Choghyam Trungpa Rimpoche                

 IL CUORE DEL BUDDHA

     (The Buddha Hearth)

(Traduzione Italiana di Aliberth Meng)

                                                        

 

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I°) LA SERIE “OCEANO DEL DHARMA”

 

Il Ven. CHOGYAM TRUNGPA, durante un suo incontro con Samuel Bercholz, presidente delle pubblicazioni Shambhala, manifestò il suo interesse per la pubblicazione di una serie di 108 volumi, da chiamarsi “Serie OCEANO DEL DHARMA”,   traduzione del nome tibetano CHOKYI GYATSO, nome onorifico dell’attività di insegnante di Chogyam Trungpa.

La “Serie OCEANO DEL DHARMA” consiste principalmente di trascrizioni   di conferenze e seminari tenuti da Chogyam Trungpa durante i suoi diciassette anni di insegnamenti in Nord America. Lo scopo della serie è di permettere ai lettori di fare la conoscenza di questa ricca serie di insegnamenti, in maniera semplice e diretta, anziché in una forma troppo sistematica o condensata.  Quando   sarà completata, servirà come archivio letterario delle più importanti opere di questo rinomato insegnante buddhista tibetano.

SOMMARIO

Ringraziamenti                                                                                                p.1

Introduzione del curatore                                                                                             p.2

PRIMA PARTE :Percorso personale

1          Che cosa è il cuore del buddha                                                              p.3

2          Intelletto e intuizione                                                                            p.7

3          I quattro fondamenti della consapevolezza                                             p.10

4          Devozione                                                                                                       p.25

SECONDA PARTE Stadi del sentiero

5          Prendere rifugio                                                                                   p.34

6          Il voto di bodhisattva                                                                            p.42

7          Visione sacra : la pratica di Vajrayogini                                      p.52

TERZA PARTE Lavorare con gli altri                   

8          Relazione                                                                                                        p.67

9          Riconoscere la morte                                                                            p.69

10        Alcool come veleno o medicina                                                              p.72

11        Pratica e bontà fondamentale :

             un discorso per i ragazzi                                                          p.74

12        Dharma poetico                                                                                   p.77

13        Energia verde                                                                                      p.80

14        Manifestare l’illuminazione                                                                    p.81

APPENDICI

Il sistema di vita   Bon                                                                                     p.83

L’altare di Vajrayogini                                                                                      p.89

Note sull’autore                                                                                               p.91

Lista delle fonti                                                                                                p.93

 

 

RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare le molte persone che hanno contribuito alla elaborazione degli articoli  qui inclusi. In particolar modo vorrei ringraziare i miei colleghi dell’ufficio editoriale del Vajradhatu che nel corso degli anni si sono occupati in prima persona della pubblicazione degli scritti di Trungpa Rinpoche :Sherab Chodzin, Carolyn Rose Gimian e Sarah Coleman. Questi curatori hanno lavorato a fianco a fianco con Chogyam Trungpa Rinpoche per   trasmettere nel modo migliore i suoi insegnamenti orali in forma scritta, e per scegliere le forme e i livelli di edizione del testo più adatti a occasioni e destinatari diversi. Gli articoli riuniti nel Cuore del Buddha contengono quindi una varietà di stili. Sherab Chodzin, il primo redattore capo del Vajradhatu, ha curato la stesura di molti degli articoli inclusi in questa raccolta. Egli ha anche diretto il Garuda Magazine in cui sono stati pubblicati per la prima volta . Carolyn Gimian, che è subentrata al mio posto nella redazione del Vjradhatu, ha collaborato con Trungpa Rinpoche alla stesura dell’articolo “La visione sacra” : Ha inoltre rivisto il libro, dando numerosi consigli sull’intero manoscritto. Sarah Colemann ha lavorato presso la redazione del Vajradhatu per molti anni, nel corso dei quali ha curato alcuni degli articoli qui raccolti. E’ stato necessario, per la loro prima stesura, il lavoro di innumerevoli volontari che hanno registrato i discorsi, li hanno battuti a macchina e hanno controllato i manoscritti. Vorrei ringraziarli tutti  per il loro dono di tempo e fatica . Vorrei anche ringraziare la signora Diana Mukpo per averci gentilmente permesso di lavorare con questo materiale.

In particolar modo vorrei ringraziare il Venerabile Chogyam Trungpa per i suoi instancabili sforzi nel condurre gli studenti sul sentiero del risveglio. Judith L.Lief, curatrice.

 

PREMESSA DEL CURATORE

Il cuore del Buddha è una raccolta di quindici articoli del Venerabile Chogyam Trungpa già precedentemente pubblicati. La scelta del materiale è stata dettata dal desiderio di presentare al lettore il quadro più completo possibile degli insegnamenti di Rinpoche. Per questa ragione sono stati inclusi sia saggi introduttivi, sia presentazioni più tecniche o dotte. Alcuni articoli sono stati scritti per pubblicazioni particolari o per essere diffusi tra gli studenti. Altri derivano da seminari e discorsi tenuti durante la sua carriera di insegnante ; come tali incarnano la qualità vivente della trasmissione orale e l’importanza della discussione e del dialogo tra gli studenti e l’insegnante

Nei suoi numerosi seminari, Trungpa rinpoche ebbe sempre cura di bilanciare il ruolo della pratica e quella dello studio. I partecipanti si dedicavano sempre sia alla pratica della meditazione seduta che  allo studio degli insegnamenti buddhisti, con conferenze, letture e discussioni di gruppo. In tal modo, potevano verificare la loro comprensione tramite l’esperienza personale in modo che l’accresciuta comprensione intellettuale potesse essere accompagnata da un approfondimento della visione interiore.

 

PARTE PRIMA: PERCORSO PERSONALE

Al cuore del sentiero buddhista vi è la pratica meditativa. Lo sviluppo dell’attenzione e della consapevolezza è un fondamento essenziale per poter comprendere se stessi e lavorare con gli altri. E’ un comune pregiudizio che il percorso spirituale ci porti fuori di noi stessi, verso una qualche forma di esistenza più elevata o piena di pace. In questo modo la pratica della meditazione è vista come una droga, un modo di allontanarci dalla cruda realtà. Tuttavia, con i suoi insegnamenti, Trungpa Rinpoche ha sempre sottolineato che la pratica della meditazione non è una fuga, ma un modo di ‘ricominciare dall’inizio’.

Iniziando il sentiero dobbiamo essere disposti a confrontarci direttamente senza pii desideri o severi giudizi. Tramite la pratica della meditazione siamo costantemente ricondotti a ciò che è, piuttosto che a ciò che vorremmo che fosse, siamo costantemente riportati al ‘punto di partenza ‘. Così al cuore del reale percorso personale della pratica meditativa c’è semplicemente la buona volontà di essere quelli che siamo. E’ un processo di accettazione piuttosto che di manipolazione.

Mentre ogni percorso è solitario, è nell’incontro tra studente e insegnante, che si risveglia il sentiero spirituale. La relazione studente insegnante ha un’importanza essenziale nella tradizione buddhista. La devozione è la chiave che sblocca il potere della tradizione. Comunque, questo concetto è alquanto sottile, e dobbiamo avere cura di distinguere la devozione genuina dall’ingenuo approccio della fede cieca.

                                                                   STADI DEL SENTIERO

Secondo il sistema tibetano, il percorso individuale di uno studente incontra tre principali stadi : hinayana, mahayana e vajrayana. (In questo contesto, questi termini sono semplicemente descrittivi di stadi del   sentiero e non dovrebbero essere confusi con il loro uso più comune di scuole storiche del pensiero buddhista)questi tre stadi lavorano tra loro in modo davvero potente. L’hinayana contrassegna lo stadio iniziale, in cui una persona esplora l’operato della propria mente e delle emozioni e comincia a fermare  la mente attraverso la pratica meditativa. Questo permette di ridurre il proprio senso di reattività e di iniziare a creare una certa amicizia con se stessi. Nel secondo stadio, il mahayana, questa qualità

di amichevoleza comincia ad estendersi all’esterno. Vi è un grande apprezzamento del mondo dei fenomeni, come pure una comprensione della profonda sofferenza di tutti gli esseri senzienti. Ciò porta al sorgere della compassione ed alla motivazione di operare per il bene degli altri. Il terzo stadio, il vajrayana, fa sì che non ci si fermi più, ma anzi ci si ponga coraggiosamente incontro a qualsiasi situazione che sorge. Vi è una disponibilità a correlarci direttamente alla saggezza ed al potere della propria mente e delle emozioni così come evocate dalla pratica di visualizzazione e nei rituali tantrici.

Benché essi possano essere visti come tre stadi distinti, devono comunque cooperare in modo bilanciato se si vuole che il percorso abbia successo. Cioè ogni situazione deve espandersi e deve arricchire la precedente, risvegliando la sua percezione interiore in un contesto sempre più ampio. In questo modo, ogni stadio   serve come complemento e arricchimento agli altri .

                                                               LAVORARE CON GLI ALTRI

Le intuizioni derivanti dalla pratica formale della meditazione possono essere applicate alla varietà di circostanze che incontriamo nella nostra vita di tutti i giorni. Perciò la vita quotidiana non è affatto rifiutata o vista come una semplice distrazione alla nostra pratica ‘spirituale’. Al contrario, unificando la pratica e la vita ordinaria,  l’integrità della nostra esperienza viene vista e vissuta come preziosa e di fatto considerata sacra.

Nonostante fosse stato addestrato nella antica tradizione del buddhismo tibetano, Trungpa Rinpoche, era assai interessato alle opere della società moderna e alle implicazioni sociali degli insegnamenti buddhisti. Egli quindi dette grande importanza, nei suoi discorsi e seminari, a questioni come l’educazione, la salute, la crescita dei figli, la natura delle relazioni, e la condotta degli affari.

E’ nostro auspicio che questa raccolta di saggi possa dare al lettore il  senso di ricchezza e varietà  degli insegnamenti di Trungpa Rinpoche e della loro importanza nella vita di ogni giorno.

1

Cosa è il cuore del Buddha ?

 Basato su  un discorso dal titolo : “Superare le illusioni  dell’ego”, Cape Breton, 1981

 

“Signore  e signori, eccovi qui realmente una buona notizia, se possiamo esprimerla così. Siamo essenzialmente dei buddha e siamo essenzialmente buoni. Senza eccezioni e senza bisogno di studi analitici, possiamo dire di avere spontaneamente il buddha all’interno di noi stessi. Ciò è noto come   natura di buddha, o bodhicitta, il cuore del buddha”.

 

Nel buddhismo, vi sono tre codici di disciplina, noti come shila, samadhi e prajna. Shila è disciplina o condotta, un certo modo meditativo di comportarsi. Samadhi è la pratica di presenza mentale /consapevolezza :la totalità del vostro stato mentale che può essere sperimentata senza distrazione :E prajna, o consapevolezza discriminante, è lo stato di chiarezza in cui siete capaci di distinguere i differenti stati della mente :non siete più eccitati o depressi da particolari stati tre discipline ci portano allo stadio successivo :  superare finalmente le illusioni dell’ego, cioè l’esperienza dell’assenza di ego.

La condizione egocentrica è lo stato mentale in cui siete respinti o attratti dal mondo fenomenico. Ciò che a voi piacerebbe vedere dipende dalla vostra mentalità, da ciò che voi pensate possa essere desiderabile per conservare il vostro “Io-sono” e il vostro “Essere me”. Stiamo parlando di come trascendere l’Io-sono e l’Io-Me, e questo è chiamato assenza di ego.

L’assenza di ego non significa che voi vi dissolverete completamente nel nulla. Nella letteratura occidentale, il buddhismo viene spesso accusato di dire questo, specialmente nella prima letteratura cristiano - vittoriana, come pure in vari corsi universitari sul buddhismo. Dicono che i buddhisti credono nel nulla, il che non è certamente vero.

Assenza di ego significa meno “maniacità, in un certo senso :liberi dall’essere  un “egomaniaco” L’egomania ha diversi livelli di sottigliezza. Normalmente, la gente pensa ad un egomaniaco come ad un maniaco evidente, ma se studiamo e osserviamo meglio, potremo vedere che vi sono caratteristiche molto sottili di egomania. I dittatori del mondo potrebbero essere visti come persone egomaniacali, ovviamente, dato che essi si muovono in questo modo. Ma molte altre persone ordinarie funzionano in tal modo, e perfino noi stessi in un certo senso. A noi piacerebbe possedere il nostro mondo, e così agiamo in modo che tutto ciò che ci circonda possa essere completamente in ordine, secondo il nostro desiderio di conservare la sicurezza di un “io” e un “me stesso” :il che è una condizione egoica.

Ispirati da shila, samadhi e prajna - disciplina, meditazione e consapevolezza discriminante - saremo liberi dall’egomaniacalità, liberi dalla condizione egoica. Inoltre scrutando nella   nostra egomania, facciamo nascere o risvegliamo la nostra innata esistenza più grande, che in sanscrito è nota come bodhicitta.

Bodhi, che ha una relazione con buddha, letteralmente significa sveglio. Buddha è un nome ;bodhi è un epiteto o un aggettivo per coloro che si sono “svegliati”, o per coloro che sono in procinto di risvegliarsi. Citta è una parola sanscrita che significa “cuore”  o    “essenza”. Perciò bodhicitta è l’essenza del buddha, l’essenza dei risvegliati.

Non possiamo far nascere l’essenza del risveglio, all’inizio, senza addestrarci nella pratica della meditazione :la pratica shamata di attenzione e la pratica vipashyana di consapevolezza. Inoltre è necessario completare le tre discipline di shila, samadhi e prajna. Cioè dobbiamo sapere cosa fare e cosa non fare.

Quando pratichiamo shila, samadhi e prajna, cominciamo a essere consapevoli del buddha che è in noi. Non è che questi principi producano una particolare consapevolezza tipo buddha ;noi abbiamo già dentro di noi questa essenza. Ma shila, samadhi e prajna ci portano verso la effettiva comprensione di chi siamo, ciò che alla fine realmente siamo.

Secondo la tradizione buddhista, noi non acquisiamo una nuova saggezza, né un qualche elemento estraneo entra a far parte del nostro stato mentale. E’ piuttosto una questione di risvegliarci e di spogliarci delle nostre coperture. Noi abbiamo già queste virtù ;dobbiamo solo scoprirle.

Il senso è che se dovessimo trapiantare delle virtù estranee nel nostro sistema, esse non ci apparterrebbero, resterebbero estranee. Non essendo parte di noi,  è come se smettessero di essere vive . Prima o poi la nostra natura di base sarebbe obbligata a rigettare questo trapianto estraneo al nostro sistema. (Forse questa logica non si applica ai trapianti di cuore. In questi giorni dicono che se avete un cuore estraneo trapiantato in voi, potete vivere ;potete sopravvivere) .

Qui però stiamo parlando del risvegliare ciò che non abbiamo ancora risvegliato. E’ come se fossimo stati prigionieri e non fossimo stati capaci di esercitare adeguatamente le nostre doti ; le nostre attività sono state controllate dalle circostanze. Fare nascere la bodhicitta nel proprio cuore, il buddha nel proprio cuore, questo porta una libertà in più. Questa tutto sommato è la nozione di libertà  nel buddhismo. Naturalmente, quando parliamo di libertà, non stiamo parlando di rovesciare un capo di stato, e neppure di qualcosa di simile : stiamo parlando di libertà dalla inibizione delle nostre capacità.

E’ come se fossimo dei bambini straordinari, ricchi di ogni sorta di genialità e stessimo per essere minacciati dalla società che ci circonda, che muore dalla voglia di farci essere persone normali. Ogniqualvolta mostriamo un qualche segno di genio, i nostri genitori sarebbero imbarazzati. Cercherebbero di metterci a tacere dicendo : “Carlo, non dire queste cose. Sii una persona ordinaria”. Questo è ciò che realmente   accade, con o senza i nostri genitori.

Non è mia intenzione incolpare in particolare   i nostri genitori ; anzi ci siamo fatti questo da noi stessi. Quando vediamo qualcosa di straordinario,  abbiamo paura di comunicarlo ; siamo spaventati di poterci esprimere o di collegarci a tali situazioni. Così mettiamo una pietra su noi stessi - sulle nostre potenzialità e capacità. Ma nel buddhismo, ci liberiamo da questo tipo di conformismo.

Secondo la terminologia buddhista, conformismo è riferito al dare credito ai modelli abitudinari. Realtà conformiste derivano da modelli abitudinari ; e l’origine dei  modelli abitudinari sono l’ignoranza e il desiderio. L’ignoranza e il desiderio sono in contrasto con la disciplina  shila ;  sono in contrasto con la presenza mentale samadhi, poiché ci impediscono di mantenere la mente presente ; e sono in contrasto con  prajna, poiché sviluppano stupidità anziché chiarezza discriminante.

 Signore e signori, in parole semplici eccovi realmente una buona notizia, se possiamo esprimerla così. Siamo essenzialmente dei buddha e siamo essenzialmente buoni. Senza eccezioni e senza bisogno di studi analitici, possiamo dire   di avere spontaneamente il buddha all’interno di noi stessi. Ciò è noto come   natura di buddha, o bodhicitta, il cuore del buddha””.

 Potremmo chiederci : “Come è il cuore del buddha ? Pensa soltanto a cose materiali o è solo un pio cuore che non fa nulla salvo   cose spirituali ? Questo cuore sarebbe il più santo di tutti, nel senso cristiano    del termine” ?. La risposta è no. Questo cuore non è necessariamente pio.

Il cuore del buddha è un cuore molto aperto. A questo cuore piace esplorare il mondo dei fenomeni ; è aperto alla relazione con gli altri. Questo cuore contiene enorme forza e fiducia in se stesso, che si chiama mancanza di paura. Questo cuore è anche estremamente avido di sapere, che a questo punto è sinonimo di prajna. E’ espansivo e guarda in tutte le direzioni. E contiene certe qualità di base, che possiamo chiamare i nostri veri geni-di-base, i nostri geni-buddha. Tutti noi possediamo questi particolari geni-buddha. Non è forse strano dire che la mente abbia dei geni ? Eppure sembra essere proprio così .

Questi geni-buddha possiedono due caratteristiche. La prima è che sono   capaci di penetrare la realtà del mondo dei fenomeni, come pure di non esserne spaventati. Potremmo andare incontro ad ostacoli e difficoltà di ogni tipo, ma questi particolari geni non hanno timore di affrontarli. Proprio togliendo la copertura a tali potenzialità, noi andiamo avanti. La seconda, è che questi geni contengono anche gentilezza ; essi sono proprio così amorevoli, da andare ben oltre il loro essere semplicemente cordiali. Sono estremamente teneri e capaci di riflettersi, perfino in coloro che non hanno intenzione di mettersi in relazione con essi. E sono assolutamente liberi da qualsiasi forma di aggressività. Sono dolci e gentili.

I geni-buddha sono anche pieni di buon umore e contentezza, che si può   descrivere come grande gioia.. Quando sarete in grado di verificare che tali geni esistono nel vostro interno, comincerete a sentirvi allegri e sorridenti e godrete di un senso di buon umore.

Vi sono due differenti tipi di buon umore. Uno deriva dal non prendere il mondo troppo seriamente : voi reagite con ogni sorta di giochi ai problemi delle altre persone. L’altro   è un senso generale di gioia. Nulla è considerato come declassante ; tutto è elevato, costantemente. Qui stiamo parlando   di questo secondo tipo di buonumore.

Dal punto di vista del praticante, noi abbiamo vari tipi di discipline per risvegliare i nostri geni illuminati. La principale   è nota come lo scambiare se stessi con gli altri. Ciò significa che ci identifichiamo completamente col dolore altrui e proiettiamo, o distribuiamo, totale benessere. In questo modo cominceremo a capire, e a osservare veramente quanta goffaggine avevamo nell’aggrapparci a noi stessi.

Passiamo ora ad un breve dibattito.

STUDENTE : Rinpoche, mi domandavo, a proposito della seconda caratteristica dei geni-buddha, se questa qualità tenera e amorevole è sempre presente o lo è soltanto in certi momenti ?

TRUNGPA RINPOCHE : Questa è una domanda interessante. Posso farti io una domanda allora ? Secondo te, il fuoco possiede il potenziale di ardere quando è allo stadio di scintilla ? Cosa mi puoi rispondere ?

ST : Mah, suppongo che dipenda dalle circostanze .

TR : Che tipo di circostanze ci dovrebbero essere ?

ST : Bè, se tu stai in un garage pieno di gas, oppure se stai in un campo all’aria aperta...

TR : Certo, certo. Ma, essenzialmente parlando, possiede questo potenziale in quanto tale ?

ST : Si, penso che potrebbe ardere.

TR : Potrebbe ardere e far scoppiare il garage, giusto ? Ed io sto dicendo proprio la stessa cosa. In quanto tale, il gene-buddha è capace dell’intera faccenda.

STUDENTE : Signore, qual è la differenza tra la meditazione-in-azione e la meditazione seduta ? Ho l’impressione che quando   lavoro a  una scultura nel mio studio, mi arrivino fiumi di intuizioni profonde. Ciò mi sembra tanto importante quanto lo star diritti a sedere. C’è qualcosa di sbagliato in tutto ciò ?

TRUNGPA RINPOCHE : Bè vedi, è un punto molto interessante. Stavamo giusto parlando del fuoco. Qualcuno prima accende il fuoco, poi esso arde. Nello stesso modo, tu potresti avere l’idea che non hai bisogno della   pratica seduta. Senti di averne già esperienza, cosa che non metto in discussione.   Probabilmente succede ad una sacco di gente. Tuttavia, noi abbiamo bisogno di una qualche base per addestrarci. Dobbiamo sapere come metterci in contatto con la realtà e dobbiamo anche sapere come poter sviluppare la disciplina. Se ci sediamo per praticare la meditazione shamatha-vipashyana, probabilmente non succederà nulla per un bel periodo di tempo. E l’idea non è che dovrebbe succedere qualcosa. Stiamo soltanto quieti in silenzio.

Alla fine di una lettera che tu mi hai mandato, hai terminato con la parola paix, ‘pace’. La vera pace è non-azione ; questa è la fonte di tutte le azioni. Dobbiamo imparare ad essere una roccia prima di poter essere un albero o un fiore o il vento o il fulmine o un uragano. Dobbiamo essere calmi, e poi potremo andar oltre questo. Perciò la pratica seduta è molto importante.

Noi non ci stiamo particolarmente addestrando   per distruggere o conquistare il mondo. Stiamo cercando di collegarci al mondo nello stesso modo in cui ci colleghiamo alla nascita del nostro primo figlio o, ed è la stessa cosa, al nostro proprio orgasmo ; come accade, voglio sperare, quando facciamo l’amore. Qualsiasi cosa attiva che accade ha qualche relazione con quella vera calma. Quel tipo di calma non è vuota o mortale ; è piena di energia, semplicemente.

Perciò, ecco la differenza tra postmeditazione e meditazione in quanto tale. La meditazione ci rende pronti per l’azione, e talvolta l’azione ci prepara per la non-azione. E’ come inspirare ed espirare : quando espiri   c’è l’azione ; ma per poter espirare   devi prima inspirare. Funziona così. Quindi, è importante avere una disciplina molto stretta per essere calmi e solidi. Da ciò deriva molta energia e molta saggezza.  Meditazione e postmeditazione sono valide ugualmente nella nostra vita - proprio come l’inspirazione e l’espirazione sono entrambe molto importanti.

ST : Grazie tante.

STUDENTE : Rinpoche, potresti dire qualcosa di più sulla meditazione vipashyana ? L’hai nominata nel tuo discorso, ma non sono sicuro di aver ben capito cosa sia.

TRUNGPA RINPOCHE : Vipashyana è una parola sanscrita che letteralmente significa “vedere chiaramente”. In tibetano usiamo la parola lhakthong. Lhak significa “superiore” e thong significa “visione”. Perciò lhakthong significa “visione chiara” o “visione superiore”.

La vipashyana comincia quando abbiano sviluppato la basilare disciplina shamatha di essere precisi e attenti, all’erta per tutto il tempo. Nella shamatha, vengono osservati il suono, l’odore, le sensazioni il processo del pensiero e qualsiasi altra cosa osservabile, ma con una tale precisione che tutte queste cose non diventano altro che calma silenziosa. Non tendono a produrre ulteriori bolle di sapone o manipolazioni di vario tipo. Potresti dire, “Ah, ho pensato a mio padre che mi diceva di no”. In quel momento, tuo padre e l’idea di lui che dice “No, non fare questo” sono sezionate in ora, ora, ora, continuamente. Ogni cosa è sezionata ad un tale livello di precisione da essere  come un granello di sabbia in una mano. Questa è shamatha.

Di solito, in ogni cosa che sperimentate il ricordo è predominante. Se siete seduti in una sala di meditazione ed arriva dell’odore di cibo dalla cucina, vi viene da pensare che tipo di pranzo stiano preparando per voi. Oppure, se sentite dolore alle natiche e alla schiena, vi verrà voglia di cambiare posizione. Shamatha significa che tutto è semplicemente osservato. Viene suddiviso, ma senza aggressività ; è solo osservato attentamente - osservi, osservi, osservi.

Attraverso shamatha siete capaci di osservare queste esperienze come entità distinte, senza far riferimento al passato e senza pensare   a come si evolveranno, o come vi modificheranno. Ogni cosa è senza inizio e senza termine, proprio qui. Se vi capita di pensare alla zuppa di cipolle e a quanto vi piacerebbe andare a mangiare la zuppa di cipolle, ciò sarà solo a livello del pensiero. Perciò, tagliate i vostri pensieri : ora, ora, ora.

Da tutto ciò deriva vipashyana. Al livello di vipashyana, voi tagliate i pensieri grazie al vostro addestramento nella shamatha, però al tempo stesso   ci siete insieme. Il mondo è una visione panoramica, però al tempo stesso le cose non vanno nel modo in cui ordinariamente sono solite scorrere.

Le cose sono fatte di semplici pezzi di realtà, realtà primitive. Anche se odorate cipolle per un lungo tempo - per mezz’ora - questi odori sono ritagliati in pezzi : voi li odorate, poi non li odorate, quindi ancora continuate ad odorarli e poi ancora cessate di odorarli. Altrimenti, se non ci fosse interruzione, non potreste percepire l’odore.

 Le esperienze non sono continue a livello dell’ego. Noi pensiamo che esse siano tutte unite, associate, ma non è così che avviene realmente. Ogni cosa sembra  essere fatta di punti. Quando le esperienze vengono tagliate in piccoli pezzi, una certa percezione dell’unità del quadro potrebbe derivare da qui. Questa è vipashyana.

Per esempio, cominciate a sentir nel modo giusto quando, toccando una roccia, sentite che quella roccia non è una roccia “continua” ma la roccia del momento.

Quando sollevate qualcosa, come una penna o un ventaglio, esse sono soltanto la penna o il ventaglio del momento. Quando sbattete le palpebre, quel battito di ciglia è solo di quel momento ; quando incontrate i vostri amici, essi sono amici del momento. Nulla di più ci spetta e nulla di più si chiede. Ogni cosa è vista in maniera perfettamente chiara.

Visione chiara : è la definizione di vipashyana,   derivante da shamatha. Le cosa potrebbero essere viste come un grande “display”, come un mondo Disneyano, o in qualsiasi altro modo lo vogliate chiamare. Voi realizzate che le cose non sono affatto un tutto unico. Però, poiché esse non sono un tutto unico, sono fantasticamente piene di colore. Più vedrete il segno della discontinuità, più potrete vederle colorate. Per vedere il colore dovrete concedervi una sosta e dopo vedrete ancora colore. Così vedrete, vi fermerete, e dopo vedrete di nuovo la brillantezza. Questa è la precisione con cui percepire il mondo dei fenomeni.

...

STUDENTE : Rinpoche, ad una persona che ti ha interrogato precedentemente   hai manifestato la tua speranza che speravi che   avesse potuto provare piacere sperimentando il suo orgasmo. Nella mia esperienza, ho una certa confusione sul fatto se il piacere sia da considerare piacevole. Dato che non ho ancora superato l’aggressività e le passioni, come posso mettermi in contatto con le cose - se il piacere non è piacevole e il dolore non è particolarmente doloroso, ed io sono ancora così intrappolato ?

TRUNGPA RINPOCHE : Beh, il punto è che non esiste una cosa come il piacere di per sé. In altre parole, persone differenti sperimentano il cosiddetto piacere in modo totalmente diverso, a seconda del loro stato mentale, del luogo da cui provengono e secondo il loro modo di assaporare il piacere. Il piacere non è una cosa solida.

Talvolta le persone si scoraggiano e si arrabbiano molto quando, andando in un  ristorante dove prima erano stati molto bene,   scoprono che il cibo è pessimo ed il servizio lascia a desiderare e  si lagnano con il gestore.

Non ci si può aspettare ogni volta  buoni servizi o  favorevoli situazioni. Io stesso non sono l’identico Trungpa che avete visto alcuni giorni fa. Io sono un nuovo, fresco Trungpa - proprio ora ! E sarà sempre così. Stasera sarò morto e andato, e proprio ora, io sto morendo e tornando a nascere in questo stesso momento.

Quindi, la prossima volta che darò un discorso, sarò totalmente differente.

Tu non puoi relazionarti avendo un solo particolare punto di riferimento. In un certo senso, ciò sarebbe straordinariamente fresco e farebbe sentir bene, ma d’altra parte, sarebbe anche triste, perché vorresti tenerti appeso al passato, costantemente. Finché non avrai abbastanza familiarità con la stato mentale di shamatha e vipashyana, non potrai capirlo. E che la pratica di shamatha/vipashyana continui, fino   al livello della disciplina vajrayana, è bene.

Quando vedete un fantastico scenario, lo ritagliate in piccoli pezzi. Questo vi permette di respirare, dato che vi è uno stacco tra i pezzi ; così comincerete ad apprezzare questi pezzi totalmente. Non penso di poterlo dire con parole più vive di queste. Siete veramente voi che dovete farlo. “Vedere per credere”, come si dice nella lingua inglese.

ST : Molte grazie.

TR : Non c’è di che.

...

STUDENTE : Signore, ieri sera avete parlato di come noi mettiamo una copertura su  di noi   e di come la natura del nostro cuore sia desiderosa di apprendere. Eppure nel buddhismo vi è una nozione di etica. Vi sono certi modi di fare le cose e certi altri di non farle. Come mia personale esperienza quando sento la mia curiosità, a volte mi rifaccio all’etica buddhista, come riferimento per sapere se sto facendo una cosa giusta. Ma talvolta mi chiedo quanto dovrei seguire le scritture e quanto invece dovrei andare avanti   desideroso di conoscere. La mia domanda è come si fa a sapere quando copertura    su di sé e quando invece andare avanti ?

TRUNGPA RINPOCHE : Tocca semplicemente a te. Cioè, ti  devi addestrare a sufficienza, o almeno avere comprensione della transitorietà della tua mente. La tua mente non è un blocco ininterrotto, perciò tu godi del mondo. Quindi puoi andare oltre per estendere l’esplorazione.

Non vi sono particolari dogmi su ciò ; e nemmeno particolari linee-guida, salvo il mantenere la postura eretta ed imitare il Buddha. Puoi fare questo. In questo modo non potrai mai essere ritenuto un presuntuoso.

ST : Perciò, dovrei solo continuare la pratica.

TR : Si, solo continuare la pratica.

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                                               2)   INTELLETTO E INTUIZIONE

Discorso d’apertura, 1973 Seminario Vajradhatu, Teton Village, Wyoming 

 “Il passaggio dalla conoscenza alla saggezza non è semplicemente     acquisire prima la conoscenza e poi all’improvviso diventare saggi. La definizione del concetto di saggezza è che si conosce già tutto intuitivamente ; è una cosa indipendente dall’ammassare informazioni. Però sembra che non sappiamo come produrre questo  passaggio dall’intelletto alla saggezza. Sembra esservi un grande divario tra   loro e   siamo incerti su  come poter affrontare  la questione, come poter diventare sia un erudito che uno yogi. Sembra che vi sia bisogno di un intermediario. Questo intermediario è la compassione, o fervore : la conoscenza è trasformata in saggezza per mezzo della compassione”.

Sembra che vi siano due differenti approcci al sentiero spirituale. Quello intellettuale e quello intuitivo. Nella tradizione intellettuale, lo sviluppo spirituale è visto come un affinarsi della precisione intellettuale,  principalmente attraverso lo studio della teologia. Invece, nella tradizione mistica o intuitiva, lo sviluppo spirituale è visto come un aumento di consapevolezza o devozione attraverso   pratiche come la meditazione. Comunque, né l’approccio intellettuale né quello intuitivo sono completi senza l’apporto l’uno dell’altro. Questi due approcci non sono affatto in contraddizione tra loro. Anzi, sono due canali che si combinano per formare il sentiero spirituale.

Esaminiamo ora le tradizioni intellettuale e intuitiva in maggior dettaglio. In Occidente, la tradizione intellettuale è stata per lungo tempo predominante. E in alcuni paesi buddhisti l’enfasi sullo scolasticismo è stata così forte che gli studiosi buddhisti hanno quasi completamente perso contatto con la tradizione meditativa. I buddhisti che sottolineano il lato erudito dell’insegnamento spesso pensano che sia pericoloso cominciare la meditazione prima di aver padroneggiato la teoria. Perciò essi iniziano il sentiero spirituale studiando molto intensamente e diventando estremamente dotti. Ma poi, quando hanno scoperto intellettualmente tutto e padroneggiato completamente le teorie del buddhismo, essi sentono che  non hanno più bisogno di meditare perché ormai hanno già ottenuto tutte le risposte.

Chi segue  questo tipo di approccio vede il Buddha come un super erudito e l’illuminazione come l’essere completamente sapienti.

Coloro che seguono  la tradizione intuitiva, d’altra parte, vedono  lo studio e l’analisi come ostacoli allo sviluppo spirituale. Ritenendo irrilevante acquisire una conoscenza scollegata all’esperienza personale,   tendono a reagire rifiutando del tutto l’approccio intellettuale. Al contrario, sottolineano la pratica della meditazione come l’unico modo per sviluppare l’intuizione interiore. Dal loro punto di vista, per raggiungere l’illuminazione non c’è assolutamente bisogno di conoscere alcunché. Il Buddha è ritenuto il perfetto meditante, e più perfettamente uno può sedere e meditare, più vicino sarà all’illuminazione.

Enfatizzando un solo aspetto dell’esperienza, ciascuno di questi approcci alla spiritualità è solo parziale. Le tradizioni contemplative del buddhismo, come le tradizioni tibetane e zen, benché sottolineino la pratica meditativa in modo molto marcato, vedono lo studio come qualcosa che dovrebbe andare di pari passo con essa. Si ritiene che uno studente non possa fare assegnamento sulla sola pratica meditativa senza affilare la sua intelligenza. Il principio è che prima è necessaria una certa base nella pratica meditativa e poi si può cominciare a lavorare con l’aspetto intellettuale della tradizione. In questo modo lo studio diventa una conferma della propria esperienza anziché una semplice acquisizione di una massa di informazioni senza senso. Invece di diventare uno stupido meditante o un intellettuale astratto, lo studente può diventare uno yogi intelligente, allo stesso tempo un praticante e un sapiente.

Il concetto di illuminazione trascende le limitazioni sia delle tradizioni contemplative che di quelle erudite. In quanto descrizione della integrità umana, essa dà il senso dell’approccio buddhista alla spiritualità. L’alba dell’illuminazione potrebbe essere descritta come una forma di assorbimento. Ma questo non significa che sia uno stato di simil trance in cui si perde il contatto con il mondo circostante. E’ un senso di totalità e un senso di apertura che non sembra avere un inizio e una fine. Un tale stato  è conosciuto come samadhi-vajra. La nozione di vajra è quella di indistruttibilità psicologica. Poiché questa qualità di sanità non ha nessuna interruzione , dato che è completamente unita alle sue proprie manifestazioni, non può essere distrutta. E samadhi si riferisce alla immutabilità dell’intelligenza, che è auto-esistente e non in costante ansia per cercare di trovare una risposta a tutto. Il samadhi-di-tipo-vajra è un triplice processo consistente di prajna, che è la più alta forma di intelligenza ; karuna, che è la più alta forma di compassione ; e jnana, che è la più alta forma di saggezza.

Prajna, o intelligenza, è completamente intuitiva e intellettualmente precisa. Il modo di operare di prajna  è tale che quando applichiamo la giusta attenzione a persone e situazioni, automaticamente esse ci forniscono le risposte o la retta comprensione. Perciò noi non abbiamo da analizzare  o coltivare oltre la nostra intelligenza. Questa qualità intellettiva sembra essere onnipervasiva - ma allo stesso tempo   ben appropriata.

E’ acuta, precisa e diretta, ma non nel modo banale e limitato di un cesello o di uno spillo.

Karuna, o compassione, è un altro attributo del processo del samadhi. Karuna è di solito tradotto con “compassione”. Tuttavia, la parola compassione, in occidente è piena di connotazioni che non hanno nulla a che vedere con “karuna”. Perciò  è importante chiarire che si tratta di compassione illuminata e capire anche quanto differisca dalla nostra usuale nozione di compassione.

Di solito   pensiamo ad una persona compassionevole come a qualcuno che è gentile e delicato e che non perde mai le staffe. Una tale persona è sempre disposta a perdonare i nostri errori ed a confortarci. Ma il concetto di compassione illuminata non è tanto semplice come quella di uno spirito affabile e benevolente.

Una analogia usata spesso nel buddhismo tradizionale vede la vera compassione  come un pesce e la prajna  come l’acqua. Cioè, l’intelletto e la compassione dipendono uno dall’altra, ma allo stesso tempo, ciascuno ha una sua propria vita e le sue proprie funzioni. La compassione è uno stato di calma e contiene anche intelligenza e   enorme vitalità. Senza intelligenza e abilità, la compassione può degenerare in una sorta di carità pasticciona. Per esempio, se diamo del cibo a qualcuno che è terribilmente affamato, egli può temporaneamente saziare la sua fame. Ma egli sarà ancora affamato tutti gli altri giorni. E se continuiamo a dare cibo a quella persona, alla fine   imparerà che ogni volta che avrà fame potrà avere cibo da noi. A quel punto saremo riusciti a rendere quella persona una specie di mollusco incapace di esplorare la possibilità di procurarsi il cibo da solo. Un tale approccio, in effetti, è una compassione non-compassionevole, o una compassione senza mezzi abili. Una compassione idiota.

La vera compassione è spaziosa e saggia ed anche piena di risorse. In questo tipo di compassione noi non ci gettiamo ciecamente in un progetto ma esaminiamo le situazioni spassionatamente. Vi è un senso di priorità : quale situazione dovrà essere trattata immediatamente e quale non merita il nostro intervento. Questo tipo di compassione possiamo definirla amore intelligente o affetto intelligente. Sappiamo in che modo esprimere il nostro affetto cosicché   non distrugga la persona ma, anzi, la aiuti a svilupparsi. E’ più simile ad una danza che non ad un abbraccio. E la musica che l’accompagna è quella della prajna, o intelletto.

Così la scena si compone di danza della compassione e   musica della prajna. E il luogo in cui questa danza si colloca è noto come jnana, o saggezza, che è la prospettiva globale, l’intero panorama.

Esaminiamo   più   dettagliatamente come queste tre qualità dell’illuminazione - conoscenza, compassione e saggezza - siano collegate tra loro. Cominciamo con prajna, o conoscenza : noi abbiamo bisogno di sapere dove siamo ; dobbiamo esplorare l’ambiente che ci circonda, la nostra particolare collocazione nel tempo e nello spazio. Così dapprima giunge la conoscenza e dopo viene la saggezza. Una volta che possediamo la conoscenza di dove siano, possiamo diventare saggi in quanto non dobbiamo più lottare per fare le cose. Non dobbiamo più lottare per mantenere la nostra posizione. Quindi, in un certo senso, la saggezza è una espressione di non violenza : non dobbiamo combattere per lei, in quanto già siamo saggi.

“Il passaggio dalla conoscenza alla saggezza non è semplicemente     acquisire prima la conoscenza e poi all’improvviso diventare saggi. La definizione del concetto di saggezza è che si conosce già tutto intuitivamente ; è una cosa indipendente dall’ammassare informazioni. Però sembra che non sappiamo come produrre questo  passaggio dall’intelletto alla saggezza. Sembra esservi un grande divario tra   loro e   siamo incerti su  come poter affrontare  la questione, come poter diventare sia un erudito che uno yogi. Sembra che vi sia bisogno di un intermediario. Questo intermediario è la compassione, o fervore : la conoscenza è trasformata in saggezza per mezzo della compassione”.

E’ possibile cominciare a raccogliere ogni tipo di informazioni, cercando di diventare grandi eruditi o enciclopedie ambulanti. Di fatto, la prajna è un processo di vera erudizione in cui noi accumuliamo una enorme massa di informazioni e abilità logica. A questo livello, possiamo maneggiare logicamente la nostra esperienza, addirittura in modo matematico. Ma come possiamo rendere questa conoscenza parte di noi stessi piuttosto che farla essere una semplice raccolta di liste di informazioni ?

Quando sviluppiamo la prajna nel suo senso più completo, psicologicamente e spiritualmente, è allora che possiamo cominciare a sviluppare un senso di amicizia o calore, non solo verso noi stessi ma anche verso il mondo. Ciò non significa amplificare i nostri ego, dandoci pacche sulla schiena per tutti i dottorati che abbiano ottenuto. Al contrario, l’amichevolezza è un tipo di seduzione per la nostra raccolta di idee e conoscenza ; siamo sedotti dal mondo ed estremamente curiosi per tutto quanto lo riguarda. Ad esempio in Occidente, grandi scienziati come Einstein sono diventati famosi per essere alquanto eccentrici. Essi danno l’impressione di trascendere la logica ordinaria e di essere diventati estremamente individualisti. Non appena   sono stati assorbiti dalla loro conoscenza, o prajna, hanno cominciato a sviluppare una qualità di tenerezza o eccentricità. Questa eccentricità sembra appartenere all’area della compassione, in cui vi è spazio per andare avanti e indietro tra essere saggi e essere sapientemente abili. In questo stato mentale non c’è interruzione tra intelletto e intuizione. Anzi, vi è semplicemente un ulteriore sviluppo di energia, che è chiamata   compassione.

Appena l’energia della compassione si sviluppa, cominciamo a festeggiare ciò che abbiamo scoperto. Cominciamo ad apprezzare la conoscenza che abbiamo acquisito. Abbiamo visto come funzionano le cose e, di conseguenza, cominciamo col rendere personale quel tipo di comprensione. Ci piacerebbe dividerla con chiunque. C’è una gran voglia di partecipare ad una enorme comune celebrazione. Non sentiamo il bisogno di mostrare le nostre idee a qualcuno né ci sentiamo sottoposti ad attacchi. Vi è solo un senso di gioia nel sentirci parte di questa conoscenza, e questo senso di gioia, che dà l’avvio al passaggio dalla conoscenza alla saggezza, è la compassione, o amore incondizionato.

Può sembrare che ci voglia molto tempo per arrivare al punto in cui si è saggi, in cui non sentiamo più il bisogno di gratificazioni o incoraggiamenti esteriori, di un punto di riferimento esterno. Tale saggezza è estremamente ricca di inventiva ; anziché aver bisogno di studiare ogni dettaglio di un’area particolare, semplicemente avvertiamo intuitivamente e assai precisamente l’intera area. Siamo veramente in grande armonia con le cose.  Ecco perché il Buddha è detto l’Onnisciente. Non perché fosse stato un grande studioso che aveva letto tutti i libri e quindi possedeva tutte le informazioni, ma perché aveva un accurato senso generale di tutte le cose. Al livello della saggezza, o jnana, tutti i grandi piani concettuali del mondo o dell’universo sono stati penetrati, per cui fatti e figure non giocano un ruolo particolarmente importante. Come individui in cammino sul sentiero spirituale, noi sperimentiamo più e più volte barlumi di questo stato illuminato. Per fornire una analogia in qualche modo negativa, se sviluppiamo una malattia terminale, all’inizio subiremo degli attacchi del male solo una volta al mese. Andando avanti la nostra malattia peggiorerà e gli attacchi diventeranno più frequenti, forse  anche una volta al giorno. Infine, gli attacchi del male saranno presenti ogni giorno,  più volte al giorno. E alla fine saremo di fronte alla morte, poiché gli attacchi della malattia saranno costanti ; il male sarà diventato predominante. La morte dell’ego, ovvero lo sviluppo dell’illuminazione, avviene allo stesso modo. Non dobbiamo crearci consciamente l’esperienza dell’illuminazione, essa arriva da sola. Ci giunge non appena le situazioni della nostra vita evolvono.

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            3) I QUATTRO FONDAMENTI DELLA CONSAPEVOLEZZA

 

Osservazioni sulla pratica meditativa, 1973, Seminario Vajradhatu

“Nella pratica della meditazione, noi lavoriamo su questa cosa piuttosto che cercare di risolvere il problema dall’esterno. Lavoriamo sul proiettore piuttosto che sulla proiezione. Ci rivolgiamo all’interno piuttosto che risolvere problemi esterni come A, B, e C. Lavoriamo sul creatore della dualità, piuttosto che sulla creazione. Questo è cominciare dall’inizio”.

 

 Per chi segue il  buddhadharma, gli insegnamenti del buddhismo,   c’è bisogno di dare grande enfasi alla pratica meditativa. Bisogna  che si veda la chiara logica   che la mente è la causa della confusione e che, nel trascendere la confusione, si raggiunge lo stato illuminato. E questo può aver luogo solo attraverso la pratica meditativa. Lo stesso Buddha lo sperimentò lavorando sulla sua propria mente ; e ciò che egli ha imparato lo ha trasmesso a noi.

La presenza mentale è il primo contatto di base con il cammino spirituale che è comune a tutte le tradizioni del buddhismo. Ma prima di cominciare a vedere da vicino questo primo contatto, dovremmo avere una qualche idea di cosa si intende con spiritualità in quanto tale

Qualcuno ha detto che la spiritualità è un modo di ottenere un migliore tipo di felicità, un tipo di felicità trascendente. Altri la vedono come un benevolo sistema di sviluppare potere sugli altri. Altri ancora dicono che la chiave della spiritualità è   ottenere poteri magici con cui   possiamo cambiare il nostro cattivo mondo in un mondo migliore, oppure purificare il mondo con i miracoli. Sembra che tutti questi punti di vista siano irrilevanti nell’approccio buddhista. In accordo con il buddhadharma,   spiritualità significa relazionarsi con la base operante della propria esistenza, che è il proprio stato mentale.

Vi è un problema nella nostra vita di base, nel nostro essere di base. Questo problema è che noi siamo coinvolti in una continua lotta per sopravvivere, per mantenere la nostra posizione. Siamo in una continua ricerca per  afferrarci ad una certa solida immagine di noi stessi. E quindi dobbiamo poi difendere questa particolare concezione fissa. Perciò vi è guerra, vi è confusione, e c’è passione e aggressività ; vi sono ogni genere di conflitti. Dal punto di vista buddhista, lo sviluppo della vera spiritualità passa attraverso l’eliminazione delle nostre fissazioni di base, quell’afferrarsi, quell’arroccarsi su “questo e quello, che è conosciuto come ego.

Per fare ciò, dobbiamo scoprire cos’è l’ego. Di che si tratta ? Chi siamo noi ? Dobbiamo guardare all’interno nel nostro attuale stato   mentale. E dobbiamo capire quale tipo di pratica dobbiamo adottare per fare ciò. Qui non si tratta di dedicarsi a  discussioni metafisiche sullo scopo della vita e sul significato della spiritualità ad un livello astratto. Stiamo guardando a questa questione come a una situazione che si può trasformare. Abbiano bisogno di trovare qualcosa da fare che ci permetta di intraprendere il sentiero spirituale.

Le persone hanno difficoltà a iniziare una pratica spirituale perché mettono molta energia nel cercare il modo migliore e più facile per poterci entrare. Dovremmo cambiare la nostra attitudine e smettere di cercare il modo migliore e più facile.   In verità, non c’è scelta. Qualunque approccio si voglia prendere, dovremo occuparci di ciò che siamo già.  Dobbiamo guardare a ciò che siamo. Secondo la tradizione buddhista, la base operativa del sentiero e l’energia coinvolta nel sentiero è la mente, la nostra propria mente, che opera in noi da sempre.

La spiritualità è basata sulla mente. Nel buddhismo, la mente è ciò che distingue gli esseri senzienti dalle rocce o dagli alberi o dalle masse d’acqua. Tutto ciò che possiede consapevolezza discriminante, che possiede un senso di dualità - che si afferra, o rifiuta, qualcosa di esterno - questo è mente. Fondamentalmente, è ciò che si può associare con un ‘altro’, con ogni ‘qualcosa’ percepito come diverso dal percettore. Questa è la definizione di mente. La tradizionale frase tibetana per definire la mente ha questo preciso significato : ‘Ciò che può pensare all’altro, la proiezione,  è mente ’.

