DHARMA, NATURA e SENSI –
di Alan Watts
( tratto da ‘Nature, Man and Woman’)
Un re dell'antica India, mal tollerando che la terra fosse così dura per i piedi umani, propose di ricoprire di morbide pelli tutto il territorio del suo regno. Ma uno dei suoi saggi gli fece notare che avrebbe raggiunto lo stesso risultato molto più semplicemente prendendo una sola pelle e tagliandone piccoli pezzi per poi applicarli alle piante dei piedi. Ecco come nacquero i primi sandali. Per un indù la morale di questa storia non consiste nell'evidente elogio dell'inventiva e della tecnica. Si tratta piuttosto di una parabola su due diversi atteggiamenti nei confronti del mondo, che corrispondono approssimativamente alla cultura tradizio-nale e a quella "progressista". In questo caso particolare, poi, la soluzione tecno-logicamente più avanzata rappresenta anche la cultura tradizionale, per la quale l'uomo deve cercare di adattarsi alla natura e non adattare la natura a sé. Ecco perché la scienza e la tecnologia, così come le conosciamo, non sono nate in Asia.
Generalmente gli occidentali interpretano l'indifferenza asiatica per il controllo tecnologico sulla natura o come indolenza tropicale o come mancanza di una coscienza sociale. È facile credere che le religioni intente a elaborare soluzioni interiori e non esteriori alla sofferenza incoraggino l'insensibilità nei confronti della fame, l'ingiustizia e le malattie. È facile dire che in questo atteggiamento si cela un metodo aristocratico per sfruttare i poveri. Ma, forse, non è altrettanto facile accorgersi che i poveri vengono egualmente sfruttati anche quando li si persuade a desiderare un numero sempre maggiore di oggetti, e quando li si induce a con-xfondere la felicità con l'accumulo progressivo e illimitato. Il potere di mutare la natura o di fare miracoli può far dimenticare la verità che la sofferenza è relativa, e il fatto che la natura aborrisca il vuoto è in primo luogo una verità generatrice di problemi.
Il proposito occidentale di cambiare il volto della natura attraverso la scienza e la tecnologia trova le sue origini nella cosmologia politica del cristianesimo. Gli apologeti cristiani hanno senz'altro ragione quando fanno rilevare che la scienza si è sviluppata prevalentemente nel contesto della tradizione ebraico-cristiana, nonostante i conflitti poi sorti tra le due. Ma il conflitto tra cristianesimo e scienza può sorgere per la semplice ragione che entrambi parlano lo stesso linguaggio e si occupano dello stesso universo - l'universo dei fatti. La pretesa del cristianesimo di essere unico è legata alla sua insistenza sulla veridicità di alcuni fatti storici. Per altre tradizioni spirituali i fatti storici hanno minore importanza, ma per il cristia-nesimo è fondamentale il fatto che Gesù Cristo sia a tutti gli effetti fisicamente risorto dai morti e che, dal punto di vista biologico, sia nato da una vergine, e che Dio stesso sia dotato della medesima realtà oggettiva e indiscutibile che di solito viene associata ai "nudi" fatti. Il cristiano meno disposto a insistere su questo aspetto insisterà meno sull'unicità della sua religione. Comunque, la tendenza più attuale della teologia - sia essa cattolica che protestante - è di tornare ad enfa-tizzare la storicità della narrazione biblica.
Anche tra i teologi più liberali, quelli che nutrono qualche dubbio sui miracoli, que-sta tendenza assume un aspetto curioso, per cui si sostiene che lo stile narrativo del cristianesimo, per quanto astorico da alcuni punti di vista, rivela in ogni caso che la storia è il dispiegamento dei fini di Dio. Il cristianesimo è unico anche perché i fatti storici su cui si fonda sono miracolosi, e ciò suggerisce una mentalità per cui hanno un'importanza enorme il mondo fisico e le sue trasformazioni, dal momento che "se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede"(1). Anche altre tradizioni religiose contengono un gran numero di elementi miracolosi i quali, tuttavia, vengono trattati come segnali incidentali, che confermano l'auto-rità divina di chi li compie, senza però essere mai al centro della questione. Nel cristianesimo, invece, nulla è più importante della sottomissione della natura ai comandi di Cristo, una sottomissione che culmina nella sua vittoria sul più crudele e indubitabile di tutti gli eventi naturali - la morte stessa.
Ecco che la cultura occidentale di oggi, per quanto post cristiana e secolare possa sembrare, si concentra ancora unicamente sui miracoli, ovvero sulla trasforma-zione di quel mondo che viene percepito come oggettivo ed esterno all'Io. Con-temporaneamente, un imperialismo culturale senza pari ha preso il posto del pro-selitismo religioso, e il progresso storico diretto alla realizzazione del Regno di Dio è stato individuato nell'espansione del potere tecnologico, ovvero in una crescente "spiritualizzazione" del mondo fisico ottenuta attraverso l'abolizione delle sue limitazioni oggettive. Tutto ciò ha le sue radici nella cosmologia politica della tradizione ebraico-cristiana che si è a lungo identificata con la cosmologia della scienza occidentale - un'identificazione che per molti versi continua tuttora. Un universo politico, come abbiamo visto, è un universo in cui cose, fatti ed eventi distinti tra loro vengono governati mediante la forza della legge. Per quanto la concezione di "legge di natura" possa essersi nel frattempo profondamente modi-ficata, non c'è dubbio che l'idea stessa di una legge naturale sorse in origine proprio dalla supposizione che il mondo obbedisse ai comandamenti di un sovrano concepito secondo l'immagine di un re terreno.
Eppure l'origine dell'idea di legge naturale non viene esaurientemente spiegata limitandosi a ipotizzare una primitiva analogia tra il mondo e l'ordinamento monarchico. È necessario anche definire uno stile di pensiero fuori del quale un'analogia simile non avrebbe probabilmente mai potuto generarsi. Per quel che se ne può arguire, si tratta di un modo di pensare che scaturisce da una con-fusione casuale che può facilmente verificarsi nello sviluppo del linguaggio in particolare e del pensiero astratto in generale. Si ritiene comunemente che la mente possa pensare a una sola cosa alla volta, e il linguaggio, in quanto è lo strumento principale del pensiero, conferma questa impressione, dato che consiste in una sequenza lineare di segni grafici o sonori che si succedono uno alla volta. Accettando quest'opinione così diffusa si può probabilmente sostenere che il pensiero conscio consiste in un'attenzione focalizzata, in una concentrazione della nostra coscienza, piuttosto difficile da ottenere quando il campo di attenzione è troppo vasto. Quindi, attenzione richiede selezione. Il campo della coscienza deve venir distinto in unità relativamente semplici, strutturate in modo che possano venir colte in un solo colpo d'occhio. Ciò può essere fatto sia scom-ponendo l'intero campo della percezione in elementi della semplicità richiesta, sia evidenziando e vagliando alcuni dettagli dell'intero e riducendolo così a una forma singola e comprensibile. E, in effetti, noi vediamo e sentiamo una quantità infini-tamente più grande di cose di quante non ne cogliamo con l'attenzione o con il pensiero e, sebbene siamo pur sempre in grado di rispondere e di far fronte con straordinaria intelligenza alla maggior parte delle cose che non notiamo, ci sen-tiamo molto più a nostro agio in una situazione che possiamo ricondurre all'interno di un'analisi consapevole.
Ora, le unità semplificate di attenzione che in questo modo abbiamo selezionato dal campo totale della coscienza sono ciò che comunemente chiamiamo cose, eventi, fatti. Di solito non pensiamo in questi termini perché ingenuamente riteniamo che le cose siano la prima realtà che percepiamo, quando ancora non abbiamo focalizzato la nostra attenzione conscia. È evidente, però, che l'occhio come tale non vede le cose, ma percepisce l'intero campo della sua visuale, con tutti i suoi infiniti dettagli. Le cose appaiono nella mente solo quando, attraverso l'attenzione consapevole, il campo della visuale è stato scomposto in unità più facilmente pensabili. Inoltre tendiamo a considerare quest'atto come una scoperta del mondo esterno. Studiando il campo visivo o quello tattile, l'intelligenza arriva alla conclusione che ci sono effettivamente degli oggetti nel mondo esterno - una conclusione che sembra verificata dal fatto che su di essi si può agire. In questo modo, considerando il mondo sensibile con l'aiuto di questi "appigli", di questi "barlumi" della mente, siamo in grado di predirne il comportamento, e riusciamo a trovare il modo di trattare con esso.
Eppure, la conclusione di questo ragionamento non è così immediata. Sì, siamo capaci di predire gli eventi e di controllare il mondo esterno scomponendo le distanze in metri e centimetri, i pesi in chili e in grammi e i movimenti in minuti e secondi. Ma crediamo davvero che dodici centimetri di legno siano dodici pezzetti distinti di legno? Certo che no. Sappiamo che "scomporre" il legno in centimetri o in grammi è un'azione astratta, non concreta. Tuttavia non è così semplice com-prendere che anche l'atto di scomporre il campo della coscienza in cose e avvenimenti è un'azione astratta, e che le cose sono l'unità di misura del pensiero, proprio come i grammi sono l'unità di misura del peso. Ma quando comprendiamo che ogni singola cosa potrebbe, attraverso l'analisi, essere scomposta in un nume-ro illimitato di elementi oppure, a sua volta, entrare a far parte come elemento di una cosa più grande, ecco che tutto dovrebbe cominciare a diventare più chiaro.
La difficoltà reale nel comprendere questa realtà sta nel fatto che, laddove i centimetri sono trattini su una riga che non compaiono sull'asse di legno che stiamo misurando, la distinzione delle cose sembra seguire divisioni e confini effettivamente dati in natura. Ad esempio, quella cosa chiamata "corpo umano" è separata dalle altre cose del suo ambiente da una superficie chiaramente distinguibile e chiamata "pelle". In realtà la pelle divide il corpo dal resto del mondo nel pensiero ma non in natura. In natura, la pelle è molto più un collante che un divisorio, dato che è il ponte attraverso il quale gli organi interni entrano in contatto con l'aria, il calore e la luce.
Proprio perché l'attenzione ottenuta mediante la concentrazione è esclusiva, selettiva e distintiva, ad essa risulta molto più semplice notare le differenze che le unità. L'attenzione visiva individua le cose come figure su uno sfondo contra-stante, e il nostro pensiero enfatizza questa differenza tra la figura e lo sfondo. Il contorno della figura, che è poi il contorno dello sfondo, divide l'una dall'altro. Eppure non riusciamo a notare con eguale immediatezza l'unione o l'inseparabilità della figura e del suo sfondo, del solido e dello spazio intorno. Ciò diventa evidente quando ci chiediamo che cosa sarebbe della figura o del solido senza lo sfondo o lo spazio circostante. Viceversa, potremmo chiederci che cosa sarebbe dello spazio se non fosse occupato da nessun solido. La risposta è sicuramente che non ci sarebbe più alcuno spazio, dato che lo spazio è una "funzione di con-torno" e in quel caso non ci sarebbe nulla da circondare. È importante notare che questa mutua inseparabilità di figura e sfondo non è soltanto logica e gramma-ticale, ma appartiene anche alla realtà sensoriale(2).
La figura e lo sfondo, quindi, costituiscono una relazione - una relazione inscin-dibile di unità nella diversità. Ma quando gli esseri umani si affidano esclusiva-mente all'attenzione che deriva dalla concentrazione, con un tipo di pensiero che è analitico, distintivo e selettivo, cessano di notare la mutualità delle "cose" contrastanti e l'"identità" delle differenze. Non diversamente, quando ci interro-ghiamo su ciò che intendiamo veramente con un fatto o una cosa, comprendiamo che, poiché i fatti sono divisioni o selezioni di esperienza, non possono mai essere meno di due! Un fatto o una cosa singola non può esistere di per sé, dato che sarebbe infinita - priva di limiti, priva di ogni riferimento. Ora questa dualità e questa essenziale molteplicità di fatti dovrebbe costituire la prova più evidente della loro interdipendenza e inseparabilità.
Da ciò deriva che le realtà fondamentali della natura non sono, come il pensiero le va costruendo, entità separate. Il mondo non è una collezione di oggetti assem-blati insieme in modo tale da "stabilire" una relazione tra di loro. Le realtà fonda-mentali sono le relazioni o i "campi di forza" di cui i fatti sono i termini o i limiti - un po' come il caldo e il freddo sono i termini superiori e inferiori, i limiti del campo della temperatura, e il cranio e i piedi sono i limiti superiore e inferiore del corpo. Lo scalpo e le piante dei piedi sono evidentemente superfici del corpo e sebbene una persona possa venir privata dello scalpo, non si dà mai un scalpo in sé e per sé, che sia venuto all'essere per conto suo. Ma, a parte l'uso di analogie piuttosto insoddisfacenti, le parole e i pensieri non riescono ad abbracciare questo mondo. Porre le "relazioni" piuttosto che le "cose" come costituenti base della natura sembra dar rilievo a entità eccessivamente tenui e astratte - a meno che non si giunga a intuire che sono proprio le relazioni ciò che effettivamente percepiamo e sentiamo. Non conosciamo nulla di più concreto.
Ma l'eventualità che sorga in noi questa intuizione diventa ancor più remota se procediamo dall'atto primario dell'astrazione, l'attenzione selettiva, a quello secon-dario, ovvero quello di attribuire significato ai pensieri attraverso le parole. Dato che le parole, oltre che nomi, sono strumenti classificatori, confermeranno l'impressione che il mondo non sia altro che una molteplicità disgregata. Quando diciamo che cosa è qualcosa, lo identifichiamo con una classe. Non c'è altro modo di dire che cosa è questo o quello, se non classificandolo. Il che significa sem-plicemente distinguerlo da tutto il resto, accentuame le caratteristiche diversi-ficanti considerandole più importanti delle altre. In questo modo si comincia a percepire l'identità come una questione di separazione. La mia identità consiste, ad esempio, in primo luogo nel mio ruolo e nella mia classe di appartenenza, e in secondo luogo nelle modalità particolari in cui differisco dagli altri membri della mia classe. Se, dunque, mi identifico facendo ricorso alle mie differenze, i miei confini, le mie divisioni da tutto il resto, faccio esperienza del mio essere attraverso un senso di separazione e, di conseguenza, non riesco a notare l'unità concreta che sottende a questi elementi di differenziazione, selezionati e astratti come sono, né a identificarmi con essa. Gli elementi di differenza, quindi, vengono percepiti come forme di separazione e di dissociazione e non come rapporti. In questa situazione, sento il mondo come qualcosa con cui formare una relazione piuttosto che come qualcosa con cui ho già una relazione.
Una cosmologia politica presuppone, quindi, questa modalità dissociata di espe-rienza del mondo. Dio non è, come nella cosmologia indù, l'identità che sottende alle differenze, ma una delle differenze - per quanto predominante. L’uomo si relaziona a Dio come a un'altra persona distinta, come un suddito a un re o come un figlio al padre. Sin dal principio e dal nulla, l'individuo è creato separato e deve raggiungere (o deve essere condotto) alla conformità con il divino volere. Inoltre, poiché il mondo consiste di cose, e poiché le cose vengono definite attraverso le loro classi, e poiché le classi vengono ordinate e identificate attraverso le parole, risulta che ciò che effettivamente sottende al mondo è il logos, ovvero il pensiero-e-parola. "E Dio disse 'Sia fatta la luce'." Attraverso la parola di Dio i cieli furono creati, e tutto ciò che è dentro di loro fu fatto mediante il soffio del suo alito. Quando non si ammette che sia il pensiero a ordinare il mondo, si suppone almeno che il pensiero scopra un ordine che è già in atto - un ordine, per altro, che sia comunque esprimibile nei termini di parola e pensiero.
Ecco qui la genesi di due delle più importanti premesse storiche della scienza occidentale. La prima è che c'è una legge della natura, un ordine di cose e di eventi che aspetta di essere scoperto da noi. Quest'ordine può essere formulato attraverso il pensiero, ovvero in parole e mediante una notazione di qualche genere. La seconda premessa è che la legge della natura è universale, un'idea che deriva dal monoteismo, dall'idea di un solo Dio che governi l'universo intero.
La scienza, inoltre, è il risultato ultimo di tutto il metodo che abbiamo fin qui discusso. È una coscienza della natura basata su un modo selettivo, analitico e astratto di concentrare la propria attenzione. Comprende il mondo riducendolo a elementi intelligibili minutissimi. Lo comprende attraverso un "calcolo universale", ovvero traducendo la mancanza di forma della natura in strutture costituite da unità formate, semplici e maneggevoli, così come un geometra misura l'area di un terreno dalla forma irregolare scomponendone la superficie il più minuziosamente possibile in quella di figure astratte come triangoli, quadrati, cerchi. Con questo metodo tutte le stranezze e le irregolarità vengono progressivamente eliminate fino a scoprire che Dio stesso è un supremo geometra. Diciamo: "È stupefacente che le strutture naturali si uniformino con tanta precisione alle leggi della geometria!" - dimenticando che questa uniformazione è ottenuta trascurando del tutto le irregolarità. Ma per fare ciò abbiamo dovuto ricorrere all'analisi, alla suddivisione del mondo in parti sempre più microscopiche, sempre più prossime alla suprema semplicità del punto matematico.
Un altro modo per illustrare questo sistema di "regolarizzazione" del mondo è il metodo della matrice. Sovrapponiamo un foglio trasparente di carta millimetrata a
un'immagine naturale complessa. L'immagine "informe" può ora venir descritta con una certa precisione attraverso lo schema altamente formale dei quadretti. Visto attraverso questo schermo, anche l'itinerario di un oggètto che si muova a caso potrà venire schematizzato: quanti quadretti a sinistra, quanti a destra, quanti in alto, quanti in basso. Ridotti a questi termini possiamo, con una media statistica, predire la direzione approssimativa della prossima mossa - e dunque supporre che quell'oggetto stia obbedendo a leggi statistiche. Naturalmente, l'oggetto in questione non fa nulla del genere. Le leggi statistiche vengono rispettate solo dal nostro modello normalizzato del comportamento dell'oggetto.
Nel XX° secolo, gli scienziati sono diventati sempre più consapevoli che le leggi della natura non sono state scoperte ma inventate, e l'intera concezione secondo cui la natura obbedirebbe o seguirebbe uno schema o un ordine innato è stata soppiantata dall'idea che questi schemi non sono determinativi ma descrittivi. Si tratta di una rivoluzione fondamentale nella filosofia della scienza che non si è diffusa tra il grande pubblico ma ha già influenzato, anche se solo limitatamente, alcune scienze particolari. Prima lo scienziato scopriva le leggi di Dio, confidando che i meccanismi del mondo potessero venir riformulati in termini verbali, di ragione, e ridotti a una legge di riferimento. Quando poi si accorse che l'"ipotesi Dio" non introduceva alcuna differenza nella precisione delle sue previsioni, lo scienziato cominciò a escluderlo e a considerare il mondo una macchina, qualcosa che segue delle leggi senza un legislatore. Infine anche l'ipotesi di leggi preesi-stenti e determinative si è rivelata superflua. Le leggi sono diventate semplice-mente strumenti umani, come un coltello mediante il quale la natura può venir smembrata in porzioni più digeribili.
Ci sono segnali, tuttavia, che questa non sia che una fase di un cambiamento ancor più radicale nel punto di vista della scienza. Potremmo chiederci, infatti, perché mai il metodo scientifico dovrebbe confinarsi nella modalità analitica e astraente per studiare la natura. Fino a non molto tempo fa, la preoccupazione principale di pressoché tutte le discipline scientifiche era la classificazione - un'identificazione minuziosa, rigorosa ed esaustiva delle specie cui ricondurre uccelli e pesci, elementi chimici e bacilli, organi e malattie, cristalli e stelle. Naturalmente questo tipo di approccio ha incoraggiato una visione della natura atomistica e disgregata, i cui svantaggi hanno cominciato a comparire quando, in base a essa, la scienza è diventata tecnologia e gli uomini hanno cominciato a estendere il loro controllo del mondo. È stato allora che gli uomini hanno cominciato a capire che non si poteva controllare efficacemente la natura con la stessa metodologia con cui era stata studiata, ovvero con l'atomizzazione. La natura è nel suo complesso relazionale, e interferire in un punto di essa innesca una catena di conseguenze interminabili e imprevedibili. Lo studio analitico di queste interrelazioni produce un'accumulazione sempre crescente di informazioni estremamente complesse, tanto vasta e ramificata da risultare ingombrante e inutilizzabile per una serie di scopi pratici, specialmente quando è necessario prendere decisioni rapide.
Di conseguenza, il progresso della tecnologia comincia a sortire effetti contrari a quelli preventivati. Invece di semplificare i compiti umani, li rende più complicati. Nessuno osa più muoversi senza prima aver consultato un esperto. L'esperto, dal canto suo, non può sperare di padroneggiare più di un settore limitato nella mole in costante espansione delle informazioni. Ma, anche se il sapere scientifico formale si è settorializzato, il mondo no, non si è settorializzato affatto, per cui la padronanza di una singola area di conoscenze è spesso tanto frustrante quanto un armadio pieno solo di scarpe sinistre. E il problema non è soltanto di avere a che fare con questioni "scientifiche" come ad esempio l'endocrinologia, la chimica del terreno, o la pioggia radioattiva. In una società i cui mezzi di produzione sono altamente tecnologici, le questioni più ordinarie di politica, economia e legge si complicano a tal punto che l'individuo se ne sente paralizzato. La crescita della burocrazia e il totalitarismo, in effetti, dipendono molto meno da oscure, sinistre influenze, che non dai semplici meccanismi di controllo in un sistema di interrelazioni complicato fino all'impossibile.
