Gli Insegnamenti Zen

di Nagarjuna  

di Vladimir K., giugno 2004 - Tratto da:

http://www.thezensite.com/ZenEssays/Nagarjuna/zenteachingsofnagarjuna.pdf

Questo articolo è autorizzato sotto copyright di Creative Commons License.  
 

Nagarjuna, noto come filosofo buddhista da molti filosofi e studiosi (1) Occidentali, è forse più apprezzato non come filosofo buddhista (anche se lui certamente lo era) ma come Maestro Mahayana. Nella tradizione Zen, infatti, egli è il 14° Patriarca, ed è riconosciuto anche come Patriarca nel buddhismo Tantrico e nelle "nétte del buddhismo 'Amitabha’. Come ci indica il Dumoulin (1994:44), non fu per le sue dialettiche sulla logica che gli fu costruita un’immagine riverita, ma per la sua "vitalità religiosa, che ha avuto la massima influenza".  

Nagarjuna è considerato il fondatore della scuola Madhyamika (Il Sentiero della Via di Mezzo), un ramo della scuola buddhista Mahayana. Un elenco di tutti i lavori attribuiti a questa figura quasi mitica, ancora includerebbe un’ampia varietà di testi esistenti in Tibetano, Cinese e Sanskrito (Mabbett, 1998), ma, come lo stesso Mabbett nota, molti dei testi non "sono considerati seriamente provenire dalla mano di Nagarjuna". Similmente, la vita di Nagarjuna è oscurata da agiografia e mitologia (vedi Tharchin, (n.d.) per un tipico esempio) e perfino le date della sua vita sono incerte, anche se per molti studiosi sarebbe accettabile un qualche luogo, tra il primo ed il terzo secolo. Ma a noi ora, questo non interessa.  

Ciò che generalmente viene accettato è che il testo centrale della scuola Madhyamika, il Mulamadhya-makakarika (Stanze Fondamentali della Via di Mezzo) è assegnato a Nagarjuna, ed esso è uno dei più importanti ed influenti testi del buddhismo Mahayana. Tuttavia, ad una prima lettura, Nagarjuna spesso rende perplessi o addirittura frustrati. Come David Loy (1999) commenta, gli scritti di Nagarjuna sono di una logica affilata e laconica "che usa distinzioni che nessuno aveva notato prima, e poiché molti non sono stati capaci di vedere il punto del cavillo, cosicché alcuni li considerano meri cavilli concettuali".  

Una delle difficoltà che un lettore Occidentale potrebbe avere nel leggere il Mulamadhyamakakarika è che esso è basato sui classici Indiani, anziché sulla logica Occidentale. Le tradizioni logiche Occidentali vedono solamente due possibilità in un argomento - la verità o la falsità. Si può cercare di provare un'altra verità attraverso la negazione. Per esempio, se una macchina non è rossa, deve essere di altri colori. Le tradizioni indiane usano quattro posizioni: vero (non falso), falso (non vero), vero e falso, e né vero né falso(prasanga, o tetralemma). Inutile dirlo, questa forma di argomentazione è difficile per un lettore Occidentale, abituato ad una linea completamente diversa di ragionare. Tuttavia, Nagarjuna va anche più oltre, fondamentalmente disputando, "Nessuno di quelli", che lascia il lettore con nessun luogo in cui andare e nulla da afferrare. Nagarjuna usò la negazione non per provare un altro punto di vista o verità, ma per negare tutti i punti di vista. Egli distrusse tutti gli argomenti logici o speculazioni sulla 'Realtà-Ultima', quindi negando l'esistenza inerente di una qualunque simile 'realtà'.  

In questo articolo, io cercherò di delineare alcuni degli insegnamenti fondamentali di Nagarjuna, basati sul suo Mulamadhyamakakarika e mostrerò la relazione tra le scritture di Nagarjuna e gli insegnamenti susseguenti di Zen. Mentre Nagarjuna è indubbiamente uno dei più grandi filosofi (2) del buddhismo, i suoi scritti sono meglio avvicinabili come insegnamenti solo per buddhisti. Il Mulamadhyamakakarika non dovrebbe essere considerato come una nuova filosofia, ma come una spiegazione degli insegnamenti del Tathagata, che blocca ogni tipo di speculazione metafisica. Mentre il buddhismo Zen nega l'efficacia del filosofeggiare come un sentiero per la liberazione, esso prese molti dei principi delineati nel  testo di Nagarjuna e li applicò in un modo pratico per eliminare l'ignoranza ed alleviare la sofferenza. Nagarjuna e gli antichi maestri di Zen avevano in mente la stessa mèta. Soltanto i modi di approccio differirono. Entrambi non sono altro che 'upaya' (‘mezzi-abili’ per insegnare)(3).  

 

Un Profilo degli Insegnamenti di Nagarjuna  

Il Mulamadhyamakakarika è una dialettica, spesso anche difficile da seguire, ed io credo che sarebbe un errore farne un dogma e dire che questa o quella è l'idea principale, o la filosofia centrale dell’opera. La sua filosofia tratta col tentare di spiegare, o descrivere l'essenza, o l'esistenza della realtà. (Cheng, 1991:71) Gli esseri umani hanno un bisogno di filosofizzare sulla loro esistenza, poiché altrimenti essi si sentirebbero senza un terreno su cui poggiare, così la filosofia ha il suo posto nella nostra vita, basata su una realtà convenzionale; ma non c’è nessuna filosofia che possa davvero spiegare la 'Verità-Ultima'. Nagarjuna (ed il Tathagata) sostennero che ogni filosofia e speculazione sulla realtà non portano alla conoscenza, ma all’illusione. La mèta non è una nuova visione filosofica della vita, ma l'abbandono di tutte le visioni. È soltanto allora che la vera saggezza sorge (Cheng, 1991:72). Il Tathagata rifiutò di speculare sulla metafisica, dicendo che tale speculazione era un spreco di energia, irrilevante per poter conoscere La Verità Ultima; poiché la Verità l'Ultima non era questa, non quella, non entrambe, e non nessuna (tetralemma). Il Buddha insegnò che chiedere delle cause e scopi Ultimi, tramite la filosofia, era inutile e vano. Un uomo colpito da una freccia non ha bisogno di sapere che tipo di legno fu usato per l'asta, né dove la punta della freccia fu fatta, ma ha bisogno di sapere come rimuovere la freccia. Alcuni dicono che il Buddha lavorò più come un medico spirituale che non semplicemente come un maestro. Lui diagnosticò la malattia (la sofferenza), identificò la sua causa (l’ignoranza e la bramosia), determinò se era curabile (c'è una cura) e delineò un utile corso di trattamento (l’Ottuplice Sentiero). (Winters, 1994:15; Schroeder, 2000). Seguendo il Sentiero del Buddha, di eliminare ogni speculazione filosofica, Nagarjuna usò il processo di reductio-ab-absurdum, una negazione di tutti i punti di vista su ogni tema, per rivelare che tutti gli argomenti che cercano di provare o confutare l'esistenza di tutte le concepibili asserzioni sulla 'Realtà-Ultima' sono indifendibili, inintelligibili e contraddittori, disperdendo con ciò tutti i punti di vista filosofici, tutti gli estremi di pensiero, e mettendo chiaramente ognuno sul Sentiero della Via di Mezzo insegnato dal Buddha, e verso la saggezza e la fine della sofferenza.  