Quindi per mente,   intendiamo qualcosa di molto specifico. Non è qualcosa di molto vago e fluido dentro la nostra testa o nel nostro cuore,  qualcosa che si manifesta nel  modo in cui   l’erba cresce e il vento soffia E’ invece,   qualcosa di molto concreto.   Contiene percezioni : percezioni che sono veramente non complicate, essenziali, molto precise. La mente sviluppa la sua particolare natura appena quella percezione comincia a soffermarsi su qualcos’altro da sé. La mente rende il fatto della percezione di qualcos’altro che sta fuori come il motivo della sua propria esistenza. Questo è il trucco mentale che costituisce la mente. In effetti, dovrebbe essere l’opposto. Poiché la percezione parte da noi stessi, la logica dovrebbe essere questa: “Io esisto, perciò può esistere l’altro”. Ma in qualche modo l’ipocrisia della mente si è sviluppata a tale punto che la mente stessa si sofferma sull’altro come un modo per   provare una sensazione di ritorno della sua stessa esistenza  e questa è un’idea fondamentalmente sbagliata. Il fatto che l’esistenza di un sé sia in discussione,  genera l’illusione della dualità.

Questa mente è la nostra base operativa per la pratica della meditazione e lo sviluppo della consapevolezza. Però la mente è qualcosa di più di un semplice processo di conferma di sé derivante dal soffermarsi dualistico sull’altro. La mente include anche quel che conosciamo come emozioni,   il punto focale degli stati mentali.

La mente non può esistere senza emozioni ; sogni ad occhi aperti e pensieri discorsivi non sono sufficienti. Se ci fossero solo questi, sarebbe troppo noioso. L’illusione dualistica non sarebbe così potente. Perciò tendiamo a creare ondate di emozioni che ci trascinano su e giù : passioni, aggressività, ignoranza, orgoglio ; ogni genere di emozioni. All’inizio le creiamo deliberatamente, come un gioco per   provare a noi stessi che esistiamo. Ma alla fine il gioco diventa controproducente ; diventa più di un gioco e ci costringe e metterci alla prova più di quanto vorremmo. E’ come un cacciatore, che per la passione sportiva della sua caccia, decide di sparare al cervo cominciando con una gamba alla volta, ma   il cervo scappa velocemente, tanto da poter sfuggirgli del tutto. Questo fatto diventa una sfida totale per il cacciatore, che corre dietro al cervo, cercando ora di ucciderlo , sparandogli direttamente al cuore. In questo modo il cacciatore è stato sfidato e si vede sconfitto dal suo stesso gioco

Le emozioni sono proprio così. Non sono una necessità per sopravvivere, sono un gioco da noi creato che ad un certo punto si è rotto. Di fronte a questa situazione spiacevole ci sentiamo terribilmente frustrati e assolutamente inermi. Questa frustrazione spinge alcune persone a rafforzare la loro relazione con ‘l’altro’, magari creando un dio o altri tipi di proiezione, come un salvatore, un guru o un mahatma . Creiamo ogni sorta di proiezioni come seguaci di qualcuno o guide di qualcuno, capaci di farci riprendere possesso del nostro territorio. La motivazione implicita sta nel fatto che se noi rendiamo omaggio a tali presunti grandi esseri, essi avranno la funzione di nostri salvatori, in quanto garanti del nostro campo   esistenziale.

Così abbiamo creato un mondo agrodolce. Le cose sono divertenti però, al tempo stesso, non così divertenti. Talvolta le cose sembrano estremamente allegre ma, d’altro canto, anche terribilmente tristi. La vita ha la qualità di un nostro gioco che però ci ha intrappolato. La struttura della mente ha creato il tutto.

Potremmo lamentarci del governo o dell’economia del paese, oppure per il tasso di interesse, ma questi fattori sono secondari. Il processo originale alla radice del problema è la competitività del vedere se stessi solo come un riflesso degli altri. Le situazioni problematiche sorgono automaticamente come espressione di ciò. Esse sono una nostra propria produzione, un nostro proprio preciso lavorio. E questo è ciò che è chiamato mente.

Secondo la tradizione buddhista, vi sono otto tipi di coscienza e cinquantadue tipi di concezioni e ogni altro genere di aspetti mentali, su cui  non è il caso di scendere in dettaglio. Tutti questi aspetti sono largamente basati  sul primordiale approccio dualistico. Vi sono aspetti spirituali e aspetti psicologici ed ogni sorta di altri aspetti. Tutti sono legati  nel regno del dualismo che è l’ego.

Nella  pratica della meditazione, noi lavoriamo su questa cosa piuttosto che cercare di risolvere il problema dall’esterno. Lavoriamo sul proiettore piuttosto che sulla proiezione. Ci rivolgiamo all’interno piuttosto che risolvere problemi esterni come A, B, e C. Lavoriamo sul creatore della dualità, piuttosto che sulla creazione. Questo è cominciare dall’inizio.

Secondo la tradizione buddhista, vi sono tre aspetti principali della mente che, in tibetano, sono chiamati sem, rigpa, e yi. La mente di base, la mera capacità di creare la dualità, che abbiamo già descritto, è sem. Rigpa significa letteralmente ‘intelligenza’ o ‘luminosità’. Nel tibetano parlato, se voi dite che qualcuno possiede rigpa, significa che egli è un individuo sveglio e perspicace. Questa accortezza di rigpa è un tipo di funzione collaterale che si sviluppa dalla mente di base, è un tipo di mentalità giuridica che chiunque può sviluppare. Rigpa guarda al problema da varie angolazioni e analizza i possibili   differenti   approcci.   Guarda al problema in ogni possibile modo,  dal dentro al fuori e dal fuori in dentro.

Il terzo aspetto, yi, è classificato tradizionalmente come il sesto senso di coscienza. I primi cinque sensi sono il vedere, l’odorare, il gustare, l’udire e il toccare ; ed il sesto è yi. Yi è la sensibilità mentale. E’ associata col cuore ed è una specie di fattore equilibrante che agisce come un quadro di  riferimento per gli altri cinque sensi. Quando vedete qualcosa e udite contemporaneamente un suono, la vista e l’udito sono sincronizzati dal sesto senso in modo da poter essere elementi distinti di unico insieme. Yi produce un tipo di sincronizzazione automatica, o automatica computerizzazione, dell’intero processo dell’esperienza dei sensi. Potete vedere, odorare, udire, gustare e sentire tutto allo  stesso tempo ; tutti questi stimoli possono essere elaborati con coerenza. Esse hanno un senso per voi grazie a yi.

Perciò yi è una sorta di quartiere generale che coordina le esperienze in un insieme coerente. In un certo senso è il più importante di tutti e tre gli aspetti della mente. Non è così intelligente da saper manipolare come fa’ sem. Sem ha quasi un atteggiamento politico nella  nostra relazione con il mondo ; è come se fosse strategicamente orientato. Il funzionamento del sesto senso è più docile. Esso cerca soltanto di mantenere il coordinamento dell’esperienza in modo che   le informazioni arrivino in maniera efficace e non vi sia alcun problema di venire tagliati fuori  dalla comunicazione con qualunque evento. D’altra parte, rigpa, che è intelligenza - il ricercatore, per così dire - in questa amministrazione della mente, si cura di una visione di insieme della nostra intera situazione.  Sorveglia la relazione tra la mente e il senso e cerca di scoprire dove tutte le cose potrebbero andare  male, dove le cose potrebbero mettersi al peggio, dove le cose si sono messe al peggio, e come   potrebbero essere messe a posto. Questo ricercatore in realtà non ha il potere di promuovere  azioni al livello di relazioni esterne. E’ più simile ad un consigliere del dipartimento di stato.

Questi tre princìpi - sem, rigpa e yi - sono i più importanti di cui essere consapevoli in questo momento. Molti altri aspetti della mente vengono descritti nella letteratura tradizionale, ma questi tre sono ora sufficienti per  la  nostra comprensione attuale.

Dovremmo considerare questa comprensione non   tanto come qualcosa che ci è stato detto e a cui dover     credere. L’esperienza qui descritta può in realtà essere provata personalmente. Ci si può lavorare sopra, mettendoci in contatto. Una certa parte della nostra esperienza viene organizzata dalla mente fondamentale, una certa parte dal sesto senso, ed una certa parte dall’intelligenza. Per comprendere le funzioni fondamentali della pratica della presenza mentale/consapevolezza, penso che sia molto importante per noi cogliere e afferrare queste complessità della mente.

Esiste un gigantesco mondo della mente di cui   siamo quasi completamente ignari. Tutto questo mondo :  questa tenda e questo microfono, questa luce, quest’erba, perfino questo paio di occhiali che abbiamo indosso, è prodotto dalla mente. La mente lo ha costruito , ha messo queste cose insieme. Ciascun dado o bullone sono stati messi insieme da questa mente o da un’altra. Tutto l’intero   mondo è un mondo mentale, il prodotto della mente. E’ perfino superfluo dirlo ; sono sicuro che ognuno di voi lo sa già. Ma dovremmo ricordarcelo per capire che la meditazione non è una attività solitaria per dimenticare questo mondo per andare da qualche altra parte. Meditando, ci si occupa della mente reale che ha concepito i nostri occhiali e ha incastonato le lenti nella montatura, e che ha tirato su questa tenda. Il nostro venire qui è il prodotto delle nostre menti. Ciascuno di noi ha delle differenti manifestazioni mentali, che permettono agli altri di identificarci e poter dire, “Questo ragazzo si chiama così e così, e questa ragazza si chiama così e così”. Noi possiamo essere distinti come individui perché abbiamo atteggiamenti mentali differenti, che modellano anche le espressioni delle nostre apparenze fisiche. Anche le nostre caratteristiche fisiche   fanno parte della nostra attività mentale. E’ per questo che è un mondo vivente, un mondo mentale. Se capiamo questo, lavorare con la mente non sarà più una cosa remota o misteriosa . Non ci sarà più da trattare con qualcosa di segreto o cose di questo genere. La mente è proprio qui. La mente risiede in questo mondo. E’ un segreto svelato.

Il metodo per cominciare a porci in relazione direttamente con la mente, che fu insegnato dal Signore Buddha e che è stato usato nei successivi venticinque secoli, è la pratica di presenza mentale. Vi sono quattro aspetti in questa pratica, conosciuta tradizionalmente come i Quattro Fondamenti della Presenza Mentale.

 

CONSAPEVOLEZZA DEL CORPO

Consapevolezza del corpo, il primo fondamento della presenza mentale, è dettato dal bisogno di una sensazione di esistere, un senso di collegamento alla terra.

Per cominciare, c’è qualche problema su ciò che noi intendiamo come corpo. Noi sediamo su sedie o per terra ; mangiamo, dormiamo, indossiamo abiti. Ma il corpo con cui siamo in relazione nel compiere tutte queste attività è discutibile. Il corpo che pensiamo di avere, secondo la tradizione è noto come corpo psicosomatico. Si fonda in larga misura su proiezioni e concetti  sul corpo. Questo corpo psicosomatico è diverso dalla sensazione  che la  persona illuminata ha del corpo, che   potremmo chiamare corpo - corpo. Questo senso del corpo è libero da concettualizzazioni. E’ proprio semplice e schietto. C’è una relazione diretta con la terra. Quanto a noi, non abbiamo in realtà una relazione con la terra. Noi abbiamo una certa relazione col corpo, ma in un modo insicuro e intermittente. Ondeggiamo su e giù tra corpo e qualcosa d’altro, - fantasie, idee. Questa sembra essere la nostra situazione di partenza.

Anche se il corpo psicosomatico è costituito da proiezioni sul corpo, secondo queste proiezioni   può essere alquanto solido. Abbiamo delle aspettative riguardanti l’esistenza di questo corpo, quindi siamo costretti a rifornirlo, prenderlo in considerazione, lavarlo. Attraverso questo corpo psicosomatico siamo capaci di sperimentare un senso di esistere. Per esempio, ascoltando questo discorso, potete sentire di essere seduti sul terreno, le vostre natiche stanno poggiando per terra, perciò potete stendere le gambe e piegarvi un po’, così da avere meno tensione nel vostro corpo. Tutto ciò ha effetto sul vostro senso di esistere. Avete un certo senso di rilassamento diverso da quello che avreste  se foste in piedi, ritti sui vostri piedi, oppure in punta di piedi, o sulle palme delle mani. La posizione che state adottando in questo momento sembra essere tra quelle piacevoli ; infatti è una delle posture più congeniali che si possano pensare. Perciò stando in questa posizione, potete rilassarvi ed ascoltare, potete ascoltare qualcosa di diverso che non le richieste del vostro corpo.

Sedendo a terra adesso vi sentite alquanto stabili. D’altra parte, se il terreno fosse molto bagnato, non potreste sentirvi così stabili. Quindi comincereste ad essere instabili sul terreno, come un uccello su un ramo. E questo sarebbe completamente un altro problema. Se siete coinvolti intensamente con qualche avvenimento che sta per accadere o se siete preoccupati per qualche incontro che state per fare - per esempio se state per essere intervistati per un lavoro da parte di qualche funzionario - voi non stareste realmente seduti sulla sedia, ma sareste realmente instabili su di essa. State in modo precario quando vi si fa qualche richiesta e   sentite di meno il vostro corpo e maggiormente la vostra tensione e il vostro nervosismo. Questo dà una senso del corpo e del vostro essere ben diverso di quando state seduti tranquillamente, come state facendo ora.

Proprio adesso voi siete seduti per terra, e siete così totalmente seduti da poter far funzionare e accendere il vostro registratore, o anche di prendere rapide annotazioni e non vi rendete conto di star facendo due cose contemporaneamente. State sedendo lì, siete completamente adagiati, per così dire, e facendo questo, potete lo stesso prestare attenzione alle altre vostre percezioni come ascoltare, guardare e così via.

Ma il vostro star seduti qui, a questo punto, non è più tanto un problema del vostro corpo in  sé, che sta seduto per terra ; è molto più un problema del vostro corpo psicosomatico, che sta seduto per terra. Star seduti per terra, come voi state facendo : guardando tutti in un’unica direzione verso l’oratore, sotto il tetto di questa tenda ;   attirati dalla luce che è puntata sul palco - tutto vi dà una particolare idea, crea un certo modo di stare insieme, che è la condizione del vostro corpo psicosomatico. Voi siete in qualche modo assai coinvolti nello star seduti in sé e per sé, ma allo stesso tempo non lo siete. E’ la mente che lo sta facendo, è il concetto che lo sta facendo. La vostra mente sta modellando la situazione in accordo col vostro corpo. E’ la vostra mente che sta seduta per terra. La vostra mente sta prendendo note. La vostra mente sta portando gli occhiali. La vostra mente ha i capelli in quel modo. La vostra mente sta indossando quei vestiti. Ognuno crea un mondo secondo la situazione del corpo, ma  soprattutto senza un contatto con esso. Questo è il processo psicosomatico.

La consapevolezza del corpo porta dentro la pratica meditativa questa onnipervasiva attività della mente-che-imita-il corpo . La pratica  deve tenere conto del fatto che   la mente modella continuamente se stessa  nei modi di essere,  come se fosse il corpo. Conseguentemente, fin dal tempo del Buddha, la meditazione seduta è stata raccomandata e praticata, essendo stato provato che è il miglior modo di trattare questa situazione. La tecnica di base che riguarda la meditazione seduta, è lavorare con il respiro. Voi vi identificate col respiro, in particolare con l’espirazione. L’inspirazione è solo una pausa, uno spazio. Durante l’inspirazione, siete soltanto in attesa. Quindi voi espirate e allora vi dissolvete e dopo vi è una pausa. Espirazione...dissoluzione...pausa. una apertura, una espansione, succede costantemente così.

La presenza mentale gioca un ruolo importantissimo in questa tecnica. In questo caso, presenza mentale significa che quando siete seduti e meditate, voi realmente siete seduti. Siete realmente seduti tanto che il corpo psicosomatico ne è coinvolto. Sentite il terreno, il corpo, il respiro, la temperatura. Non state specificatamente cercando di guardare e tenere il conto di ciò che sta accadendo. Neanche cercate di formalizzare la vostra situazione seduta vedendola come se stesse compiendo una qualche speciale attività . Siete soltanto seduti. Allora cominciate a percepire   un certo senso di fondatezza.  Questo non è una cosa che avete cercato di ottenere in modo particolare, ma è originata dal fatto concreto di essere lì. Quindi state seduti. Siete seduti. E respirate. E siete seduti e respirate. Talvolta vi arrivano pensieri, ma ancora state pensando pensieri seduti. Il corpo psicosomatico sta sedendo, e quindi i vostri pensieri hanno il fondo piatto.

La consapevolezza del corpo è connessa con la terra. E’ una apertura che ha una base, un fondamento. Si sviluppa una qualità di coscienza espansiva attraverso la  consapevolezza del corpo - un senso di essere stabilizzato e quindi di potersi permettere l’apertura

Mantenere questa attenzione richiede una grande dose di fiducia. Probabilmente il meditante principiante non sarà capace di restare lì, ma sentirà il bisogno di un cambiamento. Ricordo una persona, che aveva appena finito un ritiro, dirmi come era stata seduta e come sentiva il suo corpo legato a terra. Ma poi aveva pensato   che avrebbe dovuto fare qualcos’altro. Continuò nel raccontarmi come quel giusto libro gli fosse  saltato in grembo, e lei avesse cominciato a leggerlo. A quel punto non si ha più una base solida. La propria mente sta cominciando a farsi spuntare delle piccole ali. La consapevolezza del corpo ha a che vedere con la necessità di rimanere umani, invece che farci diventare un animale o una mosca o un essere eterico. Significa proprio cercare di rimanere un essere umano, un comune essere umano.

Il fondamentale punto di partenza per questo è la solidità, la fondatezza. Quando sedete, state realmente sedendo. Anche i vostri pensieri fluttuanti cominciano a sedere sulle proprie parti posteriori. Non vi sono particolari problemi. Voi avete un senso di solidità e fondatezza e, al tempo stesso, un senso pieno di esistere.

Senza questa particolare base di presenza mentale, il resto della vostra pratica di meditazione potrebbe essere assai superficiale e fantasiosa - oscillante in su e giù - in cerca di questo o quello. Potreste trovarvi in un costante stato di camminare in punta di piedi sulla superficie dell’universo, senza veramente avere un punto di appoggio in qualche posto. Potreste sentirvi un eterno autostoppista. Perciò con questa prima tecnica svilupperete una certa solidità di base.

Attraverso la  consapevolezza del corpo, c’è un senso di scoperta di un  terreno familiare.

 

CONSAPEVOLEZZA DELLA VITA

L’applicazione della presenza mentale deve essere precisa. Se ci attacchiamo alla nostra pratica, creeremo un ristagno. Quindi, nella nostra applicazione delle tecniche di presenza mentale, dobbiamo essere consapevoli della nostra tendenza fondamentale ad aggrapparci, a cercare di sopravvivere. Arriviamo così al secondo fondamento della consapevolezza, che è la consapevolezza della  vita, o del sopravvivere. Poiché parliamo di  meditazione, incontreremo questa tendenza di aggrapparci nella situazione. Sperimentiamo lo stato meditativo, che è temporaneamente tangibile ma, allo stesso tempo, è anche in qualche modo dissolubile. Avanzare in questo processo significa sviluppare un senso di ‘lasciar andare’ la consapevolezza, come pure il mantenerne il contatto. Questa tecnica di base del secondo fondamento della consapevolezza potrebbe essere descritta come toccare-e-lasciare andare ; voi siete qui - presenti, attenti - e poi lasciate andare.

Un comune fraintendimento è che lo stato meditativo della mente debba rimanere imprigionato e poi nutrito e protetto. Questo è sicuramente un approccio errato.

Se cercate di addomesticare la vostra mente per mezzo della meditazione, cercando di impossessarvene tenendola nello stato meditativo, il risultato più evidente sarà un regresso dal sentiero, con una perdita di freschezza e spontaneità. Se cercate di costringervi ad essere sempre senza errori,  allora mantenere la vostra consapevolezza comincerà a diventare una fastidiosa incombenza domestica. Diventerà come sbrigare penosamente dei lavori domestici. Vi sarà un latente senso di risentimento e la pratica della meditazione assumerà un connotato   confuso. Comincerete a sviluppare un rapporto amore - odio verso la vostra pratica, in cui il vostro concetto di essa può sembrare positivo, ma, al tempo stesso, l’impegno che questo rigido concetto produce su di voi è troppo penoso.

Perciò, la tecnica della consapevolezza della vita è basata sul ‘toccare e lasciar andare’.   Focalizzate la vostra attenzione sull’oggetto della consapevolezza, ma poi, nello stesso momento, ripudiate quella consapevolezza e andate avanti. Ciò che qui serve è un certo senso di fiducia - fiducia nel fatto che non dovete   impossessarvi saldamente della vostra mente - ma che potete armonizzarvi spontaneamente con il suo processo.

La consapevolezza della vita va’ messa in relazione alla   tendenza a fissarsi, non solo   allo stato meditativo, ma, cosa ancor più importante, con il livello della  cruda ansietà circa la sopravvivenza, che si manifesta costantemente in noi, momento dopo momento, minuto dopo minuto. Voi respirate per sopravvivere ; portate avanti tutta la vostra vita allo scopo di sopravvivere. Questa sensazione,  il cercare di proteggervi dalla morte, è sempre presente. Agli effetti pratici del secondo fondamento la logica viene aggirata piuttosto che  considerare questa mentalità di sopravvivenza come qualcosa di negativo, invece di rapportarvi ad essa come ad un ego-attaccamento, come vorrebbe una visione filosofica astratta del buddhismo. Nel secondo fondamento, la lotta per la sopravvivenza è considerata come un primo passo nella pratica della meditazione. Ogni volta che avete il senso dell’istinto di sopravvivenza funzionante, questo può essere tramutato in un senso di essere, un senso di essere già sopravvissuti.

La presenza mentale diventa un fondamentale riconoscimento del proprio esistere. Non ha il sapore di “grazie a Dio, sono sopravvissuto !”. Al contrario, è più oggettivo, imparziale : “Io sono vivo, sono qui, è proprio così”.

Possiamo intraprendere la pratica di meditazione con un senso di purezza o austerità. In qualche modo sentiamo che, meditando, stiamo facendo la cosa giusta e ci sentiamo bravi ragazzi o brave ragazze. Non solo stiamo facendo la cosa giusta, ma anche stiamo allontanandoci dalle cose sgradevoli del mondo . Stiamo diventando puri; stiamo rinunciando al mondo e ci stiamo trasformando negli yogi del passato. In realtà, noi non stiamo vivendo e meditando in qualche caverna, ma possiamo far in modo da considerare l’angolo della nostra stanza, che abbiamo adattato per la meditazione, come una caverna. Possiamo chiudere gli occhi e sentirci come se si stesse meditando in una caverna di montagna. Questo tipo di fantasia ci fa sentire piuttosto bene. Pare molto adatto ; sembra pulito e sicuro.

Questa forte tendenza è un tentativo di isolare la pratica di meditazione dalla propria   situazione di vita concreta. Sviluppiamo ogni sorta di concetti estranei e false immagini su di essa. Dà soddisfazione vedere la meditazione così austera e al di sopra della vita. Però, la consapevolezza della vita ci spinge proprio nella direzione opposta. Il punto di vista  della consapevolezza della vita è quello che, se state meditando in una stanza, state meditando in una stanza. Non considerate la stanza come una caverna. Se state respirando, state solo respirando e non dovete sforzarvi di convincervi che siete una roccia immobile. Mantenete gli occhi aperti e   lasciatevi semplicemente essere dove siete. Non ci sono immaginazioni legate a ciò. Andate solo avanti con la reale situazione così come è. Se il vostro luogo di meditazione è in un ambiente lussuoso, siate solo al centro di esso. Se è in un ambiente semplice, siate solo al centro di quello. Non cercate di andare via da qui per qualche altro luogo. Voi state semplicemente e direttamente sintonizzandovi al vostro processo di vita. La pratica è l’essenza del ‘qui ed ora’.

In questo modo, la meditazione diventa una   parte reale della vita, piuttosto che soltanto una pratica o un esercizio. Essa diventa inseparabile dall’istinto di vivere che accompagna tutta la propria esistenza. Questo istinto di vivere può essere visto come ricco di consapevolezza, meditazione, presenza mentale.  Ci mette in sintonia costante  con ciò che sta accadendo. Così la forza vitale che ci mantiene vivi e che si manifesta continuamente nel nostro stesso flusso di coscienza diventa la pratica della presenza mentale. Tale presenza mentale porta chiarezza, abilità e intelligenza. L’esperienza viene presa dal contesto di intensa confusione psicosomatica e   posta in ciò che è il    corpo reale, dato che stiamo semplicemente sintonizzandoci su ciò che sta già accadendo, senza proiettarci   qualcosa d’altro.

Poiché la presenza mentale è parte del proprio flusso di coscienza, la pratica di meditazione non può essere considerata come qualcosa di alieno, come una sorta di emulazione di un qualche pittoresco yogi con la fissazione di meditare tutto il tempo. Dal punto di vista della consapevolezza della vita, la meditazione è la complessiva esperienza di ciascun essere vivente in possesso dell’istinto di sopravvivenza. Quindi, meditare,   sviluppare presenza mentale, non dovrebbe essere considerato come una attività di un gruppo ristretto o come un qualche passatempo specialistico ed eccentrico. E’ un approccio veramente universale che riguarda tutta  l’esperienza : è il mettersi in sintonia con la vita.

Non è che ci mettiamo in sintonia per cercare di vivere più a lungo. E nemmeno ci accostiamo alla presenza mentale come ulteriore elaborazione dell’istinto di sopravvivenza. Piuttosto vediamo proprio il senso di sopravvivenza così com’è mentre avviene in noi. Voi siete qui ; state vivendo ; lasciate che sia così, questa è presenza mentale. Il vostro cuore pulsa e voi state respirando. Ogni genere di cose stanno avvenendo in voi contemporaneamente. Lasciate lavorare la presenza mentale con tutto ciò, lasciate che vi sia la presenza mentale, lasciate che ogni battito del vostro cuore, ogni respiro, sia la presenza mentale stessa. Non dovete respirare in un modo speciale ; il vostro respiro è una espressione della presenza mentale. Se vi accostate alla meditazione in questo modo, allora diventerà molto personale e molto diretta.

Da un tale modo di vedere e da tale relazione con la pratica di meditazione si ottiene enorme forza, enorme energia e potere. Ma ciò avviene solo se la propria relazione con la situazione presente è accurata. Altrimenti non vi sarà forza perché saremo separati dall’energia di quella situazione. L’accuratezza della presenza mentale, d’altra parte, produce non solo forza, ma anche un senso di dignità e contentezza. Questo succede semplicemente perché stiamo facendo qualcosa che è applicabile a quel dato momento reale. E lo stiamo facendo senza lacuna implicazione o motivo. E’ precisa e diretta.

E’ però necessario aggiungere che, una volta che abbiate l’esperienza della presenza della vita, non vi ci dovete aggrappare . Solo ‘toccare e lasciar andare’. Toccate quella presenza di vita che è vissuta, poi andate. Non dovete ignorarla. ‘Andare’ non significa che dovete girare le spalle all’esperienza e impedirvela ; significa soltanto esservi dentro senza ulteriori analisi e senza ulteriori rafforzamenti. Trattenere la vita, o rassicurare se stessi che è così, ha il senso della morte, piuttosto che della vita. E’ solo perché abbiamo questo senso della morte che vogliamo rassicurarci di essere vivi. Ci piacerebbe avere una polizza assicurativa. Però, se sentiamo che siamo vivi, questo è sufficientemente positivo. Non dobbiamo rassicurarci che stiamo realmente respirando, che possiamo veramente essere visti. Non dobbiamo continuamente controllare per assicurarci di avere un’ombra. Solo il fatto che siamo vivi è sufficiente. Se non ci fermiamo al rassicurarci continuamente,  il vivere diventerà qualcosa di molto limpido, molto vivo e molto preciso.

Quindi,   la presenza mentale non significa spingersi verso qualcosa o aggrapparsi a qualcosa.

Significa permettere a se stessi di essere lì nel preciso momento in cui nel corso della nostra  vita accade qualcosa, e poi lasciar andare.

 

CONSAPEVOLEZZA DELLO SFORZO

Il successivo fondamento della consapevolezza è la consapevolezza dello sforzo. Il concetto di sforzo è apparentemente problematico. Lo sforzo sembra essere in contrasto col senso di esistere che sorge dalla consapevolezza del corpo. Inoltre sforzi di vario tipo non hanno certo spazio nella tecnica ‘toccare e lasciar andare ’ della consapevolezza della vita. In entrambi i casi, il puro sforzo intenzionale sembrerebbe compromettere la chiara precisione   del processo di consapevolezza.

D’altra parte non possiamo aspettarci che si sviluppi l’appropriata presenza mentale senza alcun tipo di sforzo da parte nostra. Lo sforzo è necessario. Ma la nozione buddhista di retto sforzo è abbastanza differente dalla definizione convenzionale di sforzo.

Lo sforzo convenzionale è   orientato verso il raggiungimento di un risultato : vi è un senso di lotta e di spinta, che viene incoraggiato dall’idea di uno scopo. Un simile sforzo cattura il momento e cresce   nella sua stessa velocità, come la corsa di un corridore. Un altro approccio allo sforzo è accompagnato da un senso di grande espressività : non vi è un senso di elevazione o ispirazione in questo lavoro. Vi è, invece, un forte sentimento di obbedienza. Si lavora duramente, lentamente e con calma, cercando di macinare le incombenze come un verme in un albero. Un lombrico mastica proprio tutto ciò che si para davanti alla sua bocca ; il canale che attraversa il suo ventre è il suo spazio totale.

Tuttavia nessuno di questi due tipi di sforzo possiede un senso di spaziosità o precisione. La tradizionale analogia buddhista per ‘retto sforzo’ è il passo dell’elefante o della tartaruga. L’elefante avanza sicuro, inarrestabile, con grande dignità. Come il verme, esso è imperturbabile ma, al contrario del verme, ha una visione panoramica del terreno su cui procede. Benché sia lento e maestoso, a causa della abilità dell’elefante di controllare il terreno, nel suo movimento vi è un senso di giocosità e di intelligenza.

Nel caso della meditazione, cercare di sviluppare una ispirazione che si basa sul voler dimenticare le proprie pene per far crescere la propria pratica come una continua realizzazione è qualcosa di abbastanza immaturo. D’altra parte, troppo solennità e deferenza producono un pratica  povera e senza energia  e una disposizione psicologica statica. Lo stile del retto sforzo, come insegnò il Buddha, è serio, ma non troppo serio. Si avvantaggia del naturale processo  istintivo a riportare la mente, costantemente vagante, alla consapevolezza del respiro.

Il punto cruciale nel processo del ritornare a se stessi è che non è necessario attraversare fasi precostituite :   prima prepararsi, poi controllare la propria attenzione, infine ricondurla al respiro come se si stesse cercando di guidare un bambino birichino per non fargli commettere qualcosa di tremendo. Non è   questione di forzare la mente su qualche particolare oggetto, ma di riportarla dal mondo dei sogni alla realtà. Stiamo respirando, stiamo sedendo. Questo è ciò che stiamo facendo e dovremmo farlo totalmente, pienamente, con tutto il cuore.

Vi è un tipo di tecnica, un trucco, che in questo caso è di estrema efficacia ed utilità, non soltanto per sedere in meditazione, ma anche nella vita quotidiana o meditazione-in-azione. Il metodo per ritornare a noi consiste in ciò che potremmo chiamare l’osservatore astratto. Questo osservatore è proprio semplicemente l’autocoscienza, senza scopo né meta. Quando incontriamo qualcosa, la prima scintilla che si manifesta è il nudo senso di dualità, di separatezza. Su questa base, noi cominciamo a valutare, prendere e scegliere, prendere decisioni, compiere ciò che vogliamo. L’osservatore astratto è proprio quel senso di separatezza di base - la chiara cognizione di essere lì prima che tutto il resto si sviluppi. Invece di condannare questa autocoscienza come dualistica, possiamo avvantaggiarci di questa tendenza del nostro sistema psicologico e usarla come base della consapevolezza dello sforzo. Questa esperienza è proprio un lampo improvviso del fatto che c’è un osservatore. A questo punto non pensiamo “Devo ritornare al respiro ” oppure “Devo cercare di staccarmi da questi pensieri ”. Non abbiamo da intrattenerci con questo deliberato e logico movimento della mente che ripete a se stessa lo scopo della pratica seduta. Vi è solo un’improvvisa e generale sensazione che qualcosa sta avvenendo qui e ora e che noi stiamo tornando a noi stessi. All’improvviso, bruscamente, senza un nome, senza applicare alcun tipo di concetto, abbiamo un veloce accenno del cambiamento di tono. Questo è il nocciolo della pratica della consapevolezza di sforzo.

Una delle ragioni per cui lo sforzo ordinario diventa così tetro e stagnante è che la nostra intenzione produce sempre una verbalizzazione. Nel subcosciente noi verbalizziamo :”Devo andare ad aiutare così e così perché è l’una passata” oppure : “questa cosa da fare è buona per me ; va bene che io adempia a questo obbligo”. Ogni tipo di senso del dovere che ci capita di avere è sempre verbalizzato, anche se la velocità della mente concettuale è così rapida che potremmo non essere consapevoli della verbalizzazione. Ciononostante i contenuti della verbalizzazione sono sentiti in modo chiaro. Questa verbalizzazione spinge lo sforzo verso una prefissata griglia di riferimento che lo rende estremamente stancante. All’opposto, lo sforzo astratto di cui stiamo parlando, brilla e sprizza in una frazione di secondo, privo di nome o di idea che l’accompagni. E’ giusto un balzo, un improvviso cambio di direzione che non definisce la sua destinazione. La base dello sforzo è proprio come il passo dell’elefante : andamento lento, passo dopo passo, osservando la situazione intorno a sé.

Se volete potreste chiamare questa autocoscienza  astratta un salto o un balzo o un improvviso ricordo ; o   potete chiamarlo stupore. Talvolta potrebbe essere avvertito come panico, panico incondizionato, a causa dell’inversione di marcia : qualcosa ci viene incontro e cambia l’intero corso degli eventi. Se lavoriamo con questo salto improvviso e lo facciamo senza sforzo nello sforzo, allora lo sforzo diventa auto-esistente. E’ come dire che sta’ sui suoi propri piedi, anziché aver bisogno di   altro sforzo per essere messo in moto. Se fosse questo il caso, lo sforzo si produrrebbe deliberatamente e andrebbe contro l’intero spirito della meditazione. Una volta che avete avuto un simile improvviso istante di presenza mentale, l’idea è che non cerchiate di mantenerla. Non dovreste conservarla o cercare di coltivarla. Non intrattenete il messaggero. Non nutrite il ricordo. Tornate alla meditazione. Comprendete il messaggio.

Questo tipo di sforzo è estremamente importante. Il lampo improvviso è la chiave di ogni meditazione buddhista, partendo dal livello della meditazione di base fino ad arrivare ai più elevati livelli del tantra. Tale consapevolezza dello sforzo potrebbe definitivamente essere considerata il più importante aspetto della pratica di presenza mentale. La consapevolezza del corpo crea l’ambiente generale ; essa porta la meditazione nella situazione psicosomatica della propria esistenza. La consapevolezza della vita rende la meditazione una pratica personale ed intima. La consapevolezza dello sforzo rende la meditazione operativa :   collega i fondamenti della consapevolezza al sentiero, al percorso spirituale. E’ come la ruota di un carro che crea la connessione tra il carro e la strada, o come i remi di una barca. La consapevolezza dello sforzo attualizza la pratica ; fa si che essa si muova, che vada avanti.

Ma c’è un problema. La consapevolezza dello sforzo non può essere prodotta deliberatamente, ma d’altra parte, non è sufficiente sperare che un improvviso barlume ci giunga e possa essere notato. Non possiamo solo lasciare che ‘quella cosa’ ci accada. Dobbiamo stabilire un qualche tipo di sistema d’allarme, per così dire. Preparare una atmosfera generale. Deve esserci una base di disciplina che dia  il tono alla pratica seduta. Lo sforzo è importante in questo senso ; come anche l’impegno a non avere la minima indulgenza verso qualsiasi forma di svago. Dobbiamo abbandonare qualcosa. Se non abbandoniamo le nostre riserve sul prendere sul serio la pratica, è virtualmente impossibile far sì che quel tipo di sforzo istantaneo sorga in noi. Quindi, è estremamente importante avere rispetto per la pratica, provare un senso di apprezzamento e buona disposizione a lavorare duro.

Una volta che avremo un senso di fiducia per prendere contatto   con le cose così come esse sono realmente, avremo aperto la via al lampo che ci rammenterà : questo, questo, questo. Ma, questo che ? Non pensateci più su. Solo ‘questo’, che si porta dietro un intero nuovo stato di coscienza e ci riporta automaticamente alla presenza mentale del respiro o ad un generale senso di esistere.

Lavoriamo sodo per non essere distratti dalle divagazioni. Di nuovo possiamo, in un certo senso,   gustarci la situazione assai noiosa della pratica della meditazione seduta. Possiamo apprezzare realmente di non avere ampie risorse di intrattenimento disponibili. Per il fatto di avere già incluso il nostro tedio e la nostra noia, non dobbiamo scappare da nulla e possiamo sentirci completamente sicuri e ben stabili.

Questo senso fondamentale di apprezzamento è un altro aspetto del terreno che rende possibile al lampo spontaneo, di arrivare con maggiore facilità. E’ come quando ci si innamora. Quando ci innamoriamo di qualcuno, dato che la nostra intera indole è aperta verso quella persona, in un modo o nell’altro, abbiamo un improvviso lampo di quella persona - non come un nome od un concetto di ciò a cui la persona assomiglia ; questi sono pensieri successivi. Abbiamo proprio un lampo astratto del nostro innamorato, come ‘questo’. Un flash di questo è quello che per primo arriva nella nostra mente. Poi possiamo ragionare su questo lampo, elaborarlo, goderci i nostri sogni ad occhi aperti su di esso. Ma tutto questo accade dopo. Il lampo è primario.

L’apertura porta sempre questo tipo di risultato. Una analogia tradizionale è quella del cacciatore. Il cacciatore non si mette a pensare se incappa in un cervo, un capriolo o un orso, o qualche altro animale specifico, egli sta cercando ‘questo’. Quando cammina e sente un rumore, o percepisce qualche sottile possibilità, non pensa a quale animale sta dando la caccia ; soltanto gli arriva un senso di ‘questo’. Ognuno, nel coinvolgimento più completo - al livello del cacciatore, dell’innamorato, o del meditante - ha quel tipo di apertura che determina questi lampi improvvisi. E’ una sensazione quasi magica di essenza, senza nome, senza concetto, senza idee. Questo è l’istante dello sforzo, dello sforzo concentrato e la consapevolezza ne consegue subito dopo. La consapevolezza, una volta accantonata quella improvvisa  esperienza, lentamente arriva e si aggiusta nella terrestre realtà   dell’essere semplicemente lì.

 

CONSAPEVOLEZZA DELLA MENTE

Spesso la presenza mentale è definita come vigilanza. Ma ciò non dovrebbe far credere che la presenza mentale significhi semplicemente vigilare su qualcosa che accade. Presenza mentale significa essere vigili, piuttosto che osservare qualche cosa. Questo implica un processo di intelligente attenzione, anziché una azione meccanica che osserva solo ciò che accade. In particolare, il quarto fondamento - la consapevolezza della mente - possiede un senso di   intelligenza risvegliata e operante. L’intelligenza del quarto fondamento ha il  senso di avere la mano leggera. Se aprite le finestre e le porte di una stanza quel tanto che basta, potrete mantenere la sensazione di spaziosità dell’interno e, allo stesso tempo, avere il fresco dell’esterno. La consapevolezza della  mente produce questo tipo di intelligente equilibrio.

Senza la mente ed i suoi conflitti, noi non potremmo meditare o sviluppare equilibrio, né sviluppare nessun’altra cosa . Quindi, i conflitti che sorgono dalla mente sono da considerare come una parte necessaria del processo della  presenza mentale. Ma, al tempo stesso, questi conflitti dovranno essere sufficientemente controllati cosicché sia possibile ritornare alla nostra consapevolezza del respiro. Deve essere mantenuto un equilibrio. Vi deve essere una certa disciplina, di modo che non si sia né completamente persi nei sogni ad occhi aperti né vi sia la mancanza di freschezza e apertura che viene dal   tenere la nostra attenzione troppo tesa. Questo equilibrio è uno stato di vigilanza, di presenza mentale.

Persone con differenti temperamenti hanno  differenti approcci alla pratica di meditazione. Alcune persone sono estremamente ortodosse, di fatto dittatoriali, con se stesse. Altre sono straordinariamente sciolte ; esse si mettono, per così dire, in una semplice postura di meditazione e lasciano che ogni cosa accada. Altri, invece, lottano su e giù tra questi due estremi, non sapendo esattamente cosa fare. Il modo in cui uno si accosta alla posizione seduta dipenderà dal suo proprio stato d’animo e dal tipo di persona che è , ovviamente. Ma è richiesto sempre un certo senso di accuratezza ed un certo senso di libertà.

La consapevolezza della mente significa stare con la propria mente. Quando sedete e meditate, siete proprio lì : vi trovate ad essere col vostro corpo, con la vostra sensazione di essere vivi o di sopravvivere, con la sensazione di sentire lo sforzo  e, al tempo stesso, vi trovate a stare con la vostra mente. Vi trovate ad essere lì. La consapevolezza della mente suggerisce un senso di presenza e un senso di accuratezza   nel senso di essere lì. Voi siete lì, quindi non potete perdervi. Se non foste lì, allora potreste anche perdervi. Ma ciò potrebbe anche essere una reazione a scoppio ritardato : se realizzaste che non siete presenti, ciò vorrebbe dire che lo siete. Questo vi riporta a dove siete, al punto di partenza.

L’intero processo è assai semplice, in realtà. Sfortunatamente, per spiegarne la semplicità si ha bisogno di un mucchio di parole, un mucchio di grammatica. Comunque, è un problema assai semplice. Riguarda voi ed il vostro mondo. Niente altro. Non si parla in modo particolare dell’illuminazione e non comporta particolari comprensioni metafisiche. Questo semplice fatto non riguarda particolarmente né   il   prossimo minuto né   quello precedente a questo. Riguarda soltanto la   piccola zona in cui siamo ora.

In realtà, noi operiamo su una base molto piccola. Pensiamo di essere grandi, tremendamente significativi e di ricoprire un intero grande spazio. Ci vediamo   come se avessimo una storia passata ed un futuro, ed ora siamo qui nel nostro grande affare attuale. Ma, se guardiamo chiaramente a noi stessi in questo preciso momento, vedremo che siamo solo granelli di sabbia - solo piccole personcine impegolate   in questo piccolo puntino chiamato ‘l’adesso’.

Possiamo fare solo una cosa per  volta e la consapevolezza della si mente si accosta alla nostra esperienza in un questo modo. Siamo lì e ci accostiamo alla vera semplice base di ‘questo. Il ‘questo non ha   molte dimensioni, molte prospettive ; è solo una piccola cosa. Relazionarci direttamente a questo piccolo puntino dell’adesso è la giusta comprensione di cosa sia la sobrietà. Se lavoriamo su questa base, sarà possibile cominciare a vedere la verità della materia, per così dire,   vedere cosa realmente significhi l’adesso.

Questa esperienza è assai rivelatrice perché è molto personale. Non è personale nel senso di essere insignificante e mediocre. Il concetto è che questa esperienza è la vostra esperienza. Potreste essere tentati di volerla dividere   con qualcun altro, ma diventerebbe la loro esperienza, anziché ciò che vorreste voi: la vostra e la loro esperienza, mescolate assieme. Questo non potrete mai ottenerlo. Le persone hanno differenti modi di sperimentare la realtà, che non possono essere mescolati assieme. Invasori e dittatori di ogni tipo hanno cercato di fare in modo che altri abbiano la loro esperienza, facendo un gran miscuglio di menti controllate da una sola persona. Ma ciò è impossibile. Chiunque abbia cercato di fare questo tipo di pizza spirituale ha fallito. Perciò dovete accettare il fatto che la vostra esperienza è personale. La personale esperienza dell’adesso è veramente lì,    proprio lì. Non potete  di certo gettarla via !

Perciò nella pratica seduta, o nella   pratica di consapevolezza della vita quotidiana ,    non state cercando di risolvere un gran numero di problemi. Voi state osservando una situazione che è proprio limitata. E’ così limitata che non c’è spazio per essere claustrofobica. Se non sta lì, non c’è. L’avete persa. Se, invece, sta lì, allora c’è. Questo è il punto focale della consapevolezza della  mente, quella semplicità di completa attualità, totale direzionalità. La mente funziona in modo specifico. Una volta. Ancora una volta. Una cosa alla volta. La pratica di consapevolezza della mente deve essere lì con quella percezione ‘un-colpo-per-volta’, costantemente. Potrete così avere un quadro completo, in cui nulla va perduto : sta accadendo questo, ora sta accadendo questo, ora sta accadendo quest’altro. Non c’è scampo. Anche se vi concentrate per sottrarvi a ciò, questo è ancora un movimento da‘un-colpo-solo’ di cui   essere consapevoli. Potete essere consapevoli della vostra fuga - delle vostre fantasie sessuali o delle vostre fantasie aggressive.

Le cose accadono sempre una alla volta, con un movimento della mente semplice e diretto. Quindi, nella tecnica della consapevolezza della mente, è tradizionalmente raccomandato di stare attenti a ciascuna percezione mentale da ‘un-colpo-solo’, come    : “Sto pensando di udire un suono”, “Sto pensando di sentire un odore”, “Sto pensando che sento caldo”, “Sto pensando di provare freddo”. Ogni osservazione è un contatto completo con l’esperienza - assai preciso e diretto - un solo movimento mentale. Le cose accadono sempre in questo modo diretto.

Spesso noi tendiamo a pensare di essere particolarmente furbi e che possiamo allontanarci dalla   diretta natura delle cose. Pensiamo in questo modo di poter aggirare quella semplicità senza scelta, accostandoci alle cose   passando per la porta posteriore, oppure dall’alto, dalla soffitta. Sentiamo, in quel modo, di poter provare a noi stessi di essere estremamente intelligenti e pieni di risorse. Ci sentiamo astuti e ingegnosi. Ma, in qualche modo, ciò non funziona. Quando pensiamo che ci stiamo avvicinando a qualcosa dalla porta posteriore, non comprendiamo che quella è una illusione e che ci stiamo accostando a qualcos’altro. In quel momento esiste solo la realtà della porta posteriore. Questo “un-colpo-solo” della realtà della porta posteriore è la totalità di ciò che c’è. Noi siamo la porta posteriore. Se ci stiamo avvicinando dalla soffitta, voi, io, chiunque, tutti noi siamo lassù. L’intera storia  sta lassù, non c’è qualcos’altro che possiamo  far scendere, impossessarcene e controllare. Non vi è proprio niente altro. E’ una faccenda a un-colpo-solo. Questa realtà ad un-colpo-solo è tutto ciò che c’è. Ovviamente, possiamo crearci un’illusione. Possiamo immaginare che stiamo conquistando l’universo moltiplicandoci in centinaia di aspetti e personalità : il conquistatore ed il conquistato. Ma questo è come lo stato di sogno di qualcuno che sta veramente dormendo. Esiste soltanto un-colpo-solo ; le cose accadono soltanto una alla volta. C’è soltanto questo. Per questo possiamo   applicare la consapevolezza della mente.

Perciò la pratica della meditazione deve essere affrontata in un modo molto semplice e molto essenziale. Questo sembra essere il solo modo che si possa applicare alla nostra esperienza di ciò che realmente siamo. In questo modo, non cadremo nell’illusione di poter funzionare come cento persone alla volta. Quando perdiamo la semplicità, cominciamo a preoccuparci di noi stessi : “Mentre sto facendo questo, accade tale e tal’altra cosa. Che dovrei fare ?”. Pensare che sta accadendo qualcosa oltre a questo, ci   getta nella speranza e nella paura per tutte  le cose che non stanno realmente accadendo. Veramente non funziona così. Mentre stiamo facendo ciò, noi stiamo facendo ciò. Se succede qualcos’altro, allora stiamo facendo qualcos’altro. Ma non possono accadere due cose alla volta ; è impossibile. E’ facile immaginare che due cose stiano accadendo contemporaneamente, dato che il nostro andare su e giù tra le due cose può essere veramente veloce. Ma anche in questo caso stiamo facendo solo una cosa alla volta.

L’idea della consapevolezza mentale è di rallentare l’incostante volubilità del saltare avanti e indietro. Dobbiamo capire che non siamo straordinari acrobati mentali. Non siamo così ben addestrati. Ed anche una mente straordinariamente ben addestrata  non potrebbe maneggiare tante cose alla volta - nemmeno due. Ma poiché le cose sono assai semplici e dirette, possiamo concentrarvici, esserne attenti e consapevoli   , una cosa per volta, Questa univocità d’attenzione, questa nuda osservazione, sembra essere il punto fondamentale.