Eppure, se le cose stessero solo così, l'intera conoscenza scientifica avrebbe già raggiunto il punto di autostrangolamento. Se ciò è avvenuto solo in parte, si deve al fatto che gli scienziati hanno iniziato a comprendere le interrelazioni con altri mezzi, diversi dall'analisi e dal pensiero progressivo. In pratica lo scienziato si affida sempre più all'intuizione - a un processo intellettivo le cui fasi sono in gran parte inconsce, e che non sembra affatto funzionare secondo lo schema peno-samente lineare del pensiero che affronta una cosa per volta, ma che, anzi, riesce ad afferrare simultaneamente interi campi di dettagli interrelati. Del resto, l'idea che la condizione di interrelazionalità della natura sia caratterizzata da un'enorme complessità e da un grandissimo numero di dettagli è il risultato di una "tra-duzione" della natura nella modalità lineare del pensiero. Ma, nonostante il suo rigore e i suoi iniziali successi, si tratta di una modalità dell'intelligenza estrema-mente goffa. Come si rivela operazione estremamente difficile bere dell'acqua utilizzando una forchetta invece di un bicchiere, così la complessità della natura non è un dato insito in essa, ma una conseguenza dello strumento che utilizziamo per trattarla. Non c'è nulla di complicato nel camminare, nel respirare, nella circo-lazione del sangue. Gli organismi viventi hanno sviluppato queste funzioni senza starci a pensare affatto. La circolazione del sangue diventa complessa soltanto quando la si definisce in termini fisiologici, ovvero, quando viene compresa in un modello concettuale costruito con quel tipo di unità semplici che è richiesto dall'attenzione conscia. Il mondo naturale sembra allora una meraviglia di com-plessità, che soltanto un'intelligenza estremamente complicata ha potuto creare e governare. Ma questo avviene soltanto perché ce lo siamo rappresentati secondo la goffa "notazione" del pensiero. Non diversamente, le moltiplicazioni e le divi-sioni sono operazioni di una complessità disarmante quando le si affronti con i numerali egizi o romani, ma diventano relativamente semplici con i numeri arabi, e con un abaco sono ancora più semplici. Comprendere la natura con gli strumenti del pensiero è come cercare di individuare i contorni di un'immensa grotta con l'aiuto di una piccola torcia dotata di una luce intensa ma estremamente sottile. Bisogna ricordarsi l'itinerario della luce e le zone su cui è passata, e da questi dati l'aspetto complessivo della grotta può essere ricostruito solo a fatica.
In pratica, dunque, lo scienziato deve necessariamente usare la sua intuizione per afferrare la natura nel suo intero, sebbene poi non se ne fidi. Deve continuamente fermarsi a controllare la sua intuizione con il sottile raggio di luce del pensiero analitico, poiché l'intuizione può facilmente errare, proprio come l'"intelligenza organica" che regola il corpo senza ricorrere al pensiero non è sempre immune da "errori" - quali le deformità congenite o il cancro - e richiede un controllo sugli istinti che, in alcune circostanze, portano direttamente alla distruzione. Allo stesso modo è sicuramente molto naturale e "sano" volere la riproduzione della specie, ma non ci si può fidare totalmente dell'istinto riproduttivo se si vuole anche tenere sotto controllo l'ambiente e limitarlo quando le risorse di cibo sono insufficienti. Ecco perché l'unico modo di correggere gli errori dell'intuizione o dell'intelligenza inconscia sembra essere il faticoso lavoro di analisi e di sperimentazione. Ma ciò implica un'interferenza con l'ordine naturale che si consuma sin dall'origine, e la saggezza di questa interferenza non è valutabile finché la sua opera non sia fin troppo progredita!
Di conseguenza, lo scienziato dovrebbe chiedersi se gli "errori" della natura sono veramente errori. Non potrebbe essere, ad esempio, che una specie si distrugga nell'interesse dell'ordine naturale nel suo complesso - nel senso che, se non lo facesse, la vita diventerebbe intollerabile per tutti, compresa quella specie stessa? Forse che gli "errori" delle malattie congenite, delle epidemie o delle pestilenze, non sono necessari per mantenere un equilibrio vitale? Non è che la correzione di questi errori creerà in futuro problemi ben più gravi di quelli che risolve? E, a sua volta, la soluzione di quei problemi non creerà difficoltà ancora più inimmaginabili? Non è forse un bene che l'intelligenza inconscia cada così frequentemente in errore, poiché altrimenti la specie avrebbe troppo successo e, di nuovo, comprometterebbe l'equilibrio generale?
D'altro canto, ci si potrà chiedere se la nascita dell'analisi consapevole non sia in sé un atto dell'intelligenza inconscia. Forse che l'interferenza consapevole con la natura non è anch'essa del tutto naturale, nel senso che continua a operare nell'interesse dell'ordine naturale nel suo complesso, anche se quest'ordine potrebbe prevedere l'eliminazione dell'uomo? O forse non è che, spingendo l'analisi cosciente fino ai suoi limiti estremi, potremmo scoprire strumenti nuovi per permettere all'intelligenza inconscia di diventare molto più efficace?
Il problema di tutte queste domande è che difficilmente riusciremo a trovarne le risposte prima che sia troppo tardi per servircene. E, inoltre, quale sarà la prova che stiamo facendo la cosa giusta? In altre parole, che cosa è il "bene" dell'ordine naturale nel suo complesso? La risposta usuale al problema di cosa sia il bene per ciascuna o per tutte le specie è, semplicemente, la sopravvivenza. La scienza si occupa principalmente di previsioni perché dà per scontato che il bene principale dell'umanità sia perpetuarsi nel futuro. È questo, parimenti, il test per valutare praticamente tutte le azioni pratiche: favorisce la sopravvivenza? Accettando questa premessa, ovvero che il buono della vita consiste nella sua continuazione a tempo indeterminato, e assumendo che questo perpetuarsi debba essere piace-vole in se stesso, la prova che abbiamo agito saggiamente fino a ora è che siamo ancora qui, e sembra probabile che ci rimarremo - almeno per quel che riusciamo a prevedere.
Ma su questo assunto la razza umana è sopravvissuta, e molto probabilmente avrebbe continuato a farlo, per più di un milione di anni prima dell'avvento della tecnologia moderna. Su queste premesse, dobbiamo dunque ritenere che abbia agito saggiamente fino ad allora. Possiamo inferire che quella vita non fosse particolarmente piacevole, ma è difficile capire che cosa veramente si intenda con questo termine. La razza provava sicuramente piacere nel continuare a vivere, e per quello l'ha fatto. D'altro canto, dopo meno di due secoli di tecnologia indu-striale le prospettive di sopravvivenza umana sono seriamente messe in que-stione. Non è improbabile che finiremo per mangiarci tra di noi o per farci scop-piare il pianeta addosso.
Eppure, sicuramente, l'idea della sopravvivenza è completamente assurda. Studiando la psicologia umana e animale, sembra in effetti che “nell’auto-conser-vazione consista la prima legge della natura", sebbene sia possibile che ciò rappresenti un antropomorfismo, una proiezione nella natura di un atteggia-mento peculiarmente umano. Se la sopravvivenza è la prova della saggezza, il significato della vita è banalmente temporale: andiamo avanti solo per continuare ad andare avanti. Nei confronti dell'esperienza sembriamo mantenere un atteggia-mento di perpetua insaziabilità, dato che, anche quando siamo soddisfatti e compiaciuti di essere vivi e della nostra vita, continuiamo a chiederne ancora. Il grido "Ancora!" è il segnale più elevato di approvazione. Evidentemente, ciò avviene perché nessun istante della vita è veramente compiuto. Perfino nella soddisfazione, resta un vuoto vorace che nulla, eccetto l'infinità del tempo, potrà mai riempire, dato che "tutte le gioie vogliono l'eternità".
Ma la fame di tempo è la diretta conseguenza dell'esserci specializzati in un'at-tenzione limitata, circoscritta, di aver sviluppato una modalità coscienziale che percepisce il mondo serialmente, un pensiero dopo l'altro, una cosa alla volta. Ogni esperienza è, per questa ragione, parziale, fratturata, incompleta, e nessuna quantità di questi frammenti riuscirà mai a completare un'esperienza intera, a giungere a un compimento. Al massimo si potrà aspirare alla nausea della sazietà. L'impressione che tutta la natura, come noi, aneli incessantemente alla sopravvivenza è, quindi, solo il risultato inevitabile del modo in cui noi vogliamo studiarla. La risposta è predeterminata dal tipo di domanda. La natura ci appare come una sequenza di momenti insoddisfacenti, che aspira sempre a qualcosa di più, soltanto perché siamo noi a percepirla in questi termini. Noi la comprendiamo tagliandola a fette, assumiamo che, in sé, non è altro che un cumulo di fram-menti, e concludiamo che si tratta di un sistema di infinita incompiutezza, che può cercare di compiersi soltanto attraverso un'eterna addizione.
Il pensiero e la scienza, quindi, continuano a sollevare questioni cui, nei termini che sono loro propri, non potranno mai dare risposta, e che, in gran parte, sono problemi soltanto per il pensiero che li ha posti. Similmente, la trisezione di un angolo è un problema insolubile solo utilizzando riga e compasso, e Achille non potrà mai superare la tartaruga finché la loro corsa verrà spezzettata, attraverso un infinito dimezzamento della distanza tra di loro. Ma, come non è Achille, bensì il metodo di misurazione a non riuscire a raggiungere la tartaruga, così non è l'uomo, ma il suo modo di pensare a non riuscire a trovare soddisfacimento nell'esperienza. Ovviamente, ciò non significa affatto che la scienza e il pensiero analitico siano strumenti inutili e distruttivi, ma piuttosto che le persone che li utilizzano devono essere più grandi di loro. Per essere un vero scienziato è necessario essere più di uno scienziato, e un filosofo dev'essere più di un pensa-tore. La misurazione analitica della natura non ci dice nulla se resta l'unico modo in cui riusciamo a vedere la natura.
Insomma lo scienziato, in quanto tale, non vede affatto la natura, o piuttosto la vede soltanto grazie a uno strumento di misurazione, come se gli alberi diven-tassero visibili al falegname soltanto dopo averli tagliati e ridotti ad assi o averli marchiati con il regolo. Ma la cosa ancora più importante è che l'uomo, come ‘Io’, non vede affatto la natura. L'uomo come ‘Io’ è l'uomo che identifica se stesso, la sua mente, la sua totale consapevolezza, con quella modalità ristretta ed esclusiva dell'attenzione che noi chiamiamo coscienza(3). Così il mutamento radicale che potrebbe rivoluzionare la scienza moderna consisterebbe nel riconoscimento del "sé" come una forma secondaria di percezione, preceduta da un'altra forma, più fondamentale. Questo implica molto più del riconoscimento dell'esistenza di altre forme di conoscenza oltre a quella scientifica - ad esempio quella religiosa - ognuna delle quali è valida all'interno della sua sfera. Non si tratta, infatti, di mettere in un compartimento lo scienziato in quanto uomo di fede, e in un altro lo scienziato in quanto tale. Abbiamo visto come le intuizioni scientifiche più impor-tanti vengano esattamente da quest'uso, seppur riluttante, della modalità "non-pensante" della conoscenza.
Di conseguenza si è sempre più consapevoli che, per la ricerca più creativa, gli uomini di scienza devono venir incoraggiati a lasciare vagare liberamente le loro menti, in modo asistematico, e senza essere sottoposti a pressione per ottenere risultati. Chi visitasse una fondazione ispirata come l'Institute for Advanced Studies di Princeton vedrebbe alcuni dei più grandi matematici del mondo che se ne stanno semplicemente seduti alle loro scrivanie, con la testa fra le mani, oppure contemplano, con aria assente, fuori della finestra, in apparenza finanziati generosamente per non fare nient'altro che "cincischiare". Eppure, come R.G.H. Siu ha mostrato nel suo Tao of Science, è proprio in ciò che consiste il principio taoista del "non utilizzare la conoscenza per raggiungere la conoscenza", la scoperta occidentale del potere creativo del wu-nien, o "non-pensiero" e del kuan, o contemplazione senza attenzione concentrata. In quanto esperto direttore di ricerche, Siu ha dimostrato in modo convincente che questa modalità della coscienza è essenziale quando dalla ricerca ci si aspetta di ricavare nuovi concetti, qualcosa di più, insomma, della semplice verifica di quelli vecchi (4). Oggi come oggi non ci si fida completamente di questa modalità, che viene rigorosamente verificata dall'analisi, ma è estremamente probabile che l'inaffidabilità della intuizione scientifica sia dovuta a "mancanza di pratica" e al fatto che l'attenzione selettiva distrae costantemente la mente sia nell'ambito scientifico sia in quello quotidiano.
Ora, il recupero delle consapevolezze estensiva e inclusiva è questione comple-tamente diversa dall'acquisizione di una virtù morale, che dovrebbe imporsi nella società attraverso la persuasione e la propaganda, e coltivata con la disciplina e la pratica. Per quel che ci consta, questo genere di idealismi è famigerato per i propri fallimenti. Inoltre, gli idealismi morali e spirituali, con tutti i loro sforzi e la loro disciplina rivolta al futuro, sono forme proprio di quell'atteggiamento del pensiero che ci ha dato tanti problemi. Infatti, in queste morali, il bene e il male, l'ideale e il reale vengono percepiti separatamente, e non ci si accorge che la "bontà" non può essere altro che l'ideale di un uomo "cattivo", che il coraggio è l'obiettivo dei codardi e che la pace può essere ambita soltanto da chi al momento è disturbato. Per dirla con Lao-tzu:
Quando la grande Via è decaduta, ci sono umanità e giustizia. Quando l'intel-ligenza e la conoscenza si mostrano, c'è una grande cultura artificiale.
Quando i sei parenti non vivono in armonia, ci sono figli filiali.Quando lo Stato e la dinastia sprofondano nel disordine, ci sono ministri fedeli. (XVIII).
Così come non si può "ottenere una borsa di seta dall'orecchio di una scrofa", nessuno sforzo potrà mai trasformare il disordine in pace. E, come dice un altro taoista: "Quando l'uomo sbagliato usa i mezzi giusti, i mezzi giusti operano nel modo sbagliato".
Il pensiero, con il suo modo seriale di guardare alle cose una alla volta, guarda sempre al futuro per risolvere problemi che possono essere affrontati soltanto nel presente - anche se non nel presente frammentario dell'attenzione fissa e concentrata. La soluzione è da trovare, come disse Krishnamurti, nel problema, e in nessun altro luogo. In altre parole, le emozioni "cattive" che disturbano l'uomo, i desideri impellenti, sono da vedere per quel che sono - o, meglio, il momento in cui sorgono è da vedere per quel che è, senza restringere la propria attenzione su un solo aspetto di esso. E proprio qui, invece di tendere spasmodicamente verso un futuro in cui ognuno spera di essere diverso, la mente si apre e ammette l'esperienza integrale in cui e attraverso cui viene data una risposta al problema di che cosa sia il "bene" della vita, come nelle parole del frammento ‘La natura’ di Goethe:
In ogni istante essa parte per un lungo, lungo viaggio, e in ogni istante giunge al suo termine... Tutto è eternamente presente in lei, dato che non conosce né passato né futuro. Per lei il presente è eternità.
NOTE:
(1) Cor. 15, 17. [N.d.T.]
2). L’idea semplicistica che in principio vi fosse soltanto spazio vuoto e poi siano giunte le cose a riempirlo sottende il classico problema di come il mondo sia scaturito dal nulla. Ora il problema deve essere riformulato in "Da... che cosa siano scaturiti 'qualcosa' e 'nulla'?"-
3). Trigant Burrow (1953), per definire la modalità intensiva e quella estensiva della consapevolezza, ha opportunamente coniato i termini "ditenzione" e "cotenzione". Tutta la sua discussione sul rapporto tra le psiconevrosi e il pensiero "ditentivo" è estremamente stimolante.
4) Il libro di Siu (1957), potrebbe venir letto come espansione dei temi discussi in questo capitolo. Purtroppo non ho potuto consultarlo se non quando avevo praticamente finito di scrivere il libro. L’opera di Siu fornisce un'applicazione molto ampia del pensiero cinese ai problemi della scienza, anche se per il lettore occidentale è lasciato forse un po' troppo nel vago il carattere dell'atteggiamento mentale necessario a questo fine.
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I termini che si è tentati di usare per definire una mente silenziosa e aperta sono per lo più negativi: senza pensieri, senza ragione, non-pensante, vuota, vaga. Forse, in ciò si dimostra la difficoltà innata che abbiamo a sciogliere il cronico crampo della coscienza attraverso cui afferriamo i fatti della vita e trattiamo con il mondo. Com'era prevedibile, l'idea di una consapevolezza che non sia tagliente e selettiva ci rende particolarmente inquieti. Siamo assolutamente certi che, privi dell'attenzione selettiva, torneremmo indietro alla sensibilità, che supponiamo confusa, degli infanti e degli animali, e diverremmo incapaci di distinguere il basso dall'alto, tanto da finire senz'altro sotto una macchina la prima volta che ci azzardassimo ad attraversare la strada.
Una coscienza ristretta e seriale, un flusso di impressioni conservate nei magazzini della memoria: ecco gli strumenti attraverso i quali manteniamo il senso dell'Io. È questo che ci permette di sentire che dietro il pensiero c'è un pensatore e dietro la conoscenza un conoscitore, ovvero un individuo che si pone a fianco del panora-ma sempre cangiante dell'esperienza facendo del suo meglio per controllarla. Se l’Io dovesse scomparire o, piuttosto, se venisse considerato semplicemente come un'utile finzione, verrebbe a cadere anche la dualità di soggetto e oggetto, di esperienza e colui che sperimenta. Ci sarebbe soltanto un flusso di "esperire", continuo, semovente, senza il senso né di un soggetto attivo che controlla l'espe-rienza, né di un soggetto passivo che la subisce. Il pensatore potrebbe venir percepito semplicemente come la serie continua dei suoi pensieri, e il senziente non sarebbe nient'altro che le sensazioni. Come disse Hume nel suo Treatise of Human Nature:
Per parte mia, quando mi addentro più intimamente in ciò che chiamo me stesso, m'imbatto sempre in qualche percezione particolare di caldo o di freddo, di luce o d'ombra, d'amore o d'odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai ad afferrare me stesso senza una percezione, né posso mai osservare qualcosa che non sia una percezione. [...] il resto del genere umano non è altro che un fascio o collezione di percezioni differenti, susseguenti le une alle altre con rapidità inconcepibile, e si trovano in perpetuo flusso e movimento. (1)
Ebbene, questo è esattamente quel che temiamo - perdere l'identità e l'integrità umane in un travolgente flusso di atomi. Hume, opponendosi alla nozione di "sé" come di una sostanza mentale o metafisica, non aveva, naturalmente, altra alter-nativa che concepire "un fascio o una collezione" di percezioni intrinsecamente distinte, dato che stava traducendo la sua esperienza nei termini disgregati del pensiero lineare. Hume continuò a ritenere che tutte le nostre impressioni sono "differenti, distinguibili e separabili l'una dall'altra, e possono venir considerate separatamente e separatamente esistere, senza aver bisogno di null'altro per esistere". Aveva colto la finzione di un ‘Io’ come sostanza separata, ma non riuscì a cogliere la finzione della separatezza delle cose o delle percezioni che l’Io, nella sua modalità conoscitiva, astrae dalla natura. Come abbiamo visto, cose fra di loro separate possono venir ordinate soltanto meccanicamente o politicamente, sicché, priva di un Io reale che ne integri e ne coordini le impressioni, l'esperienza umana pare abbandonata al meccanicismo o al caos.
Se il mondo della natura non è nelle cose viste dall'Io, né in cose o in sensazioni raccolte meccanicamente insieme, ma in un campo di relazioni "organiche", non vi è ragione di temere che l'ordine politico o il meccanicismo non abbiano alter-native. Anzi, il flusso dell'esperienza umana che non verrà riordinato né da un Io trascendentale né da un Dio trascendentale, si ordinerà da sé. Sembrerebbe che ci troviamo di fronte a quel che di solito si definisce come ordine meccanico o automatico, dato che la macchina è ciò che "funziona da sé". Abbiamo visto, tuttavia, che c'è una profonda differenza tra organismo e meccanismo. Un organismo può venir rappresentato secondo un modello geometrico soltanto per approssimazione, coma una forma "informe" può venir scomposta in modelli geometrici, e come i movimenti delle stelle possono venir trasferiti nelle figure di un calendario. Ma come i corpi celesti sono ben diversi dalle relazioni numeriche e dalle effemeridi, e infinitamente più numerosi di esse, così gli organismi e le forme naturali non devono mai venir confusi con le loro rappresentazioni meccaniche.
Di nuovo, dato che l'ordine del pensiero è lineare - una serie di piccoli elementi in successione - esso può solo avvicinarsi, ma non mai comprendere, un sistema di relazioni in cui tutto accade simultaneamente. Sarebbe come se la nostra coscienza limitata e ristretta dovesse assumersi l'incarico di ordinare tutte le operazioni del corpo, perché, altrimenti, le ghiandole, i nervi e le arterie non potrebbero adempiere alle loro funzioni. Come il linguaggio, sia scritto sia parlato, dimostra eloquentemente, l'ordine del pensiero non può che essere lineare. Ma la natura non è lineare. La natura è, come minimo, un volume e, al massimo, un campo dalle infinite dimensioni. Quindi abbiamo bisogno di un'altra concezione dell'ordine naturale, una concezione non logica, diversa da quella del logos, della parola, basata su una consapevolezza atomizzata.
Come Needham ha mostrato, la filosofia cinese fornisce questa modalità nella concezione neoconfuciana (e buddhista) del li, un termine per tradurre il quale non trovo equivalente migliore di "principio". Li è il principio universale di ordine, ma in questo caso il principio o i principi non possono venir definiti in termini di legge (tse). La radice del significato del termine li sta nelle macchie della giada, nelle venature del legno, nelle fibre muscolari. Nel suo significato originario, tse rimanda alla scrittura delle leggi imperiali sui calderoni sacrificali (2). Ora, le macchie della giada sono "informi", cioè sono schermi privi di simmetria, fluidi e intricati, che rispondono molto bene al senso cinese della bellezza. Ecco perché, quando diciamo che il Tao è "informe"(3), non dobbiamo immaginare una vacuità uniforme, quanto un disegno senza tratti o caratteri distinguibili - in altri termini esattamente quello che il pittore cinese ammira nelle nuvole o nelle nubi, e quello che a volte trasmette nella trama dell'inchiostro nero applicato con energici colpi di un pennello piuttosto secco. Nelle parole del Huai Nan Tzu:
Il Tao del cielo opera per vie misteriose e segrete; non ha una forma fissa; non segue regole (tse) definite; è così grande che non si può mai giungerne al termi-ne, è così profondo che non si può mai toccarne il fondo (4).