La dialettica di Nagarjuna può essere ridotta a quattro proposte fondamentali:  

1) Tutte le cose (i dharma) esistono: affermazione dell’essere, negazione del non-essere;  

2) Tutte le cose (i dharma) non esistono: affermazione del non-essere, negazione dell’essere;  

3) Tutte le cose (i dharma) esistono e non esistono: affermazione e negazione dell’essere; 

4) Tutte le cose (i dharma) né esistono né non esistono: né affermazione né negazione dell’essere;

 (Dumoulin,1998:43)  

Da questa dialettica tetralemmatica, Nagarjuna arguì né la produzione né la distruzione; né l'annienta-mento né la permanenza; né l’unità né la differenza; né il venire né l’andare. (Dumoulin, 1994:44) Lui con ciò confutò ogni speculazione metafisica sull'Ultima Realtà o "Verità Suprema" (paramartha-satya).  

Si può dire che nell’opera vi siano tre importanti idee, ma interconnesse nel vero modo buddhista, e che però nessuna delle quali può stare in piedi da sola, ma che insieme costituiscono la spinta centrale dell'insegnamento. Esse formano la dottrina delle due verità, il vacuità, o vacuità (shunyata) e il sorgere dipendente, o originazione co-dipendente (pratityasamutpada). Insieme, queste tre costituiscono la Via di Mezzo di Nagarjuna. In solo ventisette capitoli di quattrocento versi, Nagarjuna afferra alcuni degli insegnamenti più difficili ed esoterici del Buddha, sistematizzando il cuore della pratica Zen, e cioè il Prajnaparamita-Sutra. Mentre per convenienza, io discuterò separatamente ciascuna delle tre, bisogna ricordare che nessuna è autonoma e, ancora più importante, nessuna dovrebbe essere presa come una sorta di "verità ultima"; esse sono solo strumenti pedagogici che ci permettono un modo di conoscere la vuota natura della verità. Nagarjuna rifiuta tutte le visioni filosofiche, inclusa la sua, e dichiara che lui non asserisce nulla. Tutti i concetti, inclusi shunyata e pratityasamutpada non sono che nomi provvisori e non hanno di per "né alcun significato indipendente (Cheng, 1991:43). Inoltre, nulla di quello che ha scritto Nagarjuna fu basato sulla sua propria creazione; tutte le sue opere esse stesse sposavano gli insegnamenti del Buddha, e non i suoi propri pensieri originali. Nagarjuna cercò soltanto di spiegare gli insegnamenti del Buddha, e non di presentare un suo proprio nuovo insegnamento.  

La dottrina delle due verità è basata sulla visione che ci sono due realtà: la realtà convenzionale con la verità di questa realtà (una "verità più bassa"), e la “Realtà Ultima” con la sua verità (una "verità più alta"). Nell’analisi finale, tuttavia, Nagarjuna rifiuta questa dualità ed insegna che entrambe le realtà sono una e la stessa. È il nostro cosiddetto 'senso comune' di comprensione del mondo che provoca il problema, perché noi tendiamo a considerare il mondo un’insieme di entità distinte che interagiscono l'un con l'altra, e con il ‘sé’. Nella visione buddhista, questa è chiamata ‘ignoranza’, che conduce diritta alla sofferenza (dukkha). La dottrina delle due verità è basata sulla praticità dell’insegnamento (upaya) piuttosto che sul dogma. Da un punto di vista convenzionale, possiamo dire che le cose sono prodotte causalmente e sono instabili e impermanenti, ma da un punto di vista più alto, la produzione causale e l’impermanenza (o la permanenza) non possono essere stabilite, e quindi il pensiero dualistico deve essere rifiutato (Cheng, 1991:45).  

La realtà convenzionale è la nostra normale realtà di ogni giorno, che noi tutti sperimentiamo. Quando uno sta sotto la pioggia, si bagna; quando uno non mangia da diverso tempo, diventerà affamato e se uno cade da una rupe, si farà male. Questa è una realtà di senso comune. La verità di questa realtà non è così semplice. C'è la verità che i nostri sensi ci dicono. Una gamba rotta fa male. Un dottore che tratta la gamba è consapevole che il suo paziente sta soffrendo per il dolore ed anche se lui stesso non sente il dolore, egli ammette che c'è il dolore. Il che ci conduce ad un secondo tipo di verità, la verità del comune accordo. Questa verità è una verità relativa, spesso basata su fattori socio-culturali. Un musulmano si prostrerà verso la Mecca e tutti i musulmani, per accordo comune, considerano questo il vero modo di adorazione. Un Cristiano o un buddhista hanno altri modi di adorazione, che è ugualmente vera. Un'altra verità potrebbe essere la verità linguistica. In inglese, noi non abbiamo nessuna difficoltà a distinguere una tavola da una scrivania. Nelle altre lingue, può non essere così. Per qualcuno una tavola non è nient’altro che quattro bastoni sormontati da una lastra di legno. La tavola esiste soltanto perché noi la chiamiamo ‘tavola’ ed è dipendente dal legno, dalle sue parti, i suoi usi, e dall’accordo che noi la chiamiamo davvero 'tavola' e non 'scrivania'(Garfield, 1994). La tavola non ha esistenza aldifuori dei materiali di cui è fatta e della persona che la costruì e l'accordo fra quelli che la usano, sul fatto  che stiamo parlando di una tavola. I post-modernisti non avrebbero difficoltà con questi tipi di verità convenzionali, per essi la verità è negli occhi dell'osservatore, non essendoci alcuna 'verità ultima'.  

L’errata credenza che la realtà 'convenzionale' sia la realtà ultima è chiamata ‘ignoranza’, che conduce al samsara, il mondo del dolore, della sofferenza e dell'ignoranza. Noi tendiamo a credere che una volta che una cosa (come la tavola) esiste, non solo è distinta da tutte le altre cose, ma essa può continuare ad esistere immutata fino al momento in cui qualcosa la colpisce così da provocare un cambiamento. La nostra tendenza ad oggettivare il mondo intorno a noi, benché possa essere conveniente, ci costringe a credere che tutte le cose (inclusi noi-stessi) abbiano un’indipendente 'auto-esistenza'. La dialettica di Nagarjuna era tutta incentrata a distruggere questo punto di vista.  