E’ necessario assumere fino in fondo questa logica e realizzare che anche applicare la nuda attenzione a ciò che stiamo facendo, è impossibile. Se cerchiamo di farlo, manifestiamo due personalità : una è la nuda attenzione ; e l’altra   è quella che sta facendo le cose. La vera nuda attenzione è trovarsi proprio lì . Noi non stiamo applicando la nuda attenzione a ciò che stiamo facendo : non siamo consapevoli di ciò che stiamo facendo. E’ impossibile. La consapevolezza è al tempo stesso atto e esperienza :avvengono nello stesso momento. Ovviamente, potremmo avere una attitudine dualistica all’inizio, prima di entrare nella reale consapevolezza, cioè cercare di essere consapevoli, cercare di abbandonarci, cercare di disciplinare noi stessi. Ma poi noi lo facciamo , la facciamo proprio. E’ come il famoso detto Zen “Quando mangio, mangio ; quando dormo, dormo”. Voi proprio lo fate,   senza nessun intervento su ciò che state facendo, nemmeno  della stessa consapevolezza.

Quando   cominciamo a sentire le implicazioni della presenza mentale, stiamo cominciando  a dividerci. Quindi ci troviamo di fronte alla nostra resistenza e apparentemente centinaia di altre cose sembra che comincino ad attaccarci, ad infastidirci. Cercare di essere consapevoli, osservando deliberatamente se stessi, implica  un eccesso di soggetto che osserva. E così finiamo col perdere la semplicità ‘un-solo-colpo-alla-volta’. Forse, potremmo avere una discussione

STUDENTE : Io non ho ben capito come lavora sem.

TRUNGPA  RINPOCHE : ‘Sem’ è la mente fondamentale. Invece di usare il termine mente come un sostantivo, potrebbe essere più utile pensare ad essa come ad un verbo, come nella frase ‘rammentare i propri affari’. ‘Sem’ è un processo attivo, poiché non si può avere una mente senza un oggetto mentale. La mente ed il suo oggetto sono un unico processo. La mente funziona solo in relazione ad un punto di riferimento. In altre parole, nel buio non si può vedere nulla. La funzione del vedere è di vedere qualcosa che non sia buio - vedere un oggetto, nella luce. Allo stesso modo, la funzione della mente è di avere un punto di riferimento, un punto di riferimento relativo che superi la mente, il processo mentale . Ciò accade proprio ora, realmente, dovunque.

STUDENTE. : Mi stavo chiedendo se potevi parlare ancora un po’ su come la mente o il processo mentale, crea il mondo. Stavi forse parlando della creazione, nel senso che se noi non fossimo consapevoli del mondo, il mondo non esisterebbe ? Mi pare che stavi dicendo qualcos’altro ancora.

TRUNGPA R. : Bè, la mente è   semplice percezione : può solo avere vita attraverso ‘l’altro’. Altrimenti si esaurisce e muore.

ST. : Vuoi dire che la mente può esistere soltanto per mezzo delle cose che stanno fuori di sé ?

TR. : E’ esatto. Ma vi è anche la possibilità che la mente possa andar troppo oltre in quella direzione. La mente non può esistere senza la proiezione di un punto di riferimento relativo; d’altra parte, la mente non può esistere se è troppo ingombra di proiezioni, Anche così essa perde il suo punto di riferimento. Perciò la mente deve mantenere un certo equilibrio. Tanto per cominciare, la mente cerca un modo di assicurarsi la sua sopravvivenza. Essa cerca un compagno, un amico ; crea il mondo. Ma quando comincia a diventare troppo affollato - troppi intrecci, troppo mondo -   rifiuta le sue proiezioni ;   si crea una piccola nicchia in qualche parte e lotta con le unghie e i denti,  per conservarsela allo scopo di sopravvivere. Talvolta la mente viene sconfitta dal suo stesso gioco. Diventa psicotica, completamente pazza. “Tu perdi la testa, come si usa dire : non   funzioni neanche ad un ordinario livello logico. Una simile psicosi deriva da entrambi gli estremi : o sei completamente sovrastato dalla totalità delle proiezione del mondo, oppure   sei totalmente privo di qualsiasi cosa su cui la mente possa lavorare. Così, la mente può esistere solo nella nevrosi del riferimento relativo, ma non nella psicosi. Quando essa raggiunge il livello psicotico, cessa di funzionare come mente. Essa diventa qualcosa d’altro, qualcosa di velenoso.

STUDENTE. : Secondo questo modello, in che modo la pratica di meditazione influisce sulla relazione tra la mente ed il mondo con cui essa si trova a lottare ?

TRUNGPA RINPOCHE :Lo scopo della pratica meditativa è di cercare di salvarci dalla psicosi.

ST. :Ma rimani ancora nel mondo ?Comunque rimani nello stato nevrotico ?

TR.R. : Non è nemmeno questo necessariamente. Vi è una mente alternativa che non ha bisogno del mondo nevrotico. E’ qui che sopraggiunge il concetto di illuminazione . La mente illuminata può espandersi sempre più  oltre, oltre le richieste del riferimento relativo. Essa non ha niente a che fare con questo mondo. Raggiunge un punto in cui non deve più mettere a fuoco questo mondo nevrotico. Vi è un altro livello di esperienza che ha ancora un punto di riferimento, ma è un punto di riferimento senza richieste, un punto di riferimento che non ha bisogno di ulteriori punti di riferimento. Questo è chiamato non dualità. Questo non significa dire che ti dissolvi nel mondo o che il mondo diventa te. Non è una questione di ‘unità’, quanto piuttosto una questione di ‘zerità’.

STUDENTE. : Rinpoche, in che modo il concetto di mente, di cui hai parlato, si collega al concetto  di ‘ego’ ed alle strategie per  mantenerlo ?

TRUNGPA. RINPOCHE. : La mente, quella di cui abbiamo parlato prima, è l’ego. L’ego può sopravvivere soltanto in relazione ad un punto di riferimento, non per se stesso. Però io sto cercando di rendere tutta la cosa abbastanza semplice  e di collegarla direttamente alla pratica di meditazione. Se pensiamo che praticare la meditazione riguardi il lavorare con l’ego, questo potrebbe suonare come un affare troppo grande. Mentre, se lavoriamo soltanto con la mente, questa è una cosa vera ed efficace per noi. Per svegliarvi al mattino, voi avete bisogno di sapere che è mattina, vi è la luce di fuori e vi ha svegliato. Queste semplici cose sono un perfetto esempio dell’ego fondamentale. L’ego sopravvive e prospera grazie al suo punto  di riferimento. Quindi, ‘sem’ è l’ego, si.

STUDENTE. : Hai parlato della mente che si collega solo alle cose esterne. Cosa pensi di quando la mente sta funzionando al livello di pura intellettività, creando i suoi propri oggetti, per così dire ?

TRUNGPA RINPOCHE. : Quelli sono oggetti esterni.

ST. : Però, fuori potrebbe non esservi niente, Potresti trovarti in una buia cella immaginando di star ascoltando una sinfonia, per esempio ; essa esiste solo nella tua mente.

TR.R. : Certo. Ciò è esterno. Questo sembra essere il punto. Forse tu ora non stai realmente parlando a me. Forse tu sei in una stanza buia e stai parlando alla tua versione di me. In qualche modo la situazione visiva fisica non è un fattore così importante. Ciascun oggetto mentale, contenuto mentale, è considerato come una  cosa  esterna.

STUDENTE. : Riguardo alla tecnica del respiro, vi è una qualche particolare ragione perché ci si debba identificare con l’espirazione, anziché con l’inspirazione ?

TRUNGPA RINPOCHE : E’ una questione di apertura. Dovete creare un qualche tipo di pausa, una certa zona in cui vi sia meno tensione. Una volta che voi espirate, sarete sicuri di inspirare ancora, perciò c’è spazio per un sollievo di un certo tipo. A   nulla serve  osservarlo.

Inoltre, l’espirazione è un’espressione di uscire fuori dal vostro sistema centralizzato. L’espirazione non ha niente a che fare con il mettere al centro il vostro corpo, che di  solito è tutto psicosomaticamente imbottigliato. Al contrario, identificandovi con l’espirazione, voi state partecipando, state portando fuori qualcosa .

STUDENTE : Quando parlavi di idee ‘dal-sedere-piatto’, hai detto che il sedere piatto è quello che crea un’apertura, uno spazio, opposto all’avere le ali sulla propria mente - pensieri volanti o quant’altro. Cos’è che fa sorgere il panico, come accadde alla praticante che tornò al suo libro, e che ci fa perdere   quel senso di fondatezza ?

TRUNGPA RINPOCHE. : Quando le cose sono troppo chiaramente definite, siamo colti da un bel po’ di paura. La situazione diventa tagliente, diretta e accurata in modo schiacciante, cosicché   vorreste   interpretarla e non semplicemente riconoscerla. E’ come quando state dicendo qualcosa di molto preciso e diretto a qualcuno e scoprite che lui vi RISPONDE : “In definitiva, stai solo dicendo blà, blà, blà, blà, blà”. Anziché collegarsi direttamente a ciò che è stato detto, costui   cerca di mantenere la sua contorsione mentale.   Sembra essere un problema di diffidenza, di essere timorosi della durezza della realtà, del “conformismo” che esiste nel nostro mondo e che nessuno vuole affrontare. Affrontare ciò è la più alta forma di sanità e visione illuminata. Questo sembra essere il punto principale di certe descrizioni del Libro Tibetano dei Morti, in cui si descrive una brillante luce che viene verso di te e da cui tu, timorosamente, ti allontani ;ne sei spaventato . Allora vi è una ovattata, seducente luce che arriva da uno dei sei reami di esistenza nevrotica, e tu invece ne sei attratto,  proprio da quella. Preferisci l’ombra alla realtà.  Questo è il tipo di problema che esiste. Spesso la realtà è così brusca e atroce e travolgente che sentire di affrontarla sarebbe come sedersi su una lama di rasoio.

STUDENTE. : Hai parlato di fare esperienza del corpo. Vi sono tante tecniche e pratiche per sentire il corpo, in cui focalizzi l’attenzione su una sensazione fisica, sulla tensione o qualsiasi cosa che senti quando provi a percepire il corpo fisico. Mi chiedo quale relazione queste pratiche abbiano con la pratica del respiro che hai descritto. Queste tecniche sono qualcosa di differente o rafforzano la pratico del respiro ?

TRUNGPA RINPOCHE :Il tuo respiro è il tuo corpo fisico, da questo punto di vista . Puoi sperimentare ogni tipo di sensazioni   insieme al respiro : dolori, mali, voglie, sentimenti piacevoli ecc. Sperimenti tutte queste cose insieme al respiro. Il respiro è l’argomento principale e le altre cose vi si accompagnano. L’idea nella tecnica del respiro è di essere semplicemente molto precisi su ciò che si sta sperimentando. Ti relazioni a quelle sensazioni non appena esse arrivano, insieme col tuo respiro, senza dover immaginare che stai sperimentando il tuo corpo. Queste esperienze non sono affatto esperienze del tuo corpo. Sarebbe impossibile. In realtà, non sei assolutamente nella posizione di poter sperimentare il tuo corpo. Queste esperienze sono soltanto pensieri : “Sto pensando di soffrire”. E’ il pensiero del dolore, il pensiero del prurito, e così via.

ST. : Dunque stai dicendo che la tecnica del respiro è, in un certo modo, una attitudine più salutare che non il credere, “Ora sentirò il mio corpo” e elaborarci su ?

TR.R. : La tecnica del respiro è letterale, diretta. Si affronta ciò che è realmente il fatto, piuttosto che cercare di dedurne qualche concetto.

STUDENTE. : Prima stavi dicendo che quando noi siamo seduti qui e prendiamo appunti, oppure ci concentriamo sull’oratore e ci rilassiamo, abbiamo una nozione psicosomatica del corpo. E psicosomatico, da come ho capito, è una sorta di cosa immaginaria, o qualcosa che ha a che fare con la propria mente, il modo in cui la mente sta influenzando il corpo come quando diciamo a qualcuno che ha una malattia psicosomatica, significa che la sua mente sta avendo un certo effetto sul suo corpo, Come si collega tutto questo col fatto che noi siamo seduti qui rilassandoci ed ascoltando l’oratore. Come può essere questo, una percezione psicosomatica del corpo ?

TRUNGPA RINPOCHE : Il punto è che qualsiasi cosa si faccia nella nostra vita, noi in realtà non la facciamo davvero : siamo influenzati dalla mente. Probabilmente il corpo, il corpo vero, è oppresso dalla velocità psicosomatica della mente. Si potrebbe dire che vi sia una possibilità che ora voi siate qui seduti in modo appropriato, in una maniera non psicosomatica. Ma si può dire anche, che l’intera situazione del sedere qui, il fatto di trovarci in questo posto,  è tenuta insieme da una trainante forza psicosomatica. Quindi, il vostro sedere qui è stato determinato fondamentalmente da un sistema psicosomatico. Se avete un qualche tipo di convulsione psicosomatica e vi succede di vomitare - voi vomitereste realmente sostanza, che non sarebbe sostanza psicosomatica, ma sostanza corporea - che tuttavia sarebbe manifestata in modo psicosomatico. Questo   vomito sarebbe mosso da un processo psicosomatico. Questo è il tipo di situazione in cui siamo. Essenzialmente, il nostro intero mondo, da questo punto di vista, è psicosomatico. L’intero processo del vivere è composto di problemi psicosomatici. Il desiderio di ascoltare gli insegnamenti incomincia con il prendere coscienza   dei propri problemi. Dato che abbiamo cominciato ad essere coscienti dei nostri problemi, ci piacerebbe creare questo ulteriore problema di risolvere i problemi esistenti.

ST. : Invece di metterci in contatto direttamente con essi ?

TR.R. : Bè, questo non lo si fa mai finché non si ha un certo tipo di intuizione di qualcosa, al livello dell’illuminazione. Fino a quel punto, tutto ciò che si fa è sempre un’allusione

ST. : Quindi ogni tipo di malattia o qualsiasi cosa che ti affligge è psicosomatico ?

TR.R. : Non è solo la malattia ad essere psicosomatica. Anche il processo di guarigione di fatto è psicosomatico . In realtà, la malattia è una sorta di cosa in più, come un fermento che cresce sulla superficie della schiena.

STUDENTE. : Rinpoche, a proposito del ‘toccare e lasciar andare’, se sorge una fantasia, fino a che punto devi permettere che la fantasia si sviluppi prima di abbandonarla ?

TR.R. : Una volta che è sorta, ciò è già ‘toccare’. Allora lasciala essere come è. Poi se ne va. Questo è il punto culminante. Prima vi è la creazione della fantasia ; quindi essa raggiunge la maturazione ; poi è oltre quel culmine ; e infine essa svanisce lentamente o tende a trasformarsi in qualcos’altro.

ST. :Talvolta la fantasia si trasforma in un complesso intreccio emotivo, che sembra diventare sempre più complesso.

TR.R. : Questo è come battere un cavallo morto. Lasciatela  arrivare, lasciatela esaurire il suo impeto o energia e poi lasciatela andare. Dovete assaggiarla, poi lasciarla andare. Avendola gustata, non è raccomandabile manipolarla ulteriormente.

ST. : Quando parli di ‘toccare e lasciar andare’, evidentemente riferito al meditare, la pratica seduta, è il ‘toccare’. Vuoi dire che vi sono anche volte in cui non è giusto essere consapevoli in questo modo ? Che  nella vita quotidiana dovremmo proprio lasciare che la consapevolezza se ne vada via ?

TR.R. : Credo che vi sia stata qualche incomprensione, qui. ‘Toccare’ e ‘andare’ vanno sempre insieme. E’ come il fatto che quando vi è l’uno, vi è lo zero. La serie dei numeri, partendo da uno, implica lo zero. I numeri non hanno senso se non vi fosse una certa  cosa come lo zero. ‘Toccare’ non ha significato senza ‘andare’. Essi sono contemporanei. Questa simultaneità è consapevolezza,   avviene sia durante la pratica formale seduta che nella esperienza post-meditativa della vita quotidiana.

STUDENTE. : Precedentemente, hai ricordato il caso di quel praticante che ebbe la sensazione di sedere sulla lama di un rasoio allorché le cose erano divenute molto chiare e distinte. Potresti collegare questa esperienza al senso di gioia nella consapevolezza della vita ?

TRUNGPA RINPOCHE. : E’ una esperienza  identica, in realtà. Allorquando c’è una minaccia di  morte, questo porta un senso di vitalità. E’ come quando prendete una pillola perché avete paura che altrimenti   morireste. La pillola è associata alla minaccia di morte, però voi la prendete pensando che vi aiuterà a vivere. Affrontare in modo chiaro l’attimo presente è come prendere quella pillola : vi è il timore della morte e l’amore per la vita simultaneamente.

STUDENTE. : In che modo la consapevolezza della vita ispira il comportamento etico, l’azione morale ?

TRUNGPA RINPOCHE. :Nel mondo samsarico, facciamo le cose   senza presenza mentale ; ci culliamo in questo. Di conseguenza, quasi ogni cosa che facciamo è piuttosto scollegata : in qualche modo le cose non si accordano, non coincidono ; vi è qualcosa di illogico in tutto il nostro modo di fare. Dovremmo essere brave persone, molto ragionevoli ; invece, dietro la facciata siamo alquanto negativi. Vi è una nevrosi fondamentale  che aleggia su di noi   costantemente, che crea alternativamente sofferenza agli altri come pure a noi stessi. La gente con ciò si danneggia e le loro reazioni creano ancora più danni. Questo è ciò che chiamiamo il mondo nevrotico, o samsara. Nessuno in realtà vi si trova bene. Anche condizioni apparentemente positive sono alquanto forzate. E il senso  di frustrazione sommersa che proviamo , crea ulteriore condiscendenza.

La consapevolezza della vita è un approccio totalmente differente, in cui la vita è considerata   preziosa, è trattata cioè  con cura. Le cose  vengono viste nel loro giusto modo anziché come aspetti di un nevrotico circolo vizioso. Ogni cosa è congiunta e non divisa. Il proprio stato mentale diventa coerente, quindi vi è una operatività di base che insegna come condurre la propria vita, in un senso generale. Cominciamo a diventare dei letterati capaci di leggere lo stile del mondo, la strutturazione del mondo. Questo è appena il punto di partenza ; Non è affatto lo stadio finale. E’ solo l’inizio del modo di leggere il mondo.

STUDENTE. : In realtà, io non riesco ad immaginare quale esperienza potrei avere senza le varie fantasie   e proiezioni. Non afferro il senso di ciò che dovrebbe essere la partecipazione al mondo proprio così com’è, cioè proprio nel modo in cui le cose accadono e appaiono

TRUNGPA RINPOCHE : Sei veramente interessato a scoprirlo ?

ST. : Credo di sì.

TR.R. : Bene, è assai difficile farlo. La ragione per cui è arduo è che tu lo stai già facendo. E’ come cercare un cavallo smarrito. Per cercarlo, hai bisogno di cavalcare il tuo cavallo smarrito. D’altra parte, può darsi che tu stia cavalcando già il tuo cavallo smarrito, e tuttavia tu lo stai cercando. E’ un qualcosa di questo tipo. E’ una cosa così.

Vedi, non c’è un qualcosa come la realtà ultima. Se vi fosse una simile cosa, per quella sola ragione non potrebbe essere quella. Questo è il problema. Perciò sei di nuovo al punto di partenza. E la sola cosa, pare, che tu possa fare è di praticare. Questo è abbastanza.

STUDENTE : Riguardo al lampo    di risveglio, nella consapevolezza dello sforzo, ancora non ho chiaramente capito da dove e a cosa ritieni che si debba ritornare.

 TRUNGPA RINPOCHE : Una volta che questo lampo ha luogo, non devi né trovare né valutare da dove viene. Questo è ciò che intendo per “Non intrattenere il messaggero”. Non hai bisogno di avere un’idea di dove stai andando. Dopo il lampo, la tua consapevolezza è come un fiocco di neve rilasciato dalle nuvole. In ogni caso finirà per cadere e depositarsi sul terreno. Non hai scelta.

STUDENTE : Talvolta essere consapevoli dell’espirazione sembra essere troppo intenzionale. Sembra   che l’osservatore lo stia facendo dall’alto e non che il respiro e la consapevolezza siano simultanei.

TRUNGPA RINPOCHE: L’approccio ‘toccare e lasciare andare’ è proprio applicabile qui. Tocchi l’espirazione e poi disconosci anche la consapevolezza di ciò. Se tu stai cercando di avere costantemente una nuda attenzione, allora avrai il problema di essere troppo rigido e di restarne legato. Perciò, tocca il respiro e vai con il respiro. In questo modo vi sarà un senso di freschezza, di cambiamento d’aria. E’ come una pulsazione, o come ascoltare un ritmo musicale. Se cerchi di trattenere un battito, ti perdi il successivo. Ma se tu tocchi e vai avanti, comincerai ad udire il ritmo ; e così ascolterai l’intera   musica. Un altro esempio è il mangiare il cibo : quando mangi il tuo cibo, non è che lo assaggi di continuo, solo ogni tanto. E’ la stessa cosa con qualsiasi esperienza. Noi giriamo intorno ai nostri interessi. Tocchiamo sempre solo le parti vive dei nostri interessi. Il ‘toccare e lasciare andare’ della pratica di consapevolezza  prende spunto dal modo di  manifestarsi fondamentale della mente. Se vai avanti così, allora non ci saranno affatto problemi.

STUDENTE. : Ho un po’ capito in che modo la consapevolezza della mente sia un movimento da un colpo solo. Ma, se poi subentra lo sforzo,   non sembra più tanto simultaneo o spontaneo.

TRUNGPA RINPOCHE : Lo sforzo subentra di tanto in tanto - all’inizio, durante e alla fine. Per esempio, tu stai tenendo quel microfono perché hai un interesse a fare una domanda. Ora, mentre stai  ascoltando la risposta, hai dimenticato di avere in mano quel microfono, ma quello sforzo di prima sta ancora lì. Tu stai ancora tenendolo, senza lasciarlo cadere. Così, avvengono molti viaggi avanti e indietro   insieme al nostro sforzo, senza che esso sia mantenuto continuativamente. Non devi sforzarti e spingere di continuo. Se lo fai, non c’è pratica, non c’è meditazione ; l’intera cosa diventa solo un grande affare di sforzo.. Il cambiare, alternando costantemente, crea lo spazio della meditazione. Se ti sforzi al cento per cento , fai scoppiare tutta quanto. In definitiva,. non c’è nient’altro che una massa di muscoli tesi seduta nel mezzo di uno spazio. Questo accade continuamente nelle situazioni della vita. E’ come cercare di lavorare la pasta. Se la impasti troppo , non te ne resterà in mano neanche un po’ : starai solo spingendo le tue mani contro la tavola. Però se senti che il motivo di impastarla   è di lavorare meglio   la pasta, allora vedrai che si presenteranno una certa quantità di compromessi, entrerà in gioco un certo tipo di intelligenza. Senza di questa, lo sforzo da solo uccide.

STUDENTE. : Senza esercitare un estrema intenzionalità, tutta la mia pratica di meditazione sembra essere fantasia. Sembra essere molto faticoso ogni volta collegarmi al respiro. Di fatto, sto solamente sedendo lì, facendo sogni ad occhi aperti o altre cose del tutto intenzionalmente, cercando goffamente di relazionarmi col respiro.

TRUNGPA RINPOCHE : Bene, allora vai e siedi.

ST. : Cosa dovrei fare quando siedo ?

TR.R. : Siedi !

ST. : Questo è tutto ? E come devo comportarmi col respiro ?

TR.R. : Siedi. Vai avanti e siedi. Solamente vai avanti e fallo.

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                                                                       4)  DEVOZIONE

Basato su “Il Vero Significato della Devozione”, Barnet, Vermont, 1973.

“La relazione devozionale tra studente e maestro diventa una analogia vivente per la relazione dello studente con la vita in generale. Dopo un certo periodo di tempo, questa relazione supera diversi strati di falsa comunicazione, che si fonda su un ancor più sottile inganno dell’ego. Per lo studente, il risultato può essere una relazione con il proprio mondo totalmente chiara e sgombra  ”.

La devozione, in senso convenzionale, è un atto di fiducia. L’oggetto di devozione, sia esso una persona o un’idea, è avvertito come affidabile e definito, ben più solido e reale di se stessi. In questo confronto il devoto si sente incerto, non abbastanza solido e pieno. Sente che gli manca qualcosa, e questa è la ragione della sua devozione verso qualcuno o qualcosa di diverso da se. Si sente incapace di stare sui suoi due piedi, così   va in giro da qualche parte a cercare consigli, sicurezza e calore, Questo tipo di devozione può essere diretta verso le idee,  verso i propri genitori, gli insegnanti di scuola, il maestro spirituale, il direttore di banca, nostra moglie o nostro marito, verso chiunque dia l’impressione di aver raggiunto lo scopo della vita nel senso convenzionale,   qualcuno che ha accumulato grande esperienza o sa molte cose.

In generale, il tipo di devozione sembra dipendere dalla relazione che instauriamo nel mettere in rapporto il senso di fiducia e la sanità mentale che è dentro di noi con qualcosa che è fuori di noi. Nella tradizione buddhista, la devozione verso un insegnante o un maestro gioca un ruolo estremamente importante.  Come la devozione convenzionale, all’inizio può essere basata su un senso di inadeguatezza, un desiderio di sfuggire a questa inadeguatezza anziché affrontarla e lavorarci su , ma essa va ben oltre questo punto. La relazione devozionale tra studente e maestro diventa una analogia vivente per la relazione dello studente con la vita in generale. Dopo un certo periodo di tempo, questa relazione supera diversi strati di falsa comunicazione, che si fonda su un ancor più sottile inganno dell’ego. Per lo studente, il risultato può essere una relazione con il proprio mondo totalmente chiara e sgombra

  Ciò che permette al discepolo di non desistere in questo lungo, difficile, e spesso estremamente doloroso viaggio di scoperta, è la sua devozione all’insegnante :il convincimento che l’insegnante incarna effettivamente la verità del suo insegnamento. In tutti i suoi livelli, la devozione sembra  avere due aspetti fondamentali : ammirazione e assenza di arroganza.

L’ammirazione può essere interpretata come venerazione dell’eroe. Noi ammiriamo le persone che hanno   grande   talento e dignità.  Idolatriamo tali persone, con la speranza di renderli parte di noi, di incorporarli nel nostro territorio. Speriamo, in questo modo, di partecipare della loro grandezza.

Vedere queste persone di talento e le loro abili creazioni può però renderci gelosi e depressi. Possiamo avere la sensazione   di essere troppo stupidi e incompetenti per competere con tale enorme capacità e talento. Potremmo scoprirci pieni di   risentimento verso qualcuno così bello e luminoso. Potremmo addirittura sentire la sua  esistenza e le sue realizzazioni come una ferita. Le eccellenti realizzazioni o le azioni compiute   potrebbero essere una tale minaccia che quasi vorremmo distruggerle, bruciarle completamente tutti i capolavori. Come minimo vorremmo insultare quelle persone che hanno   più talento di noi. Questa avversione per l’eroe è un’altro aspetto della venerazione dell’eroe.

Una terza possibilità è di sentire una vera grande distanza tra la persona  dotata di talento e noi stessi. Possiamo sentire che le sue realizzazioni sono splendide, ma che non hanno nulla a che fare con  noi, dato che sono così   al di sopra di noi. Questo atteggiamento   ci   evita di essere depressi dal paragone con tali persone realizzate. Con questa atteggiamento, però, ci isoliamo completamente.

Il   presupposto sottinteso a   questo approccio sotto  forma di venerazione, avversione o indifferenza, è che vi siano  gli eroi e vi siano gli incompetenti ; e che noi siamo tra gli incompetenti. Viene mantenuta una separazione.

Nella relazione con l’insegnante spirituale, di solito l’ammirazione è   espressa in uno di questi tre stili nevrotici. Nel caso della ammirazione seduttiva, vogliamo consumare l’insegnante completamente, cosicché egli, o essa, diventi parte di noi ; in questo caso, copriamo i reali rapporti della relazione con un denso strato di miele. Nell’ammirazione di tipo  repulsivo, siamo tanto sopraffatti da soggezione e paura che, seppure il coinvolgimento con l’insegnante non possa ancora aiutarci, manteniamo l’insegnante stesso su una tale elevata nicchia da la precludere completamente la possibilità di un diretto apprezzamento. Non importa quale sia il nostro stile. E’ nostra abitudine organizzare   una strategia per la nostra devozione, di modo che il guru non costituisca una minaccia.

Una combinazione di questi stili era osservabile nella moda in voga nei primi anni  70, quando molti guru furono considerati come idoli popolari o talismani portafortuna. I giovani coprirono   i muri con disegni di superstar spirituali : guru provenienti dall’India o dal Giappone, Indiani d’America, Eskimesi, Tibetani manifesti di tutti i tipi. Così   potevano considerarsi dalla parte giusta accanto a tanti grandi esseri o   grandi concetti. Considerando i maestri come icone,   potevano esprimere la loro ammirazione in modo sicuro, senza nessun pericolo di reazioni spiacevoli. La reale ammirazione è molto più diretta di queste artificiose tendenze ; è quindi   più rischiosa. La reale ammirazione è basata su un senso di coraggio e di grande dignità. Quando ammiriamo qualcuno in un modo onesto, non ci mettiamo a competere o a cercare di vincere con quella persona, ma   partecipiamo della sua profonda visione. La relazione può essere una grande celebrazione dato che non stiamo avvicinandoci ad essa come fosse una personale investitura per qualche strategia o causa. In tale ammirazione, il nostro ruolo è semplicemente quello di dedicarci devotamente e completamente, con il solo scopo di continuare il cammino   senza aspettarci nulla in cambio per la nostra ammirazione.

La vera ammirazione è chiara e stimolante. E’ come respirare l’aria montana in inverno, quando è così fresca e chiara che abbiamo paura possa gelarci i polmoni. Pur respirandola, ci viene voglia di correre nella capanna e gettarci una coperta sulla testa per paura di un raffreddore ; però, nella vera ammirazione, non facciamo così. Benché l’aria montana possa essere minacciosamente fresca, anche se fantasticamente rinvigorente, noi la respiriamo senza cercare né di proteggerci né di trattenerla troppo e portarcela via. Come le stesse montagne,   siamo semplicemente una parte di questo elemento frizzante : questa è ammirazione appropriata o condivisione.

La seconda qualità della devozione è l’assenza di arroganza. L’approccio arrogante è quello di essere   così appassionatamente coinvolti col nostro insegnate da farci diventare dei fanatici spirituali   impedendoci di vedere in modo adeguato il resto del mondo. Di fatto, siamo catturati con forza dalla nostra stessa arroganza, tanto da assecondare la nostra ‘devozione’ raccogliendo informazioni, tecniche, storielle e paroline di saggezza, il tutto per confermare la nostra fanatica visione. In realtà, essa raggiunge un punto tale che perfino l’insegnante, su cui si basava la nostra arroganza , diventa una minaccia. L’assurdo è che alla fine quando la nostra devozione prende una brutta piega, arriviamo a voler usare tutta la nostra collezione di munizioni contro il nostro insegnante.

Se, invece, la nostra devozione è priva di arroganza, allora non vi sarà questo risentimento verso il mondo o il guru. L’assenza di una tale arroganza è assolutamente necessaria. Quando corteggiano un maestro, spesso gli studenti fanno una sorta di dettagliata descrizione, elencando tutte le loro intuizioni e credenziali spirituali. Questo è un comportamento troppo arrogante, è falso e anche fuori luogo. E’ buona cosa offrire al guru le nostre abilità o le nevrosi, come un dono,  un gesto di apertura. Ma se cominciamo a camuffare le nostre nevrosi come virtù, come una persona che scrive un sommario, ciò è inaccettabile. La devozione senza arroganza richiede che si smetta di aggrapparci alla nostra storia o caso particolare, che ci si confronti con l’insegnante e con il mondo in un modo nudo e diretto, senza portarci dietro credenziali.

Il buddhismo ha tre livelli di sviluppo ; hinayana ; mahayana e vajrayana o tantra. Inizialmente, al livello di hinayana, la devozione è molto precisa e molto diretta. La formula di devozione è conosciuta come prendere rifugio. Si prende rifugio nel Buddha, come un esempio ; nel dharma, gli insegnamenti, come modo di vita ; e nel sangha, o comunità dei praticanti, come compagnia.

A questo livello, la spinta per la devozione nasce da un senso di essere presi in trappola dal vortice del samsara, di essere colmi di dolore, insoddisfazione e nevrosi. Non solo   siamo in questo stato ma vi è l’ulteriore frustrazione che quanto più si cerca di uscire da questo stato, i nostri sforzi   affrettati e disperati rendono la nostra situazione ancor più senza speranza. Una tradizionale analogia per questo fatto è quella di un elefante che, nel sole tropicale, sente troppo caldo e, volendosi bagnare in un po’ d’acqua fresca, salta dentro una buca fangosa. Più ci si muove   e più affonda. All’inizio poteva sembrava assai piacevole, ma quando due terzi del suo corpo sono sprofondati nel fango, comincia ad avere il panico. Si sforza ancora di più per uscire , ma è troppo tardi.

Come l’elefante, noi cerchiamo di salvarci dalla nostra frustrazione, ma più cerchiamo di tirarci fuori e più ci sprofondiamo dentro. Siamo completamente inermi. Talvolta tocchiamo il punto in cui sentiamo di aver  creato una totale confusione della nostra vita. Cosa dobbiamo fare se non possiamo ottenere ciò che vogliamo ? Cosa dovremmo fare se abbiamo già ottenuto ciò che volevamo ? Anche se abbiamo avuto un certo successo, che dobbiamo fare dopo se le cose cambiano ancora? Siano sempre al punto di partenza. I nostri progetti ci   hanno ingannati. Sembra non esservi alternativa alla frustrazione ed alla confusione. Questa è una situazione che produce l’ispirazione per prendere rifugio. Ad un certo punto, anziché cercare di combattere dentro noi stessi, sentiamo che forse dovremmo guardarci intorno e cercare di trovare qualcuno che ci salvi. Prendere rifugio nel Buddha come un esempio significa identificarsi con una persona che fu capace di ottenere l’illuminazione in una sola vita e salvarsi.  Dato che qualcuno lo ha già fatto, forse potremmo fare la stessa cosa.

Dato che siamo in una situazione d’emergenza, la prima cosa che impariamo è che la nostra lotta per tirarci fuori dal samsara deve cessare. Essere impegnati in una lotta può darci un certo senso di sicurezza,   perché almeno sentiamo di fare qualcosa. Ma questa lotta è diventata inutile e irrilevante : produce solo cose peggiori. Tuttavia, il dolore che abbiamo sperimentato nella nostra lotta non può essere dimenticato. Dobbiamo lavorare con esso. Anziché lottare per sfuggire il dolore, dobbiamo renderlo il nostro sentiero. Così esso diventerà una ricca risorsa di insegnamento. Legandoci al   nostro dolore in questo modo, è prendere rifugio nel dharma.

Il sangha è composto dalle persone che seguono questo sentiero. Noi rispettiamo coloro che seguono il cammino - coloro che sono stati capaci di fuoriuscire dal fango - come pure i nostri compagni, che stanno lavorando come noi. Non è un   appoggiarsi agli altri per evitare di affrontare la propria solitudine. Anzi, prendendo rifugio nel Sangha, noi riconosciamo la nostra solitudine, che a sua volta diventa un motivo di ispirazione per gli altri.

L’approccio hinayana alla devozione, non mira a ottenere un senso di sicurezza emozionale. E’ solo una risposta ad una emergenza. Se ci siamo feriti in un incidente automobilistico, abbiamo bisogno di una ambulanza che ci porti all’ospedale. Quando si arriva ad un tale situazione di emergenza, gli ipotetici conforti di un bel viaggio sono assai remoti. La sola cosa di cui abbiamo bisogno, in quel momento, è che l’ambulanza arrivi presto e ci porti via. E’ tutto molto allarmante ; siamo completamente nei guai. Per questo la devozione, nell’hinayana, è basata sul desiderio di essere salvati dalla disperazione e dalla caotica situazione in cui sembra di trovarsi continuamente.

A questo punto, dovrebbe essere chiaro che coloro che sono interessati all’insegnamento partendo da queste motivazioni sono assai diversi dai compratori spirituali che si concedono il lusso di passare da un interesse all’altro. Quelli  che sono realmente impegnati nel lavoro su se stessi, non hanno  tempo per andar a fare spese in giro. Si preoccupano semplicemente di ricevere una qualche cura di base Non hanno tempo né voglia di filosofeggiare o di analizzare : sono nei guai. Hanno assolutamente necessità di aiuto poiché il dolore è troppo intenso.

Da un punto di vista psicologico, sembra ci sia una differenza essenziale di sincerità tra i praticanti hinayana, che riconoscono l’urgente necessità di una salvezza, e gli acquirenti spirituali dilettanti. Questi ultimi  si rendono conto che c’è un problema, ma sentono che il problema può essere risolto quando riceveranno aiuto da ciò che loro prediligono. La spesa spirituale è una ingenua e semplicistica versione della fantasiosa proiezione del materialismo spirituale - una proiezione che semplicemente crea e perpetua la sofferenza nei suoi tentativi di arrivare all’ego. I compratori spirituali cercano un passatempo dagli insegnamenti spirituali. Con un tale approccio, la devozione è proprio inesistente. Naturalmente, se tali acquirenti o mercanti visitassero un magazzino in cui il venditore ha una grande personalità e la sua mercanzia fosse   fantasticamente attraente, essi potrebbero momentaneamente sentire una intensa fiducia di qualche sorta. Ma il loro atteggiamento di fondo non è sufficientemente disperato. La loro disperazione è stata nascosta o rattoppata, così essi non fanno nascere un reale legame   con l’insegnamento. In ogni caso, il loro rattoppo è destinato a cadere a pezzi, e nel mezzo di un simile caos, essi non avranno scampo dal dover scendere a patti con la loro disperazione. E quello sarà il momento di emergenza da cui sorgeranno i rudimenti della genuina devozione. La disperazione diventerà molto evidente.

Ma cosa accade dopo che   siamo già stati curati per il nostro dolore - quando ci siamo occupati dei nostri problemi di base e possiamo permetterci di rilassarci un po’ ? Sebbene i nostri sintomi iniziali siano stati curati, il nostro particolare servizio medico ora potrebbe   non essere l’ideale e   potremmo cominciare a cercarne uno migliore. Ancora una volta possiamo permetterci il lusso di andare a far spese all’ultimo grido in fatto di spiritualità e la devozione può essere dimenticata. Possiamo anche cominciare a sviluppare un senso di risentimento nei confronti del nostro insegnante, pensando che egli abbia interferito nelle nostre faccende e insidiato la nostra dignità. Una volta che ci siamo reimpossessati della nostra forza - o ipocrisia - siamo portati a dimenticare la gentilezza e la generosità del nostro soccorritore e le sue azioni compassionevoli. Ora che non siamo più stupidi, persone indegne che cercavano un salvatore, possiamo sentirci offesi di essere stati visti in quella miserevole condizione. A questo punto c’è bisogno di una comunicazione faccia-a-faccia, di un amico piuttosto che di un maestro. Ma come colmare il divario tra la nozione di un salvatore e quella di un amico spirituale ?

Al livello hinayana, la nostra condizione era simile a quella di un paziente in un pronto soccorso. Non c’era quindi tempo per essere visitati personalmente dal dottore o  per cercare di essere gentili. Tuttavia, quando ci siamo ripresi dopo la nostra operazione vi è la possibilità che la persona che ci aveva operati abbia ancora   interesse nei nostri riguardi, poiché lui ha imparato molte cose su di noi nel corso della cura . Può accadere  che noi gli siamo piaciuti assai. Ma c’è la difficoltà che, essendo malati, si possa essere infastiditi per il suo interesse. Non vogliamo essere bloccati nel sentirci ricordare la storia del nostro caso.

In questa fase è molto difficile creare una connessione, però è assolutamente necessario. Non è come in un ordinario servizio medico in cui il dottore può passare il nostro caso a qualcun altro. Colui che siamo corsi a cercare al pronto soccorso deve preoccuparsi di noi fino a che non si sia prodotta una guarigione concreta, fondamentale, basilare.

Adesso il concetto di resa è molto importante. Il più gran regalo che ci possiamo fare è di aprirci e renderci disponibili. Dobbiamo mostrare al nostro dottore i nostri disturbi più segreti. Nondimeno, il dottore si manterrà calmo e quieto e continuerà ad avere simpatia per noi, per quanto repellenti possano essere i nostri disturbi segreti. Così la nostra relazione col medico continua.

Quindi, al livello del mahayana, il secondo stadio della devozione nasce dal vedere il nostro maestro come un amico spirituale, in sanscrito kalyanamitra. Il guru diventa un amico con cui possiamo comunicare completamente, nel senso di una comunicazione tra   persone di pari dignità. Ma, al tempo stesso, questo amico particolare è piuttosto indiscreto : egli si interessa dei nostri affari.

Al livello mahayana, la devozione è basata sulla sensazione   che noi siamo, fino a un certo punto, degne persone, capaci di ricevere gli insegnamenti. La nostra ispirazione, le intuizioni, la sofferenza e la nevrosi, costituiscono tutte come degli ottimi recipienti. La nostra nevrosi e la sofferenza non sono viste come un qualcosa di cattivo e, neppure, le nostre virtù vengono viste come buone, Entrambe le cose sono soltanto la sostanza del recipiente. C’è un generale senso di fiducia - un senso di calore e compassione verso noi stessi in quanto tutti i nostri aspetti possono essere inclusi nella relazione con l’amico spirituale. E la devozione verso l’amico spirituale è complementare allo sviluppo della fiducia in noi stessi : a quel punto la devozione non è più diretta soltanto verso un oggetto esterno. Questa attitudine di non-aggressività verso se stessi e gli altri è il punto centrale del sentiero del bodhisattva, che è il cuore del buddhismo mahayana.

L’aggressività si manifesta verso gli altri come orgoglio e verso se stessi come depressione. Se fissiamo   in entrambi questi estremi, saremo recipienti inadatti per gli insegnamenti. Lo studente arrogante è come un contenitore capovolto ; egli è totalmente non-ricettivo verso qualunque cosa arrivi dall’esterno. Lo studente depresso è come un contenitore con dei buchi ; dato che sente che nulla potrà aiutarlo, non dà importanza a niente. Non è che prima di produrre una relazione con l’amico spirituale dovremmo essere recipienti ideali. Questo sarebbe impossibile. Ma se abbiamo un accenno di tale attitudine di non-aggressività - una attitudine positiva verso noi stessi, senza arroganza od orgoglio - allora ciò crea la possibilità che il nostro amico spirituale possa comunicare direttamente con noi.

Il primo ostacolo alla devozione, a questo punto, è la negatività verso noi stessi :ci giudichiamo troppo severamente. La classica risposta alla depressione, al sentirsi indegni degli insegnamenti, è di cercare di cambiare completamente, attuando un miglioramento del cento per cento. Instauriamo un   regime dittatoriale per trasformarci in individui perfetti senza alcunché di sbagliato. Ogniqualvolta che, guardando di sottecchi, ci capiti di accorgerci dei nostri difetti,, la nostra reazione automatica è di sentire che il nostro tragitto sta subendo un ritardo e la nostra perfezione messa in discussione. Così cerchiamo di sfrondare i nostri difetti. Siamo disposti ad imporci ogni sorta di disciplina, castigando il nostro corpo e la nostra mente. Ci infliggiamo penitenze attraverso rigide regole di ogni tipo. Potremmo andare tanto lontano da cercare qualche cura magica per le nostre carenze, dato che nei momenti di chiarezza comprendiamo che non ce la facciamo ad avere a che fare con    noi stessi. Questo approccio totalitario di cercare di rendere se stessi perfetti, sembra far cadere ancora di più nella trappola del materialismo spirituale.

Il secondo ostacolo alla devozione è costituito da un altra forma di arroganza. Lo studente può aver ottenuto un  qualche barlume sugli insegnamenti ; e una certa preliminare sanità può già essersi sviluppata in lui, ma egli inizia a prendersi delle libertà. Egli ha troppa fiducia nella sua pozione fatta-in-casa, troppa fiducia nei suoi progetti fai-da-te : “Io mi sono sviluppato a questo livello e ho raggiunto molte cose che volevo raggiungere. Sono certo che non dovrò più guardare qualcuno con l’imbarazzo che sia il mio amico spirituale. Posso studiare i libri appropriati ed imparare a farmi le medicine da solo”.

E’ vero che, in un certo senso, il buddhismo può essere descritto come un processo fai-da-te. Il Buddha stesso disse : “Lavora con diligenza alla tua propria salvezza”. Sembra quindi chiaro che, fino ad un certo punto, la salvezza è compito nostro e non possiamo realmente ottenere aiuto dall’esterno. Non esiste un magico stratagemma che potrà risolvere senza dolore i nostri problemi. Ma, mentre è vero che non c’è la possibilità che tali poteri esterni magici o divini possano salvarci, è nondimeno necessario un amico spirituale. Un tale amico potrebbe anche dirci che farlo da soli è l’unico modo, ma dobbiamo avere qualcuno che ci incoraggi a farlo e che ci mostri che può essere fatto. Il nostro amico lo ha già fatto da sé e i suoi predecessori spirituali del lignaggio lo hanno fatto anch’essi. Dobbiamo avere questa dimostrazione che il sentiero spirituale non sia un gigantesco imbroglio ma una cosa reale e che vi sia qualcuno che possa trasmetterci il messaggio, la comprensione, le tecniche. Ed è necessario che questo amico sia un essere umano, non una figura astratta che può essere manipolata dal nostro pensiero avido; qualcuno che condivide con noi la condizione umana e che lavora con noi a quel livello. Deve avere una comprensione diretta e molto concreta di noi, personale, in modo tale che vi sia una connessione appropriata. Senza di ciò, saremo incapaci di ricevere qualsiasi insegnamento reale e qualsiasi reale beneficio.

Quando comunichiamo con l’amico spirituale, nello stesso momento in cui ci affidiamo e ci consideriamo degni contenitori, ci deve anche essere un certo senso di perdita di speranza. A questo punto, la perdita di speranza non significa disperazione, ma semplicemente una perdita di interesse nel produrre ulteriori aspettative, Generalmente, noi viviamo in un mondo fatto di aspettative, che ci ornano continuamente. Essere senza speranza significa essere disponibili a vivere semplicemente nel momento, senza il punto di riferimento delle nostre aspettative. Aspettarci una buona sorte o una cattiva sorte è come credere nella fortuna già confezionata : è solo intrattenerci con le aspettative. Potrebbe sorgerne del caos oppure potrebbero sorgere sviluppo e creatività - entrambe le situazioni sono possibili - però, nella comunicazione con un amico spirituale noi non stiamo guardando in avanti, siamo coinvolti e interessati nel momento stesso. L’amico spirituale non esiste come un sogno nel futuro, non è un matrimonio di comodo da dover essere consumato. L’amico spirituale è proprio lì di fronte a noi - mezzo metro davanti. Egli è proprio lì. Qualsiasi immagine presentiamo ad un simile amico, viene immediatamente rimandata di riflesso a noi. Ecco perché l’amico spirituale è sentito come indiscreto : egli si interessa delle nostre cose. Egli non ha vergogna o diffidenza né per se stesso né per noi. Con il solo fatto di essere proprio lì, disponibile, egli si preoccupa delle nostre cose in modo totale.

Non possiamo percorrere il sentiero del mahayana senza un amico spirituale, assolutamente no : dobbiamo ricevere la buona notizia del vasto e aperto sentiero del bodhisattva. L’amico spirituale è ed insieme convoglia questa buona novella. Egli rende possibile   conoscere gli insegnamenti e la pratica come una cosa reale, anziché come un mito da accettare sulla base di una fede cieca.  Abbiamo la tendenza a cercare miracoli e magie come soluzioni dei nostri problemi. Una ragione di ciò è che non crediamo a quello che ci è stato detto sulla dura realtà della spiritualità e consideriamo  l’intera cosa come una favola. Siamo così seccati di vivere su questa terra che ci piacerebbe andare sulla Luna o su Marte o esplorare altri sistemi solari. Non vogliamo credere che occuparci della nostra situazione avvenga proprio qui ; questo luogo sembra essere troppo piccolo, troppo banale, troppo profano e contaminato. Ma l’amico spirituale non ci offre nessuna soluzione magica, nessuna fuga dalla nostra noia. Egli ci contatta ad un livello davvero mondano, proprio qui sulla terra.  Egli non esegue miracoli o magie, vediamo che fa parte di un lignaggio di generazioni e generazioni di insegnanti che hanno raggiunto la piena apertura. Egli è la prova vivente degli insegnamenti, funzionando come un esempio.

In questo senso, l’amico spirituale è come un buon fornaio in un lignaggio di fornai. I precedenti fornai gli trasmisero i segreti per fare un buon pane, di generazione in generazione. L’attuale fornaio sforna anch’egli del buon pane e con esso ci nutre. La pagnotta che ci da a modello non è stata preservata attraverso le generazioni come un oggetto d’antiquariato ; non è un pezzo da museo. Questa pagnotta è stata sfornata di fresco ed è, proprio ora, calda, sana e nutriente. E’ un esempio di cosa sia la freschezza. La conoscenza che è stata   tramandata attraverso il lignaggio spirituale ha le stesse qualità. Possiamo fare un collegamento immediato con l’amico spirituale e comprendere che, le passate generazioni di insegnanti e studenti hanno sperimentato anch’essi una tale relazione fresca e diretta.

L’amico spirituale è latore di insegnamenti viventi, reali e noi possiamo collegarci con lui totalmente e completamente. Se siamo diretti e semplici con lui, senza condannarci   né sopravalutarci, allora cominceremo a sviluppare reale devozione anziché una fede cieca. Ci convinceremo che sta avvenendo qualcosa - qualcosa che potrebbe rendere la vita completamente gestibile - ma, al tempo stesso, non staremo ad aspettarci alcunché di straordinario. Così, la relazione con l’amico spirituale è davvero ordinaria ; è comunicazione al livello della nostra situazione esistenziale giorno per giorno.

La nostra relazione con un amico spirituale tende a richiedere ed a consumare sempre più energia mentre ci inoltriamo nel sentiero. Dal punto di vista della devozione fondamentale, il senso di amicizia è semplice e stimolante, ma il vero significato della  devozione si manifesta soltanto a livello del vajrayana.

Al livello di hinayana la nostra devozione era condizionata dal nostro senso di disperazione e al livello mahayana era mossa dal nostro senso di solitudine. Solo al livello vajrayana vi è una devozione incondizionata. A questo livello, la relazione tra studente ed insegnante è davvero rischiosa, ma anche estremamente potente. A questo livello in definitiva può essere descritta come una relazione magica.

Quando raggiungiamo il terzo stadio del sentiero buddhista, il vajrayana, o stadio del tantra, la devozione fornisce una percezione potenziata della sua vera natura tramite l’azione e questo avviene in modo particolare in  ciò che è noto come resa o offerta. Tale resa comporta una grande   sforzo e   energia. Prima di discutere di vajrayana, abbiamo bisogno di comprendere cosa sia questa nozione di resa.

Di solito, noi non facciamo doni solo per il puro donare. Possiamo donare poiché vogliamo sbarazzarci di qualcosa, che  è come gettarla nel secchio della spazzatura. O possiamo donare in determinate occasioni, come a Natale o nei compleanni. Talvolta doniamo per esprimere il nostro apprezzamento a qualcuno che a sua volta ci ha donato qualcosa,  magari amore, educazione o sostegno. Oppure possiamo utilizzare un regalo per cercare di conquistare qualcuno. Ma non sembra che doniamo senza qualche scopo o schema di riferimento. Non doniamo le cose solo con  lo scopo di donare.

Anche al livello mahayana, la generosità ha uno schema simile, in quanto   è vista come l’atto di lasciar andare e ha lo scopo di imparare che la generosità non   deve richiedere alcunché di ritorno. Solo al livello vajrayana   questo tipo di schema scompare e diviene possibile la totale semplicità del solo donare. Questo modo di donare può non sembrare molto pratico. Da un punto di vista ordinario, affaristico,   è come gettare delle monete in un pozzo ; possiamo andare anche oltre e dire che è da pazzi fare una cosa simile. In questo tipo di generosità noi non stiamo donando per provare quanto siamo ricchi, o   visionari, ma stiamo solo donando ogni cosa - il corpo, la parola e la mente. In altre parole, stiamo donando il donatore, così che cessi anche di esservi un dono. E’ veramente solo lasciar andare.

 Naturalmente, ci piacerebbe sempre vedere che colui che riceve il   dono apprezzi ciò che ha ricevuto. Se offriamo il nostro  intero essere e qualcuno ci ringrazia, allora, in realtà, non lo abbiamo donato completamente : lo abbiamo avuto indietro.  Noi prosperiamo su tali affermazioni Non vogliamo soltanto donare, senza sapere se avremo più noi stessi con noi o no. Questo è un pensiero terribile: se doniamo completamente e non tratteniamo nulla   non potremmo neppure rivedere il processo del donare ; non potremmo più prendere parte al rituale. Perdere noi stessi è un’idea così terribile da non farci rinunciare neanche alla rabbia o alla passione, dato che anche queste nevrosi ci producono un qualche tipo di sicurezza. Esse possono essere dolorose, ma ci permettono di affermare : “Io esisto !”.

Potremmo dire che il solo donare, è chiedere troppo ; e certamente lo è. Ecco perché è importante. Donare senza concetti è ciò che rende possibile sperimentare lo stato. Questo non può accadere in base a un semplice interesse affaristico. Non possiamo impadronirci del dharma e depositarlo in banca. Quando realmente riceviamo gli insegnamenti in modo appropriato, è come se non ci fosse    nessuno a casa che riceve qualcosa ;non c’è nessuno che ne raccoglie i vantaggi. Gli insegnamenti, semplicemente diventano parte di noi, parte del nostro essere fondamentale. Il dharma non può essere un possesso come una proprietà o un ornamento.

A questo livello, il comportamento dell’ego è di collezionare iniziazioni e maestri come se fossero ornamenti : “Sai, ho ricevuto milioni di ordinazioni e miliardi di iniziazioni. Sono completamente assorbito nella beatitudine”. Questo è il modo più decadente di relazionarsi con gli insegnamenti, la più rumorosa forma di materialismo spirituale. In tale approccio usiamo l’insegnamento e l’insegnante come parte della strategia dell’ego per abbellire se stesso e, quindi, sprofondiamo sempre di più nel  sonno, invece di aprirci a qualcosa. Diventiamo dei miserabili mistici egocentrici.

Tali   strategie di donare o di usare gli insegnamenti per vantaggio personale devono essere completamente abbandonate, al livello vajrayana. Non c’è più spazio per la devozione condizionata dell’hinayana e del mahayana. A questo livello è richiesta completa generosità, o resa ; altrimenti l’incontro di menti tra l’insegnante e lo studente, per mezzo del quale la trasmissione ha luogo, è impossibile.

Nel buddhismo vajrayana il processo di resa è catalizzato attraverso ciò che è conosciuto come le quattro pratiche preliminari : centomila prostrazioni ; centomila ripetizioni della formula del rifugio ; centomila ripetizioni di un mantra purificatore ; e centomila offerte simboliche dei propri corpo, parola e mente e dell’intero universo al guru. Si dovrebbe notare che non possiamo imbarcarci immediatamente nel vajrayana senza prima aver attraversato l’hinayana ed il mahayana. Senza questa preparazione, queste pratiche preliminari potrebbero essere inefficaci poiché, in verità, noi non abbandoneremmo  nulla tramite loro. Faremmo solo i movimenti della resa,   la ginnastica di centomila prostrazioni e    un gioco con i nostri  giocattoli spirituali. Perciò, a meno che non si sia partiti dall’inizio con la disciplinata pratica di meditazione dell’hinayana e l’espansività ed apertura del mahayana, saremo incapaci di ricevere un reale conferimento di potere ed una reale trasmissione attraverso la tradizione vajrayana.

Prima ci siamo collegati all’insegnante come nostro salvatore ; successivamente egli è diventato un amico spirituale che ci ha impegnato in una comunicazione veramente intensa. Ora, nel vajrayana, il guru, o maestro vajra, comincia a chiedere una ulteriore sottomissione. All’inizio sentiamo di aver già fatto quest’atto di resa e di fiducia e che non abbiamo nient’altro da sottomettere. Abbiamo già pagato i nostri debiti e quindi siamo meritevoli degli insegnamenti vajrayana. All’inizio del sentiero eravamo in cattivo stato e ci siamo sottoposti al medico del pronto soccorso ; più tardi, quando cominciammo a guarire, ci siamo sentiti soli e cercavamo compagnia. Ora sentiamo che abbiamo già fatto tutto ciò che volevamo fare : abbiamo gettato tutto a mare e sottomesso i nostri ego. Ma c’è ancora qualcosa da essere sottomesso,   la nostra raccolta di orgoglio per il dolore che abbiamo   superato. Ci siamo sottomessi, ma nel processo di resa abbiamo raccolto credenziali, che ora sono un ostacolo. Siamo diventati dei  rinunciatari degni di rispetto che hanno donato con cura una certa grossa porzione dei loro corpo, parola e mente, nonché della loro energia. Ma c’è bisogno di qualcosa di più : resa completa, completa umiliazione, per così dire. E tale devozione è possibile solamente con l’aiuto di un vero amico.

All’inizio del vajrayana si prende quello che è conosciuto come il voto samaya. Un voto samaya è un legame che si stabilisce col proprio insegnante  un vincolo tra se stessi, il proprio insegnante ed il lignaggio dell’insegnante. Per creare un vincolo samaya non è sufficiente   alzarsi e farlo. Se avessimo voluto fare un matrimonio, avremmo potuto correre fuori per   una veloce cerimonia davanti ad un giudice di pace, senza il bisogno di avere il riconoscimento dei nostri genitori o neanche una fastosa cerimonia nuziale, però il significato e lo scopo del matrimonio sarebbe andato perduto dato che non ci sarebbe stato  nessun grosso sforzo. Noi volevamo sono unirci con qualcun altro. Nel caso del voto samaya, un vero matrimonio si celebra tra noi, il nostro insegnante ed il lignaggio. Ecco perché vi è una tremenda necessità di sottomettersi ed aprirsi. E’ assolutamente necessario, a causa della impegno che tale matrimonio ci impone .

Non appena lo studente beve l’acqua del giuramento samaya, l’acqua si trasforma in elisir di vita, o amrita, la quale sostiene la convinzione dello studente e rimane nel suo cuore. Ma il processo di resa può avere anche conseguenze mortali. Se lo studente ha qualche traccia di dubbio o di confusione o di inganno, l’acqua si trasforma in metallo fuso e lo distrugge, spingendolo in ciò che è conosciuto come inferno vajra. Perciò il samaya è un impegno molto pesante. E’ estremamente potente ed efficace. Io personalmente penso che introdurre apertamente il vajrayana, in un paese i cui abitanti non abbiano idea di quanto sia pericoloso un tale passo, equivale ad approfittarsi dell’ingenuità delle persone. Raccogliere centinaia di migliaia di candidati per l’inferno vajra non sembra essere compassionevole, anche se vi sono ogni tipo di piaceri e di cose eccitanti per loro lungo il percorso.

Per preparare   idonei studenti tantrici, dobbiamo cominciare con ogni genere di avvertimenti. Tali avvertimenti sono assolutamente necessari. C’è una storia tradizionale su dei mercanti indiani che navigavano sull’oceano per raccogliere perle. Un mercante, che aveva una grande nave, radunò insieme un certo numero di persone che volevano viaggiare per mare e andare alla ventura. Attaccate alla nave vi erano quattro ancore. Quando arrivò il momento di salpare, egli decise di calare un’ancora al giorno, lanciando un avvertimento : “Siete sempre sicuri di voler andare avanti ?”. E solo al quarto giorno egli si mise in viaggio. Similmente, al momento di introdurre il vajrayana in America, dobbiamo dare ripetuti avvertimenti sui pericoli della pratica tantrica. Naturalmente, se noi vogliamo andare per l’oceano e raccogliere perle meravigliose, questa sarà una cosa fantastica, una situazione straordinaria. Ma supponiamo di essere incapaci di farlo ; supponiamo che i partecipanti siano proprio incatenati ciecamente alla nave da quel grande affarista che è il proprietario. Sarebbe disastroso, per loro, e quindi dovrebbero esservi continui avvertimenti.

Nel tantra, il guru è visto come assolutamente essenziale. Egli è la figura centrale per tutti gli insegnamenti. Senza il guru, noi non possiamo tramutare l’acqua del giuramento in elisir. Per metterci in relazione col guru abbiamo bisogno di una enorme dose di apertura e sottomissione, vera sottomissione, e non una sottomissione motivata da qualche altra cosa, come quella del compratore che si piega al venditore solo perché desidera la sua mercanzia.

All’inizio, questa resa riguarda il corpo ; noi abbandoniamo la sensazione che il nostro corpo sia un confortevole rifugio  così che se anche impazzissimo, almeno avremmo qualcosa con cui rimanere in contatto, cioè il nostro corpo. Quando sottomettiamo il nostro corpo al guru, stiamo cedendo il nostro punto di riferimento primario. Il proprio corpo diventa un possesso del lignaggio, non è più nostro. Non sto parlando qui di  impazzire e perdere la cognizione di sé. Voglio dire che, cedendo il proprio corpo, psicologicamente la nostra preziosa vita è affidata a qualcun’altro. Noi non abbiamo più da tenerci stretti la nostra amata vita. Nel secondo stadio del tantra, che è il livello emozionale, la parola viene anch’essa sottomessa. La nostra sicurezza emotiva non è più considerata necessaria o rilevante. Questa stessa necessità è ceduta agli insegnamenti ed al lignaggio, rappresentati dal guru. Il terzo stadio coinvolge la mente, il meccanismo per registrare che esiste nel proprio stato di coscienza. Anche la mente è sottomessa, così da non aver più i nostri divertimenti logico intellettuali a cui aggrapparci.

Alla fine, viene ceduta ogni cosa : corpo, parola e mente. Tuttavia, questo non significa che si diventi degli zombi o delle meduse. Tale resa è un processo continuo e non una specie di suicidio improvviso e l’intelligenza intransigente che deriva da questa nostra sottomissione, resta attiva e, attraverso un processo di apprendimento continuo, diventa progressivamente più libera.

Un tale processo di resa e le richieste che il lignaggio tantrico pone allo studente potrebbe essere considerato   esagerato, illegittimo o criminale. Dal punto di vista   del regno che mantiene l’ego, è criminale. E’ il modo finale e definitivo per sradicare questa cosa che noi cerchiamo così fortemente di mantenere. E’ assolutamente terribile, perfino mortale. Ma una tale sottomissione è una parte necessaria dell’apertura.

A questo punto, si potrebbe pensare che adoriamo il guru, ma non  come una persona totalmente  fanatica a cui dobbiamo piegarci. Questa è una idea completamente sbagliata. Non è un forsennato del dharma : non c’è nessun fanatismo Piuttosto, il guru è un portavoce, un ambasciatore, un esecutore ed un guardiano dell’apertura, ed anche un donatore con enormi ricchezze da darci. Il guru è anche, in un certo modo, come il miraggio di un lago nel deserto. Quando ci sentiamo molto assetati nel deserto, potremmo pensare di vedere un lago o un torrente, ma in realtà non c’è né torrente né lago. Allo stesso modo, rinunciando al soddisfacimento dei nostri desideri, il guru ci stuzzica e ci ispira a proseguire oltre, nel deserto del non-ego.

Sembra che quel che conti sia il livello del nostro impegno :fino a che punto  siamo disposti ad essere messi in difficoltà ed umiliati, attraverso il riconoscimento del nostro caos, la nostra confusione, i nostri desideri e attaccamenti. Non possiamo lavorare con queste fissazioni se non le riconosciamo e ne accettiamo l’esistenza. Più le accetteremo, e più saremo capaci di lasciare andare. A questo stadio, il guru è la persona capace di mettersi in relazione con noi, come un portavoce, un ambasciatore dell’illuminazione.

Il maestro vajra è come un maestro samurai che istruisce un novizio. Egli ci spinge e ci incoraggia a saltare ed a rischiare. Ci insegna a eliminare le nostre esitazioni. Il modo migliore   di porci in relazione con lui è quella di una   fiducia semplice e nuda, senza speranze o paure. Le nostre   esperienze di tale fiducia possono essere temporanee, ma è necessario almeno sviluppare la giusta attitudine intellettuale verso la fiducia stessa. Attraverso la comprensione intellettuale anche se fossimo incapaci di aprirci completamente, avremo almeno la volontà di aprirci, il che è molto importante.

In effetti, l’intelletto gioca un ruolo molto importante nel processo di apertura. Ciò che qui stiamo intendendo come intelletto è alquanto differente dall’ordinaria nozione di intelletto inteso come capacità di speculazione filosofica. Qui intelletto vuol dire chiara visione, reale precisione.   Quando questa precisione sorge in modo fugace cerchiamo di mantenerla o afferrarla, ma essa invece svanisce. E’ necessario lavorare con questo barlume di precisione, poiché   è questo che ci permette di vedere il bisogno di apertura, ma dobbiamo farlo senza cercare di catturarlo. Quando questo barlume di precisione sorge, dovremmo piuttosto lasciarlo andare, anziché cercare di trattenerlo o ricrearlo. Allora ad un certo punto inizieremo a sviluppare fiducia in noi stessi ; svilupperemo la  fiducia che questo intelletto è il nostro invece di essere un elemento estraneo che stiamo introducendo nel nostro organismo. Esso non ci è stato dato dall’esterno, ma si è risvegliato all’interno di noi. Sorgerà spontaneamente, e non per mezzo di una manipolazione. Questo tipo di risveglio, questo barlume di comprensione intellettuale, è di grande importanza.

In molti casi, questo barlume di apertura e precisione porta un’inaspettata paura. Si può avvertire un senso di essere persi o esposti, un senso di vulnerabilità. Questo è semplicemente un segno che l’ego sta perdendo la presa sul suo territorio ; non è una minaccia   seria. Il concetto di minaccia prende corpo solo in relazione all’ego. Se abbiamo qualcosa da perdere ci sentiamo minacciati e ciò che pensiamo di avere da perdere è la nostra amata vita, il nostro ego. Ma se non abbiamo niente da perdere, non possiamo sentirci minacciati. Il sentimento di minaccia è un punto di partenza,   è la base di partenza per evolvere. Di fatto, lo studente del tantra dovrebbe stare in un costante stato di panico. Solo allora la sua situazione è da considerarsi produttiva. Un tale stato di panico serve a due scopi : vince apatia e  compiacenza dello studente, mentre acuisce la sua chiarezza.

E’ stato detto, dal maestro tibetano Pema Karpo e da altri grandi maestri, che studiare il tantra è come cavalcare su un rasoio. Scoprendo di essere sulla lama di un rasoio, non sappiamo se   cercare di scivolare giù o cercare di bloccarci e restare fermi. Se solo sapessimo come poter scendere giù dal rasoio, lo potremmo fare tanto facilmente quanto un bambino che scivola giù per una balaustra. Se conoscessimo la natura della lama, potremmo fare in quel modo. Ma se non conosciamo la natura della lama e stiamo solo cercando di metterci alla prova, potremmo trovarci affettati in due.

Come ho già detto, gli avvisi che mettono in guardia lo studente di questa concreta situazione sono molto importanti. Più avvertimenti vengono dati sul tantra e più si aiuta lo studente. Quando il maestro tantrico non dà abbastanza avvertimenti, lo studente diventa un cattivo studente tantrico, poiché   non sta cavalcando sul filo della lama del rasoio.

Quando gli studenti ascoltano la prima volta il vajrayana possono trovarlo molto interessante. Vi sono molte storie eccitanti e tante cose possibili, che sono seducenti e attraenti. Poiché l’approccio tantrico è apparentemente un sentiero veloce, gli studenti potrebbero pensare che dovrebbero smettere di sciupare   tempo ;   potrebbero pensare di far rendere i loro soldi e diventare illuminati   più in fretta. Questi studenti non solo sono impazienti, ma anche un po’ codardi :   non vogliono avere sofferenze o difficoltà. Simili studenti non sono disposti ad aprirsi e ad esporsi. Non sono disposti ad affrontare il   panico che ne deriva di cui parlavo prima. In realtà, il panico è la sorgente dell’apertura, la fonte delle domande;   è la sorgente dell’apertura del proprio cuore. 

Di solito, quando veniamo colti dal panico, prendiamo una boccata d’aria e questo crea una enorme freschezza. Così si pensa che faccia     anche la tradizione tantrica. Quindi, se siamo bravi studenti tantrici, ci apriamo in ogni istante : ci lasciamo prendere dal panico mille volte al giorno, cento-otto volte all’ora. Siamo costantemente aperti, siamo costantemente in panico. Quindi, l’approccio tantrico al mondo significa rinfrescare il nostro contatto, ri-aprirci costantemente in modo da essere capaci di percepire il nostro cosmo appropriatamente e completamente. Questo fatto suona , assai promettente, però vi è una trappola. Una volta che si sia nella posizione di venire attratti dal mondo, il nudo mondo senza un filtro o uno schermo, noi stessi siamo nudi. Ci stiamo rapportando al mondo senza neanche una pelle per proteggere i nostri corpi. L’esperienza diventa così intima e così personale che, in realtà, ci brucia o ci congela immediatamente. Possiamo diventare estremamente sensibili e nervosi. E’ possibile che se proviamo maggior panico, possiamo reagire in maniera ancora più intensa. L’esperienza diventa così diretta e magica che ci dà un diretto shock. Non è come stare seduti a teatro e venire presi da un mondo da favola che appare sullo schermo. Non funziona in questo modo. Al contrario, esso interagisce   : a mano a mano che il nudo mondo viene svelato, noi stessi siamo costretti a scoprirci.

Perciò il tantra è molto pericoloso. E’ elettrico. In aggiunta alla nostra nuda elettricità ed a quella del mondo, vi è il maestro vajra, l’insegnante che ci introduce alle possibilità del mondo vero. L’insegnante ha la stessa elettricità, anch’egli è nudo. Tradizionalmente, egli tiene nella sua mano il simbolo del fulmine, che è chiamato dorje o vajra. Con questo vajra, se noi ed il cosmo non siamo collegati, l’insegnante può riattivare la scossa.

In questo senso, l’insegnante ha un enorme potere, ma non un potere su di noi come un egomaniaco. Come sempre, l’insegnante è un portavoce della realtà ; egli è colui che ci introduce nel nostro mondo. Così ora il maestro vajra,  diventa molto potente ed anche un po’ pericoloso. Egli, però, non usa questo potere semplicemente per giocarci brutti scherzi quando vede un nostro punto debole ; si muove secondo una  disciplina, in accordo alla tradizione. Egli ci tocca, ci odora, ci osserva ed ascolta il battito del nostro cuore. Questo è il processo conosciuto come abhisheka.

Abhisheka è un termine sanscrito che, letteralmente, significa “unzione”. Veniamo bagnati con acqua santa creata dal maestro e dal mandala intorno al maestro. Le abhisheka sono note popolarmente come “iniziazioni”, però questa è una traduzione semplicistica. La nozione di abhisheka è diversa da una iniziazione tribale o da un rito di passaggio in cui siamo accettati come membri di una tribù se superiamo determinate prove. E’ completamente differente. La trasmissione di poteri a noi da parte del nostro insegnante ed il nostro ricevimento di poteri dipendono entrambi sia dalla nostra capacità che da quella dell’insegnante. Il termine trasmissione di potere è più appropriato di iniziazione perché non c’è una tribù in cui essere iniziati. In altre parole, abhisheka non significa venire accettati all’interno di un circolo ristretto ; piuttosto noi veniamo introdotti all’interno dell’universo. Non possiamo dire che l’universo sia una grande tribù o che sia una forma di ‘grande ego’. E’ solo spazio aperto. L’insegnante ci dà la trasmissione di potere cosicché si possa entrare nel nostro universo più grande.

L’insegnante è la sola personificazione del potere in questa trasmissione di energia. Senza l’insegnante non potremmo sperimentare ciò adeguatamente, totalmente. Ed il solo modo di rapportarci ad un tale insegnante è la devozione. La devozione passa attraverso vari stadi di smascheramento, finché si raggiunge il punto di vedere il mondo direttamente e semplicemente, senza l’imposizione delle nostre costruzioni mentali. Questa è chiamata sanità fondamentale. La devozione è un modo di farci scendere giù sulla terra e di renderci capaci di sviluppare questa sanità fondamentale per mezzo delle sfide che ci vengono costantemente poste dalla relazione col nostro maestro.

Dobbiamo quindi semplicemente cominciare. Dobbiamo donare, dobbiamo aprirci e mostrare il nostro ego ; dobbiamo presentare il nostro ego come dono al nostro amico spirituale. Se siamo incapaci di far ciò, allora il sentiero non inizierà mai, dato che non c’è una base di lavoro, non c’è nessuno che lo percorra.

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PARTE SECONDA – GLI STADI DEL SENTIERO

 

                                                           5) PRENDERE RIFUGIO

Brani scelti da  cerimonie del Voto di Rifugio, 1973-78

“Diventare un rifugiato è il riconoscimento che siamo senza casa e senza terreno e significa che in realtà non c’è bisogno di una casa, o di un terreno. Prendere rifugio è espressione di libertà,, poiché come rifugiati non siamo più spinti dal bisogno   di sicurezza. Siamo sospesi in una terra di nessuno, in cui la sola cosa da fare è di metterci in contatto con gli insegnamenti e con noi stessi.”

 

Diventare un rifugiato

Nella tradizione buddhista, lo scopo del prendere rifugio è di risvegliarci dalla confusione ed essere disponibili allo stare svegli. Prendere rifugio è un motivo di impegno ed accettazione e, al tempo stesso, di apertura e libertà. Prendendo il voto del rifugio ci affidiamo alla libertà.

Vi è una generale tendenza ad essere catturati da  ogni sorta di attrazioni e delusioni, e nulla mette mai saldamente radice nel nostro essere fondamentale. Tutto nella nostra esperienza di vita, che sia la spiritualità o qualsiasi altra cosa, è solo un modo per fare acquisti. La nostra vita è fatta   di sofferenza,   di felicità,   di punti di vista - problemi su ogni tipo di scelte  rendono la nostra esistenza complicata. Prendiamo per partito preso  “questo” o  “quello”. Vi sono milioni di scelte che riguardano la nostra vita, soprattutto rispetto al nostro senso di disciplina, alla nostra moralità ed al nostro sentiero spirituale. Le persone sono davvero molto confuse in questo mondo caotico, su ciò che è realmente giusto fare. Vi sono tanti tipi di ragionamenti logici, presi da ogni tipo di tradizioni e filosofie. Potremmo cercare di combinarli tutti insieme ; talvolta essi sono in conflitto, talvolta collaborano armoniosamente. Ma noi siamo costantemente in cerca di qualcosa e questo è, in realtà, il problema fondamentale.

Non è tanto il fatto che vi sia qualcosa di sbagliato nelle tradizioni che ci circondano ; la difficoltà sta più nel nostro conflitto personale che nasce dal voler prendere il meglio, essere i migliori. Quando prendiamo rifugio, noi abbandoniamo quel   modo di vederci come   bravi cittadini o come i protagonisti di una storia di successo. Potremmo dover abbandonare il nostro passato ; potremmo dover abbandonare il nostro potenziale futuro. Prendendo questo particolare voto, smettiamo di fare la spesa nel supermercato spirituale. Decidiamo di portare un particolare marchio per il resto della nostra vita. Scegliamo di inserire un particolare ingrediente nella dieta e di trarne frutto.

Quando prendiamo rifugio ci affidiamo al sentiero buddhista. Questo è un approccio non solo semplice, ma anche assai conveniente. D’ora in avanti saremo su quel particolare sentiero che fu ideato, disegnato e ben ponderato venticinque secoli fa dal Buddha stesso e dai seguaci del suo insegnamento. Vi è già un modello ed una tradizione ; vi è già una disciplina. Non dobbiamo più correre dietro a questo o a quello . Non dobbiamo più paragonare il nostro stile di vita con quello di qualcun’altro. Una volta che abbiamo fatto questo passo, non abbiamo più alternative ; non c’è più il gioco di cullarsi nella cosiddetta libertà. Prendiamo un voto definitivo per entrare in una disciplina priva di alternative - che ci farà economizzare   molto denaro, molta energia e ci risparmierà   molti pensieri superflui.

Può darsi che questo approccio possa sembrare repressivo ma, in realtà, esso è basato su un atteggiamento di simpatia per la nostra situazione. Lavorare su noi stessi è possibile realmente solo quando non vi sono strade secondarie, né uscite. Di solito noi   cerchiamo soluzioni in qualsiasi cosa nuova, che sia fuori di noi : un cambiamento della  società o in politica, una nuova dieta, una nuova teoria. Oppure andiamo alla ricerca   di cose sempre nuove a cui dare la colpa dei i nostri problemi :   le relazioni sociali, la società, quel che abbiamo. Lavorare su se stessi, senza queste strade secondarie o uscite, è il sentiero del buddhista. Cominciamo con l’approccio hinayana - lo stretto sentiero di semplicità e noia.

Prendendo rifugio, in un certo senso, diventiamo rifugiati senza casa. Prendere rifugio non significa dire che siamo indifesi e quindi dobbiamo delegare tutti i nostri problemi a qualcun’altro. Non ci saranno razioni da rifugiati e nemmeno forze di sicurezza   ne aiuti . Il punto nel diventare rifugiati sta nell’abbandonare il nostro attaccamento alla sicurezza fondamentale. Dobbiamo abbandonare il nostro senso di terreno domestico, che è comunque illusorio. Abbiamo un senso di terreno domestico su cui siamo nati e per come vediamo il mondo, ma in realtà, fondamentalmente parlando, non abbiamo nessuna casa,. In verità, non vi è una base solida di sicurezza nella nostra vita. E poiché non abbiamo nessun terreno domestico, siamo anime perse, per così dire. Fondamentalmente siamo completamente persi e confusi e, in un certo senso, patetici.

Questi sono i problemi particolari che forniscono il punto di riferimento su cui costruiamo il nostro voler diventare buddhisti. Quando ci mettiamo in rapporto  all’essere persi e confusi, noi siamo più aperti. Cominciamo a vedere che nel cercare sicurezza non possiamo aggrapparci a nulla ; tutto continuamente sfugge via e diventa incerto, costantemente, sempre. E questo è quel che chiamiamo la vita.

Quindi, diventare un rifugiato è   riconoscere che siamo senza casa e senza terreno. Prendere rifugio è espressione di libertà  perché non saremo più spinti dal bisogno di sicurezza. Siamo sospesi in una terra di nessuno in cui la sola cosa da fare è di metterci in contatto con gli insegnamenti e con coi stessi.

La cerimonia del rifugio rappresenta una decisione definitiva. Si prende rifugio nel Buddha come un esempio, nel dharma come il sentiero, e nel sangha come compagnia, riconoscendo che la sola vera base per lavorare siamo noi stessi e che non ci sono altre strade. Perciò, è un impegno totale con noi stessi. La cerimonia taglia la corda che unisce la nave all’ancora ; essa segna l’inizio di una odissea di solitudine. Include anche l’ispirazione del istruttore - in questo caso io stesso - e del suo lignaggio. La partecipazione dell’istruttore è una specie di garanzia del fatto che non verrai ributtato indietro nella ricerca di una sicurezza in quanto tale, che continuerai a riconoscere la tua solitudine e a lavorare su te stesso senza appoggiarti a nessun altro. Alla fine sarai una persona vera, che sta sui suoi propri piedi. A quel punto, ogni cosa partirà da te.

Questo particolare viaggio è come quello dei primi colonizzatori. Siamo arrivati alla terra di nessuno e non abbiamo altro equipaggiamento Siamo qui e dobbiamo fare tutto con le nostre nude mani. Siamo, a modo nostro, dei pionieri : ciascuno di noi è una persona eroica sul   suo cammino. C’è una condizione solitaria da pionieri quando si costruisce il terreno spirituale. Tutto deve essere fatto e prodotto da noi . Nessuno ci getterà dei cioccolatini o ci consolerà con dei dolcetti. Così, dobbiamo imparare da soli come mungere le vacche. In effetti, dobbiamo prima trovare le vacche - che potrebbero essere selvatiche,  dovremo addomesticarle, poi metterle dentro un recinto, mungerle e nutrire i loro piccoli. Dobbiamo imparare come forgiare una spada : imparando a fondere le rocce ed estrarne il ferro . Dobbiamo imparare a fare tutto. Siamo arrivati qui a piedi scalzi e nudi e dobbiamo anche farci dei vestiti - scarpe e copricapo, tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Questo è il punto di partenza, proprio qui e ora. E’ necessario compiere questo primo passo.

Se adottiamo una religione prefabbricata che ci dica esattamente qual è il miglior modo di fare tutto è come se questa religione ci fornisse una casa completa con perfino le stoffe alle pareti. Saremo completamente viziati. Non dovremo metterci nessuno sforzo o energia, perciò la nostra dedizione e la nostra devozione non avranno fibra. Finiremmo per lamentarci per non avere la carta igienica di lusso a cui siamo abituati. Perciò, a questo punto, cominciamo dal livello primitivo, piuttosto che camminare dentro un albergo grazioso e ben arredato o dentro una lussuosa casa. Dobbiamo pensare a come costruire la nostra città e come rapportarci con i nostri compagni che stanno facendo la stessa cosa.

Dobbiamo lavorare con un senso di sacralità e ricchezza e col  senso magico   della nostra esperienza. E ciò deve essere fatto al livello della nostra esperienza di tutti i giorni, a livello personale,   estremamente personale. Non vi sono capri espiatori. Quando prendete rifugio, diventate responsabili di voi stessi come seguaci del dharma. Vi state isolando dal resto del vostro mondo nel senso che il mondo non potrà più esservi d’aiuto :   non è più considerato come una fonte di salvezza. E’ solo un miraggio, maya. Potrebbe farsi beffe di voi, suonare musica per voi ed anche danzare per voi, ma nondimeno il cammino e l’ispirazione del cammino spettano a voi. Dovete farlo. Ed il significato del prendere rifugio è che voi lo state facendo. Vi state impegnando con voi stessi come un rifugiato, non pensando più che qualche principio divino insito nella sacra legge o nelle sacre scritture, possa venire a salvarvi. E’ un fatto molto personale. Voi sperimentate un senso di solitudine, di isolamento :un senso in cui non c’è un salvatore né un aiuto. Ma al tempo stesso vi è un senso di appartenenza : appartenete ad una tradizione di solitudine in cui tutti però lavorano insieme.

Potreste dire : “Sono stato così per lungo tempo. Perché deve esservi una cerimonia ?” La cerimonia è importante perché   vi sarà un momento particolare e una data a partire dalla quale prendere l’impegno . Ci sarà una particolare frazione di secondo in cui vi sarete impegnati con voi   e lo apprenderete   in modo molto preciso e chiaro. E’ come quando si celebra il Nuovo Anno : quando l’orologio segna le ventiquattro,   diciamo “Felice Anno Nuovo !”. C’è quel particolare momento. Così siete sicuri che non vi saranno punti indistinti nel vostro ricordo della promessa. Voi siete come pesci guizzanti e avrete  una qualche   rete. La rete è la situazione in cui siete caduti, la presa di rifugio   ; ed il pescatore, la persona che vi pesca fuori dall’acqua, è l’istruttore. A quel punto il pesce non ha più scelta se non quella di arrendersi al pescatore. Senza la cerimonia, in certo modo non funziona ; l’intera cosa è lasciata troppo alla vostra immaginazione ed al vostro sfuggevole processo soggettivo.

Quando sarete diventati rifugiati, seguaci dell’insegnamento del Buddha, entrerete in un treno che è senza freni e senza retromarcia. Il treno avanza e si arresterà solo ad una certa stazione e ad un certo momento. Montate sul treno, poi suonerà il fischio e partirete.

Quindi, la cerimonia di rifugio è un punto di confine per diventare un buddhista, un non-teista. Non dovrete più fare sacrifici in nome di qualcun altro, cercando di essere salvati o di meritare una redenzione. Non dovrete più spingervi fuoribordo per vedere sorridere   quel tipo che vi osserva, il vecchio con la barba. Per   i buddhisti, il cielo è blu e l’erba è verde - naturalmente, in estate. Per   i buddhisti, gli esseri umani sono molto importanti e non saranno mai condannati, se non   dalla loro propria confusione, che è comprensibile. Se nessuno vi mostra il sentiero, un qualsiasi tipo di sentiero, sarete confusi. Non è colpa vostra. Ma ora a voi è stato mostrato il sentiero e state cominciando a lavorare con un maestro preciso. E a questo punto nessuno è più confuso. Voi siete ciò che siete, gli insegnamenti sono quel che sono, ed io sono ciò che sono :un istruttore che vi dà l’ordinazione vi renderà  persone buddhiste.

Questa è una situazione davvero gioiosa per quel che mi riguarda : lavoreremo insieme dal principio alla fine.

Prendere rifugio nel Buddha come un esempio, prendere rifugio nel dharma come il sentiero e prendere rifugio nel sangha come compagnia è   ben delineato, molto definito, molto preciso e molto chiaro. Gli uomini l’hanno fatto nei duemilacinquecento anni passati della tradizione buddhista. Prendendo rifugio riceverete quella particolare eredità nel vostro   sistema, unirete questa particolare saggezza che è esistita per duemilacinquecento anni senza interruzioni e senza corruzioni. E’ tutto molto diretto e   semplice.

Prendere rifugio nel Buddha

Prendete rifugio nel Buddha, non come un salvatore - non col sentimento di aver trovato qualcosa che vi renda sicuri, ma come un esempio, come qualcuno da poter emulare. Egli è un esempio di un essere umano ordinario che riuscì a superare gli inganni della vita, sia a livello ordinario che spirituale. Il Buddha scoprì lo stato risvegliato della mente rapportandosi con le situazioni che esistevano intorno a lui : la confusione, il caos e l’insanità. Fu capace di osservare queste situazioni in modo molto chiaro e preciso. Si disciplinò     lavorando sulla   propria mente,   la fonte di tutto il caos e della confusione. Anziché diventare un anarchico e dare la colpa alla società, egli lavorò su se stesso e raggiunse ciò che è conosciuto come bodhi, l’illuminazione. Giunse così all’ultimo e finale traguardo e fu capace di insegnare e lavorare con gli esseri senzienti senza nessuna inibizione.

L’esempio della vita del Buddha è praticabile dato che   partì dallo stesso   tipo di vita che viviamo noi, con l’identica confusione. Egli, però, rinunciò a quella vita per trovare la verità. Passò per una serie di “tragitti” spirituali. Tentò di lavorare col mondo teistico dell’induismo di quei tempi e capì che  vi erano un sacco di problemi, Allora, anziché cercare una soluzione dall’esterno, egli cominciò a lavorare su se stesso. Cominciò a rimboccarsi le maniche, per così dire, e divenne un buddha. Fino a che non fece questo,   fu solo uno stupido turista spirituale . Perciò, prendere rifugio nel Buddha come esempio, vuol dire realizzare che la nostra storia è, di fatto, paragonabile alla sua e, decidere di seguire il suo esempio e fare ciò che lui fece.

Prendendo rifugio, cominciate a realizzare che potete veramente competere col Buddha. Potete farlo. Venticinque secoli fa una persona,   anch’essa alle prese con la situazione   di tutti i giorni, riuscì a risvegliarsi e a rendersi conto della sofferenza della vita. Fu capace di venirne a capo e di lavorare insieme con essa, raggiungendo finalmente la buddhità, l’illuminazione. Questa persona si chiamava Gautama, il capo della tribù Shakya. Egli era un principe che aveva   lussi e sicurezze, ma si sentiva alienato dal suo stato di sanità di base. Perciò decise di mettere in discussione l’intera storia. Scappò dal suo regno e praticò la meditazione nelle foreste e nella giungla. I soli amici e insegnanti spirituali che poté trovare erano tutti materialisti spirituali :   usavano la meditazione per fortificare l’ego. Provò ogni genere di ginnastiche fisiche :trattenere il respiro, mettersi a testa in giù, sedersi in mezzo ad un cerchio di fuoco,  ma le trovò tutte inutili. Allora cominciò a destarsi, a produrre da solo la   propria liberazione. Così conquistò l’illuminazione senza alcun aiuto. Egli fu così abile   da trionfare sul materialismo psicologico, che cerca di puntellare l’ego per mezzo delle idee e così pure sul materialismo spirituale. Fu capace di conquistare la vittoria su entrambi i tipi di materialismo. Ecco perché fu rinomato come il Buddha, il Risvegliato.

Noi dobbiamo fare altrettanto. Migliaia di persone nella tradizione del Buddha lo hanno fatto. Nelle nostre vite  c’è l’insorgere continuo dei materialismi sia psicologico che spirituale,, per cui abbiamo lo stesso materiale su cui lavorare. Non c’è dubbio che siamo pieni dello stesso tipo di cibo per le nostre menti.

Uno dei passi più importanti nella evoluzione del Buddha fu la sua comprensione   che non vi era alcuna ragione per   credere o   aspettarci qualcosa di più grande della ispirazione di base che già esiste in noi. Questa è una tradizione non-teistica : il Buddha smise di affidarsi a qualsiasi tipo di principio divino che fosse disceso su di lui per risolvere i suoi problemi. Perciò, prendere rifugio nel Buddha non significa  in nessun modo, doverlo considerare come un dio. Fu semplicemente una persona che praticò, lavorò, studiò e sperimentò personalmente le cose. Con tale riferimento in mente, prendere rifugio nel Buddha fa crescere la rinuncia a false concezioni circa un’esistenza divina. Poiché tutti noi possediamo ciò che è conosciuto come natura-di-buddha, l’intelligenza illuminata, non dobbiamo prendere a prestito la gloria di nessun’altro . Non siamo  tutti così impotenti. Abbiamo già le nostre   risorse. Una gerarchia di principi divini non ha senso. E’ troppo lontana da noi. La nostra individualità ha prodotto il nostro   mondo. L’intera situazione è assai personale.

Prendere Rifugio nel Dharma

Quindi prendiamo rifugio negli insegnamenti del Buddha, nel dharma. Prendiamo rifugio nel dharma come sentiero. In questo modo possiamo vedere che ogni cosa nella nostra situazione esistenziale è un continuo processo di apprendimento e scoperta. Non   consideriamo più alcune cose come profane ed altre come sacre, ma tutte   vengono considerate come verità :questa è la vera definizione di dharma. Il dharma è anche   distacco, che in questo caso significa non attaccamento, non mantenimento o non cercare di possedere qualcosa ; significa non aggressività.

Di solito, il filo conduttore principale che percorre la nostra esperienza è il nostro desiderio diretto verso un mero scopo   : tutto ciò che proviamo è fatto in funzione della nostra ambizione, la nostra competitività e la nostra supremazia. Questo è ciò che normalmente ci spinge a diventare i più grandi professori, i più grandi meccanici, i più grandi carpentieri, i più grandi poeti, ecc. Il dharma - cioè il distacco spassionato spezza questa meschina visione finalizzata, cosicché ogni cosa diventa un semplice processo di apprendimento. Questo ci consente di rapportarci con la nostra vita propriamente e pienamente. Quindi, prendendo rifugio nel dharma come sentiero   sviluppiamo un senso di apprezzamento nell’essere su questa terra. Nessuna cosa viene considerata come una perdita di tempo ; nulla è visto come una punizione, un motivo di risentimento o una lamentela.

Questo aspetto del prendere rifugio ha particolarmente senso qui in America dove è abbastanza di moda  dare la colpa agli altri di ogni cosa  o pensare che tutti gli elementi nelle relazioni con le persone o con l’ambiente siano malati o contaminati. Reagiamo col risentimento. Però, una volta che abbiamo cominciato a farlo, non c’è più scampo. Il mondo diventa diviso in due parti : il sacro ed il profano, oppure   ciò che è buono e giusto e ciò che è   negativo o un male necessario. Prendere rifugio nel dharma, assumere un approccio distaccato, significa che tutto nella vita viene considerato come una situazione fertile e una occasione di conoscenza, sempre. Qualunque cosa succeda, dolore o piacere, bene o male, giustizia o ingiustizia - tutto è parte del processo di apprendimento. Così, non c’è niente da condannare ; tutto è sentiero, tutto è dharma.

Questa   imperturbabilità del dharma è una espressione di nirvana - libertà, o apertura. E una volta che abbiamo questo atteggiamento,   ogni pratica spirituale che facciamo diventa parte della situazione conoscitiva anziché un fatto puramente  ritualistico o spirituale, o materia di obblighi religiosi. Tutto il processo diventa integro e naturale.

Abbiamo sempre cercato di dare un senso alla incoerenza ed alla insoddisfazione della vita, tentando di fare cose rassicuranti e tentando di congelare le qualità evanescenti   in un qualcosa di  definito . Ora però non possiamo più farne granché. Le cose cambiano continuamente, si muovono costantemente, si trasformano in qualcos’altro. Ora cominciamo a lavorare con la  fondamentale premessa   che quel flusso, o fluttuazione in su e in giù, nella nostra vita può essere visto come il riflesso di uno specchio, o come onde nell’oceano. Le cose si avvicinano e noi possiamo quasi tenerle in mano, ma subito dopo   svaniscono. Sembra quasi che esse stiano per avere un senso ; poi improvvisamente vi è un’immensa confusione e quello che stava per avere un senso sembra  lontano  mille miglia . Stiamo costantemente tentando di aggrapparci a qualcosa, ma la perdiamo quando proprio pensavamo di averla sulla punta delle dita. Questa è la sorgente della frustrazione, sofferenza - o duhkha, come il Buddha l’ha chiamata. Duhkha, è la Prima Nobile Verità. Riconoscendola, noi cominciamo a dare senso al nulla, per così dire. L’impermanenza comincia ad avere più significato invece di  congelare la verità in una massa solida. Questa realizzazione :comprendere come la fluttuazione non si fermi e sapercisi confrontare è il vero significato del prendere rifugio nel dharma.

Questo approccio evoca una senso di franchezza e onestà o, si potrebbe anche dire, di non conformismo. Significa che noi, affrontiamo i fatti della vita, direttamente, personalmente. Non abbiamo da coprire nulla con il formalismo o con  una  scadente normalità, ma   sperimentiamo direttamente la vita. Ed è vita veramente ordinaria : il dolore è dolore ed il piacere è piacere. Non siamo costretti ad usare una qualche altra parola o allusione. Dolore, piacere e confusione - tutto avviene in modo molto palese.   Siamo semplicemente normali. Ma l’evidenza e l’assenza di conformismo non significano necessariamente essere   incivili. Siamo nudi proprio nel fare a meno delle coperte che di solito  ci procuriamo. Con i nostri amici, coi nostri parenti, in tutte le occasioni, possiamo permetterci di essere molto semplici, diretti e personali.

In questo modo, tutte le cose che accadono nella vita - economica, domestica e spirituale - non appartengono più   a comparti separati,   tutto si combina in una unica situazione. Questo è quel che significa seguire il sentiero del dharma. Non sono valutati come straordinariamente buoni o straordinariamente negativi né i caldi, intensi momenti di completa claustrofobia e né i gelidi momenti di noncuranza. Sono soltanto modi di essere in cui siamo coinvolti. E’ un naturale processo che avviene costantemente. Prendere rifugio nel dharma significa mettersi in rapporto a tutto ciò che accade, dalla scheggia nel tuo dito mignolo fino al suicidio commesso da vostro nonno per voi, dalla cosa più insignificante a quella più grande, come parte di questo processo naturale. Vi sono tanti tipi di viaggi che continuamente avvengono. E ognuno di essi è proprio solo un inganno ;   sono solo interessanti sfaccettature della vita.

Ma voi tuttavia non potete dire “Ma lasciamola stare ! Facciamo in modo da osservare tutto per diventare poi grandi poeti !” Oh no ! Voi non potete solo scriverci sopra delle poesie , o metterla in musica, oppure danzare con essa. Dovete entrare dentro tutte queste sfaccettature della vita, completamente.   Entrarci dentro è lo scopo del sentiero, esse diventano il sentiero. Tutto ciò è accompagnato dalla pratica della meditazione, che di fatto rende l’intera cosa molto chiara e precisa. Più la nostra mente diventa chiara e più reali e vivide diventano tutte le piccole cose che sembrano promettenti o minacciose :   speranze e   paure, le pene ed i piaceri.

Tradizionalmente, il dharma è diviso in due aspetti. Il primo è quello che è stato detto, cioè le sacre scritture, i libri degli insegnamenti che furono scritti dai tempi del Buddha fino a oggi. Questi libri sacri, che sono stati tramandati di generazione in generazione, contengono la verità di ciò che è stato sperimentato, che è il secondo aspetto del dharma. Attraverso il lignaggio buddhista, gli individui hanno sperimentato la realtà e la verità contenute negli insegnamenti, e questo anche voi lo potete sperimentare. E’ una scoperta all’interno della vostra propria vita che accade sia con il vostro insegnante che tramite voi stessi. Accade principalmente attraverso la vostra esperienza di meditazione, sia nella pratica formale seduta che nella meditazione-in-azione.