Allo stesso tempo, l'ordine del Tao non è tanto imperscrutabile che l'uomo non vi veda altro che confusione. Quando l'artista manipola i suoi materiali, la perfezione consiste nel comprendere come seguire la loro natura, come seguire le venature del legno nell'intagliarlo, come sfruttare la tessitura sonora naturale dei vari strumenti musicali. La natura del materiale è precisamente li. Egli la scopre, tuttavia, non attraverso un'analisi logica, ma attraverso il kuan(5), del quale abbiamo già parlato, definendolo "contemplazione silenziosa", ovvero come un guardare la natura senza pensarci, nel senso di un'attenzione concentrata. Parlando dell'esagramma kuan nel suo Libro dei mutamenti, Wang Pi scrive:
Il significato generale del tao di "kuan" è che non si dovrebbe governare a mezzo di punizioni e pressione legalizzata, bensì si dovrebbe con lungimiranza esercitare il proprio ascendente (con l'esempio) così da cambiare ogni cosa. Nessuno è in grado di vedere il potere spirituale. Non si vede il cielo impartire ordini alle quattro stagioni, eppure esse non deviano mai dal loro corso. Così noi pure non vediamo il saggio dare ordini al popolo, eppure esso gli obbedisce e spontaneamente lo serve(6).
Il punto è che le cose non vengono inserite in un ordine contemplandole da un punto di vista limitato dall'Io, dato che il loro li, o disegno, non può essere osservato nel suo complesso mentre se ne osserva o se ne pensa un solo fram-mento, né quando le si guarda come oggetti separati l'uno dall'altro. Nel carattere cinese con cui si scrive kuan è inscritto il radicale che significa "vedere" a fianco di un uccello, probabilmente un airone, e nonostante Needham pensi che, in origine, il termine abbia probabilmente avuto a che fare con l'osservazione degli uccelli in volo per fini divinatori, io penso piuttosto che l'idea di base derivi dal modo in cui l'airone se ne sta, completamente immobile, sul bordo dello stagno, a guardare l'acqua. Non sembra affatto in cerca di pesci, eppure, nel momento in cui il pesce si muove, l'uccello si tuffa e lo cattura. Kuan è, dunque, semplicemente il modo di osservare in silenzio, apertamente, e senza cercare un particolare risultato. Significa un modo di osservare in cui non c'è dualità tra chi osserva e chi è osservato, ma c'è semplicemente il vedere. Insomma, mentre osserva, l'airone è lo stagno stesso.
Da un certo punto di vista, è quel che intendiamo con il termine sentimento, come quando uno impara a ballare non tanto seguendo un diagramma dei passi, ma guardando gli altri e "se lo sente dentro". Allo stesso modo, il bowler (chi serve) nel cricket o il pitcher (il lanciatore) nel baseball sviluppano la loro abilità molto più "a pelle" che non studiando precise indicazioni tecniche. Non diversamente è con la "sensibilità" che il musicista riconosce i diversi stili dei compositori, che il sommelier riconosce i vitigni, il pittore determina le proporzioni nella sua composizione, il contadino prevede il tempo, e il vasaio plasma e modella la creta; fino a un certo punto queste arti dispongono di regole comunicabili, ma c'è sempre qualcosa di indefinibile che distingue la vera maestria. Come dice il carradore nel Chuang-tzu:
Lasciate che vi illustri il mio lavoro. Quando si fabbrica una ruota, se si lavora troppo lentamente non si riesce a farla solida; se si lavora troppo in fretta, i raggi non si incastrano a dovere. Si deve procedere né troppo lentamente né troppo in fretta. Ci dev'essere coordinazione di mente e mano. A parole non si può spiegare, ma in ciò è contenuta un'arte misteriosa. Non posso insegnarla a mio figlio, né lui può apprenderla da me. Di conseguenza, io, anche se ho già settant'anni, continuo a fabbricare ruote (7).
Studiate analiticamente, queste abilità a prima vista sembrano essere il risultato di un "pensiero inconscio", come se il cervello agisse come un complicatissimo calcolatore elettronico che fornisce il suo risultato alla coscienza. In altre parole, sono la conseguenza di un processo di pensiero che differisce soltanto "quantita-tivamente" dal pensiero conscio: è più veloce e più complesso. Ma limitandoci a quest'analisi non apprendiamo, riguardo a ciò che fa il cervello, molto più di quanto ci dice il modo in cui è stato studiato fino a ora e il modello cui è stato paragonato. Il cervello può essere rappresentato in termini di misurazioni quanti-tative, ma ciò non significa che operi in quei termini. Al contrario, non lavora secondo alcun termine, ed è per questo che può reagire con intelligenza e rapidità a relazioni che possono venir definite solo approssimativamente, lentamente e macchinosamente.
Ma se ci chiediamo come funziona, dunque, la sensibilità, riconoscendo che una risposta verbale non è una risposta, dovremo dire che essa opera come si sente, dall'interno, nello stesso modo in cui ci sentiamo di muovere le gambe. Troppo facilmente dimentichiamo che questa è una conoscenza molto più intima della nostra natura di quella che ci può derivare da qualunque descrizione obiettiva, che per necessità è superficiale, dato che è una conoscenza "di superfici". Così, per lo scienziato è relativamente di scarsa utilità sapere, sotto forma di verbalizzazione, come funziona il cervello, dato che in pratica lo sa "far funzionare", ottenendone i migliori risultati quando ricorre alla sensibilità o all'intuizione, quando la sua ricerca èuna specie di moscacieca in cui si procede a tentoni senza un'idea precisa da raggiungere. Naturalmente, lo scienziato deve avere contezza dei termini che gli permetteranno di riconoscere il risultato quando lo incontrerà. Ma si tratta semplicemente di strumenti che gli permetteranno di comunicare il risultato a se stesso e agli altri e non contribuiscono al suo raggiungimento più di quanto facciano il dizionario e le regole della prosodia al componimento di una poesia. Il kuan inteso come sensibilità senza ricerca, o aperta consapevolezza, è quindi essenziale allo scienziato, nonostante tutto il suo rigore analitico, come al poeta.
L’atteggiamento è meravigliosamente descritto da Lin Ching-hsi nel suo Lascito poetico del vecchio signore della montagna Chi:
I dotti del tempo antico dicevano che la mente è originariamente vuota e che solo per questo può rispondere (8) alle cose naturali senza pregiudizi (lett. tracce:chi, (9) lasciate indietro a influenzare una visione successiva). Solo la mente vuota può rispondere alle cose della Natura. Sebbene ogni cosa risuoni con la mente, la mente dovrebbe essere come se non avesse mai avuto risonanza, e le cose non dovrebbero rimanervi. Ma una volta che la mente abbia ricevuto (impressioni di) cose naturali, queste tendono a rimanere e non a scomparire, lasciando perciò delle tracce nella mente. [...] Dovrebbe essere simile alla bocca di un fiume con i cigni che vi volano sopra: il fiume non ha desiderio di trattenere il cigno, eppure il passaggio del cigno è segnato dalla sua stessa ombra, senza omissione alcuna. Prendiamo un altro esempio. Ogni cosa, sia bella sia brutta, si riflette perfettamente in uno specchio: questi non rifiuta mai di mostrare qualcosa, né trattiene nulla dopo (10).
Kuan non è una mente banalmente vuota più di quanto li, lo schema del Tao, significhi un vuoto privo di tratti caratteristici. È una mente, uno "sperimentatore" al lavoro, senza il senso del soggetto ricercante e osservante, dato che la sensazione dell'Io è la sensazione di un tipo di sforzo di coscienza, di confusione di nervi e muscoli. Ma come l'osservare e lo scrutare in sé non chiariscono la visione oculare, e come lo sforzo di sentire non rende più sensibili le orecchie, così lo sforzo mentale non garantisce la comprensione. Ciò nonostante, la mente è costantemente impegnata a scrollarsi di dosso la noia o la depressione, a cercare di smettere di aver paura, a ricavare il più possibile da un piacere, a obbligarsi a essere amorosa, attenta, paziente o felice. Quando le si dirà che questo è sbagliato, la mente si sforzerà di non sforzarsi. L’impasse potrà essere superata solo quando si vedrà chiaramente che tutti questi sforzi sono futili quanto cercare di mettersi a volare saltando in aria, sforzarsi di dormire, o cercare di comandare un'erezione del membro maschile. Tutti hanno familiarità con la contraddizione insita nel cercare di ricordare un nome dimenticato, e nonostante ciò ci capiti di continuo, non arriviamo mai a fidarci della memoria al punto da farci fornire le informazioni spontaneamente. Eppure questa è una delle forme più comuni di ciò che il buddhismo Zen chiama satori - il sorgere spontaneo, improvviso e senza sforzo di una comprensione. La difficoltà è ovviamente che la mente si sforza per abitudine e, finché non riesce a perdere quell'abitudine, deve essere continua-mente sorvegliata.(11)
Mentre affermiamo che l'Io è una sensazione di costrizione mentale, non dobbiamo trascurare il fatto che la parola "Io" a volte è usata semplicemente per denotare questo organismo, distinto dalla sua anima o da una delle sue funzioni psicologiche. In questo senso, ovviamente, "Io" non denota necessariamente una condizione di costrizione o una superfluità psicologica. Invece, la percezione di un ”Io" come funzione parziale dell'intero organismo o, piuttosto, come entità interiore che possiede e abita l'organismo è il risultato di un eccesso di attività nell'uso dei sensi e di alcuni muscoli. Questa è l'abitudine che ci porta a usare più energia del necessario per pensare, vedere, ascoltare o prendere delle decisioni. Parimenti, molte persone, persino quando giacciono supine sul pavimento conti-nuano a compiere sforzi muscolari del tutto inutili per mantenere quella posizione, quasi temessero che il loro organismo potesse perdere la sua forma e liquefarsi. Tutto ciò nasce dall'ansia collegata all'acquisizione del controllo del proprio corpo e della coordinazione dei movimenti, poiché sin da bambini, pressati dall'ambiente esterno, si cerca di accelerare le proprie potenzialità neuronali con la mera forza muscolare.
Per tutte queste ragioni siamo così convinti della necessità di una costrizione men-tale che ci sarà sempre difficile rinunciarvi finché non riusciremo a dare risposta ad alcune obiezioni teoriche. La "costrizione mentale" deplorata dalla psicologia convenzionale è, ovviamente, una condizione assolutamente eccessiva, ma generalmente non si ammette che essa sia contraddittoria a qualsiasi livello la si subisca. Mi sembra che le due obiezioni principali che si possono fare al tentativo di liberarsi dalla costrizione mentale siano le seguenti: in primo luogo che un'assenza di controllo incoraggerebbe una visione del mondo caratterizzata da una vaghezza mistica e panteistica che si rivelerebbe tanto demoralizzante quanto acritica. In secondo luogo si potrebbe opporre che, dato che il controllo mentale è essenziale per l'auto controllo personale, la sua assenza ridurrebbe l'individuo a venir completamente travolto dalle sensazioni.
Da molto tempo, nei circoli teologici il "panteismo" è una posizione che è stata definitivamente condannata, e coloro che amano ritenere robuste e definitive le proprie opinioni religiose e filosofiche sono egualmente inclini a considerare la parola "misticismo" in modo non meno sprezzante. La associano con la nebbia, (12) con una certa vaghezza, con la nebulosità delle definizioni e la confusione delle distinzioni. Di conseguenza, da questo punto di vista nulla può essere più deprecabile del "panteismo mistico" o del "misticismo di natura panteistica", che è esattamente ciò che l'atteggiamento kuan sembra produrre. E comunque, per quanto si possa insistere sul contrario, questi soloni continuano a sostenere che il misticismo buddhista e taoista riduce le distinzioni del mondo, così interessanti e significative, a un ammasso informe di unitarietà(13). Io sono Dio, tu sei Dio, tutto è Dio, e Dio è un mare sconfinato e indistinto di un semi-incosciente budino di tapioca. Il mistico è quindi un tipo debole di mente che trova una fonte di entusiasmo in un noioso "continuum estetico indifferenziato" (Northrop), poiché in un modo o nell'altro così riesce a fondere i conflitti e i demoni del mondo in una Divinità trascendentale.
Si tratta, evidentemente, di una rozza caricatura ed è necessario dire qualcosa in difesa della vaghezza filosofica. Una strana accozzaglia di gente di tutti i tipi si è data appuntamento per deriderla: positivisti logici e neotomisti cattolici, mate-rialisti dialettici e neointegralisti protestanti, comportamentisti e fondamentalisti. Nonostante le notevoli differenze di opinioni che pure esistono tra di loro, tutti traggono particolare soddisfazione dall'avere una filosofia della vita netta, severa e rigida. Si va da quel tipo di scienziato cui piace assaporare la "brutale" nozione di fatto, al teologo che fonda un sistema di "dogmi incontestabili". Dà sicuramente un notevole senso di sicurezza poter dire: "Il chiaro e autorevole insegnamento della Chiesa è...", oppure pensare di aver inventato un metodo logico che può ridurre a brandelli le opinioni altrui, specialmente quelle metafisiche. Atteggiamen-ti di questo genere di solito vanno di pari passo con una personalità in qualche modo ostile, che impiega le definizioni più taglienti come la lama di una spada. E questa è qualcosa più di una metafora, dato che, come abbiamo visto, le leggi e le ipotesi della scienza non sono tanto scoperte quanto strumenti, coltelli e martelli, per costringere la natura alla propria volontà. Sicché ci sono alcune perso-nalità che si accostano al mondo con un intero armamentario di arnesi pesanti e affilati, con i quali tagliano a fette l'universo riducendolo a sterili e precise categorie che non interferiscono con la propria quiete mentale.
Ora, nella vita c'è posto per i coltelli affilati, ma c'è posto, ed è un posto ben più importante, per altri modi di mettersi in contatto con il mondo. L’uomo non è destinato a essere un istrice intellettuale, che affronta l'ambiente che lo circonda con una pelle ricoperta di spine. L’uomo va incontro al mondo che lo circonda con una pelle morbida, bulbi oculari e timpani delicati; entra in comunione con esso attraverso un tocco caldo, morbido, definito in modo vago; un tocco carezzevole attraverso il quale il mondo non viene posto a distanza, come un nemico da tenere sotto tiro, ma viene abbracciato e diventa una carne sola, come una amata consorte. Dopo tutto, la possibilità stessa di giungere a una conoscenza chiara e distinta dipende da organi sensibili che, per così dire, portano il mondo esterno nei nostri corpi, e ci forniscono contezza di questo mondo attraverso le forme dei nostri stati corporei.
Di qui l'importanza delle opinioni, strumenti della mente piuttosto vaghi, nebulosi e più sfuggenti che netti e definiti. Strumenti che, tuttavia, forniscono la possibilità di comunicare, di stabilire un vero contatto e una relazione con la natura più inti-ma del mondo, più di quanto si possa fare in qualsiasi altro rapporto in cui ci si imponga a tutti i costi di mantenere la "distanza dell'obiettività". Come quei pittori cinesi e giapponesi hanno così ben compreso, ci sono paesaggi che si lasciano contemplare meglio a occhi socchiusi, montagne più affascinanti se velate dalla foschia e acque più profonde quando si smarrisce l'orizzonte e la loro linea si fonde con quella del cielo.
Nella nebbia della sera, solo un'anatra si libra;
di un solo tono sono le ampie acque e il cielo.
Oppure, come scrive Po Chù-i in "Camminando di notte nella pioggia fine", tradotto, penso, da Arthur Waley:
Nubi d'autunno, vaghe e oscure;
La sera, solitaria e fredda,
Sento l'umido nei miei indumenti,
Ma non vedo il segno né sento il suono della pioggia.
Ed ecco la versione di Lin Yutang di "Cercando l'eremita invano", di Chia Tao:
Chiesi al ragazzo dietro ai pini.
Lui rispose: "Il maestro andò da solo
A cogliere erbe da qualche parte sul monte,
Celato dalle nubi, in luoghi sconosciuti".
Immagini del genere vengono collegate insieme da Seami quando cerca di suggerire che cosa intendano i giapponesi con ‘yugen’, un ordine sottile di bellezza la cui origine è oscura e misteriosa: "Vedere il sole che tramonta dietro una collina coperta di fiori, vagare in un'immensa foresta senza pensare a tornare, sedere sulla spiaggia e seguire con lo sguardo una barca che va a nascondersi dietro isole lontane, riflettere sul viaggio delle anatre selvatiche viste, e perdute tra le nubi"(14). Ma c'è, sempre pronta a irrompere e a risolvere il mistero, una specie di insolente sanità mentale, ansiosa di scoprire dove sono finite esatta-mente le anatre selvatiche, che specie di erba il maestro stava raccogliendo, e che non desidera altro che osservare il "vero" aspetto di un paesaggio nella luce intensa del sole meridiano. È proprio questo l'atteggiamento che ogni cultura tradizionale trova insopportabile nell'uomo occidentale, non solo perché dimostra mancanza di tatto e di raffinatezza, ma perché esso è cieco. Non sa cogliere la differenza tra superficie e profondità. Cerca il profondo incidendo la superficie. Ma la profondità si conosce solo quando essa stessa si rivela, e sfugge sempre alla mente argomentativa. Nelle parole di Chuang-tzu:
Le cose vengono prodotte intorno a noi, ma nessuno ne conosce l'origine. Esse vengono fuori, ma nessuno vede da quale porta provengano. Gli uomini, tutti e ciascuno, valutano quella parte di conoscenza che è loro nota. Non sanno come giovarsi di ciò che è ignoto per ottenere la conoscenza. Tutto ciò non è forse mal indirizzato? (15).
Ci capita troppo facilmente di non riuscire a cogliere la differenza tra la paura e il rispetto per l'ignoto, e pensiamo che coloro i quali non si fanno avanti muniti di torce luminose e di coltelli acuminati sono spaventati da un timore superstizioso e sacro. Il rispetto per l'ignoto è l'atteggiamento di coloro che, invece di violentare la natura, la corteggiano finché non è essa stessa a concedersi. Ma quel che essa dona, anche allora, non è la fredda chiarezza di una superficie, ma la calda intimi-tà di un corpo - un mistero che non è semplicemente negazione, vuota assenza di conoscenza, ma quella sostanza positiva che chiamiamo "meraviglioso". Goethe disse:
Il massimo cui l'uomo può aspirare in queste questioni è la meraviglia. Se il fenomeno primigenio la provoca, sentiamoci pure soddisfatti; di più esso non può donarci. E bisognerebbe guardarsi dal cercare qualcosa oltre a ciò: lì è il limite. Ma la visione di un fenomeno primigenio generalmente non basta agli uomini. Essi pensano di dover andare ancora oltre, e in ciò sono come bambini che, dopo essersi contemplati nello specchio, gli girano intorno per vedere chi c'è dall'altra parte (16).
E, come disse Whitehead:
Quando si sappia tutto sul sole, sull'atmosfera, sulla rotazione terrestre, si può tuttavia non cogliere la radiosa bellezza di un tramonto. Nulla sostituisce la percezione diretta [kuan] del compiersi concreto delle cose nella loro realtà (17).
Questo è, di sicuro, vero materialismo, o forse sarebbe meglio dire vero sostanzia-lismo, dato che il concetto di "materia" è collegato piuttosto alla misurazione e non definisce propriamente la realtà della natura quanto la natura in termini di misurazione. E "sostanza", in questo senso, non veicolerebbe la nozione grossolana di "elemento grezzo", ma quel che si intende con il termine cinese t'i, (18) ovvero l'interezza, la Gestalt; il campo completo delle relazioni che sfugge a ogni descrizione lineare.
Il mondo naturale, quindi, rivela il suo contenuto, la pienezza delle sue meraviglie proprio quando il rispetto ci trattiene dall'investigarlo sminuzzandolo in tante astrazioni. Se devo attraversare ogni orizzonte per trovare quel che c'è al di là, non apprezzerò mai la vera profondità del cielo intravisto tra gli alberi sulla curva di una collina. Se devo fare una mappa dei canyon e contare gli alberi, non potrò mai entrare nel suono di una cascata nascosta. Se devo esplorare e investigare ogni strada, quel sentiero che si perde nella foresta, lassù, sul fianco della monta-gna, finirà per rivelarsi soltanto un itinerario per tornare nei sobborghi della città. Per la mente che percorre ogni strada fino in fondo, nessuna strada porta da qualche parte. Astenersi dall'investigazione non significa ritardare la fredda delusione dei fatti concreti, ma capire che si può arrivare anche fermandosi e non muovendosi, e che guardare sempre oltre significa rimanere ciechi a ciò che è qui.
Per conoscere la natura, il Tao, e la "sostanza" delle cose, dobbiamo conoscere tutto come l'uomo "conosce", in senso biblico, la donna - nella calda vaghezza di un contatto immediato. Come nella Nube della non-conoscenza si dice di Dio: "Con l'amore, Egli può essere preso e tenuto, ma mai con il pensiero". Ciò implica anche che è altresì un errore pensarlo effettivamente vago, come la foschia, la luce diffusa o il budino di tapioca. L'immagine della vaghezza implica che per conoscere la natura, fuori come dentro di noi, dobbiamo abbandonare ogni idea, ogni pensiero e ogni opinione su quel che è, e semplicemente guardare. Se dobbiamo averne una qualche idea, deve essere la più vaga possibile, ed è per questo che, perfino per gli occidentalisti, una concezione tanto informe quanto il Tao è comunque preferibile all'idea di Dio con tutte le sue associazioni definite.