Huntington (1989:48) definisce la verità convenzionale in un modo che amplifica gli altri insegnamenti di Nagarjuna: "Il solo criterio per la realtà empirica è l’esistenza all'interno del nesso di causa ed effetto che definisce la nostra esperienza sociolinguistica condivisa". La “verità convenzionale” permette alle cose di sorgere, esistere ed estinguersi. La verità convenzionale permette alle cause di sorgere e creare effetti. Ma questa comprensione della causa ed effetto è una 'verità più bassa'. E una comprensione di causa ed effetto è essenziale nel Mulamadhyamakakarika. In seguito, ne sapremo di più su questo.  

Per Nagarjuna, la 'Verità Ultima' è la verità di una chiarezza illuminata che non prende erroneamente il convenzionale per qualcosa di essenziale (reificazione). E’ qui che entra la ‘vacuità’, come Nagarjuna insegna, che tutte le cose sono vuote e la comprensione di questo vacuità conduce ad una più grande verità del modo in cui le cose sono realmente. Non c'è, chiaramente, una vera differenza fondamentale tra le due realtà, poiché questa "verità di significato più alto" postula che "l’esistenza individuale non può essere sradicata dal contesto dell'esperienza di tutti i giorni" (Huntington,1989:48), collegando con ciò le due realtà in una sola. In altre parole, la 'verità più alta' è basata soltanto sulla cosiddetta realtà convenzionale, e non su una ‘metafisica’.  

La ‘Vacuità’ è un'altra dottrina centrale del Mulamadhyamakakarika. Senza la vacuità (shunyata) non ci potrebbero essere due verità. Senza la vacuità, non potrebbe neanche esservi il sorgere-dipendente (pratityasamutpada). Ciò che è assai importante da comprendere sulla vacuità è che essa non nega mai l'esistenza delle cose (realtà convenzionale) ma afferma che tutte le cose (il tutto) non hanno essenza intrinseca. In altre parole, niente esiste da solo, diviso o separato dalle altre cose. Quindi, tutto ma proprio tutto, è interconnesso e non può esistere senza queste 'altre cose', incluso il ‘sé’. È importante comprendere anche che Nagarjuna intende ‘tutto’, realmente senza eccezioni, incluso lo stesso ‘Sé’, i propri pensieri, la volizione, le credenze - quindi letteralmente tutto. Per esempio, Nagarjuna disputa che proprietà nello spazio non possono esistere di per "né. Un luogo non può esistere senza un oggetto che sia localizzato in quello spazio e, all’opposto, non ci può essere un oggetto senza un'ubicazione, poiché come tutti gli oggetti, anch’esso deve avere un'ubicazione in cui possa esistere. Ubicazione ed oggetto, sono dipendenti l’uno con l'altro (Garfield & Priest,2003). Nagarjuna prosegue dimostrando che per esistere, ogni cosa (tutto) è dipendente su qualcos’altro. Nulla può esistere senza l’esistenza di qualcos'altro. Questo è il significato di vacuità. E questo è il sorgere-dipendente (pratityasamutpada).  

Nagarjuna spiega: “Qualunque cosa è co-derivata dipendentemente; questo è ciò che significa ‘vacuità’.  

Che, essendo una designazione dipendente, è essa stessa la Via di Mezzo. Qualunque cosa che non sia sorta in modo dipendente, tale cosa non esiste. Perciò una cosa non-vuota non può esistere”.  

Qui Nagarjuna collega la pratityasamutpada con la shunyata, e le due insieme sono la “Via di Mezzo” del buddhismo. Esse sono intimamente collegate: ‘se qualcosa per manifestare se stessa è dipendente da qualcos’altro, è vuota, e non ha auto-esistenza. E se qualcosa è vuota, dipende da qualcos’altro per poter entrare in essere; non può manifestarsi da se stessa. Inoltre, tutto quello che è mutuamente dipendente, deve avere una unicità o particolarità sua propria, almeno in termini di 'forma'. Possiamo dire che le cose sono simili, ma non possiamo dire che esse sono identiche, o la stessa cosa. Per es., la tazza che contiene il mio tè, può averne una gemella nell'armadio. Entrambe sembrano precisamente la stessa, furono fatte nella stessa fabbrica, probabilmente dalle stesse persone, ma non sono la stessa tazza. Se io rompo questa qui, l’altra esisterà ancora, intatta. Si noti che nessuna di queste frasi nega l'esistenza (realtà convenzionale) delle cose, solo che la realtà convenzionale non ha una vera essenza o essere inerente. Questo è shunyata; questo è pratityasamutpada.  

Se tutto è vacuità e tutto è pratityasamutpada (sorgere-dipendente), allora tutto sembra avere una causa per poter sorgere. L'argomento filosofico tra causa ed effetto e la loro relazione, è un qualcosa che ha sempre confuso filosofi, Orientali ed Occidentali, che Hume considerò "un problema esoterico e metafisico"(citato in Huntington,1989:42). Il buddhismo riconosce due tipi di causalità: sequenziale e simultaneo. Il primo tipo, quello sequenziale è la nostra realtà convenzionale. C’è prima una causa e poi un effetto. Prima io faccio il caffè, poi lo bevo. È uni-direzionale e non-reciproco. In altre parole, io non posso bere il caffè prima di farlo. Tuttavia, il buddhismo vede non solo un convenzionale ‘causa ed effetto’ basato su due aspetti (la causa, ed il suo effetto) ma su tre, la causa, la condizione e l’effetto. Basato sul fatto che ci deve essere una condizione (pratyaya), oltre ad una causa, prima che un effetto entri in essere, significa che "le cose o gli eventi sono intesi originare e cessare in modo condizionato" e non necessariamente si manifestano sequenzialmente e possono essere reciproci, cioè, reversibili (Abe, 1997:96).

Jay Garfield (2001) definisce la condizione come "un evento o fenomeno in cui l’esistenza o l’avvenire è correlato con quello di un altro". Nagarjuna disse: "Poiché queste danno origine a quelle, quindi queste sono chiamate condizioni"(citato in Garfield, 2001). Questo è espresso nella famosa stanza di quattro righe:                  “Quando questo è presente, quello viene ad essere; 

Dal sorgere di questo, quello pure sorge,  

Quando questo è assente, quello non viene ad essere;  

Nella cessazione di questo, anche quello cessa.”, (citato in Abe, 1997:97)  

Qui noi possiamo vedere in opera la non-dualità. Se sostituiamo i pronomi "questo" e "quello" con una qualche cosa concreta, possiamo trovare il senso della ‘pratityasamutpada’.  

“Quando la realtà (convenzionale) è presente, il nirvana viene ad essere;  

 Dal sorgere della realtà (convenzionale), il nirvana sorge.  

Perciò, possiamo anche dire, piuttosto logicamente e senza contraddizione:  

Quando il nirvana non viene ad essere, la realtà (convenzionale) è assente; 

Quando il nirvana cessa, cessa pure la realtà (convenzionale).  

Con questo argomento, si può dire che l’originazione è reversibile e le cose sorgono simultaneamente, in modo co-dipendente. Possiamo sostituirci qualunque dualità apparente, e cioè: quando è presente la grandezza, la piccolezza viene ad essere, e quando la piccolezza viene ad essere, la grandezza sorge; quando il bene è presente, il male viene ad essere, e quando il male viene ad essere, la bontà sorge; quando la vita è presente, la morte viene ad essere, e così via. Il tema qui è circolare piuttosto che lineare. Quindi, la dualità è colpita poiché tutto sorge in modo co-dipendente. Di conseguenza, nulla ha una sua auto-costante natura propria e nulla può esistere da solo. Non è che Nagarjuna stia negando causa ed effetto; ciò di cui egli ci sta avvertendo è di non confondere una proprietà funzionale delle condizioni causali con una essenziale proprietà esistente" (Chinn,2001). E’ soltanto in questo senso che possiamo dire che le cose non 'esistono' o sono irreali. Questa è la "natura che è non-natura".  

I buddhisti Hinayana usarono questo argomento per spiegare l’etica morale come pure i fenomeni fisici (Cheng,1991:84), e Nagarjuna vide che i primi buddhisti prendevano la pratityasamutpada come una oggettiva legge che governa tutte le cose. Per confutare una qualche legge o verità, come universale, egli dibattè che è impossibile tentare di spiegare una relazione tra causa ed effetto e si finisce solo in un’assurdità o mancanza di significato (ibid,p.85). Il pericolo che Nagarjuna vide era la nostra tendenza a cercare risposte metafisiche sulla natura della realtà e della nostra vita, per creare una comprensione della vita e poi aggrapparsi a questa risposta come la ‘verità dell’esistenza’. Ewing Chinn (2001) cita Immanuel Kant per accentuare quanto sia futile questa ricerca: La ragione umana ha questo destino particolare che in un’aspetto della sua conoscenza è oppressa da domande che, prescritte dalla vera natura della stessa ragione, non è capace di ignorare, ma che, come trascendente tutti i suoi poteri, è anche incapace di una risposta. (da ‘Critica della Ragion Pura’)  

Nagarjuna, circa duemila anni prima di Kant, capì questa futilità di cercare una risposta (così come fece il Buddha) ma non attribuì questo errore alla ragione stessa, come fece Kant, bensì alla mente stessa che è contingente (sorta-dipendentemente) e che proietta soggettivamente la sua realtà sulla natura. Perciò lui scrisse: “Le oscurazioni, il karma, chi lo fa, le ricompense e le punizioni sono del tutto simili ad un miraggio, un sogno, un'ombra di luce ed un'eco” (citato in Cheng,1991:88). 

L’argomento della causa ed effetto funziona bene nel mondo convenzionale, ma sia causa che effetto sono vuoti, e non hanno una loro propria sostanza, e la stessa causalità dev’essere vuota. "Se le cose sono vuote, allora quale… è il motivo di dire che esse sorgono e cessano?" (Winters,1994:129). La difficoltà di causa ed effetto diventa evidente quando uno tenta di dividere i due e parlare di essi in modo separato una dall'altro. Nagarjuna ammise la realtà di causa ed effetto solo se certe condizioni (pratyaya) erano presenti, allora le cose potevano sorgere. Egli rifiutò che la causa fosse una forza attiva e determinante che effettua il cambiamento (ibid,p.36). Come Jonah Winters (p.38) cerca di spiegare, la causa e l’effetto "entrano in essere solamente in relazione dialettica una con l'altro, e non possono essere isolati e né essere esaminati separatamente dalla loro componente dialettica". Perciò, a ‘causa ed effetto’ è negato qualunque tipo di principio ultimo della realtà, o 'vera-esistenza', ed essi sono usati come un mezzo di insegnamento per impedire che le persone precipitino nelle errate visioni, pensieri, o malintesi. Tutti gli scritti di Nagarjuna, invero tutti gli Insegnamenti buddhisti, dovrebbero essere considerati solo come provvisori, un metodo di condurre le persone dall'ignoranza alla saggezza. Nagarjuna stesso una volta disse: "La pratityasamutpada che noi chiamiamo vacuità, è un nome provvisorio; e lo è anche la Via di Mezzo" (citato in Cheng,1991:88).  

Quando noi parliamo del sorgere-dipendente, della vacuità e delle due verità, in realtà stiamo parlando della stessa cosa. Essi sono solo degli strumenti per liberare le persone dall'attaccamento (Cheng, 1991:39). Noi li identifichiamo differentemente per convenienza di discussione, ma essi sono la stessa cosa. Perciò, non si può metterne uno più in alto di un altro, o affermarne uno escludendone un altro. (Winters, 1994:131). Inoltre, la relazione tra pratityasamutpada e shunyata è anch’essa ‘vuota’ e perciò non ha un’intrinseca, inerente essenza. E la stessa vacuità è ‘dipendente’ dalla realtà convenzionale, dipendente dal pratityasamutpada. È la vacuità che permette il sorgere-dipendente, che permette tutti i cambiamenti e che permette che l'ignoranza possa essere sradicata. Quindi, la comprensione che la realtà convenzionale sia qualcos’altro da ciò che realmente è, è falsa comprensione: così, sia il nirvana che 'questo stesso luogo' è uno e lo stesso.  

Le implicazioni degli insegnamenti di Nagarjuna sono assai ampie, spaventano e, ad una prima lettura, anche contraddittorie e incomprensibili. Per esempio, se tutte le cose sono vuote, significa forse che la vacuità e il sorgere-dipendente sono la Verità Ultima, nel senso che la vacuità è 'l'essenza' di tutte le cose? Niente affatto. Nagarjuna disse che 'tutto è vacuità'. Perciò, la vacuità stessa dev’essere vuota, altrimenti la vacuità sarebbe 'l'essenza' di tutto, e Nagarjuna asserì che in tutte le cose non c'è nessuna 'essenza', perfino nella stessa vacuità. Il buddhismo Madhyamika confuta tutte le 'verità', perché esse non sono che provvisorie: "Si dovrebbe essere ‘vuoti’ di tutte le verità, e non si dovrebbe poggiarsi su nulla"(Cheng, 1991:46). La Vacuità, il pratityasamutpada, le Quattro Nobili Verità, tutti l'insegnamenti del Tathagata sono solo upaya (strumenti, mezzi-abili); nessuno dovrebbe essere asserito come 'verità'. Come Nagarjuna disse, "Vacuità, non-vacuità, entrambe, o né l’una e né l’altra - non dovrebbero essere dichiarate [così come] sono espresse, ma solo a scopo di comunicazione" (citato in Winters, 1994:133).  

Quindi, cosa significa la ‘vacuità della vacuità’? Dove ci porta? Ci porta nuovamente alla 'convenzionale' realtà. Se la Realtà Ultima è essa stessa vuota, la realtà ultima non può essere nulla più della realtà convenzionale. Esse sono identiche. Il Vimalakirtinirdesa-Sutra dice: ‘Dire che questo è convenzionale e quest’altro è ultimo, è dualismo. Comprendere che non vi è differenza tra il convenzionale e l'ultimo, significa entrare nella porta del Dharma della nondualità" (citato in Garfield e Priest, 2003). Il Sutra del Cuore, il cuore del buddhismo Zen, dice la stessa cosa: "La forma è vacuità; la vacuità è forma; la forma non è diversa dalla vacuità; la vacuità non è diversa dalla forma". Questo collega insieme le due verità; la realtà convenzionale e la realtà ultima non sono diverse; piuttosto, esse sono due prospettive della stessa cosa. Senza la ‘vacuità della vacuità’, Nagarjuna starebbe predicando una qualche sorta di ovvia e auto-evidente Verità Ultima, ma lui chiaramente non sta facendo quello. Anzi, egli disse, "Nessuna verità è stata insegnata dal Buddha, per nessuno, né ovunque". Tuttavia, è importante chiarire che nulla di ciò che Nagarjuna insegna, nega il condizionale mondo ordinario; è solo il nostro aggrapparci ad esso come ‘assoluto’ che ci causa il problema (MacFarlane,1995; Cheng,1991:42; Abe,1997:99; Schroeder,2000). Comprendere, e vivere in questa realizzazione, è ciò di cui trattano molti dei ‘koan’ Zen, e ciò che è la porta del Dharma alla pratica Zen.  

La dialettica di Nagarjuna va assai avanti nel provare i suoi punti. Una breve introduzione ai suoi pensieri, come questo, fa un po’ di giustizia alle vaste implicazioni della logica di Nagarjuna. Comunque, io spero che qui ci sia abbastanza per guardare agli insegnamenti di Nagarjuna e riferirli alla pratica Zen, perché la mia disputa è che noi dovremmo vedere Nagarjuna meno come filosofo (anche se molti lo vedevano così e certamente i filosofi Occidentali hanno speso considerevole energia per analizzare le sue scritture) e più come insegnante. Nagarjuna fu interessato a rivelare i ‘non-sense’ dei filosofi che cercavano di spiegare la realtà ultima attraverso la dualità, separando il mondo comune da una qualche altra realtà ‘ultima’. Se noi ci avviciniamo alle scritture di Nagarjuna semplicemente come una filosofia, affermiamo che lo Zen e il buddhismo non sono nient’altro che delle filosofie - meri esercizi intellettuali. Ma essi non lo sono. Il buddhismo Zen è un Sentiero per la Liberazione dall’errata comprensione e dalla relativa sofferenza. Nagarjuna non applicò soltanto il suo considerevole intelletto e la sua comprensione profonda della natura delle cose per fare intellettualizzazioni sulla realtà. Nagarjuna invece scrisse il suo Mulamadhyamakakarika perché noi imparassimo a liberarci dalla sofferenza. Lo fece anche per chiarire che i suoi insegnamenti, e gli insegnamenti del Tathagata, non sono che insegnamenti provvisori, non la Verità Ultima. La verità potrà essere trovata nella pratica del buddhismo, non in intellettualizzazioni o nell’aggrapparsi ciecamente agli insegnamenti.  

 

Nagarjuna e lo Zen  

Vedere il Mulamadhyamakakarika come un’opera filosofica sarebbe, nella mia opinione, comprendere in modo sbagliato lo scopo che Nagarjuna ebbe nello scriverlo. A qualsiasi testo ci si dovrebbe avvicinare non solo sulla base di quello che essi stanno trasmettendo, ma anche, e forse più, perché essi in primo luogo furono creati. Nagarjuna creò le sue scritture per la grande compassione di liberare tutti gli esseri dall'ignoranza e quindi dalla sofferenza. Egli non stava certamente cercando di creare un nuovo punto di vista filosofico. Proprio il contrario, invero egli negò esplicitamente la shunyata come una filosofia: “La vacuità dei Conquistatori fu insegnata proprio per eliminare tutte le visioni filosofiche. Perciò, è detto che chiunque fa della "vacuità" una visione filosofica, è davvero irrimediabilmente perso” (citato in Huntington, 1989:3).  

Lo Zen, come il Madhyamika, usò la vacuità, shunyata, come un conveniente metodo (abile-mezzo) per condurre l'ignorante alla saggezza, piuttosto che come una verità. Quando Chao-chou (giapp. Joshu) interrogò il suo insegnante Nan-ch'uan (giapp. Nansen) sulla Via, gli fu detto, "La Via non appartiene al sapere o al non-sapere. Sapere è avere dei concetti; non sapere è essere ignoranti. Se tu veramente realizzi la Via senza dubbi, ciò è come il cielo: un vasto ed enorme spazio vuoto (vacuità). Come puoi dire 'sì' o 'no' ad esso?" (Green,1998:11). Quando il sesto Patriarca, Hui-neng (giapp. Daikan Eno), stava spiegando il Sutra del Loto a Fa-ta, che aveva recitato il sutra per sette anni però senza capirlo, Hui-neng disse, "La mente non ha niente a che fare col pensiero, perché la sua sorgente fondamentale è vuota" (Yampolsky,1967:166). Il Mulamadhyamakakarika (ed il vecchio maestro Chan) sapevano che "La corretta conoscenza non è la comprensione corretta di un qualcosa, ma piuttosto capire che le cose sono vuote" (Cheng, 1991:73). Ma se qualcuno pensa che la vacuità sia un qualche tipo di sostanza o essenza, allora costui non può essere guarito dalla malattia della malcomprensione.  

Lo Zen prese dal Mulamadhyamakakarika anche l’applicazione pratica del principio delle due verità. Secondo questo, la verità è "di carattere pragmatico" (Cheng, 1991:65) e, quindi, la verità è ciò che conduce all’illuminazione e libera dalla sofferenza. Una volta che l'ignoranza e la sofferenza sono state eliminate, non c'è più alcun bisogno della 'verità' ed anche essa poi è abbandonata. Quando Hui-neng colpì Shen-hui con un bastone e gli chiese: "Senti il dolore?", Shen-hui rispose: "Io sento insieme il dolore e il non-dolore" (Cheng, 1991:64). Shen-hui stava così esprimendo le due verità della realtà convenzionale (dolore) e della realtà'ultima (il dolore è vuoto, come lo sono le sensazioni). E’ il mettere insieme l’universale e lo specifico nelle due verità, che permette ad uno di vedere la verità dello Zen. Come dice Robert Aitken, nell'Introduzione al Libro della Serenità (giapp. Shoyo Roku), “Rendere particolare la natura essenziale significa presentare l'armonia dell'universale e dello specifico”…. Per tendere all'armonia, è importante non essere persi nello specifico" (Cleary,1990b:ix). Molti koan Zen permettono allo studente di esplorare la relazione tra lo specifico e l'universale, tra il convenzionale e l'Ultimo, e quindi, nel processo permettono ad uno di essere perso tra i due. Il compito per lo studente Zen, è di trovare una via di uscita di questo folto sottobosco.   

Nagarjuna stava seguendo gli insegnamenti del Buddha per alleviare la sofferenza degli esseri. Tramite la quadruplice negazione della classica logica Indiana, egli stava cercando di eliminare tutte le forme di aggrappamento, incluso l’aggrapparsi alle sue stesse visioni. Perciò, il suo Mulamadhyamakakarika non dovrebbe essere visto come un qualche 'percorso verso la liberazione' ma piuttosto un insegnamento sull'importanza di abbandonare tutte le visioni. La liberazione dalla sofferenza non dipende da qualche sorta di speculazione filosofica. Come John Schroeder (2000) scrive nel suo articolo "Nagarjuna e la Dottrina degli 'Abili-Mezzi'", "shunyata non è affatto una panacea, ma un attacco alla stessa tendenza a voler pensare così". Uno degli insegnamenti più significativi del Buddha fu il non-attaccamento e se uno si attaccasse a qualunque filosofia, perfino al non-attaccamento, al sorgere-dipendente, o alla vacuità, ciò significherebbe andar contro i suoi insegnamenti e vivere nell’ignoranza. Tutti i grandi insegnanti di Zen insegnarono questo usando qualsiasi cosa fosse adatta per le circostanze e per lo studente davanti ad essi. Questo è chiamato upaya, ovvero 'mezzo-abile'.  

Quando Bodhidharma descrisse il suo insegnamento come, "Una speciale trasmissione aldifuori delle scritture; non basata su parole e lettere; ma che, puntando direttamente alla stessa mente dell’uomo, gli permette di vedere nella sua propria vera natura e così raggiungere lo Stato-di-Buddha", (Miura & Sasaki, 1965:54), egli stava indicando questa realtà dello Zen che vede l'ignoranza nell’attaccamento perfino verso gli insegnamenti. Questo non nega il valore degli insegnamenti, ma soltanto l'attaccarsi agli insegnamenti. Perciò poi Lin-chi (giapp. Rinzai) potrà dire, "Non c'è niente che ti appaia davanti, e niente che va perso. Anche se vi fosse qualcosa, sarebbero tutti solo nomi, parole, frasi, medicine per curare le malattie di piccoli bambini e per farli calmare, parole riguardanti mere questioni superficiali". (Watson,1993:72). Per comprendere realmente gli insegnamenti, trasformare veramente l'ignoranza in saggezza, uno deve tralasciare le "mere questioni superficiali", e ciò va fatto tramite la pratica, tramite lo zazen, attraverso il confronto faccia-a-faccia tra insegnante e studente. Soltanto allora sarà superata la non-dualità e l'attaccamento alle visioni errate. Questo è ciò che Nagarjuna sta cercando di mostrare.  

Chang Chung-Yuan (1969) nel suo eccellente libro "Insegnamenti Originali di buddhismo Ch'an" dichiara, "Il Madhyamika sostiene che quando ogni esistenza particolare è ridotta a shunyata, cioè alla vacuità, dal processo dialettico di negazione della negazione ha luogo l’Illuminazione Suprema ed è adempiuto il prajnaparamita, cioè la ‘conoscenza non-duale’."(p.4). Dato che Nagarjuna "insegnò per eliminare tutte le visioni filosofiche" questo sembra essere un improbabile scopo per le opere di Nagarjuna, anche se esso fu preso dalla scuola Sun-lun in Cina, una scuola che presto sparì. Fu Kumarajiva che, alla fine del quarto secolo, portò il Madhyamika in Cina, e Niu-t'ou Fa-yung, che fu uno dei suoi massimi insegnanti. Ma l'insegnante di Lin-chi, Huang-po, (giapp. Obaku) disse di Fa-yung, "lui però non sapeva il segreto di saper fare l'ulteriore salto nell'Ultimo"(Chung-Yuan, 1969:9), negando così che Fa-yung avesse penetrato le profondità del Ch'an, o anche che lo avesse potuto fare attraverso l’argomentazione logica. Eppure Tao-Sheng, un altro dei discepoli di Kumarajiva, da qualcuno è chiamato il "vero fondatore del Ch'an"(Dumoulin, 1994:74). Egli si immerse non solo negli insegnamenti del Madhyamika, ma difese anche l’ 'Illuminazione improvvisa', dichiarando l’Illuminazione graduale come un’"assurdità metafisica" (ibid,p.75). Chung-Yuan(1969:9), indica la fallacia del dipendere da speculazione logica, quando egli afferma, "La mente dell’uomo può essere aperta non dal mero ragionamento o speculazione filosofica, ma dalla consapevole ricerca di ‘shunyata’." Dato che Nagarjuna lottò contro tutte le forme di afferrare, incluso l’aggrapparsi alle sue stesse opere come ‘verità ultima’, l'idea che lo stesso Madhyamika potesse portare alla liberazione o essere qualcos’altro che non un mero upaya, sarebbe un anatema per lui.  

Nagarjuna fu accurato nel negare che lui stesse creando un qualche tipo di filosofia o teoria metafisica, affermando "io non ho alcuna proposta"(4). Schroeder (2000) ci ricorda che il Mulamadhyamakakarika è "un attacco al buddhismo tradizionale" che si stava perdendo nelle argomentazioni filosofiche e stava divenendo attaccato a questi argomenti, dicendo che essi rappresentavano la suprema saggezza del Buddha. Huntington (1989:29) suggerisce che il Mulamadhyamakakarika venga letto come un tentativo integrale di abbandonare l'ossessione per un ‘metafisico assoluto’ che dominava il pensiero religioso e filosofico dell'India post-Upanishadica". Punti di vista diversi possono ben essere relativamente innocui ma sono la spia dell’aggrapparsi alle visioni che costringono all'ignoranza. Nagarjuna stava tentando di liberare le persone da questo afferrarsi ai punti di vista, indicando che tutte le cose, senza eccezione, sono vacuità e questo include la causalità, le Quattro Nobili Verità, il Dharma, e il buddhismo stesso. Questa è la buona medicina di Nagarjuna per superare la malattia degli attaccamenti e visioni erronee.  

Similmente, gli insegnanti Zen cercano di estirpare l'attaccamento degli studenti alla logica digressiva e l'attaccamento alle 'parole e lettere' degli insegnamenti. Come molti altri, anche Yun-Yen T'an-sheng (giapp. Ungan Donjo) disse, "Il punto di base dello studio dello Zen è schiarire la mente e risvegliarsi alla realtà"(Cleary,1990:161). Uno non può "schiarire la mente" se è attaccato ad un insegnamento particolare o ad una visione rigida. Solo disfacendo la tendenza profondamente inveterata a cercare una qualche natura 'essenziale' delle cose e della nostra vita, noi troviamo la liberazione e ci "svegliamo alla realtà". Quest’ ossessiva illusione che abbiamo nel pensare che stiamo trattando con una 'sostanza esistente' è l'ignoranza che tutti noi realmente abbiamo, è la "costruzione delle nostre menti" (Chinn, 2001). Come poter insegnare questo, è un problema per tutti gli insegnanti Zen, e ha portato ad una montagna di parole e lettere, metafore e strutture apparentemente illogiche, che ci arrivano da millenni dalle bocche degli insegnanti.  

Tutti gli insegnamenti Zen possono essere visti come nient’altro che 'upaya', espedienti o abili-mezzi. L'insegnamento buddhista non è nulla più che questo- un metodo di superare l'ignoranza profondamente inveterata. Il Buddha stesso usò per i suoi insegnamenti la metafora di una zattera, qualcosa per poter giungere all'altra sponda (saggezza e libertà dal soffrire) ma che poi dovrebbe essere abbandonata. ‘Upaya’, è costruire una zattera appropriata per una particolare persona, per un particolare 'malattia'. Ma-tsu (giapp. Baso doitsu) espresse questo, quando Yuen-shan Wei-Yen gli chiese di spiegare come lo Zen possa puntare direttamente alla mente umana affinché essa veda la sua vera essenza e realizzi lo Stato-di-Buddha. Ma-tsu rispose: "Qualche volta io permetto che 'essa' alzi le sopracciglia e lampeggi gli occhi; altre volte non permetto che 'essa' alzi le sopracciglia e lampeggi gli occhi. Talvolta alzare le sopracciglia e lampeggiare gli occhi è corretto; altre volte alzare le sopracciglia e lampeggiare gli occhi non è corretto. E tu cosa dici?"(Cleary, 1990:155). Lin-chi poteva "capire bene i suoi studenti", senza preoccuparsi mai "se esteriormente erano comuni mortali o saggi, e senza mai impantanarsi in qualche sorta di natura fondamentale che essi potessero avere" (Watson, 1993:30). Questo intuito gli diede la libertà di trattare ogni malattia come lui la vedeva ed una delle più grandi malattie che egli combattè fu la malattia dell'attaccamento agli insegnamenti. Perciò, egli disse, "Io non ho la minima particella di Dharma da dare a chiunque. Tutto ciò che io ho, è una cura per la malattia, e la libertà dalla schiavitù." (ibid, p.53). Egli inveiva contro i discepoli che "si attaccano alle parole e formano la loro comprensione su quella base" (ibid, p.61). Ovviamente, Nagarjuna approverebbe.

Eppure noi siamo spesso dipendenti da parole e linguaggio (5) per poter capire il significato. Di sicuro la dialettica di Nagarjuna è dipendente dalle parole. Lui con le parole costruisce una spada nel tentativo di renderci liberi dai limiti dei nostri pensieri e credenze. Lo "Shobogenzo" di Dogen, similmente, spesso fa affidamento su parole-dramma e linguaggio metaforico per insegnare la verità del non-attaccamento alle stesse parole che vengono usate. Gli antichi maestri, quando scoprirono che le parole portavano all'attaccaemento, e che esse stavano diventando più importanti dell'esperienza che essi tentavano di far arrivare, ricorsero a dare colpi, o a emettere grida, o ad azioni dirette, come Chao-chou che si mise un sandalo in testa, o Kuei-shan (giapp. Isan Reiyu) che dette un calcio alla brocca d’acqua (ambedue tratti dal Wu-men Kuan; giapp. Mumonkan). Proprio perché la realtà 'convenzionale' non può essere separata dalla realtà 'ultima', e così il linguaggio non può essere separato dall'esperienza del nostro mondo. Come indica Chinn (2001), "l'esistenza del mondo è dipendente dal linguaggio proprio come il linguaggio che noi usiamo è dipendente dal mondo". E continua, "L'implicazione del pratityasamutpada

è che il nostro linguaggio, come qualsiasi cosa nel mondo, è plasmato dall'ambiente in cui viviamo, e non può essere 'fuori dal contatto con la realtà' non più di quanto lo possiamo noi". Nagarjuna, come tutti gli insegnanti Zen, ci riporta in questo mondo reale, mondano e umano, che non è null’altro che il nirvana, tramite il suo uso del linguaggio. Noi viviamo in questo mondo samsarico, fatto di sofferenza, di falsità, di ignoranza, e lo Zen non lo rifiuta né tenta di sfuggirlo. Quando a Chao Chu fu chiesto, "Di giorno c’è la luce del sole, di notte c'è la luce delle fiaccole. Qual è la 'luce divina'?"; Chao Chu rispose, "Luce del sole, luce delle fiaccole" (Green,1998:99). Il divino ed il mondano sono una e la stessa cosa. Lo Zen non tenta di trascendere il linguaggio in quanto tale, ma di "ri-orientarlo al suo interno" (Loy, 1999) per farlo divenire scorrevole nell’espressione senza dualismi o attaccamento alle parole. I koan di Gonsen sono disegnati per studiare e investigare il significato delle parole, per penetrare "nel significato intimo di parole e frasi" (Miura & Sasaki,1965:52). Perciò, Dogen nel Sansuikyo (Sutra delle Montagne e acqua), grida "Com’è triste che essi non sappiano frasi di pensiero logico, e che non penetrano il pensiero logico nelle frasi e nelle storie" (Tanahashi,1988:100-101). Le parole possono liberare oppure imprigionare. Quando a Chao-chou fu chiesto "Qual’è l’unica parola?", lui replicò, "Se vi attaccate anche ad una sola parola, ciò farà di voi dei vecchi uomini" (Green,1998:20). Le parole di Nagarjuna furono progettate per liberare, ma non tutti quelli che le leggono possono penetrare il loro significato sottile o il loro mistero. Purtroppo le parole di Nagarjuna, come le parole dei maestri Zen, sono spesso prese come una Verità Ultima invece che come ‘upaya’.  

Nagarjuna espose gli insegnamenti del Buddha attraverso la logica dell'India del suo tempo. Attraverso il processo della ‘reductio ad absurdum’ egli negò tutte le verità, senza voler affermare alcuna verità. Affermando che tutte le cose sono vuote, lui fu in grado di negare l’esistenza e la non-esistenza, senza alcuna contraddizione. Chi-tsang, il grande maestro Sun-lun, scrisse, "In origine, non c'era nulla da affermare ed ora non c'è un qualcosa da negare" (citato in Cheng,1991:47). L'influenza del pensiero del Madhyamika sullo Zen diviene ovvia quando uno ricorda che il sesto Patriarca, Hui-neng, scrisse:  

“Non c'è alcun albero della Bodhi,  

 E neppure uno specchio brillante. 

 Siccome tutte le cose sono vuote,  

                             Dove mai può posarsi la polvere?”   (Suzuki, 1956:157)  

Lo Zen evita ogni speculazione filosofica e assai sovente esso non è che una ‘applicazione pratica’ di pratityasamutpada, shunyata, e delle due verità (Cheng,1991:56). E’ quest’applicazione pratica che può fare apparire illogico o irrazionale lo Zen al non iniziato. Dogen inveiva contro questa categorizzazione dello Zen come illogico, sferzando che "Le storie illogiche menzionate da voi individui dalla testa rasata, sono illogiche solamente per voi, non per i buddha antenati" (Tanahashi,1988:100). L'adozione, da parte dello Zen, di ‘shunyata’ come uno strumento soteriologico, rifiuta ogni speculazione intellettuale e mette l'enfasi sugli aspetti pratici del realizzare l’Illuminazione e la liberazione. All’inizio, questo sembra piuttosto diverso dall'approccio dialettico di Nagarjuna ed è infatti differente. Ma la differenza sta solo  nella metodologia, nel mezzo-abile (upaya), non nello scopo. Nagarjuna ed i vecchi maestri Zen, erano diretti verso la stessa mèta: dare un metodo agli ignoranti ed ai sofferenti di risvegliarsi alla verità del buddhismo. I metodi potrebbero essere stati diversi, ma gli scopi erano identici. Il buddhismo Zen prese la dialettica di Nagarjuna e la trasformò in un insegnamento forte e dinamico che ha poi portato molti individui alla verità ed alla fine della sofferenza.  

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

NOTE:

1) ovvero, McFarlane, (1995): "Nagarjuna…è sempre stato considerato il più grande filosofo buddhista"; Garfield e Priest (2003): "Nagarjuna è sicuramente uno dei filosofi più difficili da interpretare in ogni tradizione"; (Loy, 1999): "Certamente Nagarjuna è il filosofo dei filosofi"; ed anche Schroeder (2000) che vede l’opera di Nagarjuna come 'mezzo-abile' (upaya), comincia il suo saggio ‘Nagarjuna e la Dottrina degli 'Abili-Mezzi'’, chiamandolo "l'importante filosofo Mahayana".

2) Non tutti sono d'accordo. Per esempio, vedi Hayes, 2003; Sion, (n.d.)

3) Vedi Schroeder, su questo tema.

4) Hayes vede questo termine, "pratijina", con il significato di "uno che disputa con qualcun’ altro non in modo competitivo" così da non danneggiare "la potenziale bellezza della vita attraverso una inutile disputa"; anziché come "chi non ha alcuna proposta", cioè, "io non sto proponendo niente."  

5) vedi Wright, su questo tema  

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------  

Bibliografia  

Abe, Masao (1997) :Zen and Comparative Studies, ed. Steven Heine, University of Hawai’i Press, Honolulu

Burton, David (1999): Emptiness Appraised: a critical study of Nagarjunaj’s philosophy, Curzon Press, Richmond

Cheng, Hsueh-li (1991): Empty Logic: Madhyamika Buddhism from Chinese Sources, Motilal Banarsidass Publishers, Pvt. Ltd, Delhi

Chinn, Ewing (2001): Nagarjuna’s Fundamental Doctrine of Pratityasamutpada, Philosophy East and West, Jan., Vol. 51, Issue 1, p.54, 19pp

Cleary, Thomas (1990) 16 Transmission of Light: Zen in the Art of Enlightenment by Zen Master Keizan [Denkoroku], North Point Press, San Francisco; (1990b)  Book of Serenity, Lindisfarne Press, Hudson

Dumoulin, Heinrich (1994): Zen Buddhism: A History, Volume 1: India and China, translated by James W. Heisig & Paul Knitter, Macmillan Library Reference, New York

Garfield, Jay L. (2001): Rjuna’s Theory of Causality: Implications Sacred and Profane, Philosophy East and West, Oct., Vol. 51, Issue 4; _ (1994) Dependent Arising and the Emptiness of Emptiness: Why Did Nagarjuna Start With Causation?, Philosophy East and West, Apr., Vol. 44, Issue 2, p. 219, pp32

Garfield, J. L. & Priest, G. (2003): Nagarjuna and the Limits of Thought, Philosophy East and West, Jan., Vol. 53, Issue 1, p. 1, pp21

Green, James (1998): The Recorded Sayings of Zen Master Joshu, Shambhala, Boston

Hayes, Richard P. (2003): Nagarjuna: Master of Paradox, Mystic or Perpetrator of Fallacies? paper prepared for Philosophy Dept., Smith College

Huntington, Jr., C. W. (1989): The Emptiness of Emptiness: An Introduction to Early Indian Madhyamika with Geshe Namgyal Wangchen, University of Hawai’i Press, Honolulu

Kalupahana, David J. (2004 [1986]): Mulamadhyamakakarika of Nagarjuna: the philosophy of the middle way, (reprint) Motilal Banarsidass Publishers, Delhi

Loy, David R. (1999): Language Against Its Own Mystifications: Deconstruction in Nagarjuna and Dogen, Philosophy East and West, July, Vol. 49, Issue 3, p.245, 16pp

Mabbett, Ian (1998): The Problem of the Historical Nagarjuna Revisited, The Journal of the American Oriental Society, July, Vol. 118, No. 3, p.332

McFarlane, Thomas J. (1995): The Meaning of Sunyata in Nagarjuna’s Philosophy,

Miura, Isshu, Sasaki, Ruth Fuller (1965): The Zen Koan, Harcourt Brace & Co., Orlando

Schroeder, John (2000): Nagarjuna and the Doctrine of “Skillful Means” Philosophy East and West, October, Vol. 50, Issue 4,

Sion, Avi (n.d.): Buddhist Illogic: a critical analysis of Nagarjuna’s arguments.

Suzuki, D.T. (1956): Zen Buddhism: Selected Writings of D. T. Suzuki, ed. William Barrett, Doubleday Anchor Books, Garden City

Tanahashi, K. ed., (1988): Moon in a Dewdrop: Writings of Zen Master Dogen, Element Books, Longmead

Tharchin, Sera sMad Geshe Lobsang (n.d.): A Biography of Acarya Nagarjuna,

Watson, Burton (1993): The Zen Teachings of Master Lin-Chi, Shambhala, Boston & London

Winters, Jonah (1994): Thinking in Buddhism: Nagarjuna’s Middle Way, (unpublished thesis)

Wright, Dale S (1992): ReThinking Transcendence: The Role of Language in Zen Experience, Philosophy East and West, January, Vol 42, Issue 1

Yampolsky, Philip, B. (1967): The Platform Sutra of the Sixth Patriarch: The Text of the Tun-Hung Manuscript, Columbia University Press, New York

This work is licensed under a Creative Commons License (http://www.thezensite.com/MainPages/nagarjuna.html)

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°  

 

         Traduzione Italiana di Aliberth Meng, per il Centro Nirvana, febbraio 2008 - senza scopi di lucro.