Prendere rifugio nel dharma significa che le esperienze che scorrono nella vostra   vita,   dolori e gioie, sono esse stesse insegnamenti sacri. Gli insegnamenti non sono sacri perché furono scoperti nello spazio o perché caddero dal cielo mandati da qualche principio divino. Gli insegnamenti furono scoperti nel cuore, nei cuori umani - nella natura-di-buddha. Per esempio, il Canone Buddhista, il Tripitaka, è basato sull’esperienza di un qualcuno. E’ interamente  il discorso di un qualcuno. I centootto volumi dei sutra sono parole dette - comunicazioni da una essere umano ad un altro. Il Buddha, che fu un completo risvegliato, stava comunicando con altri esseri umani non risvegliati, o a metà risvegliati, o che erano in uno   stato di quasi risveglio. La verità non è mai arrivata dal cielo ; essa è sempre giunta dalla condizione umana. Le Quattro Nobili Verità del Buddha descrivono l’esperienza umana di dolore, origine del dolore, possibilità di salvezza e le possibilità del sentiero. Queste sono verità letterali ; esse sono verità dirette, e non  invece qualcosa che è stata confezionata al piano di sopra.

Perciò, nel prendere rifugio nel dharma, i libri di insegnamento non sono considerati come scritture mistiche create dall’incontro tra le nuvole ed il sole che le scrissero su delle tavole. Questi libri furono scritti con penna ed inchiostro su dei fogli di carta. Le memorie dei seminari, discorsi e conversazioni che tenne il Signore Buddha furono registrate solo come una descrizione di ciò che un uomo risvegliato disse, del modo in cui una persona risvegliata, in una situazione vissuta, si comportò. Dunque, prendere rifugio nel dharma non ha niente a che vedere con una influenza non terrena ; non ha niente a che fare con dei marziani e neppure ha niente a che fare con Jehova - ma in definitiva ha qualcosa a che fare con la sanità. Prendere rifugio nel dharma significa che l’esperienza dell’essere umano può nobilitarsi tanto che, straordinariamente, possiamo realmente risvegliarci all’interno di noi stessi.

Ancora una volta, qualunque cosa accada nella nostra mente, è una situazione di apprendimento : le relazioni di odio e amore che sorgono intorno a noi, il senso di sventura, il senso di essere fortunati, il senso di sconfitta, il senso di arroganza e egoismo, il senso di patriottismo, il senso di destrezza, il senso di sentirsi speciali ed il senso di confusione - tutti sono inclusi nella nostra particolare situazione di base. Quello è il sentiero. E’ la sola strada ; è la sola cosa su cui possiamo lavorare. Non possiamo attingere sempre al latte della mucca del guru, ogni volta che siamo affamati o assetati. Però possiamo fare esperienza del nostro stile di vita ed del nostro processo evolutivo in armonia con il  dharma che ci è stato tramandato. Allora, nel medesimo tempo, ci troveremo in sintonia col dharma che è stato sperimentato, così come hanno fatto i seguaci del dharma del passato - e sarà una cosa molto potente e molto significativa per tutti noi.

Prendere rifugio nel sangha

Dopo aver preso rifugio nel Buddha come un esempio e nel dharma come sentiero, prendiamo rifugio ora nel sangha come comunità. Questo significa che abbiamo molti amici, compagni rifugiati, anch’essi confusi, che stanno lavorando secondo stesse direttrici. Ciascuno ha a che fare con la sua   disciplina. Come membri del sangha esprimono un senso di dignità, e il significato personale di aver preso rifugio nel Buddha, dharma e sangha comincia ad maturare ;   sono validi per funzionare da ricordo e a fornire stimoli l’un per l’altro. I vostri amici del sangha forniscono un continuo punto di riferimento che crea un continuo processo di apprendimento. Essi agiscono come riflessi di uno specchio   per rammentarvi o mettervi in guardia nelle situazioni della vita. Questo è il tipo di comunità che è chiamato sangha. Siamo tutti nella stessa barca ; condividiamo un senso di fiducia ed un senso di amicizia   organico e più ampio.

Al tempo stesso, dovete stare in piedi da soli. C’è  contemporaneamente un senso di   individualità e un senso di comunanza. State lavorando insieme e vi aiutate l’un l’altro, però non  tanto da avere bisogno dell’aiuto degli altri. Se voi contate su qualcuno in un momento di debolezza della vostra vita, la persona su cui contate può sembrarvi forte, però essa comincerà anche ad afferrarsi alla   vostra debolezza. Se egli cadrà, anche voi cadrete. Se il principio fosse solo quello di poter poggiarsi uno sull’altro, avremmo migliaia e migliaia di persone tutte che si appoggiano una sull’altra,   se poi anche uno solo  cade giù, tutte quante cadrebbero . Tutta l’intera cosa collasserebbe come un vecchio palazzo malandato e vi sarebbe un gran caos. Sarebbe una sorta di suicidio collettivo, con tutte le migliaia di persone che collassano   nel medesimo momento, la qual cosa sarebbe davvero caotica, molto polverosa.

Quindi, prendere rifugio nel sangha significa essere disponibili a lavorare con gli altri studenti - vostri fratelli e sorelle nel dharma - restando nel contempo indipendenti. Questo è un punto molto importante nel   prendere il voto di rifugio. Nessuno impone la sua propria pesante opinione al resto del sangha. Se una particolare persona cercasse di agire come catalizzatore o portavoce di tutto il sangha, costui sarebbe considerato  un superficiale. Se qualcuno fosse estremamente timido, credulone e condizionato, anche questi sarebbe considerato come frivolo. Al contrario, ciascun membro del sangha è un individuo che sta sul sentiero in maniera differente da tutti gli altri. E’ per questa ragione che avrete continui stimoli di ogni tipo : negativi o positivi, incoraggianti o scoraggianti. Queste ricche risorse diventano disponibili per voi quando prendete rifugio nel sangha, la comunità degli studenti. E’ come se del lievito fosse messo dentro un’infornata di centinaia di chicchi d’orzo. Ciascun chicco comincia a riempirsi di lievito, finché, alla fine, vi è una enorme, bellissima, gigantesca tinozza piena di birra. Tutto è lievitato completamente ; ciascun chicco è diventato individualmente vigoroso - così tutta la faccenda   diventa un mondo reale.

Il sangha  è la comunità di persone che hanno il perfetto diritto di correggere i vostri errori e di nutrirvi con la loro saggezza, come pure il perfetto diritto di mostrare la loro nevrosi ed essere aiutati da voi a superarla. La comunanza che riunisce il sangha è un tipo di amicizia pulita - senza aspettative, senza richieste ma, al tempo stesso, appagante.

I sangha sono una fonte di apprendimento tanto quanto l’amico spirituale o insegnante. Quindi è necessaria una certa fiducia nel sangha. Ma qui dobbiamo fare una chiara precisazione : stiamo parlando del sangha organizzato, cioè il sangha di praticanti che siedono realmente insieme, praticano insieme e che lavorano su loro stessi. Senza un tale sangha, non abbiamo un punto di riferimento ; veniamo riscagliati nel grande brodo samsarico e non abbiamo idea di chi o cosa siamo. Siamo perduti.

Perciò non ci considereremo più come dei lupi solitari con una simile fortuna alla loro portata che non devono rapportarsi   con nessuno, né con l’organizzazione, né con la pratica seduta, né con il sangha in generale. Al tempo stesso, però, non dobbiamo   accompagnarci ad una folla. Ciascun estremo è troppo rassicurante. L’idea è quella di una costante apertura, donandosi completamente. C’è una enorme necessità di abbandonarsi.

E’ un fatto veramente eroico unirsi a quel particolare club di persone solitarie che si fanno chiamare sangha. Normalmente, non ti unisci a qualcuno  se tutto il terreno non è sicuro. Di solito, si paga una certa somma di denaro per associarsi ad un particolare club che può darvi un certo tipo di servizio per farvi stare bene e sentire sicuri. Ma ora parliamo di un atteggiamento veramente impersonale ; e stranamente, è anche molto personale. Voi siete disposti a lavorare con la vostra situazione solitaria in un gruppo. Il sangha è composto da migliaia di persone che sono insieme sole, e insieme lavorano alla loro propria solitudine. Tutti insieme essi compongono un’orchestra ; voi siete in grado di danzare con la loro musica ; e questa è davvero una esperienza molto personale. Cominciate ad unirvi a quella particolare energia, che riconosce l’individualità e la spontaneità, come pure la non aggressività.

Il senso di fiducia e di franchezza nel sangha  intimorisce molte persone ; nondimeno ha luogo una genuina comunicazione. Anzi, il livello di complessità del sangha ne risulta naturalmente più elevato. Non possiamo considerare il sangha come una situazione di gruppo, come una scadente bettola familiare di mangiatori di riso scuro. A questo livello, il sangha è una casa incontaminata, con relazioni incontaminate, in cui le esperienze reciproche sono personali. Il vero sangha è composto di persone devote che stanno lavorando su se stesse in modo reale. Esse non hanno affatto sviluppato qualche tecnica fantastica o una magica e straordinaria filosofia o qualche   cosa di simile. Da questo punto di vista, la comunità potrebbe sembrare anche quasi noiosa, troppo ordinaria. Ciononostante è veramente reale. Può anche darsi che voi, occasionalmente, potreste andare in cerca di amici e risultati straordinari ma, in un certo modo, questi risultati tornano ad essere puramente finti, parte di un mondo di sogni, cosicché ritornereste al sangha reale, le persone vere che realmente si prendono cura di se stesse, di voi come un amico e si relazionano con l’intera situazione in modo completo, senza nessun’area protetta da un accordo di reciproca  debolezza. Dopo aver preso il voto di rifugio avvengono tre tipi di cambiamento che hanno luogo : cambiamento di attitudine, cambiamento di impronta e cambiamento di nome.

Cambiamento di attitudine

Il cambiamento di attitudine comporta lo sviluppo di un senso di simpatia verso se stessi e, quindi, verso il mondo. La propria attitudine cambia in     non-aggressività e distacco. Per aggressività si intende un generale senso di ipertensione e inimicizia, considerare il mondo come un oggetto con cui combattere. Con le passioni si cerca di dominare qualche cosa, continuamente protesi verso la nostra supremazia. In entrambi i casi ci si sottopone ad una costante battaglia con il mondo, cioè in definitiva con se stessi.

Quando cambiate la vostra attitudine, svilupperete una consapevolezza che vi permetterà di essere amici con voi stessi e quindi con gli altri esseri senzienti. Vi è un certo senso di gentilezza. Ciò è connesso con l’impegno nella    pratica della meditazione, la quale crea una apertura nei vostri stati di alto e basso ed una disponibilità a continuare a osservare e   lavorare su di essi. Svilupperete una tale   relazione con gli insegnamenti che   diventeranno parte di voi. I Tre Gioielli - il Buddha, il dharma ed il sangha - diventeranno parte della vostra esistenza e vi nutriranno, voi lavorerete con essi, vivrete per essi. Non è tanto che diventerete   una persona più religiosa, ma sarete più gentili, più delicati, molto amorevoli e malleabili. Non creerete sempre meccanismi difensivi.

In quanto buddhisti, sarete meno avidi. Se la vostra colazione non è cucinata come vi aggrada, cederete e mangerete la   colazione che non vi piace. Vi sarà come un senso di cedere sempre un po’ di più nelle vostre aspettative, solo un po’ di più, una frazione di secondo. Quindi, cercare di arrendersi, cioè cambiare la propria attitudine, è molto importante. Solitamente, noi non vogliamo cedere. “Io voglio avere la mia propria strada. Voglio avere ospitalità completa al 100%, e se non la ottengo, combatterò per i miei diritti...” e così via. Questo atteggiamento crea dei problemi ed è, in un certo senso, anti-buddhista.

Un altro aspetto del cambiamento di attitudine è che quando sarete diventati buddhisti maturi sentirete che la vostra vita è gestibile in qualsiasi situazione. Non vi sentirete alienati dai vostri problemi e non cercherete di immettervi in qualche   speciale orbita spirituale. Potrete essere molto gentili e amichevoli verso voi stessi e le altre persone e rapportarvi col mondo,  che è il punto fondamentale degli insegnamenti buddhisti. Però, non è che  dobbiate avere un sorriso superficiale e radioso, un atteggiamento melenso tipo”amore e luce”. Questa è una esperienza genuina : state entrando nella tradizione dello stato della mente non-aggressivo e sarete capaci di comportarvi in quel dato modo senza artifici.

La non-aggressività, in questo contesto, significa anche astenersi dal togliere la vita ; eviterete di uccidere   personalmente animali, nemici, esseri umani, o quant’altro. Talvolta le persone si divertono a uccidere le mosche ; in una simile minima situazione, si fanno prendere da  una sorta di mentalità barbara. E’ un modo di comportarsi molto selvaggio. Diventando seguaci del dharma si diventa molto più complessi  in un certo senso   fondamentale. Comincerete a prestare attenzione ai dettagli della vostra vita quotidiana, la quale diventa più importante e di fatto,  sacra.

Una tale attitudine non può essere costruita. Deriva soltanto da molta pratica di meditazione ; questo sembra essere la sola strada. La pratica di meditazione seduta   produce in modo naturale gentilezza e compassione.

Cambiamento di impronta

Il cambiamento di impronta è strettamente correlato al cambiamento di attitudine.

Una volta che avete cominciato a comportarvi senza aggressività, comincerete a mostrare quei segni di sanità che è già in voi. In realtà, non dovete affatto dar prova di qualcosa ai vostri parenti, ai vostri genitori, ai vostri amici. Le parole non contano ; le persone che vi circondano potranno apprezzare semplicemente e realmente la maturazione della  gentilezza e della saggezza che avviene in voi. Non è che dovete cercare di essere educati e comprensivi in modo gratuito, ma   cercherete di essere educati e comprensivi al di là del vostro proprio benessere personale. Perciò si fa spazio un certo senso di gentilezza e simpatia e questa è l’impronta dell’essere buddhisti. Cominciate a trasformarvi in una differente razza di uomo. Siete diventati una persona gentile, premurosa, che è, al tempo stesso, aperta e coraggiosa.

Ovviamente non siete diventati persone improvvisamente brillanti, felici, calme e illuminate. Ma l’idea è che è possibile diventarlo, se si fa  la pratica seduta e si usa la disciplina ; che la propria personalità   cambi dalla condizione di sofferenza e di profondo e serio livello di nevrosi in qualcosa di aperto, penetrante, gioioso e profondo. Questa non è una promessa da piazzista - questo cambiamento è avvenuto agli studenti attraverso tutta l’esperienza che abbiamo fatto in questo paese.

Cambiamento di nome

Tradizionalmente, in Tibet e negli altri paesi buddhisti, i genitori potevano dare ai loro figli un soprannome che veniva usato durante la giovinezza. Poi, quando il ragazzo prendeva il voto di rifugio, gli davano un nome buddhista. Il soprannome veniva lasciato, o forse era usato solo occasionalmente nel proprio circolo ristretto, o tra i parenti,     poi veniva adottato il nome buddhista. In questo contesto, quella situazione potrebbe essere in un certo senso un po’ complicata, perciò vorrei lasciare a ciascuno   la decisione di voler o no usare il nome di rifugio. Il punto è che allorché verrete chiamati col vostro nome buddhista, dovreste assumere quella particolare attitudine di gentilezza. Il vostro nome dovrebbe agire da ricordo, piuttosto che come qualcosa che fornisca una ulteriore identificazione al vostro ego o come un titolo.

Il significato sottinteso è legato a una certa ispirazione che dovreste sviluppare. Non necessariamente deve essere un nome adulatorio, né accondiscendente - ma una specie  di messaggio. Il vostro nome buddhista rappresenta un incoraggiamento per un certo tipo di sviluppo nella vostra personalità che è connesso con la pratica di meditazione - un certo   vostro stile individuale nell’approccio con il dharma.

La cerimonia del voto di rifugio

La parte principale della cerimonia del voto di rifugio riguarda l’offerta di tre prostrazioni   dopo la ripetizione per tre volte della formula del rifugio : “Prendo rifugio nel Buddha, prendo rifugio nel dharma, prendo rifugio nel sangha”. Vorrei spiegare lo scopo delle prostrazioni. Vi sono molti tipi di percorsi spirituali auto-guidati che potremmo   prendere, ma ciò che è importante e necessario è   abbandonare le nostre fantasie personali, gli inganni del nostro ego. Tale abbandono ci rende molto più autonomi e molto più strettamente e personalmente in contatto con la realtà. Perciò lo scopo delle prostrazioni è di abbandonare tutti i vostri personali attaccamenti di ogni tipo, cosicché possiate cominciare a sintonizzarvi con questo particolare sentiero.

Quando vi prostrate, tenete successivamente le vostra palme unite insieme all’altezza della vostra fronte, poi della gola e sul vostro cuore, che stanno a significare la sottomissione dei vostri corpo, parola e mente al Buddha, dharma e sangha, senza aspettarvi nulla in cambio. Prostrarsi sul terreno è molto significativo ; significa sottomissione definitiva. Voi state prendendo un impegno reale ; vi state rendendo disponibili ad arrendervi completamente alla sanità senza scampo della terra e a diventare un rifugiato nella terra di nessuno. I possessori del lignaggio del passato, presente e futuro sono rappresentati da  questa terra. Potete essere arrabbiati con questa terra ; potete sentirvi a vostro agio su questa terra ; potete sentirvi indifferenti a questa terra - ma tuttavia questa terra resta qui, e rimane solida. Inchinarsi su questa terra è arrendersi a questa sanità di base.

Fate le tre prostrazioni all’altare, che rappresenta la nostra eredità. Più esplicitamente, esso rappresenta il lignaggio di coloro che trasmisero la mente risvegliata, sempre esistente nel passato, presente e futuro. Vi state anche prostrando all’istruttore, che è l’erede di questo lignaggio. Il metodo usato nel passato non è   un mito, ma è tuttora reale e vivente. Voi avete un buddhista vivente davanti a voi.

Inginocchiarsi e ripetere la formula del rifugio per tre volte è l’effettiva presa-di-rifugio. Essa ha tre aspetti : riconoscere se stessi, riconoscere il proprio bisogno di protezione e riconoscere l’altro. Quando dite “Io prendo rifugio”, voi state chiedendo di essere accettati come rifugiati. Quando dite, “nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha”, state riconoscendo l’altro, cioè l’esempio, il sentiero e il senso della comunità...In questa situazione dovete essere molto decisi, esattamente consapevoli di tutto il processo che state attraversando.

Ripetete la formula del rifugio per tre volte. La prima volta è per preparare il terreno ; la seconda volta state andando più avanti ; e la terza volta siete veramente andati completamente oltre.

La disciplina della presa di rifugio è qualcosa di più che una cosa dottrinale o rituale : state   proprio per essere fisicamente contagiati dall’impegno con il buddhadharma ; il buddhismo viene trasmesso nel   vostro organismo. Qualcosa del lignaggio, qualcosa  veramente fisico, quasi al livello   chimico, penetra nel vostro cuore allorché ha luogo il vostro impegno all’apertura. La terza volta che pronunciate “Prendo rifugio nel sangha”, l’istruttore fa schioccare le sue dita. Questo è il momento della reale trasmissione. In quel momento lo sperma, per così dire, entra nel vostro organismo e voi fate parte del lignaggio. Da quel momento in avanti, voi siete dei praticanti dei Kagyu, seguaci del lignaggio. A quel particolare punto, l’energia, il potere e la benedizione della sanità fondamentale che è esistita nel lignaggio per venticinque secoli, in una ininterrotta tradizione di disciplina fin dai tempi del Buddha, penetrano nel vostro sistema e, finalmente, voi diventate un perfetto seguace del buddhadharma. A quel punto voi siete un futuro buddha vivente.

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                                                   6) IL VOTO DEL BODHISATTVA

Brani scelti da cerimonie del Voto di Bodhisattva, 1973-1978

Prendere il voto di bodhisattva ha un enorme potere proprio per il semplice motivo che non è qualcosa che facciamo solo per il piacere dell’ego. E’ al di là di noi stessi. Prendere il voto è come piantare il seme di un albero che cresce velocemente, mentre qualcosa fatta per il conforto dell’ego è come seminare un granello di sabbia. Piantare un tale seme come il voto di bodhisattva scalza l’ego e porta ad un grande ampliamento della visione. Un tale eroismo, o grandezza della  mente, riempie   tutto lo spazio, in modo totale e assoluto”.

Il voto di Bodhisattva è l’impegno a mettere gli altri davanti a se stessi. E’ una dichiarazione di disponibilità a tralasciare il proprio benessere, perfino la propria illuminazione, per la salvezza degli altri.   Un bodhisattva è una persona che vive semplicemente nello spirito di questo voto, perfezionando le qualità note come le sei paramita - generosità, disciplina, pazienza, sforzo applicativo, meditazione e saggezza trascendente - nel suo tentativo di liberare gli esseri.

Prendere il voto di bodhisattva implica l’essere aperti al mondo in cui si vive, anziché mantenersi nel proprio territorio individuale e difenderlo con le unghie e i denti. Significa essere disponibili a prendersi una responsabilità più grande, una responsabilità immensa. Di fatto, significa cogliere una grande occasione. Ma cogliere una siffatta occasione non è un falso eroismo o una eccentricità personale. E’ una occasione che, nel passato, è stata colta da milioni di bodhisattva, dagli illuminati e da grandi maestri. Così una tradizione di responsabilità ed apertura è stata tramandata di generazione in generazione ; ed ora anche noi stiamo partecipando alla sanità e dignità di questa tradizione.

Vi è un ininterrotto lignaggio di bodhisattva proveniente dai grandi bodhisattva Avalokiteshvara, Vajrapani e Manjushri. E’ ininterrotto perché nessuno in tale lignaggio, attraverso le generazioni ed i secoli, si è cullato   nell’autoconservazione. Al contrario, questi bodhisattva hanno costantemente cercato di lavorare per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. Questa eredità di spirito amichevole è continuata intatta fino ai giorni nostri, non come un mito, ma come una ispirazione vivente.

La sanità di questa tradizione è assai potente. Ciò che stiamo facendo nell’atto di prendere il voto di bodhisattva è magnifico e glorioso. E’ una tradizione così integra e ricca   che coloro che non l’hanno avvicinata dovrebbero sentirsi un po’ ignobili e miseri, al paragone. Dovrebbero essere invidiosi di tale ricchezza. Ma collegarsi a questa tradizione pone anche delle enormi richieste su di noi. Non potremo più essere intenti a creare piacevolezze per noi stessi ; lavoreremo con gli altri. Questo implica lavorare con il nostro altro come pure con l’altro altro. Il nostro altro sono le nostre proiezioni ed il nostro senso di   intimità nel cercare in tutti i modi di rendere le cose piacevoli per noi. L’altro altro è il mondo fenomenico esterno, che è pieno di bambini urlanti, piatti sporchi, praticanti spirituali confusi ed i più diversi esseri senzienti.

Quindi, prendere il voto di bodhisattva è un vero impegno basato sul riconoscimento della sofferenza e della confusione nostra e degli altri. Diventare responsabili noi stessi  è il solo modo per interrompere la reazione a catena della confusione e del dolore, lavorarando in una direzione che conduca fuori, verso lo stato risvegliato della mente. Se non ci occupiamo di questa situazione di confusione, se non facciamo qualcosa da noi  stessi, non succederà mai niente. Non possiamo contare che altri lo facciano per noi. E’ una nostra responsabilità ; e noi abbiamo l’enorme potere di poter cambiare il corso del karma del mondo. Dunque, prendendo il voto del bodhisattva, stiamo riconoscendo di non dover diventare fomentatori di ulteriore caos e miseria nel mondo, ma stiamo diventando liberatori, bodhisattva, motivati a lavorare su noi stessi e con le altre persone.

Vi è una fortissima ispirazione nella decisione di voler lavorare con gli altri. Non possiamo più continuare a costruire la nostra grandiosità. Semplicemente cerchiamo di diventare esseri umani capaci di aiutare genuinamente gli atri ; cioè, sviluppiamo precisamente quella qualità di altruismo che nel nostro mondo è generalmente carente. Diventiamo finalmente utili alla società seguendo l’esempio di Gautama Buddha, che abbandonò il suo regno per dedicare il suo tempo a lavorare con gli esseri senzienti,.

Ciascuno di noi potrebbe aver scoperto una certa piccola verità (come la verità sulla poesia o la verità sull’arte della fotografia o la verità sulle amebe) che può essere di aiuto agli altri. Ma noi tendiamo ad usare tale verità semplicemente per rafforzare le nostre proprie credenziali. Lavorare con le nostre piccole verità, poco alla volta, è un approccio da codardi. Al contrario, il lavoro di un bodhisattva è privo di credenziali. Potremmo essere percossi, presi a calci, o anche soltanto non apprezzati, ma restiamo gentili e disponibili a lavorare con gli altri. E’ una situazione totalmente priva di credenziali. E’ veramente genuina e molto potente.

 Imboccare questa via  mahayana alla benevolenza significa rinunciare alla propria ‘privacy’ e sviluppare un senso di più ampia visione. Piuttosto di focalizzarci sui nostri piccoli progetti, espandiamo immensamente la nostra visione per abbracciare il lavoro con il resto del mondo, il resto delle galassie, il resto degli universi.

Mettere in pratica una tale ampia visione esige il nostro rapportarci alle situazioni in modo assai chiaro e perfetto. E’ necessario   sviluppare un senso di compassione per respingere la nostra tendenza egocentrica , che limita la nostra vista e appanna le nostre azioni,. Tradizionalmente ciò è fatto sviluppando prima compassione verso se stessi, poi verso qualcuno molto vicino a noi e, infine, verso tutti indistintamente gli esseri senzienti, compresi i nostri nemici. Alla fine, consideriamo tutti gli esseri senzienti con un aumentato coinvolgimento emotivo, come se fossero tutti nostre madri. Non è che dobbiamo esigere un simile approccio tradizionale in questo momento, però possiamo sviluppare un senso di crescente apertura e gentilezza. Il punto è che qualcuno cominci a fare la prima mossa.

Di solito, noi siamo in una situazione di stallo col nostro mondo : “Sarà prima lui a chiedermi scusa o devo cominciare a scusarmi prima io ?”. Però, col diventare un bodhisattva, spezziamo questa barriera : non aspettiamo che sia l’altra persona a fare la prima mossa ; ci decidiamo a farla noi. Le persone hanno molti      problemi e, ovviamente, soffrono molto. Abbiamo solo   mezzo granello di sabbia di consapevolezza della sofferenza che esiste nel solo nostro paese, figuriamoci quella che c’è nel resto del mondo. Milioni di persone   stanno soffrendo a causa della loro mancanza di generosità, disciplina, pazienza, sforzo applicativo, meditazione e conoscenza trascendente. Lo scopo del fare la prima mossa prendendo il voto di bodhisattva non è di convertire necessariamente le persone alla nostra visione particolare,; l’idea è che dovremmo contribuire a fare qualcosa per il mondo semplicemente con il nostro modo di rapportarci, con la nostra gentilezza.

Prendendo il voto di bodhisattva, prendiamo atto che il mondo intorno a noi è coltivabile. Dal punto di vista di un bodhisattva, esso non è un mondo duro o irriducibile. Può essere coltivato insieme all’ispirazione del buddhadharma, seguendo l’esempio del Signore Buddha e dei grandi bodhisattva. Possiamo partecipare alla loro campagna di lavoro con gli esseri senzienti appropriatamente in modo totale e completo - senza attaccamento, senza confusione e senza aggressività. Una siffatta campagna è il naturale sviluppo della pratica di meditazione, dato che la meditazione procura un crescente senso di mancanza di ego.

Col prendere il voto di bodhisattva, noi ci apriamo a molteplici richieste. Se ci viene richiesto aiuto, non dovremmo rifiutare ; se siamo invitati ad essere ospiti di qualcuno, non dovremmo rifiutare ; se siamo chiamati a diventare genitori, non dovremmo rifiutare. In altre parole, dobbiamo avere un certo interesse a prenderci cura delle persone, un certo apprezzamento del mondo fenomenico e dei suoi occupanti. Non è un compito facile. Esso richiede di non essere mai stanchi e di non scoraggiarci di fronte alla dispotica nevrosi, alla ego-sporcizia, all’ego-vomito e all’ego-diarrea delle persone ; anzi, dovremmo essere in grado di apprezzarle e  essere disposti a ripulirle. E’ come un senso di tenerezza con la quale permettiamo che le situazioni accadano malgrado i piccoli inconvenienti ; permettiamo che le situazioni possano importunarci, possano circondarci affollandosi intorno a noi.

Prendere il voto di bodhisattva significa che noi siamo motivati a mettere gli insegnamenti del buddhismo in pratica nella nostra vita quotidiana. Facendo ciò siamo abbastanza maturi da non respingere nessuna cosa. Le nostre potenzialità non vengono rifiutate ma vengono utilizzate come parte del processo di apprendimento, parte della pratica. Un bodhisattva può insegnare il dharma sotto forma di comprensione intellettuale, comprensione artistica o anche comprensione commerciale. Quindi, nel nostro impegno nel sentiero del bodhisattva, stiamo riassumendo le nostre capacità in una maniera illuminata, non più   minacciati o confusi da esse. Precedentemente, il nostro talento poteva essere uno stratagemma, parte della struttura della nostra confusione, ma ora lo stiamo portando nella nostra vita. Ora esso può sbocciare sotto la spinta dell’insegnamento, dell’insegnante e della nostra pratica. Ciò non significa che perfezioniamo ogni nostra situazione all’istante. Ci sarà ancora posto per la confusione, certo ! Però, al tempo stesso, vi sarà anche uno squarcio di apertura, e illimitata potenzialità.

A questo punto è necessario spiccare un salto, in termini di fiducia in noi stessi. Possiamo realmente correggere qualsiasi tipo di aggressività o mancanza di compassione - qualsiasi cosa anti-bodhisattvica - non appena accade ; possiamo riconoscere la nostra nevrosi e lavorarci su , anziché cercare di coprirla o buttarla via. In questo modo, il proprio schema di pensiero nevrotico, o fantasia, si dissolverà piano piano. Ogniqualvolta si lavorerà con la nostra nevrosi in un tale modo diretto, essa diventerà azione compassionevole.

L’istinto umano abituale è quello di soddisfare prima di tutto noi stessi e di provare amicizia per gli altri solo se possono soddisfarci. Lo possiamo chiamare  “istinto-scimmia”. Ma, nel caso del voto del bodhisattva, parliamo di un tipo di istinto sovrumano, che è più profondo e più ricco. Ispirati da questo istinto, siamo disponibili a sentirci vuoti, depressi e confusi, Però, da questa disponibilità a sentirci in questo stato, nasce qualcosa :   possiamo nel medesimo momento aiutare qualcun altro,. Perciò ben vengano la nostra confusione, il caos e l’egocentrismo : essi sono punti di partenza. Perfino le irritazioni che avvengono nella pratica del sentiero del bodhisattva diventano un modo per riaffermare il nostro impegno.

Prendendo il voto di bodhisattva, ci offriamo realmente come proprietà degli esseri senzienti ; a seconda della situazione, accettiamo di  essere un’autostrada, una barca, un pavimento o una casa. Permettiamo agli altri esseri senzienti di usarci in qualsiasi modo essi scelgano. Così come la terra sostiene l’atmosfera e lo spazio esterno fa posto alle stelle, alle galassie ed al resto, così noi siamo disponibili a trasportare i fardelli del mondo. Siamo ispirati dall’esempio fisico dell’universo. Offriamo noi stessi come vento, fuoco, aria, terra ed acqua - tutti gli elementi.

E’ necessario, però, ed anche molto importante evitare la compassione idiota. Se si adopera il fuoco distrattamente, ci si può bruciare ; se si cavalca maldestramente un cavallo, si può cadere. Vi è un senso di realtà terrena. Lavorare con il mondo richiede un certo tipo di intelligenza pratica. Non possiamo solamente essere bodhisattva “amore-e-luce “. Se non operiamo intelligentemente con gli esseri senzienti, è quasi certo che il nostro aiuto provochi dipendenza anziché beneficio. Le persone si abituano al nostro aiuto nello stesso modo in cui si abituano alle pillole per dormire. Cercando di avere sempre più aiuto, esse diventano sempre più deboli. Perciò, per il beneficio stesso degli esseri senzienti, è necessario che ci apriamo con una attitudine di impavidità. Per la naturale tendenza delle persone a indugiare, talvolta è meglio essere  diretti e taglienti. L’ispirazione del bodhisattva è di aiutare gli altri ad aiutarsi da se stessi. E’ lo stesso con gli elementi : l’acqua, la terra, l’aria ed il fuoco ci respingono sempre quando cerchiamo di usarli in modo non giusto, ma al tempo stesso, si offrono generosamente quando li adoperiamo e li usiamo in modo appropriato.

Un   ostacolo alla disciplina del bodhisattva è la mancanza di umorismo ; rischiamo di prendere l’intera cosa troppo seriamente. Non è molto opportuno avvicinarsi in modo forzato all’amorevolezza   di un bodhisattva. I principianti, spesso, sono eccessivamente preoccupati della loro propria pratica ed del loro sviluppo e si accostano al mahayana con uno stile molto hinayana. Ma la seriosa militanza è alquanto diversa dalla leggerezza di cuore e dalla gioia del sentiero del bodhisattva. All’inizio potreste anche far finta di essere aperti e gioiosi. Ma poi dovreste almeno tentare di essere aperti, allegri e, nel contempo, ardimentosi. Vi si chiede continuamente  di spiccare una specie di salto. Potreste saltare come una pulce, una cavalletta, una rana oppure, finalmente, come un uccello ;   un certo modo di saltare deve sempre esserci nel sentiero del bodhisattva.

Vi è un enorme senso di celebrazione e di gioia quando finalmente saremo capaci di unirci alla famiglia dei buddha. Alla fine abbiamo deciso di proclamare la nostra eredità spirituale, che è l’illuminazione. Da una prospettiva basata sul dubbio , qualunque qualità illuminata esistente in noi può sembrare modesta. Ma dal punto di vista delle condizioni reali, già esiste in noi un essere pienamente illuminato  e sviluppato. L’illuminazione non è più un mito : essa esiste, è coltivabile e noi siamo totalmente e pienamente collegati ad essa. Quindi non avremo dubbi se siamo o no sul sentiero. E’ certo che abbiamo preso un impegno e che andiamo a sviluppare questo ambizioso progetto di diventare un buddha.

Prendere il voto di bodhisattva è affermare il desiderio di fermarci e metterci a nostro agio in questo mondo   . Non ci importa   che qualcuno ci attacchi o ci distrugga. Siamo costantemente esposti per il beneficio degli esseri senzienti. Infatti, possiamo perfino abbandonare la nostra ambizione di raggiungere l’illuminazione, pur di alleviare la sofferenza e le difficoltà delle persone. Ciò nonostante, senza aiuto, otteniamo in ogni caso l’illuminazione. I bodhisattva ed i grandi Tathagata nel passato hanno percorso questa strada, ed anche noi possiamo fare così. Spetta semplicemente a noi se accettare questa ricchezza oppure rifiutarla, ponendoci nel mondo con una disposizione misera e indigente.

Trapiantare  bodhicitta

Il voto di bodhisattva è un balzo per cominciare a lasciar andare il nostro atteggiamento egocentrico nello sviluppo spirituale. In senso assoluto, il voto di bodhisattva è il completo trapianto di bodhicitta, la mente risvegliata, nei nostri cuori - un vincolo completo con la gentilezza e la compassione del nostro innato stato   risvegliato. Però noi non diventiamo completi bodhisattva di colpo ; semplicemente ci proponiamo come candidati allo stato di bodhisattva. E’ per questo che parliamo di bodhicitta relativa e assoluta. La bodhicitta relativa è come avere l’intenzione di fare un viaggio e acquistare un biglietto ; la bodhicitta assoluta è come essere realmente un viaggiatore. Allo stesso modo, prima compriamo il biglietto e poi dopo voliamo.

La cerimonia del prendere il voto di bodhisattva è anche un riconoscimento del nostro potenziale per l’illuminazione. Ci ispira a riconoscere di avere già in noi la bodhicitta. Perciò, nel prendere il voto di bodhisattva noi stiamo espandendo la nostra visione all’infinito, ben oltre questo nostro piccolo mondo squadrato. In un certo senso, è come un trapianto di cuore. Stiamo rimpiazzando il nostro vecchio cuore, che è orientato verso l’ego e l’autoingrandimento, con un nuovo cuore caratterizzato da compassione e da una visione più vasta.

La qualità che rende possibile questo trapianto è la nostra stessa gentilezza.

Così, in un certo senso, questo cuore nuovo è stato da sempre presente. Viene solo riscoperto all’interno del vecchio cuore,  è come togliere la buccia ad una cipolla. Questa scoperta della bodhicitta è estremamente potente. Dato che all’interno di noi stessi abbiamo queste generosità e compassione fondamentali, non abbiamo da prenderle a prestito da nessun altro. Sulla base di questa  inerente qualità di stato risvegliato, noi possiamo agire in modo diretto, immediatamente.

Assai spesso, il nostro senso di vulnerabilità, il sentimento di aver bisogno di proteggerci, agisce come un ostacolo verso qualsiasi sentimento di calore umano. Ma sul sentiero del bodhisattva abbiamo delle possibilità in più, espandendoci senza riserve per il bene degli altri. Ed è la scoperta del nostro proprio stato risvegliato, o bodhicitta, che crea la fiducia che ci permette di avere queste possibilità in più. Un tale stato risvegliato, una volta riconosciuto, si sviluppa costantemente e non può essere distrutto. Quando crescono in  noi questo calore e questa simpatia, siamo come cibo per le mosche ; le opportunità per esprimere il nostro calore ci arrivano come sciami di mosche. E’ come se attirassimo magneticamente tali situazioni. Questa è la nostra possibilità di non rifiutarle, ma di lavorarci insieme.

Quando cominciamo ad abbandonare il  territorio personale, sorge automaticamente nel nostro cuore come un senso di vigilanza, una breccia nella concettualizzazione. Cominciamo a sviluppare amichevolezza per il mondo. A questo punto, non ce la prendiamo più con la società o con il tempo o con le zanzare, per nessun motivo. Dobbiamo prenderci una responsabilità personale, non incolpando più il mondo bensì noi stessi, a torto o a ragione. E’ nostro dovere fare ciò. Non ha senso creare un’infinita corte cosmica di casi di chi e nel giusto e di che sbaglia. Nessuno vince e tali casi intensificheranno solo battaglie cosmiche, una terza guerra mondiale. Perciò qualcuno deve pur cominciare da qualche parte : la persona che prende il voto di bodhisattva deve fare la prima mossa. Altrimenti non vi sarà inizio di generosità né fine del caos e dell’aggressione. Di fatto, sul sentiero del bodhisattva, proprio questa non-aggressività diventa la propria totale visione   del mondo.

Abbandonare la privacy

Una volta che ci siamo mossi sul sentiero del bodhisattva non potremo più avere un tornaconto personale. Non possiamo più riservare nemmeno una piccola area tutta per noi. Di solito trattenere qualcosa per noi è molto importante. Ma, in questo caso, non vi è piacere o privilegio personale. Naturalmente ci piacerebbe ancora conservare un piccolo angolo per noi ; ci piacerebbe chiudere la porta dietro di noi ed ascoltare un po’ di musica o leggere un buon libro o il giornale o, forse, studiare il buddhismo. Ma questi giorni sono passati. Dal momento che abbiamo preso il voto di bodhisattva non c’è più privacy. Di fatto, a questo punto, è inutile qualsiasi punto di riferimento personale. Ci siamo completamente offerti, dati in merce agli esseri senzienti. Essi possono passare l’aratro su di noi, concimarci e metterci dei semi dentro - usandoci proprio come terra. Ed è davvero irritante e  molto rischioso non avere più nessun tipo di privacy.

E’ interessante notare come potremo essere persone pubbliche sempre, ventiquattr’ore al giorno. Perfino quando dormiamo, staremo ancora facendo qualcosa : siamo dediti totalmente. Con un tale impegno, non chiederemo più un riposo. Se ricercassimo una vacanza, o una pausa da questo mondo pubblico, sarebbe un po’ ambiguo : staremmo ancora cercando di conservare il piccolo angolo da controllare personalmente, il che è uno dei nostri più grandi problemi. Nel prendere il voto di bodhisattva, stiamo completamente abbandonando la nostra ‘privacy’ in senso stretto, e stiamo anche abbandonando la privacy all’interno di noi stessi. Di solito, le nostre menti sono alquanto schizofreniche : a una parte piacerebbe mantenersi nascosta dalle altre. Ma noi stiamo abbandonando anche questo. Quindi, qualunque cosa   un bodhisattva faccia, non vi è più privacy, nessuna segretezza. In altre parole, non conduciamo più una doppia vita ; stiamo conducendo una sola vita dedita alla pratica, come pure all’aiuto degli altri esseri. Ciò non significa diventare guru in miniatura o maestri che controllano altri esseri. Invece di essere come grandi correnti oceaniche, siamo solo piccole gocce. Se diventiamo troppo ambiziosi,  diventeremmo troppo egoisti. Dunque dobbiamo osservarci. Sedere in meditazione ci procura immenso aiuto in questo caso. Ci mostra che possiamo semplicemente essere del tutto aperti e svegli, realizzando che il mondo in cui viviamo non è il nostro mondo personale ma un mondo condiviso con altri.

Rifugiati e bodhisattva

Entrare nel sentiero del bodhisattva è assai esigente - molto più esigente che essere rifugiato. Quando prendiamo il voto di rifugio, abbiamo preso un impegno verso il sentiero. Siamo stati ispirati dal buddhadharma e sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata. Poiché abbiamo sviluppato una certa comprensione della nostra natura di base, siamo diventati persone forti e disciplinate, senza più provocare fastidi al resto della società. Però, al tempo stesso, il sentiero di salvezza individuale, o di impegno personale, non è stato abbastanza soddisfacente. E’ stato tralasciato qualche cosa : non abbiamo ancora lavorato con altre persone, altri esseri   senzienti. Avendo preso il voto di rifugio, ci sono arrivati forti messaggi che il nostro impegno verso gli esseri senzienti non era stato ancora adempiuto. L’intero nostro approccio è sembrato diventare come un’unghia incarnita : abbiamo finito col mangiare noi stessi anziché espanderci e lavorare con gli altri.

Avendo preparato il terreno col voto di rifugio, avendo abbandonato ogni cosa, abbiamo cominciato ad essere ispirati a rapportarci col mondo. Abbiamo messo in ordine la nostra situazione. Se non avessimo già sviluppato un po’ di compassione ed apertura verso noi stessi, non avremmo potuto fare alcun progresso. Ma, avendolo fatto, non siamo però ancora completamente liberi. Per svilupparla ulteriormente, è necessario   rinforzarci :bisogna in qualche modo fare un ulteriore balzo,   il voto di bodhisattva. Questo però non significa essere già diventati dei bodhisattva. Infatti, noi siamo a mala pena pronti per prendere il voto. Ma poiché abbiamo delle responsabilità verso il mondo, non possiamo  solo stare seduti scontenti  delle nostre negatività e dei nostri sconvolgimenti. Nel momento stesso che queste cose   stanno accadendo a noi, dobbiamo uscire fuori e lavorare con gli altri. Possiamo avere un piede ferito, ma possiamo ancora sostenere qualcun altro. Questo è lo stile del sentiero del bodhisattva : ogni nostro inconveniente non è considerato così importante. Al livello del bodhisattva, non solo siamo viaggiatori sul sentiero ma anche portavoce dell’attitudine illuminata, il che significa che dobbiamo abbandonare completamente l’auto-indulgenza.

L’attività del bodhisattva

Il modo di rapportarsi agli altri del bodhisattva è espresso nella frase “invitare tutti gli esseri senzienti come propri ospiti”. Nel trattare qualcuno come ospite, possiamo vedere quanto importante sia la nostra relazione con lui. Ai nostri ospiti offriamo cibi speciali cucinati con una ospitalità speciale. Vi è pure una certa sensazione che la nostra relazione col nostro ospite sia impermanente ; prima o poi ci lascerà. Perciò vi è un costante apprezzamento ed una sensazione che questo sia un momento molto fertile. Perciò la vita di un bodhisattva è quella di vedere ognuno come proprio ospite, costantemente. E il concetto di invitare tutti gli esseri senzienti ad essere nostri ospiti è il punto di partenza della compassione.

La compassione è il cuore della pratica di meditazione-in-azione, o attività del bodhisattva. Arriva come un lampo improvviso :immediata consapevolezza e calore. Esaminandola attentamente, è un triplice processo: un senso di calore in se stessi, un senso di saper vedere oltre la confusione ed un senso di apertura. Ma questo intero processo avviene molto bruscamente. Non c’è tempo per analizzarlo. Non c’è tempo per farsi un giro o trattenerlo. Non c’è neanche tempo per trascriverlo, o annotare che “Sto facendo questo”.

L’attività di un bodhisattva è sia energica che gentile. Abbiamo abbastanza forza per far uso delle nostre energia, ma al tempo stesso c’è la gentilezza di cambiare le nostre decisioni conformemente alla situazione. Questa gentile ed energica attività è basata sulla conoscenza : noi siamo consapevoli della situazione che ci circonda, ma siamo anche consapevoli del nostro modo di vedere la situazione, di ciò che vogliamo fare. Ciascun aspetto è visto molto chiaramente.

Avendo preso il voto di bodhisattva, possiamo provare qualche esitazione ad agire secondo la nostra ispirazione. Viste superficialmente, le situazioni in cui ci troviamo sembrano illogiche e confuse. Però, una volta che osserviamo la nostra vita di tutti i giorni nel modo definito   della pratica , le nostre azioni possono diventare molto più definite : quando vi è una spinta verso l’ego possiamo troncare quella tendenza ; quando vi è una indecisione sull’andar oltre la nostra prospettiva egoistica, possiamo lasciare andare.

La nostra esitazione può dipendere dalla paura di non saper prendere la giusta decisione, dal nostro non saper che fare. Ma noi possiamo spingerci nella situazione al punto che la direzione giusta venga fuori in modo naturale. Possiamo essere un po’ impauriti per le conseguenze della nostra azione, un po’ incerti nel nostro approccio. Ma al tempo stesso vi è fiducia, l’intuizione di star trattando con le cose nel modo appropriato. Questa mentalità combinata di fiducia e sperimentazione è chiamata azione abile.

In un certo senso, prendere il voto di bodhisattva è una enorme finzione. Non siamo sicuri di saper camminare sul sentiero del bodhisattva, però decidiamo di farlo lo stesso. Questo balzo è necessario per sviluppare la fiducia di base. Le situazioni che incontriamo nella nostra vita quotidiana sono sia solide che plasmabili. Non dobbiamo indietreggiare di fronte ad esse, e neppure dobbiamo ingigantirle cercando di avanzare come un carro armato. Lavoriamo con ogni situazione in modo semplice e diretto, così come si presenta.

Questo tipo di attività del bodhisattva è descritta tradizionalmente in termini di “le sei paramita”, virtù trascendentali : generosità, disciplina, pazienza, sforzo applicativo, meditazione e conoscenza trascendente.

La paramita della generosità è connessa in modo particolare con il concetto di condividere la conoscenza, o insegnamento. Infatti, chiunque prenda il voto di bodhisattva è considerato come un potenziale insegnante. Se per paranoia, confusione o per un senso di volersi impadronire della nostra conoscenza, noi rifiutiamo di insegnare, abbandoniamo gli esseri senzienti. Anche se sentiamo di non essere all’altezza di diventare maestri, dovremmo comunque essere preparati per diventare apprendisti insegnanti. Dovremmo essere disposti a condividere con gli altri ciò che noi conosciamo. Nel contempo, dovremmo controllare noi stessi per non condividere qualcosa che noi non conosciamo.

Nella cerimonia del bodhisattva, esprimiamo la nostra generosità facendo un’offerta ai Tre Gioielli : il Buddha, il dharma ed il sangha. Fondamentalmente, stiamo offrendo il nostro ego : stiamo offrendo il nostro senso di sanità al Buddha, la nostra acuta percezione della natura del sentiero al dharma e il nostro sentimento di cameratismo al sangha.

Un modo tradizionale per sviluppare la generosità è di offrire il nostro cibo a qualcun altro. Anche se siamo affamati, prendiamo il piatto del cibo in mano e mentalmente lo doniamo prima di mangiare. Nel preciso momento in cui stiamo dando via qualcosa, stiamo realmente cominciando a praticare le paramita. Nel dare via qualcosa di personale e significativo nella nostra vita, stiamo aiutando i nostri attaccamenti a venire alla luce e a superare il modello abituale del materialismo spirituale. E di fatto, a quel punto, stiamo anche abbandonando il raggiungimento dell’illuminazione.

La paramita della disciplina, o moralità, è basata su un senso di fiducia in se stessi. Per contrasto, la moralità tradizionale è basata spesso su una mancanza di fiducia e su una paura dei propri impulsi aggressivi. Quando abbiamo così poca fiducia nella nostra intelligenza e nel nostro stato risvegliato, le cosiddette persone immorali rappresentano una tremenda minaccia per noi. Per esempio, quando evitiamo un assassino come  una persona immorale, potrebbe darsi che sia a causa della nostra paura  di poter noi stessi uccidere qualcuno. Oppure potremmo essere intimoriti di tenere in mano una pistola, che rappresenta la morte e l’uccisione, perché pensiamo che potremmo spararci lì per lì. In altre parole, non abbiamo fiducia in noi stessi o nella nostra generosità. Questa ossessione nei riguardi della nostra inadeguatezza è uno degli ostacoli più grandi nel sentiero del bodhisattva. Se sentiamo di essere bodhisattva inadeguati, non potremo affatto essere buoni bodhisattva. Infatti, questa ossessione che deriva da un approccio moralistico e oppresso dal senso di colpa è un modo di essere intrappolati nella prospettiva hinayana. E’ un tentativo di conferma del proprio ego. Il sentimento di fiducia in se stessi permette al bodhisattva di lavorare abilmente con qualsiasi cosa accada, al punto di commettere anche azioni immorali motivate da compassione per gli esseri senzienti. Certo, tutto ciò è materia abbastanza delicata, ma fondamentalmente parliamo lavorare con le persone in maniera intelligente.

La disciplina del bodhisattva sorge da un senso di fiducia in se stessi, ma riguarda anche   il far nascere la  fiducia negli altri.   Vi è un senso di eroismo, di sventolare la bandiera della sanità e proclamare una strada aperta. Se siamo troppo timidi o impacciati, non sappiamo chi siamo o con chi stiamo comunicando. C’è ancora un sentimento di territorialità, di rapportare le cose a noi. Finché continuiamo a basare la nostra fiducia su una certa sensazione di essere speciali, abbiamo timore di far nascere la fiducia di coloro che ci circondano. Non vogliamo distruggere la nostra insignificante base di potere. Al contrario, il sentiero bodhisattva è espansivo : una grande visione di apertura in cui vi è un immenso spazio per lavorare con le persone senza superiorità o impazienza. Poiché la nostra visione non dipende dal mantenimento dell’ego, non ci sentiamo minacciati. Non abbiamo niente da perdere, perciò possiamo realmente dare qualcosa nelle nostre relazioni con le persone.

La paramita della pazienza è la disponibilità a lavorare con le nostre emozioni attraverso la pratica della meditazione. Questa a sua volta ci permette di cominciare a lavorare serenamente con gli altri. Normalmente non vogliamo lavorare con le persone aggressive perché sentiamo che esse non ci facilitano il compito. Esse sono una minaccia per la nostra mentalità non da bodhisattva, di ricevere gratificazione e sicurezza. E quando incontriamo qualcuno che ci maltratta, mostriamo un forte risentimento e ci rifiutiamo di perdonarlo. La nostra tendenza è sempre di vedere tali persone aggressive come problema, piuttosto che vedere la nostra attitudine a rifiutarle. Ma la paramita della pazienza esige di fermare il nostro approccio egocentrico sempre proteso ad incolpare gli altri. Più semplicemente, la pratica di pazienza significa non ricambiare minacce, rabbia, attacchi o insulti. Ciò però non significa puramente restare passivi. Anzi, usiamo l’energia dell’altra persona, come nello judo. Dato che ci siamo messi in contatto con la nostra propria aggressività attraverso la pratica della meditazione, non siamo assolutamente minacciati dall’aggressività dell’altra persona ; e neppure ci sentiamo in obbligo di rispondere impulsivamente o aggressivamente. La nostra risposta è auto difensiva, nel senso che   non restituiamo la minaccia a tale persona, ma   contemporaneamente, preveniamo una ulteriore aggressione facendo in modo che l’energia dell’altra persona si esaurisca da sola.

La paramita dello  sforzo  applicativo riguarda l’essere disposti a lavorare sodo per la salvezza degli altri. Superando le complicazioni emotive e le frivolezze concettuali della nostra mente nasce una enorme energia ;poiché esse normalmente producono scuse per evitare l’attività bodhisattvica.  Non ci attardiamo più nella nostra pigrizia e nell’egocentrismo dimorando nel mondo familiare e confortevole delle nostre complicazioni emotive. Il bodhisattva è ispirato a superare tale pigrizia sviluppando la semplicità. Questa semplicità sorge da un senso di spaziosità in cui noi non abbiamo bisogno di manipolare le nostre emozioni in nessun modo e neppure averne ragione   sbarazzandoci di esse ; anzi, possiamo trattarle direttamente   non appena sorgono. In questo modo le emozioni non saranno più ostacoli ma una fonte di ulteriore energia.

Oltre alle nostre emozioni, anche la nostra mente ha una qualità concettualizzante, che sembra essere una combinazione di panico e ragionamento logico. Siamo costantemente insicuri e, quindi, continuamente in cerca di rassicurare noi stessi. La nostra mente ha la capacità di produrre centinaia di risposte, centinaia di motivi per garantirci che ciò che stiamo facendo è giusto e quando insegnamo, imponiamo questo chiacchierio concettuale agli altri In tale situazione parliamo molto per giustificarci,  cercando di persuadere i nostri studenti. Il bodhisattva è capace di vedere questa struttura assai complicata che produce un chiacchierio crescente e rassicurante. Avendo superato l’indolente indulgenza emozionale con la semplicità, il bodhisattva è anche capace di vedere attraverso la sovrastruttura concettuale che sorge   dalle emozioni. Per il bodhisattva, né le emozioni né la mente concettuale è vista come un ostacolo. Di fatto, nessuna cosa è considerata un ostacolo e niente è visto come malvagio o cattivo. Ogni cosa è un semplice elemento di uno scenario nel viaggio del bodhisattva. Perciò il/la bodhisattva vede la propria vita come una continua avventura - la scoperta perpetua di nuova comprensione. E poiché la sua nozione del sentiero non è in alcun modo ristretta, vi è un enorme   sviluppo di energia ed una disponibilità a lavorare in modo assai duro. Quindi la paramita dello sforzo applicativo   non è una proiezione ; è la naturale e spontanea espressione della vastità della visione del bodhisattva.

Nel praticare la paramita della meditazione, ci poniamo con la meditazione come  davanti a un processo naturale : non è né un ostacolo né una virtù particolare. Se diventiamo impazienti nella nostra pratica meditativa a causa del chiacchierio del pensiero, può accadere di evitare la meditazione. Ci aspettavamo una situazione confortevole e un premio, e non vogliamo   lavorare con le irritazioni che costantemente sorgono :non possiamo essere importunati. D’altra parte, ci potremmo   attaccare alla presunzione di essere bravi   meditanti. Ogni piacevole esperienza la considereremo come una sorta di grazia divina, a riprova che ciò che stiamo facendo ha un senso. Sentiamo di poter meditare più e meglio di qualsiasi altra persona. In questo caso vediamo la nostra pratica di meditazione come una gara di campionato. Ma sia nel cercare di evitare la pratica seduta che rimanendoci attaccati come  a una sorta di auto-convalida, stiamo di fatto evitando la paramita della meditazione, che è una disponibilità a lavorare incessantemente con la nostra nevrosi e la nostra ansia.

La paramita della  conoscenza trascendente è un senso di interesse negli insegnamenti non dogmatico e non basato su un ulteriore sviluppo dell’ego. Secondo la conoscenza trascendente, ogni atto basato o sullo sviluppo dell’ego o sul prendere una via comoda, è eretico. Una tale eresia non è una questione di teismo o ateismo, ma di predicare il linguaggio dell’ego, anche se fatto in nome del buddhadharma. Anche se pratichiamo il mahayana, possiamo ancora essere in cerca di un sé come nostro essere basilare : “C’è ancora qualche speranza, posso sviluppare forti muscoli. Posso sviluppare grandi polmoni. Posso farti vedere che controllo la mia mente anche se credo nella tradizione mahayana !” Ma questo approccio a due facce è estremamente stupido  e irragionevole.

E’ possibile per noi diventare così attaccati alla prospettiva mahayana, che rinunciamo e disprezziamo l’hinayana. Però, senza la disciplina dell’hinayana non c’è base per lo sviluppo del mahayana. D’altra parte, potremmo diventare troppo dogmatici e attaccati solamente all’hinayana. E’ una espressione della nostra codardia : non essere disposti a fare un passo avanti nello spazioso e aperto sentiero del mahayana. In contrasto a questi dogmatismi estremi, la paramita della saggezza trascendente possiede una vivace qualità di interesse nella logica intellettuale dei tre yana : hinayana, mahayana e vajrayana. Questo interesse e curiosità non è puramente intellettuale ma è basato sulla pratica della meditazione.

In fondo, l’idea della attività del bodhisattva è di avere buone maniere. Malgrado la nostra irritazione dovremmo essere capaci di allargare la nostra disponibilità verso gli altri. Cosa assai diversa dalla disponibilità ipocrita. Al contrario, è una espressione di illuminazione ; è uno stato operativo della mente in cui estendiamo la disponibilità al di là delle nostre irritazioni.

Nel lavorare con gli altri è forse più importante non sviluppare la compassione idiota, cioè cercare di essere sempre gentili. Dato che questo tipo di gentilezza superficiale è priva di coraggio e intelligenza, essa fa più male che bene. E’ come se un dottore, per una apparente gentilezza, rifiutasse di curare un suo paziente perché il trattamento potrebbe essere doloroso, o come se una madre non potesse sopportare lo sconforto di dover disciplinare suo figlio. Al contrario della compassione idiota, la vera compassione non è basata su una ingenua volontà di evitare il dolore. La vera compassione è inflessibile nella sua fedeltà alla sanità fondamentale. Le persone che travisano il sentiero, le persone cioè che lavorano contro lo sviluppo della sanità di base,  dovrebbero essere stroncate subito, se fosse necessario. Ciò è estremamente importante. Non vi è spazio per la compassione idiota. Dovremmo cercare di stroncare quanto prima l’autoinganno, al fine di insegnarlo agli altri come pure a noi stessi. Perciò il blocco finale di un bodhisattva avviene quando, avendo già raggiunto ogni altra cosa, egli è incapace di andar oltre la compassione idiota.

 Prendere il voto di bodhisattva ha un tremendo potere, proprio per il semplice motivo che non è qualcosa che facciamo per il piacere dell’ego. E’ al di là di noi stessi.

Prendere il voto è come piantare il seme di un albero che cresce velocemente, mentre qualcosa fatta per il conforto dell’ego è come seminare un granello di sabbia. Piantare un tale seme, come il voto di bodhisattva, scalza l’ego e porta ad una enorme espansione della prospettiva. Un tale eroismo, o grandezza della mente, riempie completamente tutto lo spazio in modo totale e assoluto. All’interno di una simile ampia prospettiva, niente   è claustrofobico e niente è intimidatorio. Vi è solo la vasta idea di aiutare incessantemente tutti gli esseri senzienti, illimitati quanto lo spazio, lungo il sentiero che porta all’illuminazione.

La cerimonia del voto di bodhisattva

Prendere il voto di bodhisattva è una pubblica dichiarazione della vostra intenzione di impegnarvi nel sentiero del bodhisattva. Il semplice riconoscimento di questa intenzione non è sufficiente. Dovete essere abbastanza coraggiosi da dichiararlo di fronte agli altri. Così facendo, state avendo una grande opportunità, e vi impegnate a procedere senza esitare.

All’inizio della cerimonia, dovete chiedere all’insegnante di darvi il voto di bodhisattva e di accogliervi nella famiglia dei Buddha, dicendo : “Possa l’insegnante essere benigno con me. Come i tatahagata del passato, gli arhant, i samyaksambuddha, i nobili elevati e i bodhisattva viventi al livello dei più alti bhumi svilupparono una attitudine diretta verso l’insuperabile, perfetta grande illuminazione, così anch’io faccio richiesta all’insegnante di aiutarmi a sviluppare una tale attitudine”. L’insegnante risponderà istruendovi, come suoi discepoli, a rinunciare al samsara e a sviluppare la compassione per gli esseri senzienti, a coltivare il desidero dell’illuminazione, la devozione per i tre Gioielli, e il rispetto per l’insegnante. Egli vi ricorderà di approfondire il sentimento della compassione e di piantarlo saldamente nel vostro cuore, poiché “gli esseri senzienti sono illimitati come lo spazio celeste e finché vi saranno esseri senzienti essi saranno colpiti da emozioni conflittuali, che li costringeranno a fare il male, per cui a loro volta soffriranno.”

Questa cerimonia è magica : vi assistono e vi osservano tutti i bodhisattva del passato, presente e futuro. A questo punto, voi vi prostrerete tre volte a tutte queste persone, come pure alla vostra stessa coscienza...Facendo queste tre prostrazioni, vi unite alla terra e riconoscete di nuovo il vostro stato fondamentale di senza casa.

Poi farete il voto reale, dicendo : “D’ora in avanti, finché non sarò diventato la vera quintessenza dell’illuminazione, svilupperò una attitudine diretta verso l’insuperabile, perfetta grande illuminazione cosicché gli esseri che non l’abbiano ancora incontrata possano farlo, quelli che non si siano ancora liberati possano esserlo, quelli che non abbiano ancora trovato sollievo possano trovarlo e quelli che non siano ancora entrati nel nirvana possano farlo”.

A questo punto, la forma nella cerimonia consiste nell’identificarsi con gli elementi che nutrono tutti gli esseri senzienti. State diventando la madre terra ; e quindi dovrete accogliere ogni sorta di perforazioni, di stimoli e di mucchi di immondizia - ma,   siete contenti di tutto ciò. A questo punto, leggerete un passaggio dal Bodhicharyavatara di Shantideva, che esprime questo processo in modo meraviglioso : “Come la terra e gli altri elementi, unitamente allo spazio, provvedono eternamente al sostentamento in diversi modi per gli innumerevoli esseri senzienti, così possa io diventare sostegno e nutrimento in qualsiasi modo per gli esseri senzienti che riempiono lo spazio, finché tutti abbiano ottenuto il nirvana”.

Ora che vi siete consegnati agli altri, cercate di non farvi prendere dal risentimento. A volte succede che dopo aver ospitato qualcuno, voi possiate avere un senso di rammarico e pentirvi di averlo invitato. Oppure vi potreste ricordare che da ragazzi talvolta ritenevate l’ospitalità dei vostri genitori assai claustrofobica e noiosa. “Vorrei che papà non invitasse più quegli estranei. Voglio la mia privacy”. Ma dal punto di vista di un bodhisattva, l’esempio dei vostri genitori è fantastico. Voi vi state impegnando in questo   tipo di ospitalità e siete disponibili ad accogliere le persone nel vostro spazio. Così facendo, state seguendo l’esempio dei bodhisattva precedenti che si impegnarono nella generosità, l’intelligenza e l’illuminazione fondamentali. Perciò, con tutto questo nella mente, ripetete :”Come gli antichi sugata dettero origine alla bodhicitta e progressivamente si stabilizzarono nella disciplina del bodhisattva, così anch’io, per il beneficio degli esseri, possa dare origine alla bodhicitta e addestrarmi progressivamente in questa disciplina”.

Indi, farete un’offerta come espressione di generosità e di ulteriore impegno.

Fosse anche il dono di un cadavere,   presentate qualunque cosa che avete come un gesto reale di impegno nella   bodhicitta. Donando qualcosa a cui voi tenete molto, anzi troppo - qualsiasi cosa possa essere - voi state offrendo il vostro senso di attaccamento, la vostra attitudine di base ad aggrapparvi.

La presentazione di un dono è equivalente al momento in cui nel voto di rifugio   l’istruttore schiocca le dita. Ma, in questo caso, il motivo per cui non ricevete le energie astratte del lignaggio oppure il buddhismo di base che entra nel vostro organismo è perché il voto di bodhisattva si trova ad un livello più emozionale. Prendere rifugio è connesso con il livello ordinario, moralistico : il vostro impegno è di   essere fedeli. Il voto di bodhisattva è molto più sottile : non vi è realmente un momento specifico in cui la bodhicitta penetra in voi. Ma, in un modo o nell’altro, quando offrite il vostro dono e siete ispirati a lasciar andare il vostro attaccamento e l’egocentrismo, in quel momento diventate realmente un figlio del Buddha, un bodhisattva. A quel punto, che vi piaccia o no, vi state assumendo una grande responsabilità  che per fortuna è felicemente inevitabile. Non potete non farlo. Nel caso dell’hinayana, potete abbandonare il vostro voto, ma non potrete mai abbandonare il vostro voto di bodhisattva, anche dopo infinite vite. Non potete abbandonarlo perché la disciplina del mahayana non è basata sull’esistenza fisica bensì sulla coscienza, in un senso molto ordinario.

Avendo offerto il vostro dono, potete apprezzare ciò che avete fatto. Realizzando il fatto che non avete commesso un errore, direte : “In questo momento la mia nascita è diventata fruttuosa, ho realizzato la mia vita umana. Oggi, io sono nato nella famiglia dei Buddha. Adesso sono un figlio del Buddha”.

Il successivo passaggio che dovrete recitare, reca con sé ogni tipo di esempi di come potrete essere utili alla società ed al mondo - come poter vivere con noi stessi e con gli altri esseri senzienti : “D’ora in poi compirò con franchezza le azioni appropriate alla mia famiglia. Agirò in modo da non degradare l’impeccabilità e la disciplina della mia famiglia. Proprio come un cieco che ha trovato un gioiello in un mucchio di polvere, così, in qualche modo, si è generata in me la bodhicitta. Questo è la suprema amrita, che distrugge la morte, l’inesauribile tesoro che rimuove la miseria dal mondo ; è la suprema medicina che cura le malattie del mondo, l’albero che garantisce il riposo per gli esseri stanchi di girovagare per i sentieri dell’esistenza ; è il ponte universale su cui possono transitare tutti i viaggiatori dai reami inferiori, la sorgente della luna nella mente che disperde il tormento dei klesha ; è l’immenso sole che mette fine all’oscurità dell’ignoranza ; il puro burro prodotto nella zangola col latte del sacro dharma. Per i viaggiatori che vagano sui sentieri dell’esistenza cercando la felicità negli oggetti di piacere, è la suprema beatitudine a portata di mano, la grande festa che soddisfa gli esseri senzienti”.

Ora siete pronti a ricevere il vostro nome da bodhisattva . Il nome che riceverete simbolizza la generosità nel lavorare con gli altri. Non è un ulteriore strumento per ingrandire il vostro territorio o la vostra identità, ma una vera espressione di non-ego. Voi non sarete più vostri, ma apparterrete agli altri. I nomi da bodhisattva sono più potenti di quelli del rifugio perché   è più necessario   ricordarvi di lavorare con gli altri che non di ricordarci di lavorare con noi stessi. Il vostro nome da bodhisattva è un’espressione del vostro stile sottile : qualcuno può insultarvi, usandolo, qualcun’altro può incoraggiarvi, usandolo. Esso esprime una zona più sensibile che non il nome di rifugio, il che è  estremamente utile. In altre parole, il vostro nome da bodhisattva agisce come una “parola d’ordine” ; è una accuratissima linea-guida    nel vostro particolare stile di fondamentale apertura quando lavorate con tutti gli esseri senzienti. Sia le vostre potenzialità che i vostri attributi di base sono espressi dal vostro nome da bodhisattva, che dovrebbe venire richiamato alla memoria ogni volta che siete in  una situazione critica. Anziché cercare   un salvatore, dovreste rammentarvi del vostro nome come un memorandum della solidità del vostro impegno nel sentiero del bodhisattva. E’ un pegno del legame tra voi e la vostra natura-buddha, il tathagatagarbha : voi avete scavato un pozzo e trovato dell’acqua fresca che potete usare continuamente. Il vostro nome da bodhisattva rappresenta il vostro impegno alla sanità di base, la vostra disponibilità a dedicare la vostra vita verso tutti gli esseri senzienti. Dunque è assai potente e importante.

Senza ombra di dubbio, l’aver preso il voto di bodhisattva è un’occasione da celebrare. Prendere il voto è una pietra di confine e non una cosa qualunque. E’ qualcosa di straordinario, qualcosa di storico. Tenendo in mente questo fatto, voi invitate tutti a dividere la vostra gioia di essere diventati operai per tutti gli esseri senzienti, dicendo :”Oggi, alla presenza di tutti i protettori, do il benvenuto agli esseri senzienti ed ai sugata. Che i deva e gli asura gioiscano !”.

Con ciò termina la cerimonia del voto di bodhisattva. E’ una cerimonia semplice che vi chiama alla eccezionale sfida   di impegnarvi con la gente , senza considerazione per il vostro   benessere. E la chiave per imbattervi in una tale sfida è la mancanza di paura. Quindi, prendendo il voto, entrerete nell’impavido mondo del guerriero.

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                            7) LA VISIONE SACRA : LA PRATICA DI VAJRAYOGHINI

Scritto in occasione di una mostra di Arte Buddhista Himalayana, nel 1983.

“Sperimentare la mente vajra di Vajrayoghini è così profondo e vasto che se sorgono dei pensieri, essi non divengono eventi salienti : sono come piccoli pesci in uno smisurato oceano di spazio”.

Il vajrayana, l’insegnamento tantrico del Buddha contiene incredibile magia e potere. La sua magia risiede nell’abilità di trasformare la confusione e la nevrosi in una mente risvegliata e di svelare che il mondo di tutti i giorni è un magico e sacro reame. Il suo potere è di penetrare infallibilmente con l’intuizione all’interno della reale natura dei fenomeni e di guardare dentro l’ego e i suoi inganni.

Secondo la tradizione tantrica, il vajrayana è considerato il completo insegnamento del Buddha : è il sentiero della perfetta disciplina, del totale arrendersi e della completa liberazione. E’ importante realizzare, comunque, che il vajrayana è fermamente radicato negli insegnamenti fondamentali del sutrayana, gli insegnamenti sull’assenza di ego e sulla compassione.

Spesso, l’eccezionale forza ed efficacia del vajrayana sono erroneamente interpretati come promessa di una illuminazione improvvisa. Ma non si può diventare illuminati tutto ad un tratto ; di fatto, è assai ingannevole e persino pericoloso pensare in questo modo. Senza eccezioni, gli insegnamenti buddhisti puntano il dito sulla erronea credenza in un sé, o ego, credenza che è invece causa della sofferenza e   ostacolo alla liberazione. Tutti i grandi maestri del passato hanno praticato diligentemente le preliminari discipline meditative   prima di diventare studenti del vajrayana. Senza questo addestramento di base nella pratica della meditazione, non c’è nessuna base a partire dalla quale  lavorare con il vajrayana.

Il principio di Vajrayoghini, come è stato sperimentato, compreso e trasmesso dai guru del lignaggio Karma Kagyu del Tibet, a cui io appartengo, fa parte della tradizione vajrayana. Mi sento assai onorato di avere l’opportunità di spiegare il principio di Vajrayoghini e l’altare connesso con la pratica di Vajrayoghini. Nel contempo, ho una responsabilità verso il lignaggio, come pure verso il lettore nell’introdurre Vajrayoghini in modo appropriato.

Assenza di ego e compassione

Qui è necessaria una breve discussione sui fondamenti del buddhismo, come pure sul sentiero mahayana, affinché possa essere chiaramente compreso che Vajrayoghini non deve essere percepita come una divinità o una forza esterna a noi. Ciò a volte è abbastanza difficile da capire,  per gli occidentali, a causa della credenza giudaico - cristiano in Dio. Il buddhismo è una religione non teistica ; non c’è alcun credo in un salvatore esterno. Non. teismo è sinonimo di realizzazione di assenza di ego, che è la cosa che per prima si scopre per mezzo delle pratiche di meditazione shamata e vipashyana.

Nella meditazione shamata, noi lavoriamo col respiro e con la postura, come espressioni del nostro stato di essere. Assumendo una dignitosa e diritta postura e identificandoci con l’espirazione, cominciamo a familiarizzarci con noi stessi nel senso più fondamentale. Quando sorgono i pensieri, essi non vengono trattati come nemici, ma vengono inclusi nella pratica ed etichettati semplicemente come “pensieri”. Shamata in sanscrito, o shiné in tibetano, significa “dimorare in uno stato di pace”. Per mezzo della pratica di shamata si comincia a vedere la semplicità dello stato originale della propria  mente ed a vedere come la confusione, la frenesia e l’aggressività si generano a causa dell’ignoranza dello stato di pace del proprio essere. Questa è la prima esperienza di assenza-di-ego, in cui si realizza la trasparenza delle idee fisse circa se stessi e l’illusorietà di ciò che si pensa un “Io” o “Me”.

Con l’ulteriore pratica, cominciamo a perdere il punto di riferimento di auto-osservarci, e sperimentiamo l’ambiente in cui pratichiamo e il mondo senza riportare ogni cosa all’angusto punto di vista dell’ “io”. Cominciamo ad essere interessati a “quello”, anziché essere puramente interessati a “questo”. Lo sviluppo della percezione, penetrante e precisa, senza alcun riferimento a se stessi è chiamato vipashyana in sanscrito e lhakthong in tibetano, che significa “chiara visione”. La tecnica di vipashyana non differisce da shamatha ; anzi, vipashyana cresce proprio per l’applicazione continuata della pratica shamatha. La chiara visione, o intuizione profonda, di vipashyana vede che nei fenomeni non vi è più solida e inerente esistenza di quanta non ve ne sia in se stessi, cosicché cominciamo a realizzare l’assenza di ego anche di “altro”. Cominciamo pure a vedere che la sofferenza nel mondo è causata dall’afferrarsi ai concetti erronei circa il sé ed i fenomeni. Sentiamo che le idee filosofiche, psicologiche e religiose di eternità e di liberazione esterna sono miti creati da una mente egoica. Perciò, nella pratica vipashyana, l’assenza di ego è il riconoscimento di una fondamentale solitudine, una non teistica realizzazione che noi non possiamo cercare aiuto all’esterno di noi stessi.

Generalmente, la base della pratica buddhista è chiamata sentiero della “liberazione individuale”, che in sanscrito è detto pratimoksha e in tibetano sosor tharpa. Praticando le discipline di shamatha e vipashyana, sia durante la meditazione che durante la nostra vita, possiamo realmente liberarci dalla confusione e dalla nevrosi personali e renderci liberi dal causare danno a noi stessi ed agli altri. Siamo sempre più ispirati ad impegnarci pienamente in questo sentiero, prendendo rifugio nel Buddha (come esempio di un essere umano che raggiunge l’illuminazione rinunciando all’aiuto esterno e lavorando sulla sua propria mente), nel dharma (gli insegnamenti sulla mancanza - di - ego che possono venire uditi e sperimentati) e nel sangha (la comunità di praticanti che seguono il sentiero del Buddha, praticandolo così come egli fece). Potremo realizzare che in questo roteante mondo di esistenza confusa abbiamo avuto la rara fortuna di incontrare il vero cammino di liberazione.

Il mahayana, o “grande veicolo”, va oltre l’ispirazione alla liberazione individuale. In generale, l’approccio mahayana è fondamentalmente quello di lavorare per il bene degli altri, con tutto ciò che il mondo ci presenta ; quindi, è un viaggio senza fine. Allorché ci imbarchiamo per questo viaggio senza destinazione, i nostri preconcetti cominciano a diminuire. Questa esperienza, di non avere più   punti di riferimento, che inizialmente potrebbe essere solo un flash momentaneo nella nostra mente, è il primo barlume di shunyata. Shunya significa “vuoto” e ta lo sostantivizza in “vacuità”. Secondo la  tradizione, shunyata è vuota di “Io” e vuota di “altro” ; è vuoto assoluto. Questa esperienza di vacuità è il realizzare che non vi è “Io” come agente, non vi è azione e nessun “altro” che la subisce.

Shunyata non è la nichilista idea di inesistenza. E’ la completa assenza di idee di attaccamento e fissazione  la completa assenza di ego di soggetto e oggetto. E’ quindi l’assenza di separazione tra sé e gli altri.

L’esperienza di shunyata produce un enorme spazio e una immensa visione. Vi è spazio perché possiamo vedere che non vi sono ostacoli nell’ampliarci, nell’espanderci. Vi è visione poiché non c’è separazione tra se   e la propria esperienza. Possiamo percepire le cose chiaramente, così come esse sono, senza filtri di alcun tipo. Questa percezione imparziale è chiamata prajna, o “consapevolezza discriminante”. Prajna è l’acutezza della percezione di shunyata, nonché la conoscenza che deriva da questa percezione.

Di fatto, prajna significa letteralmente “conoscenza suprema” o “miglior conoscenza”. Il più alto sapere che si possa avere è la conoscenza dell’intuizione priva di ego, che inizia come esperienza di vipashyana e si trasforma nel mahayana, in prajna. La consapevolezza discriminante del prajna vede che “Io” e “altro” non sono separati e, quindi, che la propria illuminazione e l’illuminazione degli altri non possono essere separate.

In questo modo, la percezione di shunyata ci rende contemporaneamente più vigili e più compassionevoli. Proviamo un immenso interesse nei riguardi degli altri, ed anche immensa attenzione per gli altri, la cui sofferenza non è diversa dalla nostra. Questo è l’inizio della pratica mahayana di “scambiare se stessi con gli altri”.

La nozione dello scambio significa offrire l’assistenza che viene richiesta ; estendiamo la nostra gentilezza, la sanità e l’amore alle altre persone. In cambio, siamo disposti a prenderci il dolore degli altri, la loro confusione e ipocrisia. Siamo disposti a prenderci la colpa per tutti i problemi che possono emergere - non perché vogliamo essere dei martiri, ma perché sentiamo che vi è una riserva infinita di bontà e di sanità da condividere. Al livello mahayana, l’assenza di ego viene estesa nel sentiero dell’azione altruistica, che va completamente oltre l’aggrapparsi all’ego. E’ questa resa dell’ego, di cui discuteremo più avanti, che rende possibile l’entrata nel sentiero vajrayana.

La natura Vajra ed il principio dello Yidam

Se lasciamo completamente andare l’attaccamento e la fissazione, saremo capaci di rimanere nella intrinseca bontà della nostra mente e di considerare qualunque pensiero discorsivo che dovesse sorgere - passioni, aggressività, delusione, o ogni altra emozione conflittuale - come mere increspature sul placido lago della mente. Di conseguenza, cominciamo a realizzare l’esistenza di una più ampia visione al di là dell’attaccamento e della fissazione. Questa visione è molto ferma e definita. Non è definita nello stile dell’ego, me è come il sole, che è sempre splendente. Quando voliamo su un aeroplano al di sopra delle nuvole, realizziamo che il sole splende costantemente anche se sotto vi sono le nuvole e la pioggia. Allo stesso modo, quando noi cessiamo di aggrapparci alla nostra identità, al nostro ego, cominciamo a vedere che la non esistenza dell’ego è un potente, reale e indistruttibile stato di essere. Realizziamo che, similmente a quanto accade per il sole, c’è un continuo stato che non aumenta né svanisce.

Questo stato di essere è chiamato natura vajra. Vajra, in sanscrito, o dorjé in tibetano, significa ‘indistruttibile’, o anche ‘adamantino. La natura vajra è l’inattacabile, inamovibile qualità dell’assenza di ego, che è la base del sentiero vajrayana. Il termine vajrayana stesso significa ‘veicolo dell’indistruttibilità’ - cioè il ‘veicolo vajra’. Il vajrayana è chiamato anche tantrayana, o ‘veicolo tantrico’. Tantra, in tibetano gyu, significa ‘continuità’ o ‘filo’. La natura vajra è la continuità dell’assenza di ego, o dello stato di risveglio che, come il sole, è brillante e onnipervasivo.

Le deità del vajrayana sono incarnazioni della natura vajra. In particolare, le deità chiamate yidam sono importanti per la pratica del vajrayana. La traduzione più efficace di yidam che ho trovato è ‘deità personale’. In realtà, yidam è la forma accorciata della frase yi-kyi-tamtsik, che significa ‘sacro legame della propria mente’. Yi significa ‘mente’, kyi significa   ‘di’, e tamtsik significa ‘mondo sacro’ o ‘legame sacro’. Tamtsik,   in sanscrito   samaya, diventerà importante nella successiva discussione dei sacri impegni del vajrayana. Qui, la parola mente si riferisce alla natura vajra, la sanità di base e lo stato risvegliato del proprio essere, liberato dall’attaccamento egoico. Lo yidam è la manifestazione di questa mente illuminata ; è lo yidam che connette, o tiene collegato, il praticante alla sanità illuminata all’interno di se stesso. Perciò, secondo la comprensione tantrica, lo yidam è una deità non teistica che incarna la nostra innata natura vajra, piuttosto che una qualche forma di aiuto esterno.

Vi sono varie migliaia di divinità tantriche, ma nel lignaggio Karma Kagyu, Vajrayoghini è uno yidam particolarmente importante. Quando uno studente ha completato le pratiche vajrayana preliminari, chiamate ngondro, egli riceve l’abhisheka o conferimento di potere, per iniziare la pratica dello yidam, in cui si identifica con una deità personale come incarnazione del suo innato stato di risveglio, o natura vajra. Nella tradizione Karma Kagyu, Vajrayoghini è il primo yidam che viene dato ad uno studente. Per comprendere il principio Vajrayoghini in   profondità, è necessaria   una trattazione degli stadi della pratica vajrayana attraverso cui lo studente viene introdotto allo yidam.

Devozione

Nella tradizione buddhista, il rapporto con l’insegnante non è come l’adorazione di un eroe ; l’insegnante viene apprezzato come un esempio di dharma vivente. Quando entra nel sentiero buddhista, il praticante rispetta l’insegnante come un saggio o una persona anziana. Nel mahayana, l’insegnante è chiamato kalyanamitra, cioè ‘amico spirituale’ - egli è un amico nel senso che è disposto a condividere completamente la propria vita ed a camminare accanto a noi sul sentiero. Egli è veramente un esempio della pratica mahayana di scambiare se stessi con gli altri.

Al livello vajrayana, già partiamo con la fede negli insegnamenti e nel maestro, dato che abbiamo ormai sperimentato la fiducia e l’efficacia degli insegnamenti per noi stessi. Allora, con la scoperta della natura vajra, la fede comincia a trasformarsi in devozione, che in tibetano si dice mogu. Mo significa ‘ardore’ e gu significa ‘rispetto’. Sviluppiamo un  immenso rispetto per l’insegnante e un anelito per ciò che egli può insegnarci, poiché vediamo che egli è l’incarnazione della natura vajra, l’incarnazione della mente risvegliata. A questo livello, l’insegnante diventa il guru. Egli è il mestro vajra, colui che  padroneggia la verità vajra, la verità indistruttibile e che può trasmettere questo potere vajra agli altri. Comunque, il vajrayana può essere estremamente distruttivo se non siamo preparati adeguatamente per ricevere questi insegnamenti. Quindi, per poter praticare il vajrayana, dobbiamo avere una relazione con un maestro vajra, il quale comprende completamente il praticante e la pratica e conosce il modo di mettere insieme entrambi.

La   relazione col maestro vajra comporta la resa totale di se stessi all’insegnante come espressione definitiva della assenza di ego. Ciò permette al praticante di sviluppare pienamente la triplice natura vajra : il corpo   vajra, la parola vajra e la mente vajra. La maturazione della devozione in completo abbandono è chiamata loté lingkyur in tibetano. Loté significa ‘fiducia’, ling significa ‘completamente’ e kyur significa ‘abbandono’ o ‘lasciar andare’. Perciò loté lingkyur significa ‘avere completa fiducia nel lasciarsi andare’, abbandonare completamente il proprio ego. Senza una tale resa, non c’è modo di abbandonare le ultime vestigia dell’ego ; e neppure l’insegnante potrebbe introdurre lo yidam, l’essenza dell’assenza perdita di ego. Di fatto senza una tale devozione verso l’insegnante, si rischierebbe di usare gli insegnamenti vajrayana per ricostruire la fortezza dell’ego.

Ngondro

Allo scopo di sviluppare una appropriata devozione e resa, uno studente del vajrayana comincia con la pratica del ngondro, l’insieme delle pratiche di base che sono i preliminari per ricevere l’abhisheka. Ngon significa ‘prima’ e dro significa ‘andare’. Nel lignaggio Karma Kagyu, vi sono cinque pratiche che costituiscono il ngondro : le prostrazioni, la recita del voto di rifugio, la pratica del mantra di Vajrasattva, l’offerta del mandala e la pratica del guru-yoga. Queste pratiche sono chiamate i fondamenti straordinari.

Ngondro è il mezzo per connettersi con la saggezza del guru e col lignaggio del guru. Nelle prostrazioni, come punto di partenza, si fa atto di sottomissione e si esprime la propria gratitudine per l’esempio del maestro vajra e per i progenitori del lignaggio. Si visualizzano i guru del lignaggio, incluso il proprio stesso guru, nella forma del buddha primordiale. Nel corso di molte sessioni di pratica, il praticante si prostra 108.000 volte al lignaggio, recitando 108.000 volte il voto di rifugio. In questo modo, si riafferma il proprio impegno al fondamentale sentiero della disciplina e della rinuncia e, nello stesso tempo, si esprime la propria resa agli insegnamenti vajrayana ed al maestro vajra. Con le prostrazioni si intravede il primo bagliore del lignaggio.

La pratica del mantra porta ad una esperienza più ravvicinata alla saggezza del lignaggio. Essa permette di lavorare direttamente con gli ostacoli e con le oscurazioni psicologiche e di realizzare che le contaminazioni sono temporanee e possono essere superate. La divinità Vajrasattva - letteralmente ‘essere vajra’ - viene visualizzata come un giovane principe dalla carnagione chiara che è sia l’essenza della saggezza vajra che il corpo di saggezza del proprio guru. Per contrasto, il corpo stesso del praticante viene visualizzato come pieno di impurità di ogni tipo : fisiche, mentali ed emozionali. Recitando 108.000 volte il mantra di Vajrasattva, si visualizza il proprio corpo che viene pian piano purificato da queste impurità grazie all’azione di Vajrasattva. Alla fine del periodo di pratica,  ci si visualizza   in possesso dell’identica pura natura di Vajrasattva . Lo scopo della pratica del mantra, quindi, è di riconoscere la propria purezza innata.

Nella pratica del mandala,  il praticante dona se stesso ed il proprio mondo come offerta al lignaggio. Lo studente offre 108.000 mandala composti da mucchietti di riso profumato di zafferano mescolati con gioielli ed altre preziose sostanze. Mentre costruisce il mandala, si visualizza il mondo e tutto ciò che contiene - tutte le sue ricchezze e bellezze e le miriadi di percezioni dei propri sensi - come offerta ai guru e ai buddha che erano stati visualizzati precedentemente. Il senso di purezza del praticante dovrebbe pure essere incluso in questa offerta e quindi lasciato andare ; ciò è chiamato ‘lasciar andare il donatore’. Quando si dona tutto così completamente, non vi è nessuno che rimanga ad osservare ciò che è stato dato e nessuno che apprezzi quanto si sia stati generosi. Più ci si abbandona in questo modo, più ricchezza  si sviluppa. Non si presenta mai il problema di esaurire le cose da offrire. La propria vita umana è già in se stessa una situazione immensamente ricca da offrire al lignaggio.

Dopo aver completato le offerte del mandala, si praticherà il guru-yoga, che è come incontrare realmente faccia a faccia il guru per la prima volta. Il guru-yoga è la prima opportunità di ricevere la adhishthana, o benedizione della saggezza del guru.

Nel guru-yoga, il praticante comincia a realizzare la natura non duale della devozione : non vi è separazione tra se stessi ed il lignaggio e, di fatto, l’aspetto vajra del guru è un riflesso della nostra propria natura innata. In questo modo, la pratica del ngondro, che culmina nel guru-yoga, aiuta a superare le nozioni teistiche circa l’insegnante o circa il vajrayana stesso. Si realizza che il lignaggio non è un’entità al di fuori di se stessi : non si stanno venerando l’insegnante o i suoi antenati come se fossero   dei. Piuttosto, ci si sta collegando con la sanità vajra, che è così potente proprio a causa della sua non esistenza  della sua assoluta assenza di ego.

Visione sacra

Quando cominciamo a unire le nostre menti con l’energia del lignaggio, non lo facciamo per proteggere noi stessi dal mondo. Di fatto, la devozione ci avvicina maggiormente alla nostra esperienza, al nostro mondo. Come risultato della pratica del ngondro, sentiamo un maggior senso di calore e gentilezza in noi stessi.   Per questo possiamo rilassarci e dare una occhiata fresca al mondo fenomenico. Scopriremo che la vita può essere un processo agevole e  naturale. Poiché non vi è necessità di lottare, cominciamo a sperimentare ovunque bontà : sperimentiamo un formidabile senso di libertà e di sacralità in tutte le cose.

Quando sperimentiamo questa sacralità auto-esistente, realizziamo che il solo modo di dimorare continuativamente in questo stato di libertà è di entrare completamente nel mondo del guru, dato che tale libertà è la benedizione del guru. E’ stato il guru a presentarci la pratica che ha portato all’esperienza della libertà ; ed è il guru che   personifica   questa libertà. Nel contempo cominciamo a renderci conto che la sacralità auto-esistente del mondo è   una espressione del guru. Questa esperienza è conosciuta come visione sacra, o tag nang in tibetano. Tag nang significa letteralmente ‘percezione pura’. L’idea di purezza qui si riferisce ad una assenza di imprigionamento. Visione sacra significa percepire il mondo e se stessi come intrinsecamente buoni e incondizionatamente liberi.

Le cinque famiglie Buddha

Avendo sviluppato la visione sacra, è possibile fare un ulteriore passo nel mondo vajra. Quando sperimentiamo la sacralità auto-esistente della realtà, l’iconografia vajrayana comincia ad avere un senso ; acquista   senso   dipingere il mondo come un reame sacro, come un mandala della mente illuminata. Dal punto di vista della visione sacra, il mondo fenomenico è visto in termini di cinque stili di energia : buddha, vajra, padma, ratna e karma. Noi stessi, le persone che si incontriamo, le stagioni, gli elementi - tutti gli aspetti del mondo fenomenico - sono composti da uno o più di questi stili, o famiglie buddha. Nell’iconografia tantrica, le famiglie buddha compongono un mandala con buddha al centro e vajra, ratna, padma e karma ai quattro punti cardinali.

Una o più famiglie buddha possono essere usate per descrivere l’intrinseca prospettiva o la posizione di una persona nel mondo. Ciascun principio della famiglia buddha possiede una espressione nevrotica o illuminata. La particolare nevrosi associata con una famiglia buddha è trasformata nella sua forma di saggezza, o forma illuminata, dal processo di addomesticamento della meditazione shamatha-vipashyana, dall’addestramento alla compassione nel mahayana e, in particolare, dallo sviluppo della prospettiva sacra nel vajrayana. Nella loro espressione illuminata, le famiglie buddha sono manifestazioni della libertà vajra.

La qualità fondamentale dell’energia buddha è la spaziosità. La manifestazione confusa di questa qualità spaziosa è l’ignoranza che, in questo caso, si manifesta con lo scansare l’esperienza intensa o spiacevole. Quando l’energia buddha è trasformata, essa diventa la saggezza dello spazio onnicomprensivo. Buddha è associato al colore bianco e viene simbolizzato da una ruota, che rappresenta questa natura aperta e onnicomprensiva.

Vajra, che si trova ad est del mandala (in un mandala tradizionale, l’est si trova in basso, il sud è a sinistra, l’ovest è nella parte alta ed il nord si trova a destra), è rappresentato dal colore blu. Il simbolo del vajra è uno scettro vajra, o dorje, le cui cinque punte trafiggono la nevrosi della mente egoica. Lo scettro vajra è come un fulmine, elettrico e poderoso. L’energia vajra è diretta e precisa, è’ l’abilità di vedere le situazioni da ogni possibile prospettiva e di percepire accuratamente i dettagli dell’esperienza e le più ampie intelaiature in cui le cose si situano. Le espressioni nevrotiche dell’energia vajra sono l’aggressività e la fissazione intellettuale. Quando l’accuratezza intellettuale di vajra è trasformata nella sua forma illuminata, essa diventa saggezza simile allo specchio. Vajra è associato con l’elemento acqua. La sua espressione nevrotica, la rabbia, è come acqua turbolenta e burrascosa ; il suo aspetto di saggezza è come un chiaro riflesso di un immobile stagno.

La famiglia ratna, a sud, è rappresentata dal colore giallo. Il simbolo della famiglia ratna è un gioiello, che esprime ricchezza. L’energia ratna è come l’autunno, quando maturano i frutti e i cereali   e i contadini celebrano il raccolto. Ratna è associato con l’elemento terra, che esprime la sua solidità e fertilità. Lo stile nevrotico di ratna è caratterizzato dall’invidia o dalla brama, dal volere ogni cosa e dal cercare di ingurgitare ogni cosa. La sua espressione illuminata è la saggezza dell’equanimità, dato che ratna accoglie ogni esperienza e ne rivela l’innata ricchezza. Quando è libera da brama, ratna diventa espressione di potente espansività.

All’ovest vi è la famiglia padma, che è associata con il colore rosso. Il simbolo di padma è il loto, un bellissimo e delicato fiore che sboccia nel fango. Padma è la fondamentale energia della passione, o seduzione. Il suo aspetto nevrotico è l’attaccamento o l’afferrarsi, che è l’espressione confusa della passione. Quando la passione è libera dalla fissazione sull’oggetto dei suoi desideri, essa diventa saggezza della consapevolezza discriminante, l’apprezzamento di ogni aspetto e dettaglio dell’esperienza. Padma è associato con l’elemento fuoco. Nello stato confuso, la passione, proprio come il fuoco, non fa distinzioni tra le cose su cui si attacca, che brucia e   distrugge. Nella sua espressione illuminata, la fiamma della passione diventa il calore della compassione.

Karma, nella parte nord del mandala, è associato al colore verde. Il suo simbolo, una spada, rappresenta lo stroncamento dell’esitazione e della confusione, ed il raggiungimento della propria meta in maniera completa ed accurata. Nella sua manifestazione illuminata, karma è la saggezza dell’azione che tutto realizza. L’espressione nevrotica dell’energia karma è il risentimento  e l’eccessiva velocità. La nevrosi karma vorrebbe creare un mondo piatto e uniforme e si irrita per ogni tipo di disfunzione o inefficienza. Quando karma è liberata dalla nevrosi, diventa accurata e energica senza risentimenti ne meschinità. Karma è associato con l’elemento vento, che rappresenta questa vigorosa e energetica qualità dell’azione.

Percependo le energie delle famiglie buddha nella varie persone e situazioni, possiamo vedere che la confusione è trasformabile e può essere tramutata in una espressione della visione sacra. Lo studente deve comprendere questa possibilità prima che l’insegnante lo possa introdurre alle divinità tantriche, o yidam. Ogni yidam ‘appartiene’ ad una famiglia buddha, ed è il ‘sovrano’ dell’aspetto saggio di quella famiglia. I princìpi delle famiglie buddha forniscono un legame tra l’ordinaria esperienza samsarica e la brillantezza e nobiltà del mondo degli yidam. Comprendendo i princìpi delle famiglie buddha, possiamo apprezzare le deità tantriche come personificazioni delle energie del mondo sacro e identificarci con tale sacralità.  Tale comprensione ci permetterà di  ricevere l’abhisheka, o conferimento di potere ; saremo pronti per essere introdotti a Vajrayoghini.

 

Abhisheka

Ricevendo l’abhisheka di Vajrayoghini, lo studente entra nel mandala di Vajrayoghini. Per mezzo di questo processo, Vajrayoghini diventa il proprio yidam, la personificazione del proprio essere fondamentale o dello stato fondamentale della mente. La parola sanscrita abhisheka significa, letteralmente, ‘consacrazione’. In tibetano la parola wangkur, significa ‘conferimento di potere’. Il principio di questo conferimento di potere è l’incontro tra la mente dello studente e quella del maestra vajra, che è il prodotto della devozione. Dato che lo studente è capace di aprirsi totalmente all’insegnante, questi è capace di comunicare direttamente il potere e il senso di risveglio del vajrayana per mezzo della cerimonia formale dell’abhisheka. Riesaminando la storia della trasmissione di Vajrayoghini nel lignaggio Karma Kagyu, diventa evidente l’immediatezza e chiarezza di questa comunicazione.

 

SIGNIFICATO SIMBOLICO DELL’ASPETTO DI  VAJRAYOGHINI

 

ASPETTO ICONOGRAFICO                                 SPIEGAZIONE DEL SIMBOLO                                               

a Coltello uncinato                     a Taglia le tendenze nevrotiche. E’ pure l’arma del non pensiero

b Coppa a calotta cranica riempita di amrita        b Prajna e intossicazione delle credenze negli estremi

c Asta (khatvanga)                    c Mezzi abili. L’asta è ottagonale e rappresenta il nobile ottuplice sentiero insegnato da Buddha.

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1 Sciarpa                                                         1 Le due pieghe della sciarpa rappresentano                                                                                         l’inseparabilità di mahayana e vajrayana.

2 Tre crani                                                       2 Principio trikaya : la testa sopra è un cranio che                                                                                 rappresenta il dharmakaya ; la testa centrale è quella di                                                             un corpo putrefatto che rappresenta il sambogakaya ; la                                                                        testa in basso è una testa appena mozzata che rappresenta il nirmanakaya.

d Testa di scrofa                                                          d Ignoranza vajra del non pensiero

(di solito appare sull’orecchio destro)     

e Capelli ondeggianti verso l’alto                        e Ira della passione (qui l’enfasi è posta  maggiormente sull’aspetto

                                                               irato ; quando invece i capelli cadono sciolti sulle spalle, simboleggiano la

                                                                compassione).                                

f Corona di cinque teschi                                               f Saggezza delle cinque famiglia buddha.

g  Tre occhi                                                                 g Conoscenza del passato, presente e futuro e                                                                                                           anche visione onnisciente di Vajrayogini.  

h  Espressione irata con i canini digrignanti         h Rabbia contro i mara

che mordono il labbro inferiore.

i  Collana di teste appena mozzate                     i i 51 samskara sono completamente liberati nel non pensiero.

j  Un solo viso                                                  jTutti i dharma hanno un unico gusto nel dharmakaya.

k  Ornamenti ossei :copricapo, orecchini,            k Perfezione delle 5 paramita della generosità, collana, cintura,ornamenti da caviglia, braccialetti                                                   disciplina pazienza, sforzo e meditazione

l  Due braccia   .                                               l Unione di upaya e prajna                              .

m  Gamba sinistra piegata e posizione su           m Il non dimorare negli estremi del samsara e del

una gamba sola                                                nirvana

n  Seggio con cadavere                         n Morte dell’ego.

o Sole e luna :   seggio a disco                          o Sole :saggezza ; luna :compassione

(appare solo il sole)      .

p  Seggio a fiore di loto                                     p Nascita spontanea dell’illuminazione

q  Corpo di Vajrayogini :rosso e ardente             q Forte ira e rabbia contro le orde dei mara.

di raggi di luce (Non appare ) :

r  Collana di fiori rossi                                       r Totale non attaccamento

           

La Sadhana di Vajrayoghini nel Lignaggio Karma Kagyu   .

L’Abhisheka di Vajrayoghini è una antica cerimonia che fa parte della Sadhana di Vajrayoghini, il manuale con la liturgia della pratica di Vajrayoghini. Vi sono numerose sadhana di Vajrayoghini, comprese quelle di Saraha, Nagarjuna, Luyipa, Jalandhara e Savari. Nella tradizione Karma Kagyu, si pratica la sadhana di Vajrayoghini in accordo con il siddha indiano Tilopa, progenitore del lignaggio Kagyu.

Secondo le biografie spirituali, dopo aver studiato gli insegnamenti buddhisti fondamentali per molti anni, Tilopa (998-1069) viaggiò in Uddiyana, la patri delle Dakini, gli yidam femminili, per cercare la trasmissione vajrayana. Egli ottenne l’ingresso nel palazzo delle dakini e ricevette l’istruzione diretta da Vajrayoghini stessa, che si manifestò a lui come la grande regina delle dakini. Potrebbe sembrare alquanto sconcertante   parlare dell’incontro con Vajrayoghini in forma antropomorfica, quando si è discusso di lei in questo testo come l’essenza della assenza di ego. Comunque, questo resoconto dell’incontro con Tilopa è la storia tradizionale del suo incontro con l’energia diretta ed il potere di Vajrayoghini.

Naropa (1016-1100), che ricevette la trasmissione orale della pratica di Vajrayoghini da Tilopa, fu un grande erudito dell’Università di Nalanda. Dopo una visita di una dakini che gli apparve nelle sembianze di una orribile vecchia megera, egli realizzò di non aver afferrato l’intimo significato degli insegnamenti, e quindi si propose di andare a trovare il suo guru. Dopo aver superato molti ostacoli, Naropa trovò Tilopa vestito con stracci da mendicante, che mangiava teste di pesce sulla riva di un lago. Malgrado la sua apparenza esteriore, Naropa riconobbe subito il suo guru. Egli rimase con lui per molti anni e sostenne numerose prove prima di ricevere il conferimento finale del potere, come  detentore del suo lignaggio.

Da Naropa, la tradizione orale della pratica di Vajrayoghini passò a Marpa (1012-1097), il primo detentore tibetano del lignaggio. Marpa fese tre viaggi dal Tibet all’India, per ricevere istruzioni da Naropa.  Si dice che, durante la sua terza visita in India, Marpa incontrò Vajrayoghini nella forma di una giovane vergine. Questa, con un coltello uncinato di cristallo, si squarciò la   pancia e Marpa poté vedere nel suo ventre il mandala di Vajrayoghini circondato dalla ruota del suo mantra che girava. In quel momento egli ebbe la realizzazione di Vajrayoghini come la Madre Coemergente, un principio che sarà discusso più avanti. Questa realizzazione è stata inclusa nella trasmissione orale di Vajrayoghini, che è stata tramandata fino ai giorni nostri.

Marpa dette le istruzioni orali per la pratica di Vajrayoghini al famoso yoghin Milarepa (1040-1123) ; egli a sua volta le trasmise a Gampopa(1079-1153), un grande erudito e praticante che istituì l’ordine monastico dei Kagyu. Tra i molti discepoli di Gampopa, i principali furono quelli che fondarono le ‘quattro scuole maggiori e le otto minori’ della tradizione Kagyu. Il lignaggio Karma Kagyu, una delle quattro grandi scuole, fu fondato da Tusum Khyenpa (1110-1193), il primo Karmapa e più importante discepolo di Gampopa. Fin da quel tempo,  il lignaggio Karma Kagyu è stato guidato da una successione di Karmapa, in tutto sedici. Tusum Khyenpa tramandò la trasmissione orale della Sadhana di Vajrayoghini a Drogon Rechempa (1088-1158) ;da costui passò a Pomdrakpa, che la trasmise al secondo Karmapa,Karma Pakshi(1206-1283).Karma Pakshi a sua volta la trasmise a Ugyenpa(1230-1309) che la dette a Rangjung Dorje (1284-1339), il terzo Karmapa. Fu il terzo Karmapa Rangjung Dorje che compose la forma scritta della sadhana di Vajrayoghini in accordo a Tilopa e alle istruzioni orali di Marpa, così come è praticata ancor oggi. Ed è questa sadhana usata come base per la discussione sul principio di Vajrayoghini che seguirà.

Il primo Trungpa fu uno studente del siddha Trungmasé (quindicesimo secolo), che fu il più vicino discepolo del quinto Karmapa, Teshin Shekpa (1384-1415). Quando Naropa trasmise gli insegnamenti di Vajrayoghini a Marpa, gli disse che questi insegnamenti avrebbero dovuto essere conservati come trasmissione da un insegnante ad un singolo studente per tredici generazioni, dopodiché avrebbero potuto essere   rivelati agli altri. Questa trasmissione è chiamata chig gyu, la trasmissione del ‘singolo lignaggio’, o ‘singolo filo’. Per questo il lignaggio Kagyu è chiamato spesso il ‘lignaggio dell’ascolto’. Trungmasé ricevette gli insegnamenti completi su Vajrayoghini, Chakrasamvara e Mahakala - a Quattro Braccia ; e questi diventarono una speciale trasmissione di cui egli fu detentore. Poiché Trungmasé apparteneva alla tredicesima generazione, egli divenne il primo guru che trasmise questo particolare lignaggio degli insegnamenti di mahamudra a più di uno dei successori del dharma e, di fatto, egli li insegnò ampiamente. Il primo Trungpa, Kunga Ghyaltsen, fu uno dei discepoli di Trungmasé che ricevettero questa trasmissione. Come undicesimo Trungpa Tulku, io ho ricevuto la trasmissione di Vajrayoghini da Rolpé Dorjé, l’abate reggente di Surmang e uno dei miei principali tutori.

Fin dal mio arrivo in America nel 1970,   mi sono messo a lavorare per far attecchire il buddhadharma, e in particolare gli insegnamenti vajrayana, sul suolo americano. A cominciare dal 1977, e da allora ogni anno , quelli tra i miei studenti che hanno completato le pratiche preliminari vajrayana, come pure l’addestramento esteso nelle discipline meditative di base, hanno ricevuto l’abhisheka di Vajrayoghini. A tutt’oggi (1980), vi sono più di trecento sadhaka   (praticanti della sadhana) di Vajrayogini nella nostra comunità e vi sono anche molti studenti occidentali che studiano con altri insegnanti tibetani e che praticano svariate sadhana vajrayana. Quindi, l’abhisheka e la sadhana di Vajrayoghini non fanno semplicemente parte della storia del Tibet : esse hanno anche un posto nella storia del buddhismo in America.

La cerimonia dell’abhisheka

L’abhisheka di Vajrayoghini appartiene al più elevato dei quattro ordini di tantra : l’anuttara tantra. Anuttara significa ‘il più alto’, ‘l’insuperato’ o ‘il non eguagliato’. L’Anuttara tantra può essere suddiviso in tre parti : madre, padre e non duale. Il lignaggio Karma Kagyu sottolinea particolarmente gli insegnamenti del tantra madre, a cui appartiene Vajrayoghini.

Il tantra madre pone l’accento sulla devozione come punto di partenza per la pratica vajrayana. Quindi, il punto chiave nel ricevere l’abhisheka è di avere una devozione unidirezionale  verso l’insegnante. Ricevendo l’abhisheka, si viene introdotti alla libertà del mondo vajra. Nell’abhisheka, il maestro vajra si manifesta come l’essenza di questa libertà, che è l’essenza di Vajrayoghini. Egli dunque rappresenta lo yidam come pure l’insegnante in forma umana. Perciò quando si riceve l’abhisheka è essenziale capire che lo yidam ed il guru non sono separati.

Nella tradizione dell’Anuttara tantra, lo studente riceve una quadruplice abhisheka. La stessa intera cerimonia è chiamata   abhisheka e ciascuna delle altre quattro parti è anche chiamata   abhisheka, poiché ciascuna comprende un particolare conferimento di potere. Le quattro abhisheka sono connesse tutte con lo sperimentare il mondo fenomenico come un mandala sacro.

Prima di ricevere il primo abhisheka, lo studente riafferma i voti di rifugio e del bodhisattva. A questo punto l’attitudine dello studente deve essere di amorevole gentilezza nei confronti di tutti gli esseri, con un sincero desiderio di far del bene agli altri. Lo studente poi prende un voto chiamato il voto di samaya che lega insieme l’insegnante, lo studente e lo yidam. Come parte di questo giuramento, lo studente promette di non rivelare mai ad altri, che non siano inclusi nel mandala di Vajrayoghini, le sue esperienze vajrayana. Lo studente indi beve quel che è chiamata acqua del giuramento di samaya, da un guscio di conchiglia posta sull’altare, per sigillare il voto. Si dice che se lo studente vìola questo impegno, l’acqua diventerà ferro fuso : brucerà lo studente dall’interno e lo farà morire sul colpo. D’altro lato, se lo studente mantiene il suo voto e la disciplina, l’acqua del giuramento agirà per propagare la sanità dello studente e l’esperienza della gloria, dello splendore e della dignità del mondo vajra. La nozione di samaya sarà discussa in più ampi dettagli dopo la discussione sulla stessa abhisheka.

Dopo aver prestato il giuramento di samaya, lo studente riceve il primo abhisheka, l’abhisheka del vaso (kalasha abhisheka), conosciuto pure col nome di abhisheka dell’acqua. Simbolicamente, l’abhisheka del vaso è l’incoronazione dello studente, quale principe o principessa - un aspirante re o regina del mandala. Esso significa la promozione dello studente dal mondo ordinario ad un mondo di continuità, il mondo tantrico.

L’abhisheka del vaso si compone di cinque parti, ciascuna delle quali è anche un’abhisheka. Nella prima parte, chiamata anche abhisheka del vaso, allo studente viene data da bere l’acqua contenuta in un vaso posto sull’altare, chiamato tsobum. Il tsobum è il vaso principale dell’abhisheka ed è usato per conferire il potere allo studente. Il testo dell’abhisheka dice :

“Proprio come quando nacque il Buddha

i deva lo bagnarono con acqua,

nello stesso modo, con acqua pura e divina

Viene a noi conferito il potere.”

Questo ricevere l’acqua dallo tsobum nella prima abhisheka del vaso simboleggia la purificazione psicologica come pure il conferimento di potere. Prima di ascendere al trono, il giovane principe, o principessa, deve bagnarsi e indossare abiti freschi. I cinque abhisheka del vaso sono collegati con le cinque famiglie buddha. Il primo abhisheka del vaso è collegato con la famiglia vajra ; allo studente viene presentato   uno scettro vajra a cinque punte, che simboleggia la sua abilità nel trasformare l’aggressività nella saggezza simile allo specchio.

Nella seconda abhisheka del vaso, l’abhisheka della corona, allo studente viene presentata una corona decorata con cinque gioielli che rappresentano la saggezza delle cinque famiglie buddha. Egli viene simbolicamente incoronato come studente fidato e realizzato, degno di prendere il suo posto nel mandala di Vajrayoghini. L’abhisheka della corona è collegata con la famiglia ratna ; lo studente viene anche presentato   un gioiello, simbolo della saggezza ed equanimità ratna. Il conferimento della seconda abisheka è accompagnato da un senso di arricchimento, un sentimento di apertura e generosità e una sensazione di fiducia di saper superare qualsiasi senso di minaccia o povertà.

Nella terza abhisheka del vaso, l’abhisheka del vajra, allo studente viene presentato   uno scettro vajra con nove punte, o dorjé. Il vajra è il simbolo dell’indistruttibilità e della completa abilità nel lavorare col mondo fenomenico. Perciò, ricevendo il vajra, allo studente vengono offerti i mezzi per superare gli ostacoli e per propagare la sanità vajra. L’abhisheka del vajra è collegato alla famiglia padma : sebbene il vajra sia un potente scettro e pure un’arma mortale, il suo potere proviene dal generare ed estendere la compassione, il calore e la generosità. Allo studente viene anche presentato   un fiore di loto, simbolo della famiglia padma, significante la destrezza nel tramutare l’attaccamento del desiderio nella saggezza della consapevolezza discriminante.

L’abhisheka della ghanta, o della campana, è la quarta abhisheka del vaso. Con l’offerta della ghanta allo studente significa che egli non   è più solo interessato alla sua realizzazione personale ma anche è desideroso di proclamare gli insegnamenti per il bene altrui. Il penetrante suono della ghanta significa che la proclamazione vajra della verità non è ostacolata. L’abhisheka della ghanta è collegato con la famiglia karma. Allo studente è presentata   una spada, simbolo della famiglia karma, che rappresenta la saggezza dell’azione che tutto realizza, con la quale si sconfigge la frenesia nevrotica e la gelosia.

 L’abhisheka finale del vaso è l’abhisheka del nome. In questa abhisheka, il maestro vajra suona sopra la testa dello studente una ghanta con unito un vajra,. Quando la campana suona, allo studente viene dato un nome tantrico, che è un nome segreto. Questo   non viene divulgato come un nome ordinario, ma quando il praticante ha necessità di usare il suo potere per svegliare qualcuno, egli pronuncia il suo proprio nome   vajra, il suo nome segreto, come promemoria della natura vajra. Il dare questo nome segreto costituisce l’atto finale nell’incoronazione del principe o principessa tantrici. A causa del merito accumulato per mezzo della pratica e della devozione verso l’insegnante, lo studente è degno di cambiare il suo nome da quello comune a quello di aspirante re o regina, il potenziale maestro del mandala ; lo studente viene riconosciuto come un futuro tathagata.

L’abhisheka del nome è collegata con la famiglia buddha. Vi è un senso di completa spaziosità ed apertura che giunge quando si prende il proprio posto nel mandala vajra. Dopo l’incoronazione , allo studente è presentato il coltello uncinato,   che Vajrayoghini tiene nella sua mano destra. A questo punto, lo studente è introdotto alla presenza della divinità principale del mandala, e alla sua qualità simile a buddha, che è la saggezza dello spazio onnicomprensivo. Sebbene Vajrayoghini sia rossa di colore, il che simboleggia la sua qualità femminile   calorosa e passionevole, la sua qualità fondamentale è certamente quella della famiglia buddha.

Dopo aver ricevutola completa abhisheka del vaso, lo studente ha la sensazione di un   significativo progresso e   cambiamento psicologico . A questo punto, il maestro vajra è abilitato a conferire le restanti tre abhisheka. Non possiamo addentrarci troppo in dettagli su questi aspetti della cerimonia. Però, in breve, possiamo dire che la seconda abhisheka è nota come guhya abhisheka, l’abhisheka segreto. Bevendo l’amrita, una miscela di liquori ed altre sostanze, dalla coppa  a calotta cranica sita sull’altare, la mente dello studente si mescola con la mente dell’insegnante e la mente dello yidam, di modo che il limite tra la confusione e lo stato risvegliato comincia a dissolversi. Nel terzo abhisheka, prajnajnana abhisheka, l’abhisheka di conoscenza e saggezza, lo studente comincia a sperimentare la gioia (mahasukha) del riunirsi col mondo. Tale sensazione è talvolta chiamata l’unione di perfetta beatitudine e vacuità, dato che   stanno verificandosi la più grande apertura e la più grande visione.

La quarta abhisheka,  la chaturtha abhisheka è noto come abhisheka della essenza. Lo studente sente che non deve rimanere ancorato al passato, presente o futuro ; può svegliarsi all’istante. La mente dello studente è aperta nell’ultima e definitiva nozione della visione sacra, in cui non c’è nessuno che sperimenti il lampo di visione sacra. Vi è soltanto la sensazione che chi agisce  e l’azione si dissolvono l’uno nell’altro, il che costituisce uno ‘shock’fondamentale  : le possibilità che le menti convenzionali si dissolvano nel nulla.

Samaya

Il principio di samaya, o sacro vincolo, diventa estremamente importante allorché si abbia preso l’abhisheka. La definizione di yidam come ‘legame sacro   della propria mente’ era già stata precedentemente discussa. Quando riceviamo il conferimento di potere per praticare la sadhana di Vajrayoghini, ci assumiamo la responsabilità di quel samaya, o vincolo. Ci leghiamo all’indistruttibile stato di risveglio, impegnandoci pienamente per mantenere la visione sacra durante la nostra vita. Ciò avviene identificandoci completamente con la sanità vajra dell’insegnante e di Vajrayoghini. Si è inseparabilmente vincolati all’insegnante e allo yidam ; a questo punto, il proprio vero essere e la propria sanità dipendono dal mantenere questo impegno.

Questo non significa che se lo studente ha un ‘cattivo’ pensiero o tracce di confusione debba venir eliminato o distrutto. Anche una volta che si abbia ricevuto l’abhisheka permane la sensazione di viaggio e di sentiero. In effetti, è detto che il samaya è pressoché impossibile da mantenere : è come uno specchio che, per quanto lo si tenga completamente pulito, raccoglierà continuamente polvere, per cui dovrà essere di nuovo ripulito. Prendendo abhisheka, si viene istruiti a sperimentare la sacra visione all’istante, e questo è il samaya. Quando sorgono ostacoli e difficoltà, essi diventano promemoria della visione sacra, anziché semplici intralci. Ciò è detto il samaya dello sperimentare ogni cosa come sacra nella natura vajra. Si distinguono tre categorie : il samaya del corpo, o mudra ; il samaya della parola, o mantra ; il samaya della mente, o vajra.

Il samaya del corpo concerne sempre il considerare la propria situazione fenomenica fondamentale come espressione di sacralità : non mettiamo in dubbio la sacralità del nostro mondo. Il samaya della parola concerne il considerare ogni circostanza, qualsiasi cosa che si presenta alla nostra esperienza, come se fosse sacra. Ciò è valido sia per le circostanze interne che esterne, così da includervi ogni chiacchiericcio subconscio o sconvolgimento emozionale. Il samaya della mente è collegato con l’indistruttibile stato di risveglio del mandala vajra, in questo caso, il mandala di Vajrayoghini. Nemmeno il più piccolo accenno o la più piccola possibilità di nevrosi   riescono a prendere piede nel nostro stato di essere poiché il mondo intero è visto come parte del mandala della sacralità in cui siamo entrati.

E’ interessante notare che l’abhisheka produce sia un maggior senso di libertà che un maggior senso di vincolo. Più si sviluppa un senso di apertura, di abbandono e di perdita dell’ego, più si sviluppa un impegno vincolante al mondo della sanità. Perciò prendere l’abhisheka e iniziare la pratica dello yidam è un passo davvero serio. Infatti, dovremmo essere un po’ spaventati da questo impegno e, nel contempo, dovremmo apprezzarlo come la più preziosa opportunità di realizzare la nostra nascita umana.

Saggezza coemergente

Fondamentalmente, la magia della tradizione vajrayana è l’abilità di trasformare la confusione in saggezza, in modo istantaneo. Dal punto di vista del vajrayana, la vera magia, o siddhi in sanscrito, è l’abilità di lavorare con la propria mente e di domare. Ciò è completamente differente dall’usuale nozione di magia intesa come un potere sovrannaturale sull’universo. Come ricordato nella precedente discussione sui samaya di corpo, parola e mente, ogni potenziale confusione e nevrosi diventa una opportunità per sperimentare la visione sacra. All’inizio del sentiero di meditazione, noi lavoriamo per domare la nostra mente e soggiogare le forze della confusione. Nel mahayana, noi vediamo la vacuità del sé e dei fenomeni ; questa esperienza genera in noi la  compassione per gli esseri che non hanno l’opportunità di realizzare la vacuità, e quindi la libertà, della loro natura. Nel vajrayana, possiamo unificare realmente la confusione e l’illuminazione all’istante e, con ciò, superare completamente il dualismo di samsara e nirvana.

La contemporanea esperienza della  confusione e sanità, cioè dell’essere addormentati e risvegliati insieme, è la realizzazione della saggezza coemergente. Ogni circostanza nel proprio stato mentale - ogni pensiero, sensazione o emozione - è sia nera che bianca ; è sia una situazione di confusione che un messaggio della mente illuminata. La confusione è vista così chiaramente che questa chiarezza stessa è la visione sacra. Vajrayoghini è chiamata la ‘Madre Coemergente’. Infatti, la sadhana di Vajrayoghini secondo Tilopa è intitolata la Sadhana della Gloriosa Madre Coemergente Vajrayoghini. Praticando la sadhana e identificandoci col corpo, parola e mente dello yidam, diventiamo abili nello sperimentare il confine coemergente tra la confusione e lo stato di risveglio. Allora possiamo usare la confusione stessa come pietra miliare per realizzare ulteriore sanità e ulteriore saggezza.

Visualizzazione

La comprensione del praticante, e la sua connessione all’iconografia, sono raggiunte per mezzo della pratica di visualizzazione di Vajrayoghini. In questa pratica di visualizzazione vi sono due stati : utpattikrama (kyerim in tibetano) e sampannakrama (dzogrim in tibetano). Utpattikrama significa letteralmente ‘stadio di sviluppo’ e sampannakrama significa ‘stadio del completamento’. Il primo è il processo di visualizzazione dello yidam, in questo caso Vajrayoghini. Nell’auto-visualizzazione, il praticante visualizza se stesso come lo yidam. La visualizzazione sorge dalla vacuità, o shunyata, come accade per tutte le visualizzazioni tantriche. Il testo amplifica questo concetto :

“Tutti i dharma, compresi l’attaccamento e la fissazione, diventano vuoti. Dall’interno della vacuità...sorge la fonte triangolare dei dharma...Su questa, c’è la natura della mia coscienza... Come un pesce che balza fuori dall’acqua,   sorgo nel corpo di Jetsun Vajrayoghini...”

Perciò, il processo di visualizzare se stessi come   yidam, sorge primariamente dall’esperienza di vacuità e assenza di ego. Da essa nasce la fonte dei dharma, la forma astratta della coemergenza ; e su questa, il praticante visualizza se stesso come   yidam. La visualizzazione, quindi, è essa stessa essenzialmente vuota. La pratica di visualizzazione consiste nell’identificare se stessi con lo yidam, realizzando la divinità come non manifesta, o vuota manifestazione della natura fondamentale illuminata. La forma dello yidam, incluso il suo abbigliamento, gli ornamenti e la posizione, rappresenta gli aspetti dello stato illuminato della mente. Quindi, quando ci si visualizza se stesso sotto forma di un’ardente, giovane signora di color rosso, adorna di ornamenti ossei, non è che si stia cercando   di evocare un costume esotico all’ultima moda, ma si sta identificando come Vajrayoghini,   la personificazione della saggezza e compassione.

La visualizzazione di se stessi come Vajrayoghini è chiamata samayasattva : ‘Il sacro vincolo al proprio essere’. Il samayasattva è l’espressione di base del samaya di corpo, parola e mente. Esso esprime il proprio impegno nei confronti dell’insegnante e degli insegnamenti e la fiducia nel proprio stato mentale di base.

Una volta  visualizzati i samayasattva dell’essere fondamentale, si invita ciò che è conosciuto come jnanasattva. Il jnanasattva è un ulteriore livello di essere, o grado di esperienza. Jnana è uno stato di svegliezza o di apertura, mentre samaya è l’esperienza di un legame, dell’essere solidamente ancorati alla propria esperienza. Jnana significa letteralmente ‘saggezza’ o, più accuratamente, ‘essere saggio’. Si invita questo stato di saggezza, questo livello di stato risvegliato, all’interno della propria imperfetta visualizzazione, di modo che la visualizzazione divenga  viva con un sentimento di apertura e umorismo.

A conclusione della pratica di visualizzazione, la visualizzazione   è dissolta nella vacuità ; allora si medita, o si riposa, nello stato non duale della mente. Questo è il sampannakrama, o stadio di completamento. Nei testi tantrici si dice che la giusta comprensione della pratica di visualizzazione si ha quando si comprende che gli stadi di utpattikrama e sampannakrama non sono fondamentalmente differenti ; e cioè, in questo caso, quando l’esperienza utpattikrama di forma-vacuità e l’esperienza sampannakrama di vacuità-vacuità non sono viste come due cose separate, ma come unica espressione del mondo della madre Coemergente.

La meditazione sampannakrama è simile alla pratica di shamatha-vipashyana ; infatti, senza un precedente allenamento in queste pratiche di meditazione, è impossibile praticare sampannakrama. Sampannakrama è un’espressione di vastità. Sperimentare la mente vajra di Vajrayoghini è così profondo e vasto che, se sorgono dei pensieri, essi non diventano eventi salienti : sono come piccoli pesci in uno smisurato oceano di spazio.

Il principio di Vajrayoghini e la sua iconografia

Un esame del significato della seguente lode a Vajrayoghini, tratta dalla sadhana, può aiutarci a comprendere il principio di Vajrayoghini in relazione alla sua iconografia. La lode incomincia così :

“Bhagavati Vajrayoghini, personificazione della vacuità vajra,

ardente del fuoco della fine dei   kalpa, che emetti il terrificante suono di HUM -

ci prostriamo al Vajra-chandali .”

Bhagavati significa ‘benedetta’. Questa strofa si riferisce in primis a Vajrayoghini nella sua antropomorfica forma di shunyata, la ‘personificazione della vacuità vajra’. Poi si loda la sua ‘focosa qualità di passione e lussuria cosmica. Nell’iconografia, il corpo di Vajrayoghini è rosso e fiammeggia con raggi di luce, che qui sono descritti come ‘ardenti del fuoco della fine del kalpa’. Questa è la sua qualità della famiglia padma, che trasforma la passione nevrotica in una compassione che tutto consuma. Kalpa significa ‘era storica’. Il ‘fuoco della fine dei kalpa’, nella mitologia indiana, è una esplosione del sole, che brucia il sistema solare e fa finire il kalpa. La passione di Vajrayoghini è così accecante   e così ardente che è paragonata a quel fuoco. Il ‘terrificante suono di HUM’ esprime l’ira della sua passione, che atterrisce l’ego. Chandali (Tummo in tibetano) è il calore yogico, il calore cosmico nella pratica yogica, che rispecchia ancora il principio Vajrayoghini della passione che sorge libera dalle tendenze abituali. Tale passione è immensamente potente ; essa irradia il suo calore in tutte le direzioni. Essa nutre   il benessere degli esseri e nel contempo avvampa per distruggere le tendenze nevrotiche dell’ego. La lode così continua :

“Il volto di scrofa   manifesta il non pensiero, l’immutabile dharmakaya,

tu fai il bene degli esseri con misericordia rabbiosa,

realizzando il loro benessere  con i tuoi ornamenti terrificanti.

Noi ci prostriamo a te che benefici gli esseri nello stato di non pensiero.”

Lo stato di non pensiero è un importante aspetto del principio di Vajrayoghini. Esso è l’esperienza della mente totalmente libera dall’abituale chiacchiericcio dell’ego, liberata dall’attaccamento e dalla fissazione che danno origine agli schemi di pensiero nevrotici. Finché l’aggressività e la sfrenatezza della mente non sono   domate per mezzo della meditazione, non vi è possibilità di sperimentare le potenzialità del non pensiero nella propria mente.

Vajrayoghini è spesso rappresentata con una testa di scrofa al di sopra del suo orecchio destro. Quando indossa questo ornamento, prende il nome di Vajravarahi, ‘Scrofa Vajra’. Tradizionalmente la scrofa rappresenta l’ignoranza o la stupidità. In questo caso, la testa di scrofa simboleggia la trasformazione dell’ignoranza, o dell’inganno, nell’ignoranza vajra, cioè il non pensiero o completa spaziosità di mente.

Questa strofa paragona il non pensiero col dharmakaya che, approssimativamente tradotto, è la mente primordiale del buddha. La pratica della Sadhanadi Vajrayoghini è fortemente connessa alla realizzazione della primordiale assenza di punti di riferimento. Lo scopo della pratica della sadhana non è tanto di tagliare i pensieri immediati quanto invece   di tagliare le tendenze abituali che sono la radice del pensiero discorsivo.

Gli ‘ornamenti terrificanti’ di cui si parla nella strofa sono la collana di teste appena mozzate , indossata da Vajrayoghini. Nella sadhana si dice che essa indossa questa collana in quanto ‘i cinquantuno samskara sono totalmente purificati’. Samskara significa ‘formazioni mentali’ il che si riferisce alle concettualizzazioni. La collana di teste di Vajrayoghini simboleggia il fatto  che tutte le concettualizzazioni abituali sono purificate o distrutte nel non pensiero.

La lode continua così :

“Eroina terrificante dai tre occhi, dalle zanne serrate,

che annienta ciò che è inopportuno ;l’assoluto trikaya,

                        le tue orribili urla stroncano i klesha.

Ci prostriamo a te che sottometti e conquisti i mara”.

Vajrayoghini è chiamata spesso la conquistatrice dei mara, che sono le forze della   confusione mondana. Nelle storie dell’illuminazione del Buddha, Mara, ‘il Principe del Male’, invia le sue figlie, le quattro mara, per tentare Shadyamuni, e le sue armate fantasmagoriche per attaccarlo. Dopo averle sconfitte, Shakyamuni divenne il Buddha, ‘Il Risvegliato’. Quindi, l’idea basilare di Vajrayoghini come conquistatrice dei mara si riferisce alla conquista dell’ego. Dal punto di vista dell’ego, Vajrayoghini è ‘terrificante’ poiché il suo stato risvegliato è  così penetrante e irriducibile. In un altro punto la sadhana dice : “Facendo orribili smorfie d’ira per sottomettere i quattro mara, essa digrigna i suoi  canini e si morde il suo labbro inferiore”. Questo spiega ulteriormente il riferimento della strofa alla ferocia di Vajrayoghini.

Il riferimento ai tre occhi di Vajrayoghini significa che nulla sfugge alla vista di Vajrayoghini ; quindi, l’ego non ha nessun luogo ove nascondersi. La sadhana dice ancora : “Poiché essa conosce sia il passato, il presente ed il futuro, ruota i suoi furiosi tre occhi iniettati di sangue”.

Il fatto che Vajrayoghini sia ‘l’assoluto trikaya’ si spiega la sua saggezza e i suoi abili mezzi che si manifestato a tutti i livelli del corpo e della mente : il livello dharmakaya, della mente assoluta e primordiale ; il livello sambhogakaya, dell’energia, delle emozioni e dei simboli ; ed il livello nirmanakaya, della forma manifestata, o del corpo . Il trikaya si riferisce anche ai livelli di corpo, parola e mente nella nostra pratica e che sono i livelli del nostro corpo fisico, dei concetti ed emozioni e della spaziosità fondamentale della nostra mente. Vajrayoghini riunisce tutti questi livelli insieme e, di nuovo, non lascia spazio ai mara per potersi nascondere.

La strofa dice anche che le sue orribili urla ‘stroncano i klesha’. Klesha, cioè gli offuscamenti, si riferiscono alle emozioni conflittuali, alle emozioni nevrotiche. I cinque klesha sono passione, aggressività, ignoranza, gelosia e orgoglio, e tutti sono soggiogati dal principio di Vajrayoghini.

La successiva strofa dice :

“Nuda, coi capelli sciolti, di forma impeccabile e tremenda,

tu che stai oltre la morsa dei klesha, facendo il bene degli esseri senzienti,

                        guidi gli esseri fuori dai sei regni con l’uncino della tua misericordia.

Noi ci prostriamo a te che realizzi l’attività di Buddha”.

Vajrayoghini è nuda poiché non è assolutamente toccata dalla nevrosi dei klesha ; quindi non ha la corazza dell’ego con cui doversi coprire. Perciò, essa è capace di ‘beneficiare gli esseri senzienti’ estendendo ad essi la compassione assoluta. Il riferimento ai suoi capelli sciolti sta a significare la sua compassione per gli esseri. ‘L’uncino di misericordia’ si riferisce al coltello uncinato di Vajrayoghini, con cui tira estrae gli esseri dalla sofferenza dei sei regni, cioè dal samsara, portandoli nel mondo vajra, Quindi, lei compie in maniera completa un’azione che è libera dalla contaminazione karmica un attività di Buddha, cioè un’azione   completamente risvegliata.

La successiva strofa dice :

“Dimorando in un carnaio e soggiogando Rudra e la sua sposa,

rabbiosa, terribile, mentre pronunci il suono di PHAT,

fai del bene agli esseri con la misericordia della tua abilità.

Ci prostriamo a colei che, adirata, sottomette i mara”.

Il ‘carnaio’ si riferisce allo spazio fondamentale in cui si generano nascita e morte, confusione e risveglio, al terreno della coemergenza. Vajrayoghini non è un principio etereo ; essa dimora nel cuore del caos samsarico che è anche il cuore della saggezza. ‘Rudra e la sua sposa’ si riferisce all’ego e ai suoi abbellimenti, che Vajrayoghini sottomette completamente. Essa è ‘la terrificante eroina che annienta ciò che è inopportuno’;  perciò, è ‘rabbiosa e terribile mentre pronuncia il suono PHAT’, una sillaba associata al soggiogamento, alla distruzione dell’attaccamento all’ego, nonché alla proclamazione della verità vajra. Al tempo stesso, essa è abile e misericordiosa. Combinando queste qualità, essa è, ancora, la soggiogatrice dei mara.

Il successivo verso dice :

“Tu hai realizzato la dharmatà ultima e abbandonato la morte.

Su un piedistallo formato da un cadavere, dal sole, dalla luna e da un loto,

la tua forma irata è abbellita da tutti gli ornamenti.

Noi ci prostriamo a te che hai perfezionato tutte le buone qualità”.

Nell’iconografia tantrica, il loto, il disco solare e il disco lunare sono i consueti seggi sia dei buddha che degli yidam. Il loto è il simbolo della purezza e sta anche a significare la nascita dell’illuminazione nel mezzo del mondo dell’esistenza confusa. Il sole simboleggia jnana, o saggezza, mentre la luna è il simbolo di bodhicitta, o compassione. Il fatto che Vajrayoghini poggia su un cadavere significa anche che è una divinità semi adirata. Nella iconografia tantrica, vi sono yidam pacifici, semiadirati e completamente adirati. Le divinità pacifiche rappresentano l’energia della pacificazione che doma la mente, mentre gli yidam semiadirati e completamente adirati operano più direttamente e con vigore sulla passione, sull’aggressività e sull’ignoranza, schiacciandole e conquistandole all’istante.

L’immagine del cadavere simboleggia la morte dell’ego e mostra che Vajrayoghini ha ‘abbandonato la morte’. La ‘dharmatà ultima’ nel verso è un riferimento all’atteggiamento di Vajrayoghini. In una precedente sezione della sadhana si dice : “Dato che essa non dimora in nessuno degli estremi di samsara o nirvana, essa poggia su un piedistallo formato da un loto, da un cadavere e dal disco del sole, con la gamba sinistra piegata e la gamba destra sollevata, in posizione da danzatrice”. La nozione di dharmatà ultima o assoluta è la trascendenza del dualismo, cioè gli estremi di samsara e nirvana, tramite la realizzazione della saggezza coemergente, vedendo cioè come la confusione e l’illuminazione sorgano simultaneamente. Dharmatà significa lo ‘stato del dharma’. Essa è la completa realizzazione del dharma, cioè il vedere la ‘essenza’della realtà.

Questa strofa fa anche riferimento agli ornamenti che abbelliscono la forma irata di Vajrayoghini : il copricapo di ossa, gli orecchini fatti di ossa, la sua collana, la cintola, le cavigliere e i braccialetti. Tutti questi rappresentano la sua perfezione di generosità, disciplina, pazienza, sforzo e meditazione, cinque delle sei paramita, o azioni trascendenti del mahayana. La perfezione della sesta   paramita,  il prajna, non viene rappresentata come ornamento poiché l’essere di Vajrayoghini è esso stesso l’epitome del prajna. Perciò ella è chiamata Prajnaparamita. Del prajna come percezione della shunyata, si è parlato precedentemente. Al livello di prajnaparamita, prajna è la completa e non duale realizzazione che tronca ogni attaccamento sia all’esistenza che alla non esistenza. Prajnaparamita è anche chiamata la ‘Madre di tutti i Buddha’ : tutti i buddha del passato, presente e futuro sono nati da questa incontaminata perfetta conoscenza che mostra la natura dei fenomeni come shunyata. In una precedente sezione della sadhana, Vajrayoghini è lodata come Prajnaparamita :

“Prajnaparamita, non esprimibile attraverso la parola o il pensiero,

innata, ininterrotta, dalla natura simile al cielo,

sperimentata soltanto dalla saggezza della consapevolezza discriminante,

madre di tutti i Vittoriosi dei tre tempi, noi ti lodiamo e ci prostriamo”.

La successiva strofa recita :

“Tenendo in mano un coltello uncinato, una coppa a calotta cranica ed un khatvanga,

tu sei in possesso della luce della saggezza, con la quale tronchi i klesha.

come spontaneo trikaya, tu elimini i tre veleni.

Ci prostriamo a te che produci il bene degli esseri”.

La seconda riga, “tu sei in possesso della luce della saggezza che stronca i klesha”, sottolinea ulteriormente il principio di Vajrayoghini come Prajnaparamita, l’essenza della saggezza della consapevolezza discriminante.

Il coltello ricurvo è già stato definito come ‘l’uncino di misericordia’ di Vajrayoghini. E’ anche un’arma usata per troncare gli inganni dell’ego. Esso è un simbolo di potere e di tagliente qualità del non pensiero. Nella sua mano destra Vajrayoghini tiene una coppa a calotta cranica, o kapala, colma di amrita, che rappresenta il principio di ubriacare   le estreme credenze. La kapala colma di amrita è anche un simbolo di saggezza. Il khatvanga è il bastone che Vajrayoghini tiene poggiato contro la sua spalla. Esso rappresenta la sua abilità di mezzi. Il bastone è anche il simbolo segreto dell’unione di Vajrayoghini col suo consorte ; Chakrasamvara, che è l’essenza dei mezzi abili.

Sul khtvanga vi sono tre teste che rappresentano il principio del trikaya, di cui si fa menzione nella strofa. Il riferimento a Vajrayoghini come spontaneo trikaya significa che lo splendore della sua saggezza si applica equanimemente a tutti i livelli dell’esperienza. A causa dell’universalità della sua saggezza, essa elimina completamente i tre veleni : passione, aggressività ed ignoranza. Ciò facendo, essa beneficia gli esseri.

La successiva strofa recita :

“O grande beatitudine, autogenerata, o Vajrayoghini,

immutabile saggezza vajra del dharmakaya,

 non-pensiero, incondizionata saggezza, assoluto dharmadhatu,

Noi ci prostriamo alla tua  pura forma non duale”.

Di nuovo, questa strofa loda Vajrayoghini come essenza della saggezza, che è la primordiale ‘saggezza vajra del dharmakaya’ e l’ancor più primordiale ‘saggezza incondizionata dell’assoluto dharmadhatu’ ; questa saggezza è completamente non duale. Oltre a ciò, questa strofa unisce il principio di saggezza di Vajrayoghini con il principio della grande beatitudine, mahasukha, che è autogenerata, anziché creata o confezionata dalla mente concettuale.                 

Mahasukha è una effettiva esperienza di beatitudine, una totale esperienza di gioia, fisica e psicologica, che deriva dall’essere completamente senza pensieri discorsivi, completamente nel reame del non pensiero. Ci si riunisce con lo stato di essere non duale e risvegliato. Questa esperienza è il frutto della pratica di Vajrayoghini e proviene soltanto dalla completa identificazione con la mente di saggezza dello yidam.   Secondo le scritture, mahasukha e saggezza sono inseparabile ; quindi, la pratica di Vajrayoghini conduce a questa esperienza di grande beatitudine autogenerata, poiché essa è l’essenza della saggezza.

La terza riga di una successiva strofa recita :

“Autogenerata grande beatitudine, tu sei la mahamudra ultima”.

Questa è riferita a Vajrayoghini. Sperimentando mahasukha, ovvero la saggezza della beatitudine e vacuità, si ottiene la realizzazione di mahamudra, che è la vetta più alta, il pinnacolo della tradizione dell’anuttara tantra. Maha significa ‘grande’ e mudra significa ‘segno’ o ‘gesto’. L’esperienza di mahamudra è la realizzazione che la semplice verità, la verità simbolica e la verità assoluta sono, in realtà, un’unica cosa e che esse hanno luogo puntualmente e contemporaneamente . Si sperimenta la realtà come il grande simbolo che semplicemente è .

La beatitudine di mahamudra non è tanto un grande piacere, quanto l’esperienza di una enorme vastità e di libertà dalla schiavitù, che deriva dal vedere attraverso la dualità dell’esistenza e dal realizzare che l’essenza della verità, l’essenza dello spazio, è immediatamente a disposizione. La libertà di mahamudra è incommensurabile, indescrivibile, incomprensibile e insondabile. Tale spazio senza fondo e tale libertà assoluta producono enorme gioia. Questo tipo di gioia non è condizionata neppure dall’esperienza stessa di libertà ; è autogenerata, innata.

Conclusione

Alcuni argomenti qui trattati, possono essere apparsi assai difficile da afferrare. In effetti, dovrebbe essere proprio così. Se fosse possibile sperimentare il vajrayana semplicemente leggendo qualcosa su di esso, cesserebbe di esistere, poiché nessuno lo praticherebbe ; ognuno studierebbe semplicemente i testi. Fortunatamente questo non funziona. Il solo modo di ottenere la libertà vajra è di praticare il buddhadharma così come fu insegnato dal Buddha e come è stato  preservato e tramandato per venticinque secoli.

Sono molto felice per il fatto che è stato possibile discutere del vajrayana e della tradizione di Vajrayoghini in modo così genuino e completo. Però la cosa più importante che si possa fare per se stessi e gli altri è di sedersi   e dipanare la confusione nella propria mente. Questa è una cosa veramente semplice da fare e, dato che è così semplice è anche molto facile non vedere questa possibilità.

Spero che questa discussione possa dare un’idea di che cosa sia il mondo vajrayana, della  sua grandezza e sacralità. Nella nostra vita esistono sempre delle possibilità sacre. La bontà e la gentilezza del mondo sono sempre lì perché noi le   possiamo apprezzare. Questo non è un mito ; è un fatto reale. Potremo in ogni momento sperimentare Vajrayoghini se abbiamo il coraggio di riconoscere la nostra natura   risvegliata e la grandezza del nostro patrimonio ereditato come esseri umani.

“Eternamente splendente, assolutamente vuota,

danzatrice Vajra, madre di tutto,

io mi inchino a te, in quanto Vajrayoghini, l’essenza di tutti gli esseri senzienti.

Dall’oceano di latte della sua benedizione

e’ prodotto dell’ottimo burro

che i meritevoli ricevono come gloria.

Possa ciascuno eternamente gioire

del giardino di loto della Madre Coemergente”.

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PARTE TERZA : LAVORARE CON GLI ALTRI

 

8) RELAZIONE

Composto durante il ritiro di Charlemont, Massachussets, 1972

“L’idea di relazione deve cadere in pezzi. Quando realizziamo che la vita è l’espressione della morte e la morte è l’espressione della vita, che la continuità non può esistere senza la discontinuità, allora non vi è più bisogno di afferrarci ad una e aver paura dell’altra. Non c’è più nessuna base per i coraggiosi o per i vigliacchi. Si vede che la relazione è l’assenza di qualsiasi punto di vista”.

Visione basata sulla speranza   della eternità

L’eternità è una delle nozioni a cui noi siamo affezionati, che ci incoraggiano nella nostra vita. Sentiamo che finché vi è eternità ci sarà eterna comunicazione. In un modo  o nell’altro ci sarà una continuità senza fine a dare significato alle cose : uno sfondo spirituale o un’atmosfera di speranza trascendentale.

Difficilmente riusciamo a capire quanto questo  atteggiamento influenzi il nostro modo di affrontare le   relazioni. Quando al liceo diventiamo buoni amici di qualcuno, automaticamente ci aspettiamo che l’amicizia duri per sempre. Può accadere che quindici anni dopo aver costruito una capanna con un amico si possa ancora   festeggiare il nostro cameratismo osservando con quanta abilità abbiamo costruito la struttura, le giunzioni, i chiodi usati, e così via.

Molte relazioni si sono formate sulla base di   qualche dolore comune o qualche compito affrontato insieme. Tendiamo a tenere in gran conto questo comune dolore o compito : li rendiamo il pegno della relazione. Oppure incontriamo qualcuno in situazioni di   comune e vivo interesse dove la comunicazione scorre senza ostacoli e   celebriamo questa  fluidità come se ci proteggesse da un comune nemico. In ogni caso il dolore o la fluidità assumono una qualità leggendaria nella    relazione.

‘Essere buoni amici’ ci fa credere di esserlo per sempre. Vi aspettate che la persona con cui   siete legati   verserà miele sulla vostra tomba ; altrimenti vi sentirete ingannati. Lotterete e starete in continua tensione per mantenere splendente la vostra eterna amicizia e ciò produrrà una enorme fatica nella relazione. questo è il modello di relazione presentato dalle tradizioni teistiche,   cristiana o indù. Avere una tale relazione è considerato un comportamento come Dio ha comandato o come l’essere più vicini all’esempio stesso dell’ amore di Dio, che è eterno.

Il concetto di eternità è stato frainteso ; è stato usato come prova della profondità della nostra relazione, della nostra immortale amicizia. Tendiamo a credere che qualcosa abbia da durare per sempre e perciò la veneriamo come qualcuno potrebbe venerare  un pezzo di filo di ferro arrugginito, famoso per essere stato parte  del recinto di una nota battaglia della Guerra Civile. Noi lo veneriamo per il nostro concetto di  eternità, piuttosto che per il suo significato. Ironicamente, esso diventa in realtà una profonda testimonianza proprio per la fondamentale verità dell’impermanenza.

Nelle società influenzate in modo assai profondo da un punto di vista non teistico come quelle buddhiste o confuciane,  la relazione è più un modo di comportarsi e di integrità che non l’approccio ad un   modello di divina eternità. Vi è minor senso di colpa, ma rimane un senso di rettitudine o di sincerità. Nel contesto borghese invece, la relazione sembra   basarsi su un modello derivato da antiche strutture di baratto. Nella situazione commerciale del baratto c’è più coinvolgimento che non in quelle in cui c’è scambio monetario : si dà qualcosa di valore e si riceve qualcosa di valore in cambio. Ma questo approccio ha ancora  come  sfondo il concetto di eternità e la venerazione di antichi modelli di relazione.

Visione basata sulla paura della morte

Sfiducia e incertezza nell’eternità sorgono quando   incominciamo a pensare a ciò che, indipendentemente dalla nostra volontà, potrebbe andare storto nella relazione - o ciò che potrebbe andar bene. Vi è un’ombra di inevitabile caos o morte. Temendo lo sviluppo indipendente e spontaneo della relazione, noi cerchiamo di ignorare le nostre effettive emozioni e la nostra diretta volontà . Le persone coraggiose lo fanno   quasi consciamente caricando la relazione  di un senso di missione o di dogma. Le persone codarde ci si confrontano invece secondo un travisamento inconscio.

In generale, la strategia coraggiosa ha meno successo di quella dei codardi nel creare una relazione ‘ideale’. Questo approccio dogmatico può aver successo solo riaffermando continuamente a un amico o un partner che una posizione fondamentalmente illogica, è logicamente sostenibile. E’ richiesto un   lavoro di costante manutenzione della magnifica costruzione. La persona meno valorosa ma più diligente compie invece l’intera impresa senza neppure confrontarsi col partner sulle più importanti questioni :scarica continuamente il senso di morte su una miriade di piccole cose. Il partner si dimentica di rimettere a posto il coperchio della bottiglia di ketchup, oppure spreme il tubo del dentifricio dalla parte sbagliata. La colpa sta in tutte queste piccole cose.

A dispetto delle credenze filosofiche o religiose nell’eternità, vi è un senso di costante minaccia di morte, a cui la relazione è definitivamente condannata. Coraggiosi o timorosi, noi siamo intrappolati in questa data situazione  , mettendo continue toppe per sopravvivere.

Al di là di speranza e paura

Dare un gran peso alla relazione è letale : come se, nel tagliare una cipolla, stessimo più attenti al coltello che all’atto di tagliare. E’ probabile che ci taglieremo le dita. Quando cominciamo a realizzare ciò, il senso di impotenza ci fa sussultare.   Punti di vista o   atteggiamenti non ci aiutano. Non sono altro che un guscio. La visione teistica che crede ingenuamente  nell’eternità e la visione borghese delle buone maniere e della dignità sono entrambi solo dei giochi convenzionali lontani dalla concretezza della situazione. Gli adagi sulle relazioni, tipo ‘la pazienza è una virtù’ oppure ‘la morte piuttosto che il disonore’, non sono solo  i prodotti della convenzione ; essi sono in se stessi puramente convenzionali.

L’idea di relazione deve cadere a pezzi. Quando realizziamo che la vita è l’espressione della morte e la morte è l’espressione della vita, che la continuità non può esistere senza la discontinuità, allora non vi è più bisogno di afferrarci ad una ed aver paura dell’altra. Non c’è più nessuna base per i coraggiosi o per i vigliacchi. Si vede che la relazione è l’assenza di ogni e qualsiasi punto di vista.

Potremmo pensare che una tale relazione è solo per coloro che sono spiritualmente avanzati, ma in realtà  questo è proprio un fatto normale e ordinario. Ogni punto di riferimento concettuale diventa distruttivo. In realtà noi cominciamo a sospettare che la relazione non esista. Ma non c’è bisogno di preoccuparsi : questa non-esistenza continua come una potente base generatrice di ulteriori relazioni. Tale accortezza è ancora un punto di vista, ma è un punto   aperto alle sorprese, non è come vivere nella speranza di un’eternità. E’ anche diversa da una totale sfiducia che non permette al candore della relazione di esprimersi. Se un patto di fiducia genera ulteriore sfiducia, la cautela nella fiducia può invece fornire un enorme calore e genuine relazioni

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                                           9) RICONOSCERE LA MORTE

Basato su un seminario del 1973, “Il Significato della Morte”     Barnet,   Vermont

“Non dobbiamo nascondere le cose difficili da dire ; d’altra parte, non dobbiamo neppure spingerle agli estremi. Almeno, dovremmo aiutare una persona ad avere una qualche comprensione dell’idea di perdita - della possibilità della non-esistenza e della dissoluzione nell’ignoto. La cosa importante  in ogni relazione, è di condividere un certo livello di sincerità e di esplorare quanto si possa andare lontano. In questo modo la relazione può diventare estremamente intensa e bella”.

Parlando di malattia, sia fisica che mentale, dovremmo riconoscere l’importanza del nostro istinto di sopravvivenza. Vogliamo sopravvivere e parlando di guarigione, parliamo di come sopravvivere. Da un altro punto di vista, la nostra strategia di sopravvivenza è un tipo di  reazione all’evidenza della morte.

Il punto focale in ogni processo di guarigione è la nostra attitudine verso la morte. Sebbene essa sia frequentemente ignorata, sta sempre sullo sfondo. Nessuno veramente vuole affrontare l’eventualità della morte, l’idea stessa della morte. Anche un malanno leggero porta verso la possibilità di morire: potremmo perdere il controllo della nostra situazione fisica o mentale ; potremmo smarrirci a mezz’aria. Visto che come guaritori siamo sempre in costante contatto con la paura della perdita, dovremmo veramente riportare questa eventualità all’interno del discorso. Il vederla non risolverà direttamente il problema ma, per iniziare, il problema dovrebbe almeno essere visto.

Molte persone sono confuse riguardo il loro atteggiamento verso la morte e verso le persone che stanno morendo : si dovrebbe cercare di nascondere loro la situazione oppure dovremmo parlargliene ? Spesso non vogliamo parlare di ciò che sta accadendo perché ci sembra che il farlo darebbe l’idea di qualcosa di fondamentalmente sbagliato. A causa di tale atteggiamento vi è spesso una mancanza di coraggio da parte sia del paziente che del medico. Ma quando siamo disposti a riconoscere ciò che sta realmente accadendo, riprendiamo forza. Si potrebbe anche andare un po’ più oltre e dire che da tale riconoscimento si sviluppa una certa dose di sanità. Perciò io penso che è molto importante presentare alle persone la possibilità che esse possano affrontare una qualche   perdita, un certo senso di smarrimento. Sarebbe molto più salutare e più di conforto porsi in relazione  direttamente con questa possibilità, piuttosto che ignorarla. Il guaritore dovrebbe incoraggiare le persone malate a confrontarsi con la loro insicurezza. Una simile aperta comunicazione permetterà l’avvio di un vero incontro, una relazione onesta.

Non dobbiamo nascondere le cose difficili da dire ; d’altra parte, non dobbiamo neppure spingerle agli estremi. Almeno, dovremmo aiutare una persona ad avere una qualche comprensione dell’idea di perdita - della possibilità della non-esistenza e della dissoluzione nell’ignoto. La cosa importante  in ogni relazione, è di condividere un certo livello di sincerità e di esplorare quanto si possa andare lontano. In questo modo la relazione può diventare estremamente intensa e bella. Talvolta potremmo  cogliere solo un cenno di questa intensità ; potremmo aprirci solo il minimo indispensabile. Nondimeno, anche questo è utile. E’ un passo nella giusta direzione.

Nella relazione guaritore-paziente, non   cerchiamo in modo particolare di cambiare le persone. La malattia e la salute non sono una situazione bianca e nera, ma parti di un processo organico. Noi stiamo semplicemente lavorando con la malattia e con la potenzialità di morte, piuttosto che fare affidamento su qualche particolare dottrina. Non stiamo parlando di convertire qualcuno. Ciononostante, i materiali con cui stiamo lavorando sono assai ricchi : andando avanti possiamo vedere che il seme si trasforma in fiore. Non produciamo un cambiamento nelle persone, semplicemente esse crescono. Incoraggiando i pazienti ad accettare la morte o l’incertezza non significa che essi debbano affrontare il diavolo. Anzi, tale accettazione risulta essere qualcosa di positivo nella vita delle persone ; vincere l’ultima paura dell’ignoto è una cosa molto potente.

Alcuni parlano di guarigione in un senso magico, come quando  i cosiddetti guaritori che pongono le loro mani su un malato e miracolosamente lo guariscono ; altri affrontano il livello fisico della guarigione, con l’uso di droghe, della chirurgia, e così via. Però io penso che il punto cruciale sia che ogni vera cura debba venire fuori da una certa   apertura psicologica. Vi sono continue opportunità per tale apertura - ripetuti varchi nella nostra struttura concettuale e fisica. Se   espiriamo,   creiamo spazio per far entrare velocemente l’aria fresca. Se  non respiriamo,   l’aria fresca non può entrare. E’   questione di un nostro atteggiamento psicologico piuttosto che   dare il potere di poterci guarire a fattori esterni. L’apertura sembra essere l’unica chiave per la guarigione. E apertura significa  che siamo disposti a  riconoscere di  esserne capaci ; abbiamo un certo tipo di terreno per rapportarci con qualsiasi cosa ci accada.

Il ruolo del guaritore non è tanto quello di curare il malanno quanto di troncare la tendenza a vedere il male come una minaccia esterna. Fornendo   confidenza e una certa dose di simpatia, il guaritore crea la suggestione della guarigione o di una sanità sottostante che scalza gli ingenui concetti di malattia. Il guaritore ha a che fare con i danni prodotti dalle lacune nella nostra vita e con la nostra mancanza d’animo.

Le persone hanno la tendenza a sentire la loro particolare malattia come qualcosa di speciale, come se fossero le sole persone con quel tipo di disturbo. Ma, nei fatti, il loro disturbo non è così speciale - e neppure così terribile. E’ una questione di riconoscere che siamo nati soli e che moriremo soli, ma anche che è una cosa buona. Non c’è niente di particolarmente terribile o speciale in questo.

Spesso l’intera nozione di malattia è vista come un fatto puramente meccanico : qualcosa del nostro macchinario, il nostro corpo, non funziona. Ma, in qualche modo, ciò è perdere il nesso. Non è la malattia ad essere il grosso problema, ma lo stato psicologico che ne consegue. Non ci saremmo mai potuti  ammalare   senza un certa   mancanza di interesse e di attenzione. Sia che si sia investiti da un’auto o che si abbia un raffreddore, vi è stato un vuoto in cui non ci siamo presi cura di noi stessi ; un momento   in cui abbiamo smesso di rapportarci alle cose in modo appropriato. Non c’è stata adeguata consapevolezza del nostro stato psicologico. Perciò, tanto per cominciare, nella misura in cui, noi la provochiamo, ogni malattia  e non soltanto quelle considerate tradizionalmente come psicosomatiche, è psicologica. Tutte le malattie sono mosse da uno stato mentale. Ed anche dopo che le abbiamo curate e siano scomparsi i   sintomi, pretendendo di aver superato il problema, noi continuiamo solo a piantare i semi per ulteriori nevrosi.

Sembra che vogliamo generalmente evitare la nostra responsabilità psicologica, come se le malattie fossero eventi esterni che si impongono a  noi. Vi è un senso di sonnolenza, o di non cogliere i vuoti nell’apparente solida struttura della nostra vita. Da questo senso di noncuranza proviene un immenso messaggio. I nostri corpi richiedono la nostra attenzione ;   esigono che prestiamo attenzione a ciò che sta accadendo alla nostra vita. La malattia ci riporta sulla terra, facendo che le cose diventino molto più dirette ed immediate.

La malattia è un messaggio diretto per  sviluppare una atteggiamento  di precisa consapevolezza : dovremmo essere più intelligenti verso noi stessi. Le nostre menti e i nostri corpi sono   assai immediati. Voi soltanto sapete come si sente il vostro corpo. Nessun altro se ne occupa ; nessun altro può saperlo all’infuori di voi. Dunque vi è una naturale capacità di capire   ciò che per voi è buono e quel che non lo è. Voi potete dare risposte intelligenti al vostro corpo prestando attenzione al vostro stato mentale.

Per questo motivo, la pratica della meditazione è l’unico modo di prendersi realmente cura di noi stessi. Benché il tentativo di usare la meditazione come una sorta di cura possa sembrare materialistico, la pratica stessa impedisce subito qualsiasi attitudine materialistica. Fondamentalmente, l’attenzione è un senso di padronanza di sé. Nella meditazione, noi non stiamo ottenendo nulla ; siamo soltanto proprio lì, in osservazione della nostra vita. Vi è un generale senso di ricerca, una consapevolezza del corpo come meccanismo estremamente sensibile che ci manda messaggi continuamente. Se abbiamo perduto tutte le   possibilità di ascoltare questi messaggi, ci troviamo malati. I nostri corpi ci inducono ad essere attenti con immediatezza. Perciò è importante   non cercare di liberarsi della malattia, ma   usarla come un messaggio.

Noi vediamo il nostro desiderio di liberarci della malattia come un desiderio di vivere. Invece è spesso proprio l’opposto : è uno sforzo di evitare la vita. Sebbene apparentemente si voglia essere vivi, di fatto noi semplicemente vogliamo evitarne l’intensità. E’ un ironico capovolgimento: noi vogliamo realmente guarire allo scopo di evitare la vita. Quindi la speranza di guarire è una grossa bugia ; è il più grande complotto fra tutti. Infatti,  sia gli spettacoli cinematografici che i vari programmi culturali, nonché ogni tipo di svago ci allettano per farci sentire che siamo in contatto con la vita mentre, di fatto, ci stiamo spingendo dentro una ulteriore forma di torpore.

La relazione che guarisce è un incontro tra due menti : quella del guaritore e quella del paziente o, in questo caso, tra quella dell’insegnante spirituale e quella dello studente. Se voi e l’altra persona siete entrambi aperti, può aver luogo un certo   dialogo non forzato. La comunicazione avviene in modo naturale poiché entrambi sono nella medesima situazione. Se il paziente si sente in uno stato orribile, il guaritore toglierà quel senso di terribile disgrazia dal paziente : per un momento egli si sentirà più o meno nello stesso modo, come se fosse lui stesso malato. Per un momento i due non saranno separati e vi sarà un senso di autenticità. Dal punto di vista del paziente, questo è precisamente ciò di cui aveva bisogno : qualcuno che riconoscesse la sua esistenza e il   suo enorme bisogno di aiuto. Qualcuno realmente passa attraverso la sua malattia. Il processo di guarigione può quindi cominciare a  avvenire nel paziente, in quanto egli realizza che qualcuno ha comunicato con lui completamente. Vi è stato una reciproca intesa su un terreno comune. Il sostegno psicologico della malattia comincia allora a sgretolarsi, a dissolversi. La stessa cosa si applica agli incontri tra un insegnante di meditazione e i suoi studenti. Vi è un lampo di comprensione - nulla di particolarmente mistico o ‘estremo’,  una cosa molto semplice, comunicazione diretta. Lo studente comprende e l’insegnante comprende allo stesso tempo. In questo comune lampo di comprensione, viene impartita la conoscenza.

A questo punto, mi accorgo di non far distinzioni tra medici e psichiatri : sia che si tratti di livello psicologico che medico, la relazione col proprio paziente deve essere esattamente la stessa. L’atmosfera di accettazione è estremamente semplice ma molto efficace. Il punto principale è che il guaritore ed il paziente siano capaci di condividere il loro senso di dolore e sofferenza - la loro claustrofobia o la paura o il dolore fisico. Il guaritore deve sentirsi parte dell’intera situazione. Sembra che parecchi guaritori cerchino di evitare questo tipo di identificazione ; essi non vogliono restare coinvolti in una simile così intensa esperienza. Anzi, essi cercano di restare estremamente freddi e disinteressati, mantenendo un comportamento assai più da uomini d’affari.

Tutti noi parliamo il medesimo linguaggio ; sperimentiamo la stessa   nascita e un’identico rischio di morte . Perciò c’è un campo limitato in cui c’è un certo vincolo,   una certa continuità tra te e l’altro. E’ qualcosa di più che soltanto dire meccanicamente ‘Si, lo so, mi duole molto’. E’ importante sentire realmente il   dolore del paziente e condividere la sua ansietà, piuttosto che soltanto simpatizzare con lui,. Potete dire quindi ‘Si, sento il tuo dolore in un modo differente. Rapportarvi con totale apertura significa che siete completamente presi dal problema di qualcuno. Può esservi una sensazione   di non sapere bene  come affrontarlo e dover fare solo del proprio meglio, ma anche questa incapacità è già una decisione assai generosa. Perciò, tra la completa apertura e lo smarrimento c’è una barriera molto sottile.

La relazione tra guaritore e paziente è assai più personale che non il basarsi sui libri o  cercare una medicina adeguata. Secondo il buddhismo, l’essenza umana è composta di compassione e saggezza. Dunque non dovete acquisire un’abile comunicazione  al di fuori di voi stessi ,ce l’avete già. Questo non ha niente a che fare con esperienze mistiche o qualche tipo di estasi spirituale più elevata ; è soltanto la situazione operativa di base. Se avete un interesse per qualcosa, questa è apertura. Se avete interesse per la  sofferenza e per i conflitti delle persone, siete in possesso di questa apertura in modo costante. E allora potete sviluppare un certo senso di fiducia e comprensione così che la vostra apertura diventi compassione.

E’ possibile lavorare con sessanta persone al giorno e raggiungere lo scopo con ciascuna di esse. Ciò richiede un senso di completa dedizione ed una disponibilità a stare vigili, senza cercare di raggiungere uno specifico scopo. Se avete uno scopo, allora state cercando di manipolare la relazione e la guarigione non può aver luogo. Avete bisogno di capire i vostri pazienti ed incoraggiarli alla comunicazione, ma non potete forzarli. Solo allora il paziente, che sta sentendo un senso di separazione, che è pure un senso di morte, può cominciare a sentire che vi è speranza. Almeno qualcuno si cura realmente di lui, qualcuno lo ascolta veramente, anche se solo per pochi secondi. Ciò permette l’avvento di una comunicazione intensa e assai genuina. Tale comunicazione è semplice : non vi è alcun trucco dietro di essa e nessuna complicata tradizione da seguire. Non è una questione di come farlo, ma solo di continuare ad andare avanti.

Psichiatri e medici, come pure i loro pazienti, devono porre fine al loro senso di ansietà per la possibilità della non esistenza. Quando vi è questo tipo di apertura, il guaritore non ha l’incombenza di dover risolvere completamente il problema della persona. L’atteggiamento di cercare di riparare ogni cosa è sempre   un problema   ; un tale approccio crea una serie di  cure e inganni che sembrano andare mano nella mano. Una volta che la paura di base è stata riconosciuta, procedere con la cura diventa molto più facile.   La strada vi si fa incontro : non c’è  più bisogno di crearsi un percorso. I guaritori professionisti   si sviluppano lavorando con la grande varietà di situazioni che vengono loro incontro. Vi sono infinite possibilità per sviluppare la propria consapevolezza e la propria apertura. Naturalmente, è sempre più facile abbassare lo sguardo sui propri pazienti e sui loro guai, pensando quanto siete fortunati a non avere la loro malattia. Potreste sentirvi superiori. Ma il riconoscimento della vostra base comune - la vostra comune esperienza di nascita, vecchiaia, malattia e morte, nonché la paura che sottostà a tutte queste cose - porta con sé un senso di umiltà. Ciò è l’inizio del processo di guarigione. Il resto sembra accordarsi abbastanza facilmente e naturalmente sulla base della propria innata saggezza e compassione,. Questo non è un processo particolarmente mistico o spirituale ; è semplicemente una ordinaria esperienza umana. La prima volta che cercate di avvicinare una persona in questo modo potrà sembrarvi difficile. Però fatelo senza indugi. Infine cosa intendiamo quando diciamo che un paziente è stato guarito ? Essere guariti, ironicamente , significa   che una persona non è più intimidita dalla  vita ; è capace finalmente di affrontare la morte senza risentimenti o aspettative.

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                                                  10) L'ALCOL COME VELENO O MEDICINA            

Composto durante il ritiro di Charlemont, Vermont, 1972

 

“Nel Guhyasamaja Tantra, il Buddha dice : ‘Ciò che inebria la mente dualistica è in verità il naturale filtro che si oppone alla morte’. Nel tantra buddhista, l’alcool è usato per catalizzare l’energia fondamentale dell’ebbrezza ; questa è l’energia che trasforma il dualismo del mondo apparente in advaya, ‘non-due’. In questo modo, la forma, l’odore ed il suono possono venir percepiti integralmente, così come sono, all’interno del reame di mahasukha, la grande gioia”.

La naturale ricerca dell’uomo è di cercare di confortare e intrattenere se stesso con ogni tipo di piaceri sensuali. Egli desidera una casa sicura, un matrimonio felice, amici stimolanti, cibi deliziosi, bei vestiti e buon vino. Ma la moralità generalmente insegna che questo tipo di piaceri non sono una cosa buona ; dovremmo avere della nostra vita un’idea più vasta. Dovremmo pensare ai nostri fratelli e sorelle che non possiedono quelle cose, anziché indulgere su noi stessi, dovremmo condividere tutto con essi generosamente.

Il giudizio moralistico     pone   l’alcool   tra le eccessive indulgenze   verso se stessi ;   il bere potrebbe essere visto come una attività borghese. D’altro canto coloro a cui piace bere ne traggono un senso di benessere     e sentono che   li rende capaci di essere più calorosi e   aperti verso i loro amici e colleghi. Ma anch’essi spesso covano un   senso di colpa sul bere ; temono di fare del male al loro corpo con l’abuso e provano una sorta di mancanza di rispetto verso se stessi.

Alcuni bevitori lavorano duramente durante il giorno, facendo lavori fisicamente pesanti   . Essi amano, tornando a casa, bere dopo il lavoro oppure scolarsi qualche bicchierino con gli amici al bar. Vi sono poi dei bevitori più distinti - dirigenti di azienda e simili - che hanno spesso l’abitudine di creare un’atmosfera di convivialità nelle loro relazioni d’affari stappando una bottiglia. Quest’ultimo tipo è più soggetto ad avere un nascosto senso di colpa sull’alcool che non i loro fratelli proletari che bevono per celebrare la fine di una giornata di lavoro. Tuttavia, malgrado i molti dubbi, sembra che invitare qualcuno ad una bevuta sia più vitale che non invitarlo a bere una tazza di tè.

Altre persone bevono per cercare di uccidere la noia, proprio   come con il fumo. Una casalinga che ha appena finito di spolverare o di fare il bucato si potrebbe sedere e farsi un goccetto per godersi il lavoro fatto oppure   sfogliando dei giornali sull’ultima moda o sull’arredamento domestico. Allorché il piccolo piange oppure quando suona il campanello della porta,   manderà giù un robusto sorso prima di affrontare la situazione. L’annoiato impiegato d’ufficio   terrà nel cassetto della sua scrivania una fiaschetta in modo da poter prendere un sorso ogni tanto   tra una visita del suo capufficio o quella della sua maldestra compagna di lavoro. Si consolerà  dalla noia quotidiana anche con una visita al bar nella pausa pranzo.

Chi  prende il bere   seriamente lo usa come un rifugio dalla fretta e dalla frenesia della vita ;   può altresì temere di diventare alcoolizzato. In entrambe le situazioni psicologiche vi è un rapporto amore-odio nel     bere, insieme ad un senso di andare verso l’ignoto. In alcuni casi, questo viaggio verso l’ignoto può   produrre una chiarezza che, in quella situazione, si può avere solo con il bere. Quella chiarezza sarebbe altrimenti troppo dolorosa.

Uno dei problemi dei convinti bevitori è il   sentirsi perseguitati da un approccio moralistico al bere, il che pone il finto problema : si dovrebbe bere o no ? Alle prese con questa domanda,  si chiede aiuto al proprio amico. Qualcuno berrà tranquillamente in compagnia. Altri avranno specifiche riserve sul quando e come bere. Il vero bevitore prende queste persone per dilettanti, perché pensa che non si sono mai rapportate completamente con l’alcool. Spesso le loro riserve sono soltanto un problema di forme sociali : proprio come uno sa che il posto per parcheggiare la propria macchina è nel parcheggio, così si conosce il punto oltre il quale non si dovrebbe bere. Possiamo bere nei ricevimenti e ai pranzi di rappresentanza, purché ci sia la sicurezza che il proprio marito o la propria moglie ci riportino a casa senza incidenti.

C’è qualcosa   di sbagliato in un approccio all’alcol totalmente basato sul concetto di moralità o di opportunità sociale. Ci si preoccupa esclusivamente degli effetti esterni del proprio bere. Non si considera il vero effetto dell’alcool, ma solo il suo impatto sociale. D’altra parte, un bevitore sente che, oltre al piacere che ne ricava, c’è è qualcosa di buono nel suo bere. Vi è un calore ed una apertura che sembrano derivare dal rilassamento del suo normale stile di autocontrollo. Vi è anche   fiducia di poter comunicare accuratamente le sue proprie percezioni e di perdere il suo solito senso di inadeguatezza. Gli scienziati ritengono   di poter risolvere i propri problemi ; i filosofi hanno nuove intuizioni e gli artisti   una più chiara percezione. Il bevitore sperimenta una più ampia chiarezza perché percepisce più realmente il suo essere ; quindi i sogni ad occhi aperti e le fantasie possono essere temporaneamente messi da parte.

Sembra che l’alcool sia un debole veleno capace di  essere trasformato in medicina. Una vecchia favola popolare persiana narra di come il pavone prosperi sul veleno, che nutre  il suo organismo rendendo luccicante il suo piumaggio.

La parola whiskey deriva dal gaelico uisgebeatha, che significa ‘acqua della vita’. I danesi hanno la loro aquavit. Le patate russe producono la vodka, la ‘piccola acqua’. I nomi tradizionali suggeriscono che l’alcool è quantomeno innocuo e forse medicinale. Inoffensivo o medicinale che sia, il potere dell’alcool ha influenzato strutture sociali e psicologiche in molte parti del mondo nella storia. Nel misticismo indiano, sia hindù che buddhista, l’alcool è chiamato amrita, la pozione contro la morte. Birwapa, un siddha indiano, raggiunse l’illuminazione dopo aver bevuto sette galloni di liquore in un pomeriggio.   Gurdjieff, un maestro spirituale che insegnò in Europa, parlò delle virtù del ‘bere consapevole’ e insistette che i suoi studenti facessero   una bevuta consapevole insieme. Il bere consapevole è una concreta e semplice  dimostrazione di come la mente sia al di sopra della materia : permette di metterci in rapporto con i vari livelli dell’ebbrezza ;sperimentiamo le nostre aspettative, il piacere quasi diabolico quando si comincia a sentire l’effetto   e la caduta finale nella frivolezza quando cominciano a dissolversi le barriere abituali.

Tuttavia l’alcool può essere tanto facilmente una pozione mortale quanto una medicina. Il senso di allegria e cordialità ci può far rinunciare alla nostra consapevolezza, ma fortunatamente vi è anche una depressione sottile che si associa al bere. Abbiamo una forte tendenza a fermarci alla cordialità e ad ignorare la depressione ; questo è l’istinto da scimmia. E un grosso errore. Diventa estremamente pericoloso se prendiamo l’alcool come una sostanza per farci coraggio o come un sedativo per rilassarci. Succede     per l’alcool come con qualsiasi cosa della vita con cui ci rapportiamo solo in parte.

Vi è una grande differenza tra l’alcool e altri inebrianti. In contrasto con l’alcool, alcune sostanze come LSD, marijuana, oppio, non producono una contemporanea depressione.   La depressione se giunge, è   di natura concettuale. Con l’alcool invece vi sono sempre sintomi fisici : aumento di peso, mancanza di appetito, crescente sensazione di pesantezza (inclusi gli strascichi della sbornia). Vi è sempre il senso di avere ancora un corpo. L’ebbrezza da alcool è psicologicamente un processo di caduta , anziché un salire in alto nello spazio, come con le altre sostanze.

Se l’alcool è un veleno o una medicina dipende dalla propria consapevolezza nel bere. Il bere consapevole -   consapevoli del proprio stato mentale - trasforma l’effetto dell’alcool. In questo caso la consapevolezza provoca un rafforzamento del  proprio sistema come fosse un intelligente meccanismo di difesa. L’alcool diventa distruttivo quando cediamo alla giovialità : lasciandolo incontrollato si permette al veleno di penetrare nel proprio corpo. Quindi l’alcool può essere un terreno di sperimentazione. Porta alla superficie il comportamento latente delle nevrosi del bevitore, lo stile che egli abitualmente nasconde. Se le sue nevrosi sono radicate e   nascoste  in modo molto inconsapevole, egli più tardi dimenticherà ciò che è accaduto dopo aver bevuto. Oppure sarà estremamente imbarazzato nel ricordare ciò che avrà fatto.

La creatività dell’alcool sorge quando sorge un senso  di danza coi suoi effetti - quando uno prende gli effetti del bere con un senso di humor. Per il bevitore consapevole, oppure per lo yogi, la virtù dell’alcool sta nel fatto che esso lo riporta giù nella realtà ordinaria, così da non dissolversi nella meditazione sulla non-dualità. In questo caso l’alcool agisce come una pozione di lunga vita. Quelli che sono troppo presi   dalla sensazione che il mondo sia un miraggio, una illusione, vengono trascinati fuori dalla loro meditazione in uno stato di non meditazione per mettersi in contatto con le persone. In questa condizione, le cose viste, i suoni e gli odori del mondo diventano intensamente sovrastanti nella loro essenza. Quando lo yogi beve, questo è il suo modo di accettare il mondo dualistico dell’apparenza ordinaria. Il mondo esige la sua attenzione - la sua relazione e compassione. Egli è felice e divertito per avere questo invito a comunicare.

Per lo yogi, l’alcool è il carburante per rapportarsi coi suoi studenti e con il mondo in generale, così come la benzina permette ad una automobile di rapportarsi con la strada. Naturalmente, però, il bevitore ordinario che cerca di imitare o competere con questo stile trascendentale di bere, tramuterà il suo alcool in veleno. Negli insegnamenti hinayana del buddhismo, viene ricordato che il Buddha rimproverò un monaco che si deliziava di un filo d’erba inzuppato nell’alcool. E’ necessario comprendere che qui il Buddha non stava condannando gli effetti dell’alcool ; egli stava condannando l’attrazione verso di esso, l’esserne presi come tentazione.

La concezione dell’alcool come una tentazione del demonio è una cosa assai discutibile. Disputare su questa questione crea dubbi   se l’alcool sia alleato del bene o del male. Questa incertezza   crea nel bevitore un senso di lucidità e di impavidità. Lo porta a calarsi nel momento presente così com’è. L’impavida volontà di essere lucido su ciò che sta accadendo di fronte all’ignoto è la vera energia di trasformazione che è stata descritta nella tradizione tantrica del buddhismo. Nel Guhyasamaja Tantra, il Buddha dice : ‘Ciò che inebria la mente dualistica è in verità il filtro naturale che si oppone alla morte’ Nel Tantra buddhista. L’alcool è usato per catalizzare l’energia fondamentale dell’ebbrezza ; questa è l’energia che trasforma il dualismo del mondo apparente in advaya ‘non-due’. In questo modo, la forma, l’odore ed il suono possono venir percepiti integralmente, così come sono, all’interno del reame di mahasukha, la grande gioia.

Il Chakrasamvara Tantra dice : ‘Dal puro dolore senza piacere, non si può essere liberati. Il piacere risiede all’interno del calice del loto. Questo deve nutrire lo Yogi’. Tutto ciò mette una grande enfasi sul piacere. Ma la cognizione del piacere proviene da una aperta relazione con il dolore. L’alcool dà una esaltazione che sembra andare oltre ogni limite ; al tempo stesso esso porta la depressione che deriva dal sapere che abbiamo ancora un corpo e che le proprie nevrosi vi sono pesantemente sovrapposte . I bevitori consapevoli potrebbero avere una intuizione di queste due polarità.

Nel misticismo tantrico, lo stato di ebbrezza è chiamato lo stato di non-dualità. Se non dovrebbe essere inteso come un invito a divertirsi è vero anche che è assai possibile per il bevitore consapevole, avere  una intuizione del cosmico orgasmo di mahasukha. Essere  abbastanza aperti da tralasciare la grettezza dell’attaccamento alla propria liberazione personale, accettando la nozione di libertà anziché dubitare di essa, fa ottenere abili mezzi e saggezza. Questa è considerata come l’ebbrezza più inebriante.

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                                             11) PRATICA E BONTA' FONDAMENTALE

            Un discorso per i giovani

Tratto da un seminario per ragazzi tenuto nel 1978 a Boulder, Colorado.

“Dato che state crescendo, è un’ottima idea quella di darvi una mossa - sentirvi forti ed essere fieri di voi stessi. Non dovete sentirvi inadeguati poiché siete ragazzi che cercano di raggiungere l’età adulta. Non sono necessarie tante lotte. Dovete soltanto essere. Per fare ciò, avete bisogno di sviluppare la forza di credere nella vostra bontà fondamentale e avete bisogno di praticare la meditazione”.

Vorrei parlarvi del perché ci troviamo qui e perché siamo buddhisti. In un certo senso è molto semplice e lineare : voi, i vostri genitori ed io stesso, seguiamo tutti una particolare disciplina, una particolare tradizione, chiamata buddhismo. Quando   andate a scuola, che non è una scuola buddhista, potreste trovare che l’atmosfera è un po’ strana. Potreste aver voglia di fare le cose come le fanno gli altri  e quando tornate a casa, potreste aver voglia di seguire la strada dei vostri genitori. D’altra parte, potreste avere delle difficoltà con i vostri genitori.

Quello a cui si riduce il buddhismo è   di seguire l’esempio del Buddha, che fu un indiano - non un indiano americano, ma un indiano dell'India. Il Buddha era un principe che decise di abbandonare il suo palazzo ed il suo regno per scoprire che cosa fosse la vita. Andava cercando il significato , lo scopo della vita. Voleva sapere chi e che cosa   fosse. Perciò si mise in cammino e praticò la meditazione, mangiando molto poco. Meditò per sei anni, ventiquattro ore al giorno. E alla fine di questi sei anni scoprì qualcosa : capì che le persone non dovevano lottare così tanto. Non dobbiamo perderci troppo nelle  nostre difficoltà, nel nostro dolore, nel nostro sconforto. Il Buddha scoprì che vi è qualcosa in noi nota come bontà fondamentale. Perciò, non  ci dobbiamo condannare   per essere cattivi o capricciosi. Il Buddha insegnò quel che aveva imparato al resto dell’umanità. Ciò che egli poi ha insegnato - venticinque secoli fa - viene ancora insegnato e praticato. Per noi la cosa importante da comprendere è che   siamo fondamentalmente buoni.

Il nostro solo problema è che talvolta non riconosciamo veramente tale bontà. Non la vediamo e così diamo la colpa a noi stessi o a qualcun altro. Questo è un errore. Non dobbiamo accusare gli altri e non dobbiamo sentirci cattivi o arrabbiati. La bontà fondamentale è sempre con noi, sempre in noi. Ecco perché la nostra educazione non è difficile. Se abbiamo la bontà fondamentale in noi, allora la conoscenza è già una parte di noi. Andare a scuola e fare la meditazione sono solo modi di riconoscere questa bontà fondamentale.

“Dato che state crescendo, è un’ottima idea quella di darvi una mossa - sentirvi forti ed essere fieri di voi stessi. Non dovete sentirvi inadeguati poiché siete ragazzi che cercano di raggiungere l’età adulta. Non sono necessarie tante lotte. Dovete soltanto essere. Per fare ciò, avete bisogno di sviluppare la forza di credere nella vostra bontà fondamentale e avete bisogno di praticare la meditazione”. La meditazione seduta è una tradizione vivente. Conosciamo il modo in cui lo fece il Buddha e conosciamo il modo come farlo noi stessi. Quando voi sedete come il Buddha, comincerete ad avvertire qualcosa chiamata illuminazione. Essa è solo sentire che vi è qualcosa di molto lineare e molto scintillante in voi. Non è necessariamente ‘sentirsi bene’. E’ molto più che sentirsi bene : proverete un senso di grande vivacità e di leggerezza. Vi sentirete sani, semplici e forti.

Se volete fare qualche domanda, vi prego di farla.

STUDENTE : Questa è una domanda sciocca, ma se il Buddha sedette per sei anni, ventiquattro ore al giorno, come e quando mangiava ?

TRUNGPA RINPOCHE : Bè, egli mangiava molto poco. Secondo la storia egli faceva un pasto al mattino, qualcosa come la nostra colazione. E dormiva molto poco. La maggior parte del tempo sedeva. Quando i suoi amici andarono a trovarlo, all’inizio non lo riconobbero, per quanto era magro. Nella mattinata del giorno che ottenne l’illuminazione, fu avvicinato da una donna che gli dette del riso con latte, così poté rinforzarsi. Poi ritornò alla sua pratica seduta, per così dire, ma non fu più così magro, da allora in poi. Nei dipinti del Buddha, come quello che vedete sull’altare, vi sono delle aureole intorno al suo capo. L’aureola rappresenta l’idea di una fulgida salute e splendida grandezza.

ST . : Rinpoche, potresti dire quanto tempo dovrebbero sedere i ragazzi ?

TR.R. : Una pratica seduta ogni giorno dovrebbe andare molto bene. Voglio sperare che riusciate a farla. Io cominciai a sedere a nove anni ; mi sedevo per circa quarantacinque minuti. Però secondo le circostanze, penso che forse sarebbe una buona cosa sedere sette minuti ogni giorno. Ciò è sufficiente. Se potete farlo solo una volta alla settimana, dovreste cercare di sedere per una mezz’ora. I vostri genitori potrebbero sedere con voi, oppure farlo da soli. Ed il posto dove sedere dovrebbe essere elegante e confortevole. Tu siedi a casa tua ?

ST. : Qualche volta.

TR.R. : Quanto spesso ? Una volta a settimana ?

ST. : Dopo la scuola.

TR.R. : Ottimo. Forse questo è un buon metodo. In questo modo potresti arrivare a casa e rilassarti.

ALTRO STUDENTE : Divento molto depresso e vorrei sapere se devo sedere di più ?

TR.R. : Sì, dovresti meditare di più. Questo è proprio l’idea base. Soprattutto quando ti senti depresso o quando sei troppo eccitato, dovresti sedere di più, in quanto avresti qualcosa con cui lavorare. Questo è ciò che fece il Buddha. Prima di iniziare il suo ritiro di sei anni, egli era molto depresso, era davvero infelice di tutta la sua vita. Dato che era così depresso, aveva qualcosa su cui lavorare.

ST. : Quando siedo di solito mi sento irrequieto.

TR.R . : Bè, la gente lo è sempre. E’ una cosa normale, ma non arrenderti alla tua irrequietezza. Cerca solo di mantenere la tua postura e tornare al tuo respiro. Vedi, ciò che stai facendo è di imitare il Buddha. Dovresti tenere la testa e le spalle ben dritte, come faceva lui. Così ti sentirai bene. Quando cominci a sentirti irrequieto, cominci a curvare la testa e le spalle e diventi irrequieto come un animale. Quando siedi diritto, sei differente da un animale. La postura eliminerà la tua irrequietezza.

ST. : Quando hai portato fuori dal Tibet tutte quelle persone, sapevi che direzione prendere ?

TR.R. : No, non ne avevo idea.

ST. : Ma quando vi siete smarriti, sapevate dove andare ?

TR.R : Bè, hai un senso della direzione e hai la sensazione che l’India è in quella direzione. Quando  smarrisci la strada, ti fermi e siedi per cinque minuti. Dopo di ciò, hai una visione molto più chiara e sai dove andare. Smarrisci il tuo cammino solo se sei distratto. Dunque, se la tua mente è chiara, allora sai dov’è l’India e non c’è   problema. Vi sono piste che vanno in tale direzione e tu devi solo seguirle.

ST. : Quando stavi guidando le persone attraverso la neve nelle montagne, ti sentivi calmo per tutto il tempo ?

TR.R. : Bè, dovevamo stare calmi. Altrimenti avremmo perso la strada. E avremmo perso la nostra forza. Invece ci sentivamo molto energici. Non ho mai avuto nessun dubbio ; andavamo solo avanti. Perciò la calma era molto importante, come pure un certo tipo di forza. Eravamo concentrati sull’idea di doverlo fare e l’abbiamo fatto.

ST. : Quindi la tua fiducia ti ha aiutato ad essere forte abbastanza per oltrepassare le montagne ?

TR.R. : Sì.

ST. : Nelle immagini del Buddha, di solito si vedono tre gioielli. Io non so il loro significato.

TR.R. : I tre gioielli rappresentano l’idea che gli studenti del Buddha aprano se stessi e gli facciano offerte. Esse rappresentano l’offerta del loro corpo, parola e mente al Buddha. Voi vi state donando a lui ed ai suoi insegnamenti. Presumibilmente, questi gioielli vi apporteranno più ricchezze e benessere. Donando al Buddha qualsiasi cosa che vi è preziosa, otterrete pazienza e ricchezza.

ST. : Nel vostro viaggio, siete mai rimasti senza cibo ?

TR.R. : Sì, è successo certamente. Lo hai letto su un libro ? Hai letto ‘Nato in Tibet’ ? Dovresti leggerlo. E’ proprio una gran storia. (Risate). Siamo rimasti senza cibo. Più o meno all’ultimo mese, non avevamo più molto da mangiare. Abbiamo dovuto cuocere le nostre borse di pelle. Quando siamo arrivati nei posti più bassi, abbiamo trovato dei bambù e alberi di banano. Però abbiamo lasciato gli alberi di banano ; non sapevamo che erano commestibili. Nessuno aveva mai visto alberi di banano prima di allora.

ST. : Quando stavate in viaggio, vi siete seduti a meditare ?

TR.R. : Sì, lo abbiamo fatto. Consideravamo importante farlo. Quello era il modo per ottenere la nostra forza, la nostra energia. Altrimenti saremmo stati distrutti. Fu un viaggio lunghissimo, dieci mesi in tutto.

ST. : Morì qualcuno in quel viaggio ?

TR.R. : Morirono tre persone. Erano troppo vecchie per viaggiare a piedi. Dato che la nostra tabella di marcia era molto tirata, dovevamo camminare da mattina a sera. Cominciarono ad avere ferite nelle gambe e, alla fine, cedettero.

ST. : Vi erano bambini con voi ?

TR.R. : Molti. Fu difficile per le madri con i bambini, però i ragazzi più grandi se la cavarono bene. Anzi, in verità furono i migliori, poiché cominciarono a prendere forza. Divennero molto più forti.

Una volta stavamo incrociando l’autostrada cinese. Dovevamo cogliere il momento opportuno ed eravamo molto preoccupati che i soldati cinesi potessero vederci. Sotto di noi c’era la strada formicolante di truppe. Dovemmo aspettare sul lato del crinale finché fece buio. Avevamo progettato di attraversare tutti insieme, in gruppo. Proprio quando stavamo per attraversare, arrivò un camion ed i più piccoli cominciarono a piangere con quanto fiato avevano in gola. Ma i cinesi non ci videro. Dopo che fummo passati oltre, qualcuno spazzò la strada, cosicché i cinesi non poterono trovare le nostre tracce.

ST. : Quanto erano alti gli otto uomini più grossi - quelli che si sdraiarono sulla neve per far passare gli altri ?

TR.R. : Bè, non erano particolarmente grossi,  erano robusti.

ST. : Sono ancora vivi ?

TR.R. : Sì. Sebbene fossimo partiti in trecento, molti di loro furono catturati. Solo ventinove di noi riuscirono a scappare.

ST. : I cinesi ed i buddhisti tibetani sono ancora in guerra, oppure la guerra è finita ? Stanno ancora sparandosi l’un l’altro ?

TR.R. : No, ora non più. I cinesi hanno ucciso o esiliato la maggior parte dei capi buddhisti, così ora non ne è rimasto nessuno da combattere.

ST. : Dato che praticavate la meditazione, durante il viaggio non vi siete sentiti molto ribelli o adirati con i cinesi ?

TR.R. : Bè, non particolarmente. Ciò che accadde con i cinesi fu come un temporale : non ti ci puoi arrabbiare. E’ stata una situazione adatta al momento. Se i cinesi non fossero arrivati in Tibet, io non sarei   qui.

ST. : Perché la gente guarda a Cristo ? cos’è che l’attira in lui ?

TR.R. : Bè, fu molto eroico. E, come sappiamo, fu ispirato. Egli sacrificò la sua vita per la salvezza di altri esseri. Delle folle si riunivano per sentirlo parlare ogni domenica mattina. Egli fu una persona gentile, una persona buona. Vi furono molte altre persone buone, oltre a Cristo. Vi fu Maometto, per esempio. Chi altri ?

ST. : Re Davide.

TR.R. : Sì, e molte altre persone che hanno fatto cose simili.

ST. : Durante il vostro viaggio, i cinesi cercarono mai di rintracciarvi ?

TR.R. : Sì, certo che lo fecero. Penso che ci seguissero sempre, ma noi fummo più furbi di loro.

Essi tuttavia presumibilmente stanno ancora cercando me . Ho un amico che è andato nell’ambasciata cinese a Londra ed ha visto la mia fotografia lì, con una taglia sulla testa.

ST. : Cos’è che causò la guerra tra i cinesi ed i buddhisti ?

TR.R. : Bè, i comunisti non apprezzano la pratica di meditazione. Pensano che essa sia una perdita di tempo. Essi pensano che la gente dovrebbe lavorare per tutto il tempo. La meditazione produce troppa forza personale. I comunisti vogliono sviluppare una forza di gruppo e non una forza personale. Essi non credono nella bontà fondamentale dell’individuo ; credono solo nella bontà fondamentale del gruppo. Ecco perché è chiamato comunismo ; in poche parole è così.

Bene, a questo punto forse dovremmo chiudere. Grazie, ragazzi, per essere stati così pazienti e non irrequieti. La vostra pazienza è assai da apprezzare. E’ probabilmente dovuto alla vostra pratica di meditazione. Per favore, continuate, ok ? E studiate di più il buddhismo, cercando di essere amici coi vostri genitori - se potete (Risate). Questo è un punto molto importante. Considerateli amici anziché genitori. Grazie.

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                                                                    12) DHARMA POETICO

Basato su una discussione con gli studenti di poesia del Naropa Institute, 1982.

“Quando parliamo di poeti e in generale di poesia, ne parliamo in termini di esprimere noi stessi   in modo così ricco e preciso,   che non c’è solo un bisbiglìo di parole, un bisbiglìo della mente o un bisbiglìo del corpo. Nel mondo poetico, abbiamo qualcosa che ci risveglia e che ci eccita. Vi è un senso di audacia e una atteggiamento grande e definito a non venir più spaventati da ogni tipo di minacce. Cominciamo a darci coraggio e  ad apprezzare il nostro mondo, che è già bellissimo”.

Nel discutere della poesia, non ci limitiamo al tema della poesia scritta. Il sentire poetico include anche la propria visione, l’ascoltare e il sentire in generale. Perciò, non stiamo parlando solo di scrivere poesia ; stiamo parlando di una completa, totale comprensione del mondo fenomenico - vedere le cose così come sono. Stiamo parlando   del modo poetico di mangiare il proprio cibo e bere il proprio thè. Potremmo chiamare questo approccio, dharma poetico. Il ‘Dharma’, come sapete, è l’insegnamento del Buddha. Fondamentalmente, la parola dharma, significa ‘norma’, o una qualche forma di sperimentare in modo appropriato la realtà.

Potremmo parlare di tre fasi del sentire poetico. Il primo è lo stadio del rifiuto. Noi rifiutiamo gli abituali modelli dettati da situazioni  orientate dall’io, come il desiderio di sviluppare aggressività, passione e ignoranza. Dobbiamo liberarci di questi modelli. Per esempio, se non laviamo un vestito   completamente , non saremo capaci di tingerlo con un altro colore, come rosso brillante, verde brillante o blu brillante. Il fatto è che prima di immergere il vestito che abbiamo lavato nelle svariate tinte che ci piacerebbe usare, dobbiamo avere un senso di purezza e di abbandono. Dobbiamo prima lavarlo ben bene.

E’ la stessa cosa per la nostra mente ed i nostri corpi. Dobbiamo prima passare attraverso una naturale purificazione. Questo processo comprende il lasciar andare i nostri personali viaggi mentali,   i nostri desideri ed   ogni filosofia che ci è stata insegnata.

Nel secondo stadio, possiamo aspirare al significato fondamentale della poesia. Vi sono due principali tipi di poesia : poesie che ringiovaniscono e poesie che invecchiano. Tra i due possono sorgere altri svariati tipi di poesia. Potremmo apprezzare il sole, la luna, l’erba verde, i fiori, i torrenti e le montagne, Potremmo apprezzare i temporali ; potremmo apprezzare le nevicate, apprezzare nostro padre o nostra madre. Potremmo apprezzare il mondo intero. Oppure, per lo stesso motivo, potremmo disprezzarli. Anche il disprezzare ha un senso,  sempre accettabile. Potremmo disprezzare una nevicata in aprile ; potremmo disprezzare   nostro padre o nostra madre che ci trattano male.

In generale, il sentire poetico è basato sul concetto di vedere prima in modo molto chiaro , molto preciso e molto pieno. Nessuno ci può ingannare. Questo sembra essere in questo caso la nozione basilare di poesia.

Potrei fornirvi una poesia come esempio ; non è una cosa a memoria, ma composta sul momento :

 “L’amore per mio padre è buono.Non l’ho forse preso in prestito da mia madre ?

Ciononostante io rimango ancora ….Un crisantemo.”

STUDENTE : Hai detto che vi sono due tipi di poesia : una che ringiovanisce ed una che invecchia. Cosa vuoi dire con questo ?

TRUNGPA RINPOCHE : Bè, da una parte hai già visto abbastanza del mondo, dall’altra lo stai vedendo mentre cresce. E’ come la differenza tra una buona primavera ed un buon autunno.

ST. : Oppure tra un poeta giovane ed uno vecchio ?

TR.R. : Sì, è giusto, E’ proprio così.

ST. : Cos’è che un poeta vecchio conosce ed uno giovane non conosce ?

TR.R. : Bè, ciò che tu hai appena detto è in se stesso poesia. Ascolta te stesso ! Vedi, il trucco sta nel fatto che non ti aiuto   specificamente . Devi scoprirlo da solo.

ST. : Ciò mi aiuta abbastanza. (Risate).

TR.R. : Non essere aiutato dà maggior aiuto che essere aiutati. Essere meno utili è più utile che essere utili.

ST. : Sono convinto che vi sia una certa bellezza nella imperfezione. Se tu lavi completamente il vestito e lