva un piccolo, che era tutto bianco – ed era bello, forte e giovane. Il vecchio Elefante disse, "Io porterò mio figlio nella foresta nel luogo dove vado a lavorare ogni giorno, così che lui potrà imparare ad aiutare i falegnami, perché io non sono più così giovane e forte". 

Quindi il vecchio Elefante disse a suo figlio come i falegnami si erano presi buona cura di lui quando si era fatto male e lo portò da loro. L'Elefante bianco fece come suo padre aveva detto di fare ed aiutò i falegnami e loro l'alimentarono bene. 

Quando il lavoro era finito, il giovane Elefante di notte andava a giocare nel fiume. I bambini dei falegnami giocavano con lui, nell'acqua e sulla riva. Gli piaceva prenderli per il corpo con la sua proboscide e metterli sui rami alti degli alberi e poi permettere loro di scivolare in giù sulla sua schiena. 

Un giorno il re era venuto giù al fiume e così vide questo bell’ Elefante bianco che lavorava per i falegnami. Il re subito volle l'Elefante per sé e pagò ai falegnami una grande somma d’oro per lui.

Allora, con un'ultima occhiata ai suoi compagni di gioco, i bambini, il bell’Elefante bianco seguì il re ed il suo corteo. 

Il re era così orgoglioso del suo nuovo Elefante Bianco che si prese la miglior cura di lui finché visse.  

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XV°) IL BUE CHE INVIDIÒ IL MAIALE 

C'era una volta un Bue chiamato Grande Rosso. Lui aveva un fratello più giovane chiamato Piccolo Rosso. Questi due fratelli facevano tutto il lavoro di trasporto con un carro in una grande fattoria. 

Ora il coltivatore aveva un'unica figlia e lei si sarebbe presto sposata. Sua madre allora diede ordini che si fosse ingrassato il Maiale per la festa di matrimonio. 

Piccolo Rosso notò che il Maiale veniva alimentato con cibo di prima qualità. Disse allora a suo fratello, "Come mai, Grande Rosso, che a noi che facciamo tutto il lavoro duro della fattoria, viene dato solamente paglia ed erba da mangiare? Quel pigro Maiale non fa niente tutto il giorno, ma mangia il cibo di prima qualità che il coltivatore gli dà." 

Allora il Bue più saggio disse, "Caro Piccolo Rosso, fratello mio, non invidiarlo. Quel piccolo Maiale sta mangiando il cibo per ingrassare e per poi arrivare alla morte! Lui deve ingrassare per la festa di matrimonio. Mangia la tua paglia ed erba e stai contento di vivere più a lungo!". 

Non molto tempo dopo il Maiale ingrassato fu ucciso e cucinato per la festa di matrimonio. 

Quindi Grande Rosso disse, "Vedi, Piccolo Rosso, cosa è successo del Maiale dopo aver mangiato tutto il suo cibo eccellente?" 

"Sì", disse il fratello piccolo, "noi possiamo continuare a mangiare il cibo semplice per anni, ma il povero piccolo Maiale mangiò il cibo di morte ed ora lui è morto. La sua alimentazione era buona finché durò, ma non è durato per molto."  

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XVI°) IL NERO DELLA NONNA

C’era una volta un uomo ricco che diede un piccolo Elefante ad una donna. Lei si prese la miglior cura di questo grande cucciolo e presto divenne molto affettuosa con lui. I bambini nel villaggio la chiamavano ‘Nonna’, e il suo Elefante lo chiamavano "Il Nero della Nonna". L'Elefante portava sulla sua schiena tutti i bambini del villaggio. Loro dividevano le loro caramelle con lui e lui giocava volentieri con loro. 

"Per favore, Nero, facci fare un giretto", gli dicevano quasi tutti i giorni. "Avanti! Chi sale prima?" Nero rispondeva e li prendeva con la sua proboscide, li penzolava in alto per aria, e poi li rimetteva di nuovo  giù, con molta cura.

Ma Nero non faceva mai alcun altro lavoro. Lui mangiava e dormiva, giocava coi bambini, e faceva compagnia alla Nonna. 

Un giorno Nero volle che la Nonna venisse nei boschi con lui. 

"Io non posso venire, mio caro Nero. Io ho troppo lavoro da fare." 

Allora Nero la guardò e si accorse per la prima volta che lei era diventata vecchia e debole. 

"Io sono giovane e forte", pensò lui. "vedrò se posso trovare del lavoro da fare. Se potessi portarle dei soldi a casa, lei non dovrebbe lavorare così sodo." 

La mattina dopo, alle luci dell’alba, lui si recò quindi giù alla riva del fiume. 

Là trovò un uomo che era in un grosso guaio. C'era una lunga fila di carri così pesantemente caricati che i buoi non potevano trainarli attraverso l'acqua pur poco profonda. 

Quando l’uomo vide Nero che stava sulla riva, chiese in giro, "Chi è che possiede questo Elefante? Io voglio assumerlo per aiutare i miei Buoi a tirare questi carri attraverso il fiume." 

Un bambino che sta in piedi vicino da detto, "Quello è il Nero di Nonna". 

"Molto bene", disse l'uomo, "io pagherò due pezzi di argento per ogni carro che questo Elefante trainerà attraverso il fiume." 

Nero fu assai contento nel sentire questa offerta. Lui scese al fiume, e trainò all'altro lato un carro dopo l’altro attraverso il fiume. 

Poi si recò dall'uomo per ritirare  i soldi. L’uomo contò un pezzo d’argento per ogni carro. Quando Nero vide che l'uomo aveva contato un solo pezzo d’argento per ogni carro, invece di due, non toccò neanche i soldi. Lui rimase dritto in piedi sulla strada senza lasciar passare i carri. L’uomo tentò di trascinare Nero fuori dalla strada, ma non riuscì a smuoverlo neanche di un passo. 

Poi l’uomo tornò indietro e tirò fuori un altro pezzo di argento per ognuno dei carri e mise l'argento in una borsa allacciata intorno al collo di Nero. 

Allora Nero tornò a casa, orgoglioso nel pensare che aveva un presente per la Nonna. 

Ai bambini Nero era mancato ed essi avevano chiesto a Nonna dove egli  fosse, ma lei rispose di non sapere dove fosse andato. Tutti lo stavano cercando ma era quasi sera prima che loro lo sentirono arrivare. 

"Dove sei stato, Nero? E cos’è quell’affare che hai intorno al collo?" strillavano i bambini, mentre correvano incontro al loro compagno di gioco. 

Ma Nero non si fermò a parlare coi suoi compagni di gioco. Lui corse diritto a casa dalla Nonna. 

"Oh, Nero!" disse lei, "Dove sei stato? Che c’è in quella borsa?" E lei prese la borsa che stava intorno al collo dell’Elefante. Nero le disse che lui era riuscito a guadagnare un po' di soldi per lei. 

"Oh, Nero, caro Nero", disse la Nonna, "chissà come avrai dovuto lavorare duro per poter guadagnare tutti questi pezzi di argento! Quanto sei buono tu, Nero!" 

E dopo tutto questò, Nero fece tutti i lavori più duri e la Nonna si riposò, e loro furono entrambi molto felici.  

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XVII°) IL GRANCHIO E LA GRU 

Nell’antichità, vi fu un'estate molto calda in cui non vi furono molte precipitazioni. Tutti gli Animali soffrirono per la mancanza di acqua, ma la maggior parte dei Pesci soffrì più di tutti gli altri. 

In un stagno pieno di Pesci, l'acqua era davvero molto bassa. Una gru stava appollaiata sulla riva guardando i Pesci. 

"Cosa stai facendo?" le chiese un piccolo Pesce. 

"Sto pensando a voi Pesci in quello stagno che è quasi del tutto asciutto", rispose la gru. 

"Purtroppo, sì", ammise il piccolo pesce.

La gru proseguì, "Io stavo considerando che dovrei fare qualcosa per voi. Io conosco uno stagno nella profondità dei boschi in cui c'è molta acqua". 

"Accidenti!", disse il piccolo Pesce, "Devo dire che è la prima volta che una gru si offre di aiutare un Pesce." 

"Può darsi" disse la gru, "ma l'acqua è così bassa nello stagno. Io potrei portarvi facilmente uno alla volta sulla mia schiena a quell’altro stagno dove c’è molta più acqua e cibo ed ombra fresca." 

"Io non credo che ci sia alcun tale stagno" disse il piccolo Pesce. "Ciò che davvero desideri fare tu è mangiarci, uno alla volta." 

"Se non mi credi" disse la gru, "manda con me uno dei Pesci che possa crederci. Io gli mostrerò lo stagno e lo riporterò indietro per farglielo dire a tutti". 

Un grande Pesce sentì la gru che diceva questo e disse, "Bene, verrò io con te a vedere lo stagno – per me tanto vale essere mangiato dalla gru come morire qui." 

Quindi la gru mise il grande Pesce sulla sua schiena e partì per i boschi profondi. 

Ben presto la gru mostrò al grande Pesce la distesa di acqua. "Vedi com’è fresco ed ombroso qui" gli disse, "e quanto più grande è lo stagno, e come è pieno!" 

"Sì!" disse il grande Pesce, "riportami al piccolo stagno ed io lo dirò a tutti gli altri Pesci". Ciò detto, essi ritornarono al primo stagno.  

I Pesci quando ebbero sentito il grande Pesce parlare dell’eccellente stagno che lui aveva visto vollero tutti a loro volta andare. 

Allora la gru prese su un altro Pesce e lo trasportò. Non all’altro stagno, ma nei boschi dove gli altri Pesci non potessero vederli. 

Quindi la gru mise il Pesce giù e se lo mangiò. La gru poi ritornò per prendere un altro Pesce. Portò anche questo allo stesso luogo nel bosco e se lo mangiò. 

Tutto questo fece, finché non ebbe mangiato tutti i Pesci nello stagno. 

Il giorno dopo, la gru andò allo stagno a vedere se fosse rimasto ancora qualche Pesce. Non c’ era più nessun pesce rimasto, ma c'era un Granchio sulla sabbia. 

"Piccolo granchio", disse la gru, "vorresti che ti portassi all’eccellente stagno nei boschi profondi dove io portai gli altri Pesci?" 

"Ma come potresti portarmi? " chiese il Granchio. 

"Oh, facilmente", rispose la gru. "Io ti prenderò sulla mia schiena come ho fatto con i Pesci." 

"No, ti ringrazio", disse il Granchio, "io non posso venire così. Io ho paura ed è probabile che tu mi faccia cadere. Se potessi fare presa sul tuo collo coi miei artigli, allora potrei venire. Sai che noi Granchi abbiamo una bella presa stretta". 

La gru conosceva la presa stretta dei Granchi, e non gli piaceva affatto avere la presa di un Granchio coi suoi artigli. Ma aveva fame, così la gru disse: 

"Va bene, tieniti strettamente." 

E poi la gru volò via col Granchio sulla schiena. Quando arrivarono al luogo dove la gru aveva mangiato i Pesci, essa disse: 

"Io penso che adesso puoi camminare per il resto di strada. Lascia la tua presa sul mio collo." 

"Io non vedo alcun stagno", disse il Granchio. "Tutto ciò che io posso vedere è solo una pila d’ossa di Pesci. È tutto ciò che resta dei Pesci?" 

"Sì", disse la gru, "e se lascerai andare il mio collo, il tuo guscio sarà tutto ciò che resterà di te!". 

E la gru abbassò la sua testa in giù fino a terra così che il Granchio potesse facilmente scendere giù. 

Ma il Granchio dette un grosso pizzico al collo della gru, tanto che la sua testa fu così staccata e cadde. 

"Non il mio guscio, ma le tue ossa saranno lasciate a seccarsi insieme con le ossa dei Pesci", disse il Granchio.  

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XVIII°) PERCHÉ IL GUFO NON È IL RE DEGLI UCCELLI 

Perché i Corvi tormentano i Gufi quando essi dormono di giorno? Per la stessa ragione per cui i Gufi tentano di uccidere i Corvi mentre loro dormono di notte. 

Ascoltate una storia di tanto tempo fa e poi capirete il perché. 

Una volta, le persone che vivevano insieme quando il mondo era giovane, scelsero un certo uomo come loro re. Anche gli animali a quattro zampe presero uno della loro razza come loro re. I pesci nell'oceano scelsere il proprio re che li dominasse. Infine anche gli uccelli si radunarono insieme su una grande pietra piatta, gridando: 

"Gli uomini hanno un re, e fra gli animali, sia le bestie che i pesci anche ne hanno uno; ma noi uccelli non ne abbiamo alcuno. Noi dovremmo avere un re. Ora vediamo di sceglierne uno". 

E così gli uccelli discussero su, e alla fine della questione tutti loro dissero, "Facciamo in modo che il Gufo sia il nostro re." 

Ma niente affatto, la cosa non andò a genio a tutti, perché un vecchio Corvo si levò su e disse, "Da parte mia, io non voglio che il Gufo sia il nostro re. Guardatelo, mentre tutti voi state qui a strillare che lo volete come vostro re. Guardate come lui adesso guarda in modo acido. Se questo guardare storto è ciò che lo caratterizza quando è felice, chissà in che modo lui guarderà quando è adirato!? Io, per primo non voglio affatto un tale re che guarda in modo così acido!" 

Quindi il Corvo volò su nell'aria strillando, "Non mi piace! Non mi piace!" Il Gufo si levò anch’esso in volo e lo seguì. Da allora i Corvi ed i Gufi sono stati nemici. Gli uccelli poi scelsero un’aquila come loro re, e dopo tutti volarono alle loro case.  

 

 

Nastro 4:  
    F I N E 
 

 

 

 

 

 

Per un ulteriore Studio: 

·                     Jataka (six volumes): trans. By Bhadanta Ananda Kausalyayana.

·                     Jataka Tales: Cambridge.

·                     The Jataka together with its Commentary being Tales of Anterior Births of Gotama Buddha (six volumes) : Oxford.

·                     GChullabagga Vanshashatika Skandhaka : trans. By Rahul Sankratayana.

·                     Patanjali’s Mahabhashya.

·                     The Pancatantra : The Book of India’s Folk Wisdom : Oxford.

·                     Hitopadesha : Hindi Sahitya Sammelana, Prayaga.

·                     Bhandarkar, R. G. : Vishnavism Saivism etc.

·                     Cone, M. and Gombrich, R. F. : The Perfect Generosity.

·                     Wray, E., Rosenfield, C. and Bailey, D. : Ten Lives of The Buddha.

·                     Behl, Benoy K. : The Ajanta Caves.

·                     OKADA Amina : Ajanta.

·                     Srivastava, A. L. : Life in Sanchi Sculpture.

·                     Sharma, R. C. : Bharhut Sculptures

·                     Ajanta Murals : ed. A Ghosh.

 

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(Tradotto in Italiano da Aliberth Meng, per il Centro Nirvana -  Roma - Gennaio 2008)   

 

 

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