Il pericolo dell'atteggiamento "panteistico" e mistico nei confronti della natura è, ovviamente, che può diventare esclusivo e unilaterale, anche se non sembra esistano molti esempi di una simile evoluzione. In effetti non c'è alcuna ragione perché essa debba verificarsi, e il vantaggio di questo "panteismo" sta precisa-mente nel fatto che ci fornisce uno sfondo privo di forma sul quale le forme dei problemi quotidiani si vedono più chiaramente. Quando la nostra idea dello sfondo, di Dio, è troppo definita, la condotta pratica diventa tortuosa come quando si cerca di scrivere su una pagina già stampata. Non si riescono a veder bene le questioni perché non si coglie il fatto che i problemi del giusto e dell'ingiusto sono come le regole della grammatica: convenzioni della comunica-zione. Radicando il giusto e l'ingiusto nell'Assoluto, nello sfondo, non solo si irrigidiscono eccessivamente le regole, ma le si investe di eccessiva potenza e autorità. Come dice un proverbio cinese: "Non prendere l'accetta per uccidere una mosca sulla testa del tuo amico". Radicando le regole dell'azione nell'assoluto, l'Occidente non è riuscito a sviluppare un livello eccezionale di moralità. Al contrario, non ha fatto altro che fomentare le violente rivoluzioni ideologiche anti-autoritarie che sono caratteristiche della sua storia. La stessa reazione si verifica di fronte a ogni rigido dogma scientifico su ciò che è naturale e ciò che non lo è.
In pratica, un misticismo che eviti ogni rigida formulazione sulla natura e su Dio si rivela di solito favorevole allo sviluppo della scienza (19). Infatti si tratta di un atteggiamento empirico che enfatizza l'esperienza concreta rispetto alla costru-zione teorica o alla credenza, e il suo schema mentale è contemplativo e ricettivo. Questo tipo di misticismo si oppone alla scienza, invece, nella misura in cui que-st'ultima confonde i modelli astratti con la natura vera, e quando, sotto forma di tecnologia, interferisce miopemente con la natura, magari sulla base di visioni pre-scientifiche di cui l'uomo non si è ancora liberato. Al contrario, fornisce una base per l'azione che non è la visione ingombrante, lineare e nomotetica della volontà di Dio o delle leggi di natura basata sull'accumulo di esperimenti passati.
L'atteggiamento del kuan è particolarmente sensibile alle condizioni del momento immediato, in tutta la loro mutevolezza di interrelazioni mentre, come abbiamo visto, uno dei problemi della conoscenza scientifica è che la sua complessità lineare la rende di difficile utilizzo quando si tratta di prendere decisioni rapide, e in particolare quando le "circostanze alterano i modelli". Così, discutendo i segreti di un dramma di successo, Seami scriveva:
Se si guarda in fondo all'essenza ultima di quest'arte, troverai che quel che viene chiamato "fiore" [del yugen], non ha un'esistenza separata. Se non fosse per lo spettatore che legge nella rappresentazione mille meraviglie, non vi sarebbe affatto "fiore". Dice il sutra: "Il bene e il male sono una cosa sola; la malvagità e l'onestà appartengono alla stessa specie". Davvero: su quale base distinguiamo il bene dal male? Possiamo soltanto prendere quel che si adatta alla necessità del momento e chiamarlo "bene" (20).
Un atteggiamento del genere sarebbe davvero miope se si fondasse su una visio-ne lineare e atomistica del momento, una visione in cui la singola "cosa" non è colta nella sua relazione con il "tutto"(21). Ad esempio, coloro che odiamo con più veemenza sono spesso anche quelli che amiamo più intensamente, e se fossimo insensibili a questa interrelazione confonderemmo una parte del sentimento con il tutto, giungendo magari a distruggere una persona che amiamo o a sposarne una che finiremo per odiare.
Ciò ci conduce, allora, ad affrontare la seconda obiezione teorica alla possibilità di liberarsi della costrizione mentale dell'Io: ovvero che essa sia necessaria a impe-dirci di venir trascinati via dalle sensazioni e dalle emozioni che, per natura, sono indisciplinate. L'obiezione è, una volta di più, basata su una visione dell'umana natura più politica che organica. La psiche umana è vista come un assemblaggio di parti separate, funzioni o facoltà diverse, come se il Signore avesse creato l'uomo attaccando l'anima di un angelo al corpo di un animale. L'uomo viene quindi concepito come un aggregato di facoltà, impulsi e appetiti che deve venir governato dall'Io-anima. È subito evidente che questa visione ha avuto una profonda influenza sulla psicologia moderna che, pur consigliando all’Io di gover-nare su tutto il resto della persona con la gentilezza piuttosto che con la violenza, continua a trattarlo come il responsabile e il padrone.
Ma, se pensiamo al corso complessivo dell'esperienza umana, interiore ed esteriore che sia, e alle sue basi psicologiche inconsce, come a un sistema rego-lato organicamente, ci accorgiamo che il principio di controllo deve essere del tutto diverso.
Gioia e collera, dolore e felicità, cautela e rimpianto ci assalgono a turno con timori sempre mutevoli. Arrivano come la musica dalle cavità degli alberi quando vengono suonati dal vento. O come i funghi dall'umidità. Notte e giorno incessantemente si alternano dentro di noi e non riusciamo a dire da dove sgorghino...
Ma per queste emozioni io non dovrei essere. Ma per me, queste emozioni non hanno alcuna rilevanza. Ecco fin dove possiamo spingerci, ma non sappiamo che cosa le porti in gioco.
Può sembrare verosimile che esista un vero Padrone (tsai), ma non troviamo traccia della sua esistenza. Si potrebbe credere che egli agisca, ma non ne vediamo la forma. Egli dovrebbe (avere) sensibilità senza forma. Ma ora le cento parti del corpo umano, con i suoi nove orifizi e i sei visceri, sono tutte complete ai loro posti. Quale si dovrebbe preferire? Le ami tutte egualmente? O ne ami alcune più di altre? Sono esse tutte suddite? Sono queste suddite incapaci di controllarsi a vicenda, e abbisognano d'un altro come sovrano? O divengono sovrano e suddito a turno?(22).
Riprendendo lo stesso tema nel suo commento a Chuang-tzu, Kuo Hsiang dice:
Le mani e i piedi differiscono nei loro compiti. I cinque organi interni differiscono nelle loro funzioni. Non si associano mai tra loro, eppure le cento parti del corpo vengono da loro tenute insieme in un'unità comune. È questo il modo in cui essi si associano: attraverso la non-associazione. Essi non collaborano mai [deliberatamente] eppure, sia internamente sia esternamente, si completano l'un l'altro. Ecco come essi cooperano: attraverso la non-cooperazione.(23)
In altre parole, tutte le parti dell' organismo si regolano spontaneamente (tsu-jan), e il loro ordine si confonde proprio quando il panorama mutevole delle sensazioni sembra confrontarsi con un lo controllore che cerca di trattenere il positivo (yang), rigettando il negativo (yin). Secondo la filosofia taoista, è proprio questo tentativo di regolare la psiche dall'esterno, e di svincolare il positivo dal negativo, che è alla base di ogni confusione sociale e morale. Quindi, quel che dev'essere controllato non è tanto il flusso spontaneo delle umane passioni, quanto l'Io che le sfrutta - in altre parole, il controllore stesso. Questa considera-zione è stata particolarmente presente a cristiani estremamente sensibili come sant'Agostino e Martin Lutero, che compresero acutamente come il semplice auto-confrollo non era assolutamente un rimedio per i mali dell'uomo, dato che è proprio nel "sé" che il male si è radicato. Tuttavia questi pensatori non abbando-narono mai la concezione politica del controllo, dato che la loro soluzione consisteva nel potenziamento e nella rigenerazione del sé attraverso la grazia di Dio - il grande Io universale. Non videro che la difficoltà stava non già nella bontà o malvagità del controllore, quanto nel controllo razionale stesso, cui insistevano a voler ricorrere. Non compresero che il problema di Dio era identico al problema dell'Io umano. Infatti anche l'universo di Dio ha generato il diavolo, che nasce non tanto dalla sua indipendente malvagità quanto dall’"arroganza" divina che si assu-me la sovranità onnipotente e si identifica con la bontà assoluta. Il diavolo è l'ombra che Dio stesso proietta inconsciamente. Naturalmente a Dio non è permesso ritenersi responsabile dell'origine del male, dato che la connessione tra i due giace nell'inconscio. L'uomo dice: "Non volevo farti del male, ma il mio carattere ha avuto la meglio su di me. Cercherò di controllarmi in futuro". E Dio dice: "Non volevo che ci fosse alcun male, ma il mio angelo Lucifero lo ha fatto sorgere con la sua libera volontà. In futuro lo rinchiuderò al sicuro all'inferno".(24)
Il problema del male sorge immediatamente non appena si pone il problema del bene, ovvero non appena si pensa a cosa si potrebbe fare per "migliorare" l'attuale situazione, sotto qualsivoglia aspetto si concepisca l'idea. La filosofia taoista può essere facilmente fraintesa dicendo che è meglio lasciare che un organismo naturale si regoli da sé piuttosto che interferire dall'esterno, e che è meglio riconoscere che il male e il bene sono relativi, piuttosto che separarli a forza l'uno dall'altro. E ancora Chuang-tzu afferma semplicemente:
Coloro che vorrebbero avere il giusto senza il suo correlativo, l'errore; e il buon governo senza il suo correlativo, il malgoverno... essi non comprendono i grandi principi dell'universo, né le condizioni cui tutta la creazione è soggetta. Allo stesso modo uno potrebbe parlare dell'esistenza del cielo senza la terra, o del negativo senza il positivo - il che è manifestamente assurdo. Queste persone, se non cedono all'argomentazione, devono essere o stolti o bricconi. (XVII). (25)
Eppure, se questo è vero, non dovrebbero esserci né stolti né bricconi se non come correlativi dei saggi e dei santi, e l'errore combattuto non dovrebbe semplicemente ricomparire in chi lo combatte? Se il positivo e il negativo, il bene e il male, sono davvero correlativi, non si può raccomandare nessuno schema d'azione, e neppure uno schema di inazione. Niente potrà rendere migliore nient'altro che non lo renda allo stesso tempo anche peggiore. Ma questo è esattamente l'insegnamento sull'Io umano così come lo vede la filosofia taoista.
Si vuole sempre controllare la situazione per migliorarla, ma né l'azione né l'ina-zione, se motivate al miglioramento, otterranno qualche risultato. Riconoscendo la trappola in cui si trova, la mente non ha altra alternativa che arrendersi e rinun-ciare a quel "tendere verso il bene" che costituisce l’Io. Non si tratta di una resa astuta, accettata con il pensiero che ciò renderà migliori le cose, ma di una resa incondizionata - non perché è meglio non far nulla, ma perché nulla può essere fatto. Tutt'a un tratto discende sull’Io, del tutto spontaneamente, una quiete pro-fonda e assolutamente non costretta, una quiete che avvolge il mondo come la prima neve, o come un pomeriggio senza vento in alta montagna, dove il silenzio si lascia sentire nel ronzio indisturbato degli insetti nell'erba.
In questa quiete non vi è senso di passività, di sottomissione alla necessità, dato che non vi è più alcuna differenza tra la mente e la sua esperienza. Tutti gli atti, i propri e gli altrui, sembrano accadere liberamente, sgorgati da una singola fonte. La vita continua a muoversi, eppure rimane profondamente radicata nel presente, senza cercare un risultato, poiché il presente si è liberato dalla costrizione che lo comprimeva in un'illusoria capocchia di spillo di consapevolezza per espandersi in un'eternità che tutto abbraccia. I sentimenti positivi e negativi vanno e vengono senza inquietudine, poiché sembrano semplicemente osservati, sebbene non ci sia nessuno che li osserva. Passano liberamente come uccelli nel cielo, e non creano resistenze che debbano poi venir combattute con interventi sconsiderati o temerari. Ovviamente questo stato è, retrospettivamente, "migliore" della prece-dente coazione mentale alla ricerca e all'osservazione. Ma si tratta di un bene d'ordine diverso.
Dato che giunge senza essere stato cercato, non si tratta del tipo di bene che è sempre in relazione con il male, né della fantasia di pace che si concepisce nel bel mezzo del conflitto. Inoltre, dato che nulla si fa per trattenerlo, non è collegato al ricordo della condizione precedente, che altrimenti ci spronerebbe a fortificare la situazione attuale e a proteggerci contro ogni mutamento. Da ora in avanti non c'è più nessuno che rimanga a costruire fortificazioni. I ricordi nascono e si disperdono come tutti gli altri sentimenti, forse riordinati meglio di prima, ma senza più cristallizzarsi intorno a un Io che li utilizza per costruire la sua illusione di un'identità continua.
Da questa prospettiva, si può notare che l'intelligenza non è una facoltà ordinativa separata della mente, ma una caratteristica del rapporto integrale organismo-ambiente, nel cui campo di forze riposa la realtà stessa dell'essere umano. Come disse Macneile Dixon nel suo Human Situation: "Le cose tangibili e visibili non sono altro che i poli, i terminali di questi campi di energia che altrimenti non percepiamo. La materia, se pure esiste in un qualche senso, è una compagna addormentata nell’"azienda della natura". Tra soggetto e oggetto, organismo e ambiente, yang e yin, c'è il rapporto equilibrato o omeostatico chiamato Tao, intelligente non perché dotato di un Io, ma perché dotato del li, ovvero di uno schema organico. Il flusso spontaneo delle sensazioni, nel suo sorgere e dimi-nuire, è parte essenziale di questo processo di equilibrio, e non deve essere visto come il gioco disordinato delle cieche passioni. Ed ecco che si dice che Lieh-tzu raggiunse il Tao "lasciando che gli eventi del cuore si muovessero come prefe-rivano"(26). Come un buon marinaio si concede al movimento della nave e non lo combatte con i muscoli del suo stomaco, l'uomo del Tao si concede al movimento degli umori.
È forse sorprendente che questa condizione consista in qualcosa di completa-mente diverso da ciò che, generalmente, si intende con l"'arrendersi ai propri sentimenti", che è sempre un sintomo di resistenza più che di abbandono. E infatti, quando pensiamo ai nostri sentimenti tendiamo a rappresentarli come condizioni date. Parole come ira, depressione, paura, dolore, angoscia e colpa, suggeriscono condizioni date che tendono a persistere se non si fa nulla per modificarle o eliminarle. Come una volta la febbre veniva considerata una malattia e non un processo di guarigione naturale, oggi continuiamo a pensare ai sentimenti negativi come a disordini della mente che dovremmo curare. Ma quel che bisognerebbe curare è piuttosto l'intima resistenza a quei sentimenti che ci spinge a volerli precipitosamente dissolvere. Resistere al sentimento significa non essere in grado di contenerlo abbastanza a lungo da fare in modo che si dissolva da solo. La collera, ad esempio, non è una condizione immobile, ma un movimento, e a meno che non venga compressa fino a diventare violenza, come acqua bollente in una pentola sigillata, si autoregola spontaneamente. E questo perché la collera non è un demonio autonomo e separato che di tanto in tanto evade dai recessi dell'inconscio. La collera è semplicemente una direzione, o una modalità dell'azio-ne psichica. Insomma, non c'è collera: c'è soltanto un agire collerico, o un sentirsi in collera. La collera è un sentimento in movimento verso un altro "stato", come dice Lao-tzu:
Perché una bufera non dura un mattino intero e uno scroscio non dura un giorno intero. Chi li produce? Il cielo e la terra. Se persino il cielo e la terra non possono persistere a lungo (nella loro esuberanza), a maggior ragione l'uomo! (XXIII)
Dare libero corso al sentimento significa quindi osservarlo senza interferire, riconoscendo che, proprio perché il sentimento è movimento, non deve essere ricondotto a termini che implicano non solo situazioni statiche ma addirittura giudizi di valore. Osservàti senza dar loro un nome, i sentimenti diventano sempli-cemente tensioni neuromuscolari, e mutamenti, palpiti e pressioni, titillamenti e contrazioni di grande sottigliezza e interesse. Ovviamente non si tratta, come nel tranello psicoterapeutico, di "accettare" i sentimenti negativi al fine di mutarli ovvero con l'intenzione di effettuare un cambiamento di tutto il tono del senti-mento nella direzione del positivo e del "bene". "Accettazioni" di questo tipo implicano che l’Io se ne stia distinto dal sentimento immediato e dall'esperienza, e rimanga in attesa, per quanto paziente e sommessa, di un loro mutamento; finché rimane la sensazione che ci sia un oggetto che osserva, c'è lo sforzo, sia pure indiretto, di controllare i sentimenti dall'esterno, che è la resistenza che crea il vortice nel flusso. La resistenza scompare, e il processo di equilibrio giunge al suo pieno successo non per volontà da parte del soggetto, ma proprio quando si com-prende che la sensazione di essere soggetto, Io, fa essa stessa parte del flusso di esperienza, e non resta al di fuori di esso, in una posizione di controllo. Nelle parole di Chuang-tzu:
Solo chi è veramente intelligente comprende il principio dell’identità di tutte le cose. Egli non vede le cose come le apprende in se stesso, soggettivamente, ma si trasferisce nella posizione della cosa osservata. E osservandola è in grado non solo di comprenderla ma di dominarla.(27)
Comunque, il punto potrebbe venir espresso più precisamente dicendo che il soggetto non è trattato come un oggetto, ma come il polo o il termine insepara-bile di un'identità soggetto-oggetto. La separatezza del conoscente e del conosciu-to diventa così, senza essere stata affatto annullata, il segno più chiaro della loro intima unità.
È questo, in effetti, il punto cruciale dell'intera filosofia unificatrice della natura che viene proposta dal taoismo e dal buddhismo, e che la distingue dal banale monismo panteistico. Eventi separati e unici, siano essi oggetti esterni o il sogget-to interno, vengono considerati come una cosa sola con la natura, in virtù della loro stessa separatezza, e niente affatto perché assorbiti in un'uniformità senza tratti distintivi. Di nuovo: è la mutua distinzione di figura e di sfondo, di soggetto e oggetto, e non il loro fondersi che ne rivela l'intima identità. Un discepolo disse al suo maestro Zen: "Ho sentito che c'è una cosa cui non si può dare nome, che non è nata e non morirà quando morirà il corpo. Quando l'universo si distruggerà, essa tuttavia non ne sarà turbata. Che cos'è questa cosa?". E il maestro rispose: "Una focaccia di sesamo".
Quindi, oltre alla modalità del yugen, ovvero di quella misteriosa e pregnante vaghezza che aleggia nei dipinti dell'Estremo Oriente, c'è anche una connotazione immensamente sottolineata dell'evento singolo, unico – il singolo uccello, quel rametto di bambù, l'albero solitario, la roccia isolata. E, in effetti, l'improvviso risveglio a questa "intima identità", che nello Zen si chiama satori è, di solito, provocato da, o legato a, qualche fatto semplice: il rumore di una bacca che cade nella foresta o la contemplazione di una pallottolina di carta per strada. C'è dunque un doppio senso nella traduzione che Suzuki fa della seguente poesia:
Oh, questo raro evento,
Per il quale sarei lieto di dare diecimila pezzi d'oro!
Un cappello è sulla mia testa, un fardello attorno ai miei fianchi;
E sul mio bastone io porto la fresca brezza e la luna piena!
Il caso "raro" è allo stesso tempo l'esperienza satori e l'evento unico cui essa è collegata - l'uno implica il tutto, il momento implica l'eternità. Ma definire l'impli-cazione è, allo stesso tempo, dire troppo, specialmente se si intende dire che la percezione del particolare dovrebbe portarci a pensare all'universale. Al contrario, l'universalità dell'evento unico e l'eternità del momento singolo possono venir colti soltanto quando la mente ha rinunciato ai suoi sforzi e l'avvenimento presente, quale che esso sia, viene osservato senza il minimo tentativo di trarne qualcosa. Ma si tratta di un tentativo talmente abituale che difficilmente si può evitare, cosicché quando qualcuno cerca di accettare il momento per quello che è, si rende consapevole soltanto del fatto che il suo tentativo è destinato al fallimento. Eccoci in una situazione che sembra un circolo vizioso irresolubile, a meno che non ci si renda conto che quel momento che si cercava di accettare è già passato, e ci si presenta ora sotto forma di sensazione di costrizione. Allora, se ci si accorge che si tratta di un atto volontario, non dobbiamo aver problemi ad accettarlo, poiché è un nostro atto immediato. Se invece si sente che è invo-lontario, non possiamo far altro che accettarlo perché comunque non vi sono alternative. In ogni caso la costrizione è accettata e dissolta. Ma questa è anche la via per scoprire l'intima identità di volontarietà e involontarietà, di soggettivo e oggettivo. Poiché quando l'oggetto, nel momento in cui viene accettato, si presenta come sensazione di costrizione del tentativo di accettarsi, è lui il soggetto: l’Io stesso. Nelle parole del maestro Zen P'u-yen, "Nulla ti è lasciato in questo momento se non scoppiare in una gran risata. Hai completato il cerchio, e in verità ora sai che 'quando una mucca mangia l'erba a Kuai-chou, un cavallo sente lo stomaco sazio a I-chou’ “(28).
Insomma, comprendere che la natura è ordinata organicamente e non politica-mente, che è un campo di relazioni e non una collezione di oggetti, richiede una modalità particolare della consapevolezza umana. L'abituale modalità egocentrica in cui l'uomo si identifica con il soggetto che affronta un mondo di oggetti alieni non corrisponde alla situazione fisica. Finché resta tale, il nostro senso interno è in disaccordo con la realtà. Basandoci su questa sensazione, i nostri sforzi per controllare noi stessi e il mondo circostante diventano circoli viziosi sempre più intricati e di complessità crescente. Sempre più l'individuo si sente frustrato e impotente, al centro di un ordine meccanico del mondo che si è trasformato in un'irresistibile "marcia del progresso" verso fini propri. Ogni terapia cui l'individuo si sottopone, sia essa religiosa o psicologica, non fa altro che complicare ulterior-mente il problema, finché si continua a considerare l’Io separato come la vera realtà, verso cui dirigere i propri rimedi. Del resto, come disse Trigant Burrow, la fonte del problema è sociale più che individuale, ovvero, l’Io è una convenzione sociale imposta alla coscienza umana attraverso il condizionamento. La radice del disordine mentale non è, quindi, in un cattivo funzionamento di questo o di quell'Io, ma piuttosto nel fatto che il sentirsi un ‘Io’ è un errore di percezione. Cercare di placare questa sensazione significa soltanto continuare a permetterle di confondere la mente con una modalità di consapevolezza che, poiché si scontra con l'ordine delle cose, alimenta la vasta famiglia delle frustrazioni e malattie psicologiche.
Un ordine organico naturale trova corrispondenza in una modalità della coscienza che è quella del sentimento e dell'esperienza totale. Là dove il sentimento si scinde in senziente e sentito, in conoscente e conosciuto, quel che c'è tra i due non è più rapporto ma mera giustapposizione. Identificata soltanto con uno dei suoi termini, la consapevolezza si sente come priva di un arto, di fronte a un mon-
do alieno che controlla solo per scoprirlo sempre più incontrollabile, e che sfrutta solo per scoprirlo sempre meno gratificante.
NOTE:
1). D. Hume (1946), p. 252.
2) Per gli ideogrammi con cui queste parole vengono scritte, cfr. R.R. Matthews, Chinese-English Dictionary, 38p4 (li) e 6746 (tse). Per le forme originali cfr. B. Kalgren, Grammata Series, 978 e 906. Dato che la forma in caratteri latini delle parole cinesi non ha molto a che vedere con la reale forma di scrittura, da ora in poi identificheremo i termini cinesi con i numeri corrispondenti del Dictionary di Matthews (ad esempio, M 3864).
3) Yung, M 7560.
4) Huai Nan Tzu, 9. In J. Needham (1956), voI. 2, p. 561.
5) M 3575.
6) In J. Needham (1956). voI. 2, pp. 56}-562.
7) H.A. Giles (1926). p. 171.
8) Ying, M 7477. Needham mette in evidenza il fatto che si tratta del termine tecnico per "risonanza", un'idea fondamentale per la filosofia cinese delle relazioni tra gli avvenimenti, e derivata dal Libro dei mutamenti. Cfr. M. Eckhart: "Se il mio occhio deve riconoscere i colori, deve di per sé essere libero dai colori".
9) M 502. Anche "effetto" e "ricerca". "
10) Chi Shan Chi, 4. In J. Needham (19sf), vo!. 2. p. 89.
11) La contrattura abituale della mente può venir temporaneamente rilassata mediante l'uso di alcune droghe, come l'alcol, la mescalina e l'acido lisergico (LSD). Laddove l'alcol offusca la chiarezza della coscienza, non così accade con la mescalina e l'acido lisergico. Di conseguenza queste due sostanze, e a volte anche l'ossido d'azoto e il biossido di carbonio, inducono stati di consapevolezza in cui l'individuo percepisce la sua identità relazionale con l'intero regno della natura. Anche se questi stati sembrano simili a quelli realizzati attraverso mezzi più "naturali", differiscono da questi ultimi come nuotare con il salvagente differisce dal nuotare senza. Dalla sperimentazione personale, anche se limitata, con un gruppo di ricerca che lavorava con l'acido lisergico, sarei portato a ritenere che lo stato di coscienza indotto dall'acido si confonde con quello mistico a causa di una somiglianza linguistica nella descrizione dei due. L’esperienza è multidimensionale, come se tutto fosse interno, o implicato, in tutto il resto, e richiede una descrizione paradossale dal punto di vista della logica ordinaria. Ma, laddove la visione della natura che dà la droga è di infinita complessità, lo stato mistico è chiarificante, e dà una visione che è infinitamente semplice. La droga sembra dare all'intelligenza una qualità caleidoscopica che "organizza" la percezione delle relazioni in accordo con la sua particolare struttura.
12) Gioco di parole tra mysticism e mist, "nebbia", "foschia". [N.d.T.]
13) Nel mio libro Supreme Identity ho proposto un punto di vista dei Vedanta che illustrava molto accuratamente la differenza con il panteismo e con tutte quelle forme di misticismo "acosmistico" che sembra idealizzare la completa scomparsa del mondo naturale dalla coscienza. Eppure, fui criticato da Reinhold Niebuhr che in The Nation mi accusò di aver sostenuto esattamente quelle posizioni cui mi opponevo - un esempio interessante del fatto che i polemisti cristiani sprecano molte delle loro energie ad attaccare posizioni e punti di vista che esistono soltanto nelle loro menti.
14) A. Waley (1950), pp. 21-22.
15) HA Giles (1926), p. 345.
16) I.P. Eckermann (1930), 18 febbrato 1829.
17) A.N. Whitehead (1933), p. 248. 1
18) M 6246.
19) Su questo, cfr. J. Needham (1956)fvol. 2, pp. 89-98.
20) A. Waley (1950), p. 22.
21) Un esempio eccellente della sensibilità verso il momento si trova nell'applicazione dello zen al kendo, l'arte del maneggiare la spada. Nessuna quantità di regole o di riflessi inculcati può preparare lo schermidore all'infinita varietà degli attacchi, specialmente se gli vengono portati da più di un avversario contemporaneamente. Gli viene insegnato, quindi, a non prepararsi specificamente ad affrontare un attacco, né ad aspettarselo da qualche direzione in particolare. Altrimenti, per affrontare un attacco insolito, dovrebbe ritirarsi dalla posizione precedente prima di assumere quella adatta. Invece egli deve essere capace di scattare immediatamente da una posizione di rilassamento e di riposo verso la direzione necessaria. Questa apertura rilassata di sensibilità nei confronti di ogni direzione è esattamente kuan o, per dirla con il termine zen più comune, mushin, che vuoI dire assenza di mente, assenza di costrizione della mente che cerca di ottenere un particolare risultato.
22) Chuang-tzu, TI, cfr. HA Giles (1926), p. 14, Lin Yutang (1938), p. 235, e J. Needham (1956), voI. 2, p. 52.
23) Chuang-tzu Chu, ID, 25, in Fung Yu-lan (1953), voI. 2, p. 211.
24) Per una discussione più completa di questo tema cfr. C.G. Jung (1954) e A.w. Watts (1957), cap. 2.)
25) HA Giles (1926), pp. 207-208. 1
26) Lieh-tzu, 2. L. Giles (1925), p. 41, traduce il passaggio "la mia mente (hsin) ha dato libero corso alle sue riflessioni (nien)", ma è una traduzione troppo intellettualistica, dato che hsin (M 2735) non è tanto la mente pensante, quando la totalità del funzionamento della psiche, conscia e inconscia, e nien non è tanto il pensiero corticale, quanto ogni evento dell'esperienza psichica.
27) Chuang-tzu, 2. In HA Giles O!l26), p. 20. i
28) D.T. Suzuki (1934), p. 80.
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Parte Terza - Il mondo come estasi
Profondamente connesso con l’estraniamento dalla natura è l'imbarazzo che ci deriva dall’"avere" un corpo. Probabilmente, domandarsi se ci sentiamo a disagio nel corpo, sia che pensiamo di essere spiriti o viceversa, è come chiedersi se è nato prima l'uovo o la gallina. Certo è che siamo abituati a pensare che i nostri corpi altro non sono che veicoli in cui siamo costretti a vivere, veicoli allo stesso tempo "troppo noi stessi" e "totalmente estranei". Dato che solo imperfettamente risponde alla volontà e resiste alla comprensione intellettuale, ci sembra che il corpo ci sia stato affibbiato come una specie di moglie indispensabile con cui è impossibile vivere. Lo amiamo con trasporto e trascorriamo gran parte del nostro tempo lavorando per sostenerlo. I suoi cinque sensi, delicati e vibranti, ci comunicano l'intera delizia e la magnificenza del mondo, al prezzo però di essere egualmente ricettivi anche alla sua angoscia e al suo orrore. Il corpo è sensibile perché è morbido, flessibile e aperto alle impressioni, ma vive in un universo che è fatto in gran parte di roccia e di fuoco. Finché siamo giovani, lasciamo che la nostra coscienza si espanda con gioia attraverso tutti gli innumerevoli varchi delle terminazioni nervose del nostro corpo, ma più il tempo passa, più cominciamo a ritrarci, e chiediamo al chirurgo di "metterlo a posto", quel corpo, quasi fosse una macchina che fa le bizze - tagliandone via i pezzi che si sono consumati e che ci fanno male, ottundendo i sensi che, sconsideratamente, mantengono intatta la loro sensibilità mentre tutto il resto si deteriora. Quando assume una posizione modesta e graziosa, la forma nuda del corpo dell'uomo o della donna viene riconosciuta come la vetta della bellezza, eppure questa stessa forma può, in un solo istante, con il solo cambiamento della posizione o con un movimento, trasformarsi in qualcosa di lascivo o grottesco, disgustoso o rozzo - e questo avviene tanto rapidamente che per la maggior parte del tempo nascondiamo il nostro corpo alla vista vestendoci, e sotto gli indumenti esso si sviluppa pallido, come una specie di patata, come una di quelle lumache bianche che vivono sotto le rocce.
Il corpo è tanto lontano dalla mente che, anche quando è nella sua condizione migliore, non è tanto amato quanto sfruttato, e per il resto del tempo facciamo il possibile per inserirlo in una situazione confortevole che ci permetta di dimenti-carcelo, e dove le sue limitazioni non ingombrino il gioco delle emozioni e del pensiero. Ma per quanti modi cerchiamo di escogitare per trascendere questo veicolo fisico, la chiarezza della coscienza va di pari passo con la sensibilità dei nervi, e quindi con l'inevitabile esporsi al disgusto e al dolore. E questo è tanto vero che la durezza e il dolore delle cose diventa la misura della loro realtà. Ciò che non ci resiste assume le caratteristiche del sogno, diventa impalpabile, ma nella sferzata del dolore sappiamo che siamo vivi e svegli, e quindi arriviamo a pensare al reale come a ciò che si scontra con tutta la nostra intera sensibilità naturale nel modo più violento. Non si è mai sentito parlare della "morbida realtà", ma solo di quella dura, la "dura realtà". Eppure è proprio perché esistono realtà morbide come i bulbi oculari e i polpastrelli che la durezza può manifestarsi.
Ma, se la realtà viene misurata attraverso il livello di resistenza e di dolore che l'ambiente oppone ai nostri nervi, il corpo diventa in primo luogo lo strumento della nostra sofferenza. Esso nega la nostra volontà; si disfa prima che abbiamo perduto la capacità di disgustarci; la sventura di possederlo ci espone a tutti i ventun gradi di angoscia misurabili, raggiungibili attraverso la crudeltà della tortura umana, la sventura casuale, la malattia. Coloro che sono abbastanza fortunati da scampare al peggio, sono comunque tormentati dalle immagini di quel che avrebbe potuto accadere, e la pelle gli si accappona, lo stomaco gli si rivolta per la compassione e l'orrore di fronte al destino altrui.
Non c'è da meravigliarsi, dunque, se cerchiamo di affrancarci dal corpo, se voglia-mo convincerci che il vero "Io" non è questa massa gelatinosa di tessuti peren-nemente esposta al dolore e alla corruzione. Non c'è da meravigliarsi, quindi, se ci aspettiamo che la religione, la filosofia e le altre forme di sapere ci mostrino in primo luogo un modo per liberarci dalla sofferenza, dalla maledizione di essere un corpo morbido in un mondo fatto di dure realtà. A volte, quindi, può sembrare che la risposta consista nel contrapporre durezza a durezza, identificandoci con uno spirito dotato di principi ma non di sentimenti, e disprezzando e mortificando il corpo, per poi ritrarci nella rassicurante assenza di carne del pensiero astratto e della fantasia psichica. Per affrontare la durezza dei fatti, quindi, identifichiamo la nostra mente con simboli di fissità, di entità e di potere quali “l’Io”, la volontà e l'anima immortale, convincendoci che, nel nostro essere più recondito, apparte-niamo a un mondo spirituale posto al di là sia della durezza dei fatti sia della debolezza della carne. Si tratta, per così dire, di una fuga della coscienza dal suo ambiente di dolore, per ritrarsi sempre più indietro, in un grumo tutto raccolto intorno al suo centro.
Eppure è proprio in questo ritrarsi, in questo indurirsi, che la coscienza non solo perde la sua vera forza, ma aggrava la sua situazione. Anche il fuggire dalla sofferenza è di per sé una sofferenza, così come la coscienza limitata e rinchiusa dell'Io è in effetti uno spasmo di paura. Come un uomo con lo stomaco ferito desidera l'acqua che tuttavia gli sarebbe fatale, così il cronico ritrarsi della mente dalla sofferenza non fa che renderla più vulnerabile. Se si espande pienamente, la coscienza percepisce l'identità con il mondo, ma se si contrae in se stessa, resta sempre più indissolubilmente legata a un organismo singolo, minuto e mortale.
Ciò non significa che i nervi e i muscoli non agiscono bene quando si scostano rapidamente da una punta acuminata o da altre occasioni di dolore: altrimenti, infatti, l'organismo cesserebbe ben presto di esistere. La ritirata di cui parlo è qualcosa di più profondo: si tratta di una ritirata dalla ritirata, della riluttanza a percepire il dolore, della difficoltà che si prova a contorcersi, a spasimare quando il dolore sorge. Per quanto sottile possa sembrare questa distinzione, è di importanza capitale, sebbene a prima vista possa sembrare che il dolore e la riluttanza a reagire al dolore siano la stessa cosa. Eppure non può che risultare evidente che, se il mio organismo non fosse in grado di percepire il dolore, non potrei schivare il pericolo, e in questo modo la riluttanza a ritrarsi dalla possibilità di venir colpiti sarebbe di fatto un suicidio, laddove il semplice ritrarsi dalla fonte del dolore non lo è. È pur vero che vogliamo mangiare la nostra fetta di torta: vogliamo essere sensibili e vivi, ma non sensibili alla sofferenza. Ma ciò ci pone in una contraddizione del tipo particolarmente intollerabile del "doppio legame".
Il "doppio legame" è una situazione in cui tutte le alternative offerte sono proibite. Un imputato in un processo viene messo in una situazione di doppio legame quando il pubblico ministero gli chiede: "Ha smesso di picchiare sua moglie? Risponda sì o no". Qualunque risposta egli dia convincerà la corte che picchiava la donna. Allo stesso modo, anche quando nasce la sofferenza vogliamo sfuggire sia all'occasione obiettiva, sia alle reazioni soggettive. Ma, quando fuggire alla prima è impossibile, è impossibile evitare anche la seconda. Dobbiamo soffrire, ecco il fatto. Dobbiamo reagire sull'unica strada che ci resta percorribile - ovvero contor-cerci, tremare, piangere. Ora, il doppio legame si manifesta quando ci proibiamo questo tipo di reazioni, sia nei confronti della sofferenza presente, sia nell'imma-ginazione della sofferenza di là da venire. Ci ribelliamo alla prospettiva delle nostre stesse reazioni frenetiche al dolore perché le troviamo in aperta contrad-dizione con l'immagine socialmente condizionata di noi stessi. Accettare tali reazioni sarebbe come ammettere, sia pure con titubanza, !'identificazione di coscienza e organismo, l'assenza di una volontà distaccata, potente e trascen-dente come sede della personalità.
Ecco quindi che il sadico e il torturatore traggono il loro godimento più infernale non tanto dall'osservare le convulsioni del corpo delle vittime, ma dall’"infrangere" lo spirito che resiste loro. Eppure, se non vi fosse uno spirito a resistere, la loro crudeltà si trasformerebbe in qualcosa di simile a una spada che si accanisca sull' acqua, e si troverebbero di fronte una debolezza totale, che non offrirebbe loro né una sfida né un interesse. Ma è proprio questa debolezza che costituisce la forza, reale e insospettata, della mente. Per dirlo con le parole di Lao-tzu:
Quando nasce, l'uomo è tenero e debole; quando muore, è duro e rigido. I diecimila esseri, piante e alberi, durante la vita sono teneri e fragili; quando muoiono, sono secchi e appassiti. Perché ciò che è duro e rigido è servo della morte; ciò che è tenero e debole è servo della vita.
Dunque: se un'arma è troppo rigida viene distrutta; se un albero è troppo rigido si spezza. Ciò che è duro e rigido è posto in basso; ciò che è tenero e debole è posto in alto. (LXXVI)(1)
Ecco che l'aver permesso all'organismo di esprimere senza riserve la sua risposta naturale, orgiastica, al dolore porta con sé due conseguenze inattese. La prima è la capacità di resistere al dolore e alla previsione del dolore attraverso l'immissione di una quantità estremamente maggiore di "elasticità" all'interno dell'organismo. L'altra è che in questo modo si diminuisce l'impatto generale della sofferenza, cosa che, a sua volta, riduce l'intensità delle reazioni. In altre parole, l'indurimento dello spirito di fronte alla sofferenza e il conseguente ritrarsi della coscienza dalle sue reazioni incontrollate sono errori di comportamento inculcati dalla società, che finiscono per rendere la situazione umana molto peggiore di quanto potrebbe essere. Inoltre, questa ripulsa della coscienza di fronte alle reazioni della sofferenza è alla radice di un meccanismo psicologico analogo - ovvero il rifiuto di provare la maggior parte delle reazioni di piacere - ed entrambi questi rifiuti creano la sensazione di un Io separato all'interno del corpo.
Questa è certamente la ragione per cui tante tradizioni spirituali insistono sul fatto che la strada per liberarsi dell'egocentrismo passa per la sofferenza. Eppure si fraintende spesso questo processo con un indurimento nei confronti della soffe-renza ottenuto accrescendo le dosi di mortificazione al fine di irrobustire il corpo e l'anima. Interpretata in questo modo, la disciplina spirituale della sofferenza diventa un itinerario di insensibilità e di morte, attraverso cui si giunge a un totale ritiro dalla vita che comporta il rifugiarsi in un mondo "spirituale", totalmente estraneo alla natura. È per correggere questo errore che il buddhismo Mahayana afferma che "il nirvana e il samsara non sono differenti", ovvero che lo stato di libertà non è lontano dallo stato di natura, e che il Bodhisattva liberato ritorna indefinitamente nel "circolo della nascita e della morte" per la compassione che prova nei confronti di tutti gli esseri senzienti. Per la stessa ragione la dottrina buddhista nega la realtà di un Io separato e dice:
Solo la sofferenza esiste, ma non chi soffre;
l'azione esiste, ma non chi la compie;
il nirvana esiste, ma non chi lo cerca;
il sentiero esiste, ma non chi lo percorre. (2)
Di nuovo, inaspettatamente, la dissoluzione (sankocha) della contrazione egocen-trica della coscienza non riduce affatto la personalità a una flebile non-entità. Al contrario, l'organismo compie allora il suo massimo sforzo per realizzare il rapporto più pieno possibile con il suo ambiente - un rapporto che è quasi impercettibile quando la coscienza individuale cerca di conservarsi attraverso la separazione dal corpo e da tutto ciò di cui esso fa esperienza. "Ciò che salvereb-be la sua anima è ciò che la perderà," e dovremmo interpretare questo "salvare" nel senso di mettere in salvo, come qualcosa che racchiude e isola. Viceversa, dovremmo comprendere che l'anima o la personalità vive esattamente nella misura in cui non si ritrae, nella misura in cui non si sottrae a tutte le implicazioni con-nesse con l'essere tutt'uno con il corpo, e con l'intero regno dell'esperienza naturale. Poiché, sebbene ciò sembri suggerire l'assorbimento dell'uomo nel flusso della natura, l'integrità della personalità si mantiene molto meglio confidando nella donazione di se stessi che con l'ansia sconvolgente dell'autoconservazione.
Abbiamo visto che il ritrarsi dell'anima dalla sofferenza e il suo sforzo di ottenere la gratificazione sono, fondamentalmente, la stessa cosa. In ogni caso, anche la strada della dissoluzione non cambia, e implica in primo luogo il riconoscimento che la coscienza, finché insiste a sentirsi ‘Io’, non può impedirsi di ritrarsi, di provare repulsione di fronte alla risposta orgiastica al dolore. Si deve quindi comprendere che questa stessa repulsione è parte integrante della risposta-orgia-stica e non, come siamo condotti a credere, uno strumento di fuga da essa. In altre parole, si tratta di riconoscere che tutte le nostre difese psicologiche contro la sofferenza sono inutili. Più ci difendiamo, più soffriamo, e la difesa è in sé una sofferenza. Anche se non possiamo fare a meno di organizzare le nostre difese psicologiche, esse si dissolvono quando ci accorgiamo che la difesa è tutt'uno con ciò da cui ci si difende. Il movimento intero è una contrazione della sofferenza che non ci distoglie da essa. Perseverando nella sofferenza pensando di liberarsi da essa si finisce semplicemente per intensificarla. Ma perseverando in essa, perché essa è semplicemente la risposta naturale a cui, se non a costo di ingannare noi stessi, dobbiamo dar voce, l'intera esperienza della sofferenza subisce una metamorfosi sorprendente.
Diventa ciò che nella filosofia indiana si chiama ananda e che generalmente si traduce con "beatitudine". Ananda è un attributo di Brahma, la realtà ultima oltre tutti i dualismi, insieme a sat, verità, e chit, consapevolezza. Poiché di solito siamo portati a considerare la beatitudine una condizione mentale estremamente dualistica - il massimo della felicità o di piacere, contrapposti a un estremo eguale e contrario di desolazione o di dolore - potrebbe sembrare contraddittorio attri-buire una cosa tanto relativa come la beatitudine all'Assoluto fino a fame uno dei suoi attributi. E, infatti, se la beatitudine si realizza in contrapposizione alla desolazione più abietta, allo stesso modo in cui si conosce la luce perché la si contrappone alle tenebre, come èpossibile contemplare una beatitudine che sia non-duale ed eterna?
Si deve innanzi tutto comprendere che la filosofia indiana utilizza una terminologia convenzionale, simile al trucco della prospettiva, attraverso il quale possiamo rappresentare su una superficie bidimensionale uno spazio tridimensionale. Ogni linea tracciata su una superficie piatta non potrà che essere più o meno orizzon-tale o verticale, estendendosi in altezza o in larghezza sull' area. Ma, nella conven-zione prospettica, linee oblique, convergenti in un punto, sono interpretate come rappresentazione della terza dimensione, quella della profondità. Come una super-ficie piatta ha soltanto due dimensioni, così il pensiero e il linguaggio solitamente dispongono solamente di una logica rigidamente dualistica. E in quell'ambito non ha senso parlare di ciò che "né è né non è" allo stesso tempo, e quindi neppure di una beatitudine che trascenda sia il piacere sia il dolore. Ma, proprio come si può suggerire la terza dimensione anche in un ambito bidimensionale, allo stesso modo si può suggerire un'esperienza oltre il dualismo, anche in un linguaggio dualistico. Il termine stesso "non-dualistico" (advaita) è, dal punto di vista formale, l'opposto di "duale" (dvaita), così come beatitudine è l'opposto di desola-zione. Ma la filosofia indiana usa advaita e ananda in un contesto in cui questi termini vengono riferiti a un'altra dimensione dell'esperienza, così come alle linee che sono più o meno alte o più o meno spesse viene dato il significato della profondità. Inoltre, quest'altra dimensione dell'esperienza è interpretata come appartenente a un altro ordine di realtà, più elevato rispetto a quello del dualismo in cui vita e morte, piacere è dolore si trovano nettamente distinti.
Quel che proviamo dipende in un modo eccezionale quanto insospettabile da quel che pensiamo, e i contrasti fondamentali del pensiero ci colpiscono di solito come contrasti fondamentali del mondo naturale. Quindi, diamo per scontato che proviamo una grande differenza tra piacere e dolore. Ma invece è evidente, nelle manifestazioni più mediate di queste sensazioni, che il piacere o il dolore non consistono tanto nelle sensazioni in sé quanto nella loro interpretazione, e nel loro contesto. Non vi è alcuna differenza fisiologica apprezzabile tra i brividi di piacere e quelli di paura, né tra la pelle d'oca che ci può provocare una musica travol-gente e quella di un melodramma agghiacciante. Allo stesso modo, medesime intensità di gioia o di dolore producono la stessa sensazione di "cuore in gola" che si esprime nel pianto, e innamorarsi profondamente significa entrare in uno stato in cui gioia e angoscia sono talmente intrecciate da diventare pressoché indistin-guibili. Ma il contesto dei sentimenti muta la loro interpretazione, e li fa dipendere dalle circostanze in cui sono sorti, mutando il segno degli uni a seconda se le altre sono a nostro favore o contro di noi. Allo stesso modo, lo stesso singolo suono cambia il suo significato a seconda della posizione in cui si trova, come ci dice Thomas Hood:
Il sagrestano andò a suonare la campana.
E loro andarono a suonarle al sagrestano.
È abbastanza facile cogliere l'identità sensoriale o fisiologica di questi sentimenti in alcune delle forme più attenuate di piacere e dolore fisici, e anche in alcune forme intense di piacere e dolore morali. Ma è straordinariamente difficile accor-gersene quando esse diventano troppo acute. Ciò nonostante, in alcune circo-stanze particolari di sensibilità acutizzata, come nella devozione religiosa e nella passione sessuale, i tipi più diversi di piacere e di dolore perdono la loro distin-zione. Di solito, discipline ascetiche come l'autoflagellazione, l'indossare cilici o inginocchiarsi sui cocci di vetro vengono adottate per fare violenza al desiderio di piacere. Eppure, è possibile che l'ascetismo sia la strada di una genuina intuizione spirituale, poiché, infine, seppure non intenzionalmente, porta alla comprensione che nell'ardore della devozione piacere e dolore sono la stessa, unica estasi.
L'esempio più immediato è la celebre effigie di santa Teresa d'Avila scolpita dal Bernini. La santa è rappresentata in estasi, colpita dal dardo del divino amore. Il suo viso può esprimere sia rapimento sia tortura, e il sorriso dell'angelo che scocca il dardo può essere sia compassionevole sia crudele. Possiamo anche pren-dere in considerazione, per quanto perversi e anormali si considerino di solito, i fenomeni del sadismo e del masochismo - meglio definiti con il termine unico di algolaghnìa, ovvero "lussuria del dolore". Limitarsi a liquidare questi fenomeni come perversi o innaturali è come dire che non si adattano a una concezione predefinita di ordine. Il fatto stesso, invece, che rientrino nelle possibilità umane dimostra che sono estensioni di sensazioni normali, e rivelano profondità della nostra natura che di solito vengono lasciate inesplorate. Per quanto sgradevoli essi possano essere, non dobbiamo tralasciare di studiarli per cercare di scoprire se gettano una qualche luce sul problema della sofferenza.
Il sadico è, in effetti, un masochista vicario, dato che infliggendo il dolore si identifica emotivamente con la sua vittima, e dà un'interpretazione sessuale alle reazioni di questa alla sofferenza. Il masochismo, o algolaghnìa, è l'associazione delle contrazioni orgasmiche del dolore con l'estasi sessuale, e implica molto più di quel che a un osservatore esterno possono sembrare le due reazioni tipiche. Il masochista trova in un certo tipo di dolore uno stimolante positivo per l'orgasmo sessuale, e più cresce l'intensità della sensazione, più riesce a trovare piacere a livelli sempre più alti di dolore. La spiegazione freudiana classica per questo com-portamento è che il masochista associa a tal punto il piacere sessuale alla colpa da non potersi permettere quel piacere se non a costo di subire una punizione. Ho qualche dubbio in proposito e, come per molti ragionamenti freudiani, mi sembra un modo inutilmente complicato di stiracchiare i fatti per farli entrare a tutti i costi nelle teorie. Anche perché il masochismo si può trovare in culture in cui la sessualità e il peccato non sono affatto alleati nel modo in cui sono "sposati" nel-l'Occidente cristiano(3). Sarebbe meglio e più ragionevole dire che il masochista intensifica o stimola le sue reazioni sessuali introducendo reazioni simili provocate dal dolore. A questo si dovrebbe aggiungere che il desiderio del masochista di venir soggiogato o umiliato si unisce al fatto che tutte le estasi sessuali, femminili o maschili che siano, mostrano la tendenza all'abbandono di sé, alla resa a una forza più intensa dell'Io.
Una prova ancora più evidente dell'identità piacere-dolore è venuta alla luce nel lavoro dell'ostetrico inglese Grantley Dick Reid che ha approfondito alcune note-voli tecniche sul parto naturale. I dolori del parto possono di solito raggiungere un'intensità davvero notevole, fino a toccare il livello più alto di dolore raggiun-gibile dall'organismo. L'interesse della tecnica di Reid consiste nel fatto che fa concentrare la partoriente sulla percezione della contrazione uterina in sé, disto-gliendola dalle idee frutto del condizionamento sociale su come "dovrebbero esse-re" i dolori. Finché la partoriente considera ciò che prova un dolore, gli resiste, ma se riesce a considerarlo una semplice tensione, le si può mostrare come riuscire ad affrontarlo e a rilassarsi - una tecnica che si può apprendere attraverso esercizi di preparazione al parto. Così, abbandonandosi senza riserve alle contrazioni spontanee dell'utero, la donna riesce ad attraversare l'esperienza del parto come un'estasi fisica estremamente intensa e non più come una tortura.
Potrebbe sembrare che tutti questi tipi di piacere-dolore siano indotti ipnotica-mente, nell'atmosfera della devozione religiosa, della passione sessuale o attra-verso l'autorevole suggestione del medico. Fino a un certo punto, ciò può anche essere vero, anche se sarebbe meglio definire il fenomeno "controipnotismo", ovvero un'ipnosi che va contro la forza immensa della suggestione sociale che ci ha imposto sin da piccoli un'interpretazione precisa da dare alle nostre sensazioni e ai sentimenti. È certo che il bambino impara come dovrebbe interpretare le sensazioni di dolore dall'atteggiamento di simpatia, orrore, disgusto, mostrato dai suoi genitori. In questi atteggiamenti, il bambino coglie una resistenza simpatetica al dolore che impara a fare sua.
D'altra parte, l'ardore religioso, la passione sessuale o la rassicurazione di un medico creano un'atmosfera in cui l'organismo può abbandonarsi in pieno alle proprie reazioni spontanee. In quelle situazioni, l'organismo non è più scisso in un animale naturale e in un Io controllore. Tutto l'essere è una cosa sola con la sua spontaneità e si sente libero di lasciarsi andare al più completo abbandono. Le stesse condizioni sono indotte attraverso pratiche religiose come la danza dei dervisci o il canto dei mantram, i riti penitenziali o la glossolalìa dei predicatori pentecostali. Ma il carattere frenetico, esplosivo e persino pericoloso di questo abbandonarsi alla spontaneità è in gran parte il risultato del fatto che di solito essa rimanga compressa. In una cultura in cui il sesso è calcolato, la religione decorosa, il ballo beneducato, la musica raffinata o sentimentale, e gridare di dolore vergognoso, molte persone non hanno mai sperimentato la piena sponta-neità. Si sa poco o nulla delle sue conseguenze catartiche e purificatrici, per non parlare del fatto che la spontaneità può essere controllata creativamente e diventare anche una costante dell'esistenza. In questa situazione, il compito di coltivare la spontaneità è lasciato alle frange "ribelliste", ai festival negri, alla musica jazz, o ai concerti di rock'n'roll. Non riusciamo neppure a concepire come la descrizione del Saggio di Coomaraswamy, come di uno che vive "una vita nel presente, aliena da ogni calcolo"(4), possa significare qualcosa di diverso dal puro disordine.
Il punto è che, insomma, quando le reazioni naturali dell'organismo al dolore vengono lasciate libere di esprimersi, il dolore va oltre il piacere e diventa estasi - cosa che corrisponde esattamente all'ananda. Cominciamo qui a scoprire un approccio al mistero della sofferenza umana adeguato all'immensa ineluttabilità del problema. Ciò non significa rinunciare ai nostri sforzi per ridurre il quantitativo di dolore nel mondo, ma solo accettare che, per quanto volenterosi, essi sono radicalmente insufficienti. La stessa insufficienza affligge tutte le solite razionaliz-zazioni religiose e filosofiche in cui la sofferenza viene interpretata come stru-mento temporaneo nel compimento del piano divino, o come giusta punizione per il peccato, oppure come illusione di una mente finita. Si percepisce istintivamente che alcune di queste risposte sono un affronto alla dignità della sofferenza e alla sua straboccante realtà per ogni singola forma di vita. Del resto, ovunque guar-diamo nella storia dell'universo, troviamo ben poche prove e ancor minori assicu-razioni che il conforto sia generalmente qualcosa di più di una rarità. La vita è stata e sembra destinata a essere per la maggior parte del tempo convulsa e catastrofica, destinata in futuro a continuare a sbranarsi e a divorarsi da sola(5). Il problema della sofferenza continuerà quindi ad avere una sorta di terribile sacralità finché la vita continuerà a dipendere in qualunque modo dal dolore anche di una sola creatura.
Si dovrebbe rispettare l'ideale indiano di ahimsa “non-violenza” o "inoffensività" e comportarsi come il monaco buddhista che riduce al minimo la morte e il dolore che potrebbe causare alle altre creature. Ma, in effetti, quest'astinenza non è altro che un atteggiamento che corrisponde, quando ci si rifletta, a un ritrarsi dal pro-blema. Di nuovo: la risposta al problema del dolore non è lontana dal problema, ma in esso. L’ineluttabilità del dolore non può venir affrontata con la mortificazio-ne della sensibilità, bensì con la sua intensificazione, esplorando e sperimentando le modalità in cui l'organismo naturale stesso desidera reagire e che gli sono state fornite da una sapienza innata. Il medico che si accosta al letto del moribondo dovrebbe tenere lo stesso atteggiamento del medico accanto al letto del bambino, ovvero creare un'atmosfera in cui la repulsione fisica e morale alla morte e ai suoi dolori vengono compiutamente autorizzate e incoraggiate. Le sensazioni di un essere sofferente devono essere lasciate libere di muoversi secondo la direzione che dà loro la natura, soggette soltanto a un controllo esterno che impedisca un'azione distruttiva.
Cominceremmo a vedere, allora, che la risposta alla sofferenza è la reazione del-l'organismo, la sua tendenza innata a trasformare un dolore inevitabile in estasi. È questa l'intuizione che sottende al mito cosmologico dell'induismo, in cui il mondo nella sua pienezza di delizie e di orrori è considerato come un'estasi di Dio, un Dio che si incarna perpetuamente, in un atto di autoabbandono, nelle miriadi di forze delle creature. Ecco perché Shiva, il divino prototipo di tutta la sofferenza e della distruzione, è Nataraja, il "Signore della Danza". E l'eterna, agonizzante dissolu-zione, nonché il rinnovamento della vita, sono la danza di Shiva, che è sempre estatica perché priva di conflitti interni, dato che, in altre parole, è non-duale, in essa non esiste resistenza da parte di un controllore esterno al controllato, in essa non vi è altro principio di movimento oltre al suo sahaja, spontaneità.
Lasciata a se stessa, la spontaneità dell'organismo non incontra alcun ostacolo al suo movimento continuato che, come l'acqua corrente, trova perpetuamente da solo il corso di minore resistenza. Come disse Lao-tzu:
La "bontà" suprema è come l'acqua. La "bontà" dell'acqua consiste nel fatto che essa reca profitto ai diecimila esseri senza lottare. Essa resta nel posto (il più basso) che ogni uomo detesta. Ecco perché è molto vicina al Tao. (VIII)(6).
Dato che non si blocca, il corso della sensazione acquisisce un senso di libertà, di "vuoto", rappresentato nella terminologia buddhista ch’an e taoista dal termine wu-hsin, ovvero "assenza di Io" o "non-pensiero" - nessun essere senziente che sia in conflitto con la sensazione. Nel dolore e nella gioia, nella sofferenza e nel piacere, le reazioni naturali si susseguono l'una all'altra senza soluzione di continuità, "come una palla che scende lungo un torrente di montagna".
La sofferenza e la morte - tutto il lato oscuro e distruttivo della natura che è rappresentato da Shiva - costituiscono quindi un problema per l’Io, ma non per l'organismo. L'organismo accetta tutto ciò attraverso l'estasi, mentre invece l’Io è rigido e inflessibile e trova tutto ciò problematico in quanto attacca il suo orgoglio. Come ha mostrato Trigant Burrow, l’Io è l'immagine sociale, il ruolo con cui la mente è costretta per vergogna a identificarsi, dato che ci viene insegnato a inter-pretare la parte che la società vuole che recitiamo -la parte di un centro d'azione affidabile e prevedibile, che resiste ai mutamenti spontanei. Ma nella sofferenza estrema e nella morte non si può più recitare alcuna parte, ed ecco quindi che queste circostanze vengono associate con tutta la vergogna e la paura con cui, da piccoli, ci hanno costretti a diventare un "Io" accettabile. La morte e l'angoscia sono quindi temute come una perdita di stato sociale, e di fronte a loro ci si sforza di mantenere gli schemi consueti di azione e di sensazione.
Eppure in alcune società tradizionali, l'individuo si prepara alla morte abbando-nando il suo ruolo prima di morire, ovvero staccandosi dalla sua casta e dal suo ambiente sociale e diventando, con piena approvazione da parte della società, un "nessuno". In pratica, poi, anche questo moto di liberazione dagli schemi della società può venir frustrato e trasformato in un nuovo status sociale, poiché anche essere "nessuno" diventa un ruolo formale - quello del "sant'uomo", o sanyasin, il monaco ecclesiastico convenzionale.
Tutto ciò deriva da un timore della spontaneità che è basato non soltanto sulla confusione tra ordine di tipo biologico con ordine politico, legale e basato sulla forza, ma nasce anche dall'incapacità di vedere che la spontaneità dei bambini è socialmente problematica perché ancora embrionale e non coordinata. Ed è allora che commettiamo l'errore di far socializzare i bambini sviluppando non la loro spontaneità, ma un sistema di resistenze e di paure che, per così dire, scinde l'organismo in due centri, uno spontaneo e l'altro inibitorio. Ecco perché è raro incontrare persone integrali, capaci di una spontaneità auto-controllata, cosa che infatti suona come una contraddizione in termini. È come se insegnassimo ai nostri figli a camminare sollevando i piedi con le loro stesse mani, invece di muo-vere le gambe "dall'interno". Non capiamo che prima che la spontaneità possa giungere a controllarsi deve essere in grado di funzionare. Le gambe devono avere piena libertà di movimento prima di acquisire la disciplina necessaria per camminare, correre o danzare. E muoversi disciplinatamente significa controllare un movimento rilassato. Allo stesso modo, l'azione e la sensazione disciplinate non sono altro che azioni e sensazioni rilassate dirette verso un fine preordinato. Il pianista deve, di conseguenza, acquisire rilassatezza e libertà nelle braccia e nelle dita prima di poter eseguire passaggi musicali complessi, e la tecnica peggiore si acquisisce obbligando le dita a eseguire esercizi pianistici senza un preliminare rilassamento.(7)
Dopo tutto, la spontaneità è totale sincerità, in cui l'essere nella sua interezza è coinvolto nell'atto senza la minima riserva e, di norma, l'adulto civilizzato può arrivare a questo estremo soltanto se spinto dalla disperazione più abietta, dalla sofferenza più intollerabile o dalla morte imminente. Di qui il proverbio: "Negli estremi dell'uomo è l'opportunità di Dio". Un saggio indù dei nostri giorni affer-mava che la prima cosa che doveva insegnare agli occidentali che venivano da lui era come piangere, cosa che mostra anche che la nostra spontaneità è inibita non soltanto dal complesso dell'Io ma anche da una certa concezione anglosassone della virilità. Lungi dall'essere forme di forza, la rigidità e la durezza mascoline che esibiamo non sono altro che una sorta di paralisi emozionale. Le adottiamo non tanto perché teniamo sotto controllo i nostri sentimenti, ma piuttosto perché li temiamo, così come temiamo tutto ciò che nella nostra natura è simbolicamente femminile e accondiscendente. Ma un uomo emotivamente paralizzato non può essere maschio, ovvero non può esserlo in rapporto a una donna, poiché nella sua natura deve esserci qualcosa di femminile perché egli possa entrare in relazione con una donna.
Colui che si riconosce gallo ma si comporta come una gallina è il burrone del mondo. Egli è il burrone del mondo; la "Virtù" non ne scorre mai via. Egli ritorna allo stato di lattante [ovvero alla spontaneità]. (XXVIII)(8).
Essere simili ai bambini, ovvero la semplicità senza artifici, è l'ideale dell'artista non meno che del saggio, dato che si tratta di portare a compimento l'opera d'arte o la vita stessa senza la minima traccia di affettazione, di divisione tra due mentalità. Ma la strada per giungere al bambino passa attraverso la donna, attraverso la spontaneità flessibile, che sa attendersi semplicemente a ciò che si è, momento per momento, nell'incessante mutare del corso della natura. È proprio a questo "semplicemente ciò che si è" che si riferisce l'adagio indù Tat tvam asi, "Tu sei Questo", e "Questo" è il Brahman eterno e non-duale. Nella misura in cui questa strada è libera dall'autocontrollo oppresso dall'ansia, è egualmente lontana dall'esibizionismo di chi si atteggia a libertino, e che ostenta di "essere se stesso" per progetto, per scandalizzare e attirare l'attenzione, e i cui vizi sono ipocriti quanto le virtù dei farisei. Ricordo un party avant-garde in cui circolavano alcuni uomini completamente nudi che in realtà erano più pesantemente vestiti di chiun-que altro in quella stanza, dato che non riuscivano a capire che la nudità è una condizione radicalmente inevitabile per l'essere umano, poiché i nostri abiti, la nostra pelle, la nostrà personalità, i nostri vizi e le nostre virtù sono trasparenti come lo spazio. Non possiamo avanzare diritti su questi elementi, e non c'è nessuno che possa avanzare una simile richiesta, dato che il sé è trasparente come i suoi indumenti. Per quanto vuoto e nichilistico possa apparire, questo riconoscimento della nostra totale nudità e della trasparenza del sé è una gioia indicibile, poiché quel che è davvero vuoto non è la realtà in sé, ma tutto ciò che sembrerebbe bloccarne la luce.
Il vecchio P'ang non chiede nulla al mondo;
Tutto è vuoto per lui, e non ha neppure un seggio,
Perché il Vuoto assoluto regna nella sua casa;
Quanto è vuota, in verità, e senza tesori!
Quando il sole sorge, egli cammina attraverso il Vuoto,
Quando il sole tramonta, egli dorme nel Vuoto;
Seduto nel Vuoto canta i suoi canti vuoti;
Ed i suoi canti vuoti riverberano nel Vuoto.(9)
Dare un nome o simboleggiare il contenuto gioioso di questo vuoto è sempre dire troppo - per dirla con lo Zen, è come mettere le gambe al serpente. Nella filosofia buddhista, il vuoto o Vacuità (sunyata) denota la realtà più solida e fondamentale, anche se viene chiamata "vuoto" perché non può mai divenire oggetto di cono-scenza. E ciò perché, essendo comune a tutti i termini relativi - figura e sfondo, solido e spazio, movimento e quiete - il vuoto non viene mai conosciuto nel contrasto con nient'altro e quindi non può mai venir percepito come oggetto. Potremmo chiamarlo realtà fondamentale, o sostanza del mondo soltanto per analogia, dato che, a rigor di termini, la realtà è conoscibile solo in contrasto con l'irrealtà e la sostanza o materia soltanto in contrapposizione alla forma o allo spazio vuoto. Comunque, si può comprendere attraverso la sapienza intuitiva che i buddhisti chiamano prajna, dato che, come abbiamo visto, tutti i termini relativi hanno un'identità interiore che, non essendo uno dei termini è, in senso stretto, "in-(de)terminabile", ovvero impossibile da descrivere o da immaginare. Prajna è una modalità della conoscenza diretta, ovvero conoscenza non mediata dalle parole, dai simboli o dalle immagini, e dalle classificazioni logiche con tutta la loro ineluttabile dualità di interno ed esterno.
Il "vuoto" dell'universo significa anche che i contorni, le forme e i limiti cui riferiamo i nostri termini sono in continua evoluzione, e in questo senso la realtà non può venir fissata o limitata. Viene detta "vuota" perché non può venir afferra-ta, poiché anche
le colline sono ombre,
e fluttuano da forma a forma,
e nulla è immobile.
Resistere a Shiva, al mutamento, alla sofferenza, alla dissoluzione e alla morte significa resistere alla trasparenza, anche se la resistenza stessa non è altro che una mano fantasma che cerca di afferrare le nuvole. La sofferenza è l'estasi defi-nitiva, poiché ci forza ad abbandonare la nostra presa su noi stessi e scioglie "tutta questa carne troppo solida". L'eterno rinnovamento e la dissoluzione del mondo sono la rivelazione più evidente e dalla quale non si può sfuggire per il fatto che la "forma è vuoto e il vuoto stesso è forma", e che l'Io tormentato è un anello di difesa dal nulla. La fugacità da cui cerchiamo di liberarci è la vera liberazione.
Non vi sono metodi né strumenti per comprendere tutto ciò, dato che ogni stru-mento sarebbe artificioso, un tentativo, in ultima analisi, di diventare qualcosa, di essere più di questo momento di scioglimento, in cui crolla la fondamentale ten-sione della volontà. Credere in un Dio immutabile, in un'anima immortale, e anche in un ‘nirvana’ senza fine come a qualcosa da conquistarsi, è parte di questa artifi-ciosità, e non è diverso dalle sterili sicumere dell'ateismo e del materialismo scien-tifico! Non c'è strada per giungere dove siamo, e chiunque la cerchi non si troverà dinanzi altro che una liscia parete di granito senza alcun passaggio, né appiglio. Lo yoga, le preghiere, le terapie e gli esercizi spirituali non sono fondamental-mente nient'altro che elaborate dilazioni del riconoscere che non c'è nulla da afferrare e nessun modo per afferrarlo.
Ciò non vuol dire che Dio non esiste, o negare la possibilità che ci sia una qualche forma di continuità individuale dopo la morte. Vuol dire, piuttosto, che un Dio da afferrare o in cui credere non è Dio, e che la continuità cui aneliamo è meramente la continuità di una prigionia. La morte si presenta a noi come la possibilità di un sonno senza risveglio, o al massimo come la possibilità di svegliarci nei passi di qualcun altro - come ci è già accaduto alla nascita. Per quanto deprimente o spa-ventoso possa apparire di primo acchito, in realtà il pensiero di un sonno senza risveglio, in eterno, è stranamente fruttuoso, dato che contribuisce ad:
attirarci fuori dal pensiero, come fa l'eternità.
Una simile contemplazione della morte rende il nocciolo del sé privo di sostanza, e più ci addentriamo in lei, più ci rendiamo conto che un sonno senza risveglio non deve essere confuso con la fantasia di venir rinchiusi in un'oscurità eterna. La scomparsa della stessa oscurità riduce l'immaginazione all'impotenza e il pensiero al silenzio. A questo punto, noi di solito occupiamo il nostro cervello con altre questioni, ma il fascino della certezza della morte può a volte tenerci in uno stato di stupore, finché non ci giunge una curiosa illuminazione in cui ci rendiamo conto che quel che muore non è la coscienza, ma la memoria. La coscienza ritorna in ogni creatura appena nata, e non appena ritorna è "Io". E, in quanto essa è soltanto quest’ Io, si batte incessantemente in centinaia di milioni di esseri contro la dissoluzione che la libererebbe. Vedere ciò è sentire la solidarietà più profonda - una sorta di identità - con le altre creature e cominciare a comprendere il signifi-cato della compassione.
Nella gioia intensa che segue alla completa comprensione della nostra momenta-neità e trasparenza, e al fatto che nulla può venir afferrato, non si fa più questio-ne di un freddo distacco dal mondo. Un uomo che aveva compreso pienamente mi scrisse: "Mi sto attaccando il più profondamente che posso a tutti gli uomini e alle cose possibili". Dopo il pralaya in cui tutti i mondi manifesti vengono dissolti, Brahma si precipita di nuovo nella miriade di forme di vita e di coscienza e, dopo aver realizzato il nirvana, il Bodhisattva ritorna nel circolo interminabile della nascita e della morte.
Ancora oltre il limite estremo c'è un passaggio,
Da cui egli ritorna nei sei regni dell'esistenza [...]
Come una gemma sta, anche nel fango,
Come oro risplende, anche in un forno. (10)
Nell'attaccamento è il dolore, e nel dolore la liberazione, sicché a questo punto l'attaccamento non offre più ostacoli, e chi si è liberato è finalmente libero di amare tutto con tutta la forza e di soffrire con tutto il suo cuore. E questo avviene non perché egli abbia appreso a scindersi in due entità, una superiore e una inferiore, tanto da potersi osservare con interiore indifferenza, ma piuttosto perché ha trovato il punto di incontro tra il limite della saggezza e il limite della follia. Il Bodhisattva è il folle che è diventato saggio persistendo nella sua follia.
L'adorazione che gli innumerevoli fedeli hanno tributato, sia pur con le migliori intenzioni, ai Buddha, ai saggi, a coloro che sono liberati, ha naturalmente posto questi ultimi al culmine del successo spirituale, ma, allo stesso tempo, ha ritardato il risveglio dei primi. E infatti il regno della liberazione è assolutamente incommen-surabile con le relatività di alto e basso, migliore e peggiore, vinto e perso, dato che tutte queste cose non sono che i vantaggi e gli svantaggi, trasparenti e vuoti, dell'Io. Anche se non ancora del tutto esatto, sarebbe tuttavia meno travisante pensare alla liberazione come all'abisso del fallimento spirituale - una condizione in cui non si possono neppure avanzare diritti sui vizi, per tacere delle virtù. Guardando all'interno della sua vuota momentaneità, il Bodhisattva conosce una disperazione che va oltre il suicido, una disperazione assoluta, che è poi il signifi-cato etimologico di nirvana. È la totale delusione di ogni speranza di salvezza o di riposo di vittoria, e il suicidio stesso non rappresenta una fuga dato che “l’Io” si risveglia di nuovo in ogni essere che nasce. È il riconoscimento della sconfitta finale di ogni artificio dell’Io che, in questa delusione, si dissolve, trovando solo vuoto nella sua più frenetica resistenza al vuoto, soffrendo nella fuga dalla soffe-renza, e riuscendo soltanto ad afferrarsi nei suoi tentativi di lasciarsi andare. Ma qui l'uomo scopre, nel suo stesso dissolversi, il medesimo vuoto da cui si irradia l'intera moltitudine dei soli, delle lune e delle stelle.
NOTE:
1) In Ch'u Ta-kao (1937), p. 89.
2) Visuddhimagga, 16.
3) Si può provare che il consapevole masochismo fu introdotto per la prima volta in Occidente dalla cultura araba - una cultura visibilmente libera da pastoie in materia sessuale. Cfr. H. Ellis (1942), parte II, p. 130, che cita A. Eulenburg, Sadismus und Masochismus.
4) A.K. Coomaraswamy (1957), p. 134.
5) È interessante riflettere sulle conseguenze del rifiuto dell'uomo civilizzato di farsi mangiare da altre forme di vita, sul fatto che non voglia più restituire il suo corpo alla fertilizzazione del suolo da cui, in effetti, proviene. È un sintomo significativo della sua alienazione dalla natura, e probabilmente una perdita difficilmente negabile quanto a risorse della terra.
6) Ch'ti Ta-kao (1937), p. 18.
7) Cfr. L. Bonpensiere (1953). È pur vero che Beethoven diteggiò alcuni passaggi delle sue sonate in modo da ottenere un effetto di difficoltà e di conflitto. Ma questa è l'eccezione che conferma la regola. In effetti il compositore voleva che quei passaggi esprimessero musicalmente l'idea del conflitto.
8) Ch'u Ta-kao (1937), p. 38.
9) P'ang Chii-shish, maestro zen del IX° secolo. In D.T. Suzuki, Essays...(1950), vol. 2, p. 297.1
10) Tzu-te Hui. In D.T. Suzuki, Manual.. (1950), pp. 150-151. 1
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Parte Quarta -Il mondo come nonsenso
Che la nostra vita sia un istante di dissolvimento, in cui non c'è nulla e nessuno da afferrare, è il modo negativo di esprimere qualcosa che può essere anche espresso positivamente. Ma il modo positivo di esprimere questo concetto non è affatto così efficace e potente, e può portare facilmente a malintesi. La sensazione che ci sia qualcosa da afferrare riposa sull'apparente dualità di ‘Io’ ed esperienza. Ma la ragione per cui non c'è nulla da afferrare sta nel fatto che questa dualità è solo apparente, cosicché il tentativo di "mordere" la realtà è paragonabile a quello di mordersi un dente con un altro dente. Una volta compreso questo fatto, si può comprendere altresì che il soggetto e l'oggetto, il sé e il mondo, sono un'unità o, più precisamente, una "non-dualità", dato che la parola "unità" potrebbe essere intesa come esclusione della diversità.
Scompare così il senso dell'abissale distanza tra l’Io e il mondo, e la propria vita, intima e soggettiva, non sembra più separata e lontana da tutto il resto, dall'espe-rienza complessiva del flusso della natura. Diventa semplice, evidente, che "tutto è Tao", un processo integrato, armonioso e universale dal quale è assolutamente impossibile deviare. La sensazione è a dir poco meravigliosa, sebbene non ci sia una ragione logica per questo, salvo che essa non si debba ricercare, forse, nel sollievo connesso al sentirsi liberi dall'esigenza cronica di doversi "confrontare" con la realtà. Da quel momento in poi, infatti, non ci si confronta più con la realtà. Semplicemente la si è.
Ma, di solito, non si percepisce la meraviglia delle cose a meno che esse non si rivelino. anche gravide di conseguenze, a meno che non conducano a mutamenti nella vita pratica. Quando gli uomini giungono a provare questa sensazione, in modo spesso del tutto inaspettato, sono tentati immediatamente di attendersi da essa ogni genere di risultati, un atteggiamento che spesso fa sì che la sensazione svanisca con la stessa rapidità con cui è comparsa. Gli uomini si aspettano che questa sensazione cambi loro il carattere, li renda migliori, più forti, più saggi, più felici. Poiché credono di aver afferrato qualcosa di inestimabile, se ne vanno in giro soddisfatti quasi avessero ereditato una fortuna.
A un maestro zen fu chiesto, un giorno: "Qual è la cosa più preziosa al mondo?". Ed egli rispose: "La testa di un gatto morto". "Perché?" "Perché nessuno può attribuirle un prezzo." La comprensione dell'unità del mondo è come la testa di quel gatto morto. È la cosa più inestimabile, più inconseguente di tutte. Non dà risultati, non ha implicazioni né senso logico. Non se ne può ricavare alcunché, poiché è impossibile assumere una posizione al di fuori di essa da cui sporgersi ed estrarre qualcosa. L’intera nozione di "acquisizione", "guadagno", sia che si tratti di ricchezza, di saggezza o di verità, si rivela un circolo vizioso, come cercare di placare i morsi della fame divorando se stessi a partire dalle dita dei piedi. E del resto, è proprio quello che facciamo comunque, dato che in realtà non c'è diffe-renza alcuna tra le dita dei nostri piedi e un'anatra arrosto: la soddisfazione è in ogni caso momentanea. Come si dice nelle Upanishad, "Annam Brahman”, il cibo è Brahman. Io, il cibo, mangio il mangiatore del cibo!"(1) Tutti non facciamo altro che mangiare noi stessi, come il serpente Ouroboros, e l'unica vera delusione è dovuta al fatto che ci aspettiamo di ricavarne qualcosa. Ecco perché il Buddha disse al suo discepolo Subhuti: "Non ho guadagnato assolutamente nulla dal per-fetto e insuperato Risveglio". D'altro canto, però, se non vi è nessuna attesa, nessuna ricerca di risultati, e non si ottiene nulla oltre a questa "testa di gatto morto", ecco che, improvvisamente e gratuitamente, miracolosamente e senza ragione alcuna, scopriamo esserci molto più di quanto ciascuno abbia mai cercato.
Non è questione di rinunciare e di reprimere il desiderio - quelle sono le trappole con cui gli astuti cercano di catturare Dio. Non si può rinunciare alla vita, per la stessa ragione per cui non si acquisisce nulla da essa. Come vien detto nel Cheng-tao Ke: Non puoi prenderne possesso,
ma non puoi perderlo.
Nel non poterlo prendere, lo prendi.
Quando tu taci, esso parla.
Quanto tu parli, esso tace. (XXXIV)
Del resto, anche ciò che spesso si dice, ovvero che cercare il Tao è perderlo, dato che il cercare pone una distanza tra chi cerca e l'oggetto cercato, non è del tutto vero, come balza all'occhio quando cerchiamo spasmodicamente di non cercare, non desiderare, non afferrare. Nei confronti del Tao, molto semplicemente, non c'è atteggiamento sbagliato, poiché non c'è un punto al di fuori di esso da cui prendere un atteggiamento. L'apparente separazione del sé soggettivo è anche questa un'espressione del Tao, chiara e netta come il contorno di una foglia.
Affermazioni del genere non potranno che irritare le menti più pratiche e ragio-nevoli - questa esaltazione nei confronti di qualcosa da cui non discende neces-sariamente nulla, quest'idea perfettamente insensata di un'armonia da cui è impossibile deviare... Ma il punto nodale di questa filosofia della "testa di gatto morto" sta proprio nella sua inconseguenza che, non diversamente dalla natura in sé, è una specie di sublime non-senso, un'espressione di estasi, un fine in sé, privo di scopi o di obiettivi.
Le menti infaticabili, quelle che non fanno altro che saggiare e afferrare, vengono totalmente spiazzate da questa assenza di significato, dato che per esse ha senso soltanto ciò che, come la parola, rimanda a qualcosa oltre sé. Di conseguenza, il mondo pare loro dotato di senso in quanto l'hanno ridotto a una collezione di significati, come un dizionario. Nel loro mondo, i fiori hanno profumo e colori al fine di attirare le api, e i camaleonti mutano il colore della pelle con l'intenzione di nascondersi. Oppure, se sulla natura non proiettano una mente, ma solo un meccanismo, le api sono attratte dai fiori perché questi ultimi hanno profumo e colore, e i camaleonti sopravvivono poiché sono dotati di una pelle cangiante. Non riescono a veder crescere il mondo dei fiori colorati, profumati e visitati dalle api senza l'intervento di un "perché" astratto e distintivo. Invece di schemi interrelati in cui tutte le parti crescono insieme e simultaneamente, essi non vedono altro che conglomerati di "palle da biliardo", mosse da una sequenza temporale di causa ed effetto. In un mondo del genere, le cose sono quel che sono soltanto in relazione a quel che è stato e a quel che sarà, mentre nel mondo privo di obiettivi del Tao, le cose sono quel che sono in relazione alla loro reciproca presenza.
Forse potremmo ora cominciare a capire perché gli uomini hanno una tendenza pressoché universale a cercare sollievo dai loro simili tra gli alberi e le piante, le montagne e le acque. Si può contraffare piuttosto facilmente e a buon mercato l'amore per la natura, ma c'è sempre qualcosa di profondo e di essenziale nel tema universale della poesia, per quanto abusato sia. Per centinaia di anni, i grandi poeti dell'Est e dell'Ovest hanno espresso questo amore essenzialmente umano per il "comunicare con la natura" - una frase cui oggi i circoli intellettuali sembrano attribuire soltanto una valenza leggermente ridicola. Presumibilmente ciò viene considerato come una delle "fughe dalla realtà" tanto condannate da coloro che restringono la realtà a quel che si legge sui giornali.
Ma forse la ragione per l'amore che proviamo verso la natura non umana è da ricercare nel fatto che la comunione con essa ci permette di tornare a un livello naturale in cui ci riscopriamo sani, liberi dall'ipocrisia, e intatti dalle ansie riguardo al significato e allo scopo della nostra vita. Poiché ciò che chiamiamo "natura" è libero da un certo tipo di falsità e di auto celebrazione. Gli uccelli e gli animali, in effetti, sono intenti a nutrirsi e a procreare con l'impegno più assoluto. Ma essi non lo giustificano, non fanno finta che ciò serva a un fine più alto, o che costi-tuisca un contributo significativo al progresso dell'umanità.
Non voglio sembrare scortese nei confronti del genere umano, anche perché ciò non significa che gli uccelli abbiano ragione e gli uomini torto. Il fatto è che il rapporto con il mondo meravigliosamente privo di scopo della natura ci offre nuovi occhi per osservare noi stessi - occhi che non condannano l'importanza che ci attribuiamo, ma attraverso i quali essa assume un aspetto completamente diver-so. In questa luce, tutti gli obiettivi supremi e pomposi degli uomini vengono improvvisamente trasformati in meraviglie naturali non troppo diverse dai becchi colossali dei tucani e dei buceri, dalle code favolose degli uccelli del paradiso, dai colli torreggianti delle giraffe e dai posteriori vivacemente colorati dei babbuini. Ed ecco che, vista da questa prospettiva ovvero non certo come qualcosa da condan-nare, ma neppure come qualcosa da prendere troppo sul serio, l'importanza che l'uomo si attribuisce si dissolve in una risata. La sua insistenza su scopi e obiettivi e l'attenzione straordinaria che attribuisce alle astrazioni sono, sebbene perfetta-mente naturali, sorpassate, come i corpi colossali dei dinosauri. Come strumenti di adattamento e di sopravvivenza, questi atteggiamenti mentali sono fin troppo sfruttati, sorpassati, poiché continuano a riprodurre una specie che è ormai troppo machiavellica e troppo pragmatica per il suo stesso bene e che, esattamente per questa ragione, avrebbe bisogno di una buona dose di "filosofia della testa di gatto morto". Perché questa è la filosofia che, come la natura, non ha fini né conseguenza oltre se stessa.
Eppure, attraverso questa mancanza di direzione, in modo semplice e sorpren-dente, questa filosofia arriva a una percezione immensamente più elevata del significato dell'universo. Forse, "significato" non è la parola giusta, dato che in quest'ottica il mondo non indica un senso oltre se stesso. Come la pura musica, ovvero quella che non fa da supporto a un testo né cerca di imitare i suoni naturali e che, potremmo dire, non rappresenta un sentimento, ma è sentimento. Come la poesia dell'incantamento, che rapisce non in grazia del significato delle sue parole, ma poiché le parole stesse sono il suo significato:
Al prepàrio i svatti marchi trottellavan per il diano,
ma tristanchi erano i barchi e i paupersi sibiliàno... (2)
La gente che si allontana, senza aver capito, da un quadro astratto, osserva tuttavia con piacere un paesaggio in cui l'artista abbia rappresentato nubi e rocce che, in se stesse, non rappresentano nulla, rendendo con ciò un inconscio tributo alla meraviglia del nonsenso naturale.
Queste forme, infatti, non ci commuovono perché si approssimano alle forme intelligibili della geometria, o per la loro somiglianza ad altre cose: le nubi non sono men belle quando non ci ricordano montagne, volti e città celesti. Non amia-mo il rombo delle cascate e il mormorio dei torrenti perché ci ricordano la parola umana. Le stelle sparse senz'ordine sulla volta celeste non ci affascinano perché abbiamo potuto tracciare tra di esse le linee delle costellazioni. E non è certo per la loro simmetria o perché ci ricordano dei dipinti che ci piacciono tanto le trame della schiuma, le venature della roccia e i rami neri degli alberi in inverno.
Vista in questa luce, la stupefacente complessità della natura è una danza senza altra meta che le figure che vengono via via prodotte, figure improvvisate e che non rispondono a una legge che le sovrasta, ma solo ai loro rapporti reciproci. Persino le città perdono la loro praticità calcolata, e diventano i gangli pulsanti di una rete di arterie diffusa su tutta la terra, che risucchia i suoi globuli al mattino per restituirli alla sera. Imprigionati nell'illusione del tempo e della teologia, la danza e il ritmo estatico del processo vengono come nascosti, e al loro posto si vede una finalità frenetica, che si fa faticosamente strada tra ritardi e ostacoli. Ma, quando la vacuità sostanziale di quel fine viene da ultimo riconosciuta, la mente può finalmente riposarsi e notare il ritmo e la danza, diventando improvvisamente consapevole che l'intento atemporale del processo si compie a ogni istante.
Ci sono occasioni in cui questa visione del mondo ci prende di sorpresa, quando la mente scivola inconsapevolmente in un atteggiamento ricettivo. È come il raccon-to spesso ripetuto di qualcuno che scopre su una parete familiare una porta mai notata prima, una porta che conduce in un giardino incantato, oppure una fendi-tura nella roccia che dà adito a una grotta piena di gioielli. Eppure, quando si è di ritorno, la porta sulla parete, la fenditura nella roccia non sono più visibili. È stato proprio così che un pomeriggio il mio stesso giardino si è improvvisamente trasfi-gurato, per circa mezz'ora intorno al crepuscolo. Il cielo era diventato trasparente, il suo azzurro era quieto e limpido, ma intimamente più luminoso di quanto non fosse anche in pieno meriggio. Le foglie degli alberi e dei cespugli avevano assun-to un tono di verde quasi incandescente, e la loro massa non era più una macchia informe di colori, ma un arabesco di meravigliosa complessità e chiarezza. I rami si stagliavano contro il cielo come una filigrana o un merletto, non nel senso di qualcosa di artificioso, ma per distinzione e per ritmo. I fiori - ricordo in particolar modo la fucsia - erano improvvisamente diventati sculture leggerissime di avorio e corallo.
È come se le impressioni di una mente instancabile e in perpetua ricerca si con-fondessero a causa della velocità con cui si succedono senza interruzione, tanto che la ritmica limpidezza delle forme diventa impercettibile, e i colori appaiono piatti e privi di luce interiore. Inoltre, un'altra caratteristica di molte di queste "aperture" della visione è che in esse ogni particolare del mondo appare perfetta-mente ordinato, non certo irreggimentato come in una parata, ma rivela la sua interconnessione con ogni altra cosa, un rapporto costitutivo in cui nulla è più irrilevante, nulla è inessenziale. Questo, forse, più che ogni altra cosa, spiega il sentimento "insensato" che tutto sia "giusto" o in armonia con il Tao, proprio come in realtà è. E ciò si applica allo stesso modo a impressioni che di solito ver-rebbero considerate confuse e disarticolate e liquidate come i rifiuti in una pattu-miera, o un portacenere rovesciato sul tappeto o... la testa di un gatto morto.
Nel mondo occidentale è diventata una sorta di seconda natura affermare che ogni azione creativa richiede l'incentivo dell'inadeguatezza e dello scontento. Ci sembra evidente che se ci sentissimo compiuti e soddisfatti in ogni istante, se non guardassimo più al tempo come a un itinerario da percorrere, non ci resterebbe altro che sederci al sole, posare sulle nostre teste degli ampi sombreri e tenere delle bottiglie di tequila a portata di mano. Anche se ciò fosse vero, non sarebbe poi quel gran disastro che tendiamo a immaginare; perché non c'è dubbio che nel nostro essere continuamente indaffarati c'è industriosità, ma c'è allo stesso tempo anche nevrosi, e un certo quantitativo di normale indolenza donerebbe alla nostra cultura quella morbidezza piacevole che di solito, e singolarmente, le fa difetto. In ogni caso, sembriamo escludere l'eventualità che l'azione stimolata da un senso di inadeguatezza possa rivelarsi creativa soltanto in un senso limitato. Non pensiamo che quell'azione esprimerà il vuoto da cui scaturisce fame piuttosto che un senso di pienezza e debolezza piuttosto che forza. Allo stesso modo, quando il nostro amore per gli altri si basa soltanto sul reciproco bisogno diventa soffocante - una sorta di vampirismo in cui siamo portati a dire, fin troppo espressivamente, "Ti amo tanto che ti mangerei". È a causa di questa bramosia che la devozione dei genitori diventa amore soffocante e il matrimonio un sacro cappio al collo.
I teologi moderni hanno utilizzato le parole greche eros e agape per distinguere tra un amore divorante e un amore generoso, e quest'ultimo lo hanno ascritto soltanto a Dio. La natura decaduta dell'uomo può solo avere fame, poiché il peccato è una discesa dall'Essere al Nulla. Privo della divina grazia, l'uomo può agire soltanto se mosso dall'incentivo naturale del bisogno, e questo postulato continua a vigere come principio di buon senso anche dopo che si è smesso di credere in un Dio che crea il mondo traendolo dalla sua divina pienezza. Affermiamo inoltre che l'intero regno della natura si muove soltanto in quanto viene sospinto dall'appetito, dato che nel cristianesimo si dà per acquisito il fatto che la natura sia decaduta con Adamo, il suo capo. E la nozione che la natura agisca solo in base alla necessità si accorda perfettamente con il meccanicismo che disgrega il teismo.
Ma se la Caduta fu la perdita del nostro senso di integrazione con la natura, questa supposta caratteristica di "famelicità" dell'azione naturale non è altro che una proiezione sul mondo della nostra stessa condizione. Se dobbiamo abbando-nare la meccanica newtoniana nella sfera fisica, dobbiamo farlo altresì in campo psicologico e morale. Nella stessa misura in cui gli atomi non sono palle da biliar-do spinte al movimento dall'urto reciproco, le nostre azioni non sono entità forzate da motivazioni e impulsi diversi. L'impressione è che le azioni sembrano forzate da altre cose, al punto che chi le compie, l'agente, giunge a identificarsi con una sola parte della situazione in cui si verifica l'azione, ad esempio con la volontà distinta dalla passione, o con la mente distinta dal corpo. Ma se l'agente si identifica con le sue passioni e con questo suo corpo, ecco che non sembrerà più mosso da loro. Di più: se chi agisce riesce ad andare oltre, e vedere che non si esaurisce soltanto nel suo corpo, ma comprende la totalità della relazione tra quel corpo e l'am-biente, ecco che neppure l'ambiente parrà più forzarlo. L'effetto sembra controlla-to passivamente dalla sua causa solo fintanto che lo si considera distinto da essa. Ma se la causa e l'effetto sono soltanto i termini di un unico atto, non c'è più né controllore, né controllato. Così, la sensazione che l'azione debba scaturire dalla necessità deriva dal fatto che si pensa al sé come a un centro di coscienza distinto dalla periferia.
La domanda "Perché si dovrebbe agire?" ha senso soltanto finché all'azione pare necessaria la motivazione. Ma se l'azione o il processo non è più sostanza inerte, bensì quel che costituisce il mondo, ecco che diventa assurdo cercare una ragione esterna all'azione. E non c'è davvero alternativa all'azione, sebbene questo non significhi che dobbiamo agire, dato che ciò implicherebbe la realtà di un "noi", sostanza inerte, attivata a fatica dall'esterno. Il punto è che, motivati o no, noi siamo azione. E nella necessità che sentiamo di motivare l'azione, esprimiamo il vuoto famelico dell'Io, l'inerzia dell'ente e non certo la vitalità dell'atto. Quando, però, l'uomo non cerca qualcosa fuori di sé, egli è azione che esprime tutta la sua pienezza, sia che pianga di dolore o salti dalla gioia.
Nella filosofia indiana, karma significa sia azione motivata e finalizzata, sia causa ed effetto, e karma è anche quel tipo di azione che tiene legato a sé l'uomo. Puntando ai risultati non si arriva a nessun risultato, ma si perpetua il bisogno di risultati. Risolvendo problemi non si fa altro che creare altri problemi da risolvere. Karma è quindi azione dotata di significato poiché, come il segno, indica in qualcosa che le è esterno il suo senso, il motivo da cui è scaturita o il fine cui tende. È quindi un'azione che crea la necessità di una nuova azione. Opposta a karma vi è sahaja, ovvero l'azione spontanea e non consequenziale, caratteristica del jivan-mutka, ovvero di colui che si è liberato, il quale vive e si muove in uno con la natura - mormorando come un ruscello, gesticolando come gli alberi al vento, vagando come le nubi, oppure semplicemente esistendo, come la sabbia e le rocce. La sua vita ha quella qualità che i giapponesi chiamano tura-tura - lo sventolare di un indumento steso, o il moto di un guscio vuoto in un torrente vorticoso. "Il vento soffia dove vuole, e tu ne senti la voce ma non puoi sapere donde viene né dove va." Né lo sa il vento stesso.
Ecco perché universalmente si paragona il saggio al folle, dato che entrambi, in modo sottile, non agiscono in modo sensato, né accettano la scala di valori pratica del mondo.
La sua porta rimane chiusa, e i sapienti non lo conoscono. La sua vita interiore rimane nascosta, ed egli si muove al di fuori dei sentieri delle virtù riconosciute. Entra nel mercato portando con sé una zucca e se ne ritorna a casa facendosi strada con un bastone. Anche nel negozio dei liquori e al mercato del pesce ognuno si trasforma in Buddha.
A petto e a piedi nudi egli entra nella polvere di questo mondo.
Macchiato di fango e cosparso di ceneri, sfoggia un ampio sorriso.
Non gli servono i poteri segreti degli dei,
poiché a un suo comando gli alberi morti si coprono di fiori. (3)
Come il nonsenso del folle è un affastellarsi di parole perse nella loro fascinazione sonora, il nonsenso della natura e del saggio è la percezione che la profonda mancanza di senso del mondo contiene la stessa gioia nascosta che è insita nella sua caducità e nella sua vacuità. Se cerchiamo il senso del mondo nel passato, la catena delle cause e degli effetti svanisce come la scia di una nave. Se lo cerchiamo nel futuro, si dissolve come un raggio di luce nel cielo notturno. Se lo cerchiamo nel presente, lo scopriamo elusivo come uno spruzzo nell'aria, poiché non c'è niente da afferrare. Ma quando ci resta soltanto il cercare, e proviamo a capire di cosa si tratta, improvvisamente esso si trasforma nelle montagne, nelle acque, nel cielo e nelle stelle, che bastano a se stesse e non lasciano fuori di sé nient'altro da cercare né alcuno che lo ricerchi.
Da quanto si è detto finora potrebbe sembrare che la nostra filosofia della natura abbia raggiunto un punto di completa contraddizione. Poiché, se si giunge alla conclusione che non c'è vera divisione tra uomo e natura, ne deriva che non c'è nulla di artificiale da cui distinguere il naturale. Come disse Goethe nel suo frammento La natura:
Il massimo dell'innaturale è tuttavia natura. Chi non la vede in ogni parte, in realtà non la vede in nessun luogo... Persino resistendo, opponendosi alle sue leggi si obbedisce loro; e si lavora con lei anche quando si desidera lavorarle contro.
Se questo è vero, sembrerebbe annullare quanto si è detto sul carattere mecca-nicistico e innaturale del Dio del monoteismo e sulla visione lineare e politica del mondo condivisa dal cristianesimo e, fino a qualche tempo fa, dalla filosofia della scienza. Sembrerebbe altresì una scelta marginale preferire una modalità di cosci-enza ad un'altra, considerare più naturale la vigilanza aperta del kuan rispetto al-l'atteggiamento sforzato e concentrato dell'egocentrismo. Se pure gli artifici e le concezioni tanto piene di sé della civiltà urbana e industriale non sono più innatu-rali delle pretenziose penne della coda di un pavone, ciò equivale a dire che nella vita naturale tutto e ogni cosa "va". Come si è detto, non è possibile deviare dal Tao.
Eppure, in fondo c'è una notevole differenza tra questa posizione e quella, diciamo, del cristianesimo o della scienza intesa in senso legalistico: cristianesimo e scienza, infatti, pongono una distinzione tra uomo e natura che questa filosofia non pone. Certo: porre questa distinzione non è più innaturale di quanto sia non porla. Entrambe le posizioni sono, in un certo qual modo, "lecite", se con ciò intendiamo dire che sono naturali. Un po' come il liberale che dice al totalitario: "Sono in totale disaccordo con quel che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo". Come in una democrazia ideale l'esercizio della libertà implica il diritto a votare per la restrizione della libertà, così la partecipazione dell'uomo alla natura implica il suo diritto e la sua libertà di sentirsi superiore a essa. Come nel processo democratico si può giungere liberamente a rinunciare alla libertà, così si può essere naturalmente innaturali. Laddove il totalitario potrebbe affermare che la libertà è stata abolita, il libertario potrebbe rilevare che ciò è vero solo fino al punto in cui egli lo afferma liberamente. Anche nella tirannide "un popolo ha il governo che si merita", poiché al popolo rimane pur sempre il potere, ovvero la libertà di governarsi da solo. Allo stesso modo è possibile per questa filosofia affermare con pienezza di senso che è perfettamente naturale credere che l'uomo sia distinto dalla natura e, allo stesso tempo, essere in disaccordo con questa convinzione.
Ma anche se un popolo liberamente vota per determinate restrizioni della propria libertà, non dovrebbe mai dimenticare che la libertà continua a essere la base e l'autorità della legge. Allo stesso modo, il punto nodale di questa filosofia è che, come un popolo non può mai abbandonare totalmente la sua libertà e responsa-bilità, un essere umano non può mai abbandonare totalmente la sua naturalità e, allo stesso modo, non dovrebbe dimenticarsene. In altre parole, la naturalezza è una spontaneità che si autodetermina (tzu-jan) e che manteniamo pur nella rigidi-tà più imbalsamata e nell'atteggiamento più affettato. Ma quel "noi" che mantiene la spontaneità non è quell'autorestrizione che chiamiamo "Io": è l'uomo naturale, la relazione organismo-ambiente. Così, se la salute politica consiste nel compren-dere che la restrizione legale è una libera autoimposizione del popolo, la salute filosofica consiste nel comprendere che il nostro vero sé è l'uomo naturale, il Tao spontaneo da cui non possiamo mai deviare.
In termini psicologici, questa comprensione significa porre una totale accettazione di se stessi come sfondo costante di ogni pensiero, sentimento e azione - per quanto ristretti essi siano, non diversamente da come è necessario porre la libertà originaria alla base di ogni restrizione politica. Questa accettazione di se stessi è la condizione di quella sottesa integrità, sincerità e pace dell'anima che, nel saggio, resiste a ogni disturbo esterno. In breve, si tratta del consenso profondo che ci diamo a essere esattamente quel che siamo e a provare esattamente quel che proviamo in ogni istante, anche prima che quel che siamo venga mutato, seppur leggermente, da questa accettazione. È il riconoscimento che "tutto mi è lecito" anche se "non tutto è opportuno", sebbene, probabilmente, in un senso più ampio rispetto a quello inteso da san Paolo. Detto in maniera forse brutale è l'intuizione che, qualunque cosa siamo adesso, siamo quello che dovremmo essere ideal-mente. Questo è il senso dell'affermazione buddhista "i tuoi pensieri ordinari sono il Tao". E "i pensieri ordinari" sono il presente, lo stato attuale della consapevo-lezza, quale che ne sia la sua natura. E l'illuminazione, l'accordo con il Tao, resta lontana finché viene considerata una "condizione" da raggiungere, e per la quale ci sono prove e verifiche da compiere. È piuttosto la libertà di essere il fallimento che si è.
Per quanto assurda possa sembrare questa libertà estrema e amorale, essa è alla base di tutta la compiutezza mentale e spirituale, a patto che, verrebbe da dire, non abbia risultati da raggiungere. Ma un'accettazione tanto piena include in sé anche la ricerca, insieme a tutto ciò che ci capita di fare o di provare. L'apparente passività estrema di questa accettazione è, tuttavia, creativa perché ci permette di mantenere la nostra integrità, essere buoni, cattivi, indifferenti o semplicemente confusi con tutto il nostro cuore. Per agire o crescere creativamente dobbiamo iniziare dal punto in cui siamo, ma non possiamo iniziare affatto se non siamo "tutti qui", senza riserve o rimpianti. Privi di questa accettazione di noi stessi rimaniamo sempre in opposizione con il nostro punto di partenza, dubitiamo del terreno su cui poggiamo i piedi, divisi sempre da noi stessi al punto da non poter agire con sincerità. Se alla base del pensiero e dell'azione non c'è l'accettazione di se stessi, ogni tentativo di disciplina spirituale o morale è la sterile lotta di una mente scissa e insincera. È la libertà che è alla base dell'autolimitazione.
In Occidente abbiamo sempre ammesso, in teoria, che gli atti veramente morali devono essere espressione della libertà. Eppure non ci siamo mai concessi questa libertà, non abbiamo mai permesso a noi stessi di essere quel che siamo, qualun-que cosa si sia, di vedere che, fondamentalmente, tutte le vincite e le perdite, le cose giuste e quelle sbagliate della nostra vita sono naturali e "perfette" come le vette e le valli di una catena di monti. Identificando Dio, l'Assoluto, con una divinità che esclude il male, ci rendiamo impossibile accettare noi stessi integral-mente: quel che non è in accordo con la volontà di Dio è in contrasto con lo stesso Essere, e quindi non può venire accettato in nessun caso. La nostra libertà, quindi, viene limitata da ricompense o punizioni tanto catastrofiche che non è più affatto libertà, ma riproduce piuttosto un sistema totalitario in cui uno potrebbe votare contro il governo ma con il rischio permanente di venir deportato in un campo di concentramento. Invece dell'autoaccettazione, alla base del nostro pensiero e del nostro agire abbiamo posto l'angoscia metafisica, il terrore di essere radicalmente sbagliati e intimamente corrotti.
È per questa ragione che le ortodossie formali, cattolica e protestante, hanno sempre avuto la caratteristica di essere dottrine rigorosamente essoteriche, e hanno identificato l'Assoluto con i concetti relativi di bene e di male. I teologi sono abituati a dire che se le distinzioni tra bene e male non fossero valide eterna-mente, non sarebbero veramente valide e importanti. Ma questo sostanzialmente equivale a dire che ciò che è finito e relativo non è importante - un punto di vista piuttosto strano per chi insiste, altresì, che esiste una creazione reale e finita, distinta da Dio, e oggetto del suo amore. Non essere in grado di distinguere tra l'assolutamente importante e il relativamente importante senza pensare che quest'ultimo sia privo di importanza, significa adottare una scala di valori piuttosto primitiva.
D'altro canto, ci potrebbe sempre essere il rischio che un’autoaccettazione troppo radicale possa rendere una persona insensibile all'importanza dei valori morali - ma questo equivale semplicemente a dire che senza rischio non c'è libertà. Il timore che accettare se stessi quali si è, annulli il giudizio etico è un timore privo di fondamento, dato che si è sempre perfettamente in grado di distinguere tra sopra e sotto in ogni punto della superficie terrestre, pur comprendendo che, nel quadro più ampio del cosmo, non c'è affatto un sopra o un sotto. L'accettazione di sé, quindi, è l'equivalente spirituale e psicologico dello spazio, di una libertà che non annulla le distinzioni ma, anzi, le rende possibili.
La capacità della mente è grande, come il vuoto dello spazio... La natura meravigliosa della persona normale è fondamentalmente vuota né possiede un carattere definito. È questa la qualità veramente celeste del sé naturale di ciascuno... il vuoto dello spazio universale può contenere le miriadi di cose di ogni forma e dimensione: il sole, la luna, le stelle, le montagne e i fiumi, la grande terra con le sue sorgenti, i corsi d'acqua e le cascate, l'erba, gli alberi e la foresta più fitta, i santi e i peccatori, i modi del bene e quelli del male... Tutto ciò si trova nel vuoto, e la natura della persona comune è vuota proprio in questo modo.(4)
Ma la forza di guarigione e di liberazione insita nell'accettazione di sé è talmente contraria alle aspettative del nostro trito senso comune che il suo potere sembra abnorme persino allo psicoterapeuta che lo vede di continuo in atto. Poiché è proprio questa accettazione che restituisce l'integrità e la responsabilità alla mente malata, liberandola dall'obbligo radicale di essere quel che non è. Ciò nonostante, questo emergere della legge dalla libertà, del cosmo dal vuoto e dell'energia dalla passività, è sempre a tal punto miracoloso, inaspettato e improbabile, che di solito non riesce a verificarsi salvo che attraverso qualche stratagemma, uno strata-gemma che ci rende possibile concedere a noi stessi questa libertà, e permette finalmente alla mano destra di non sapere quel che fa la sinistra. In questo modo, mediatamente, possiamo condurre noi stessi all'autoaccettazione, attraverso, ad esempio, gli uffici di un Dio liberalizzato che sia infinitamente amoroso e miseri-cordioso, a tal punto che è poi lui ad accettarci totalmente, e non dobbiamo essere noi ad accettare noi stessi. Oppure potremmo accordarci il diritto di accettare noi stessi soltanto dopo averlo acquisito passando attraverso una fucina spirituale o un percorso a ostacoli interiore, e sulla scorta del riconoscimento e dell'autorizzazione concessici da qualche autorevole collettività di iniziati, in rappresentanza di qualche reverenda tradizione.(5) Questi sono i trucchi per placare la paura della libertà che la società deve quasi inevitabilmente instillarci sin dall'infanzia. Quasi che, mancando del discrimine tra le gerarchie di valori e di verità, il bambino potesse arrivare a dire che due più due fa cinque, una volta che gli si comunicasse la verità matematica più alta che, in effetti, due più due non fa sempre e necessariamente quattro.
La crescita nella comprensione filosofica, o semplicemente nella saggezza, è sempre questione di saper distinguere tra diversi livelli di verità e di schemi di riferimento, e allo stesso tempo significa essere capaci di vedere la propria vita nella sua intima relazione con questi livelli, per quanto differenti e sempre più universali siano. Soprattutto, c'è un livello oltre i livelli, lo schema sconfinato della natura universale, in cui, per quanto sia impossibile descriverlo, si trova il fondamento autodeterminante e spontaneo del nostro essere e della nostra libertà. Il grado di libertà e di autodeterminazione varia a seconda del livello a cui comprendiamo il nostro sé -la fonte da cui proviene il nostro agire. Se il senso che abbiamo di noi stessi è ristretto, percepiamo la nostra vita come un limite. "E quindi," dice Ruysbroeck, "dobbiamo tutti fondare la nostra vita su un abisso senza fondo" - fino a scoprire che quel che siamo non è affatto quel che siamo obbligati a essere, ma quel che siamo liberi di essere. Poiché, quando siamo infine presenti alla nostra natura, e vediamo che non c'è luogo alcuno cui opporsi, siamo finalmente capaci di muoverci rimanendo immoti.
NOTE:
1) Taittiriya Upanishad, In, 10,6.
2) Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, traduzione di Adriana V. Pipemo. [N.d.T.]
3) Shih Niu T'ou, X. Commento all'ultimo dei Dieci dipinti sul pascolo dei buoi che illustrano le fasi della comprensione nel buddhismo zen.
4) Hui-neng (maestro ch’an del VIII secolo), in Tan-ching, II.
5) Durante l'apprendimento di queste discipline preliminari, il neofita potrebbe a volte acquisire notevoli capacità e facoltà, oppure un tratto di carattere o di modi che verrebbero conseguentemente interpretati come segnali dell'avvenuta liberazione. Si tratta, tuttavia, di una confusione tra libertà e successo in alcuni campi particolari. Per cui un iniziato che durante il suo addestramento preliminare abbia imparato a resistere al dolore senza piegarsi, potrebbe non essere in grado di gestire una fattoria o costruire una casa meglio di un normale nevrotico. La sua reazione al dolore potrebbe in effetti semplicemente provare che ha imparato il trucco dell'autoipnosi, oppure che è riuscito a perdere sensibilità.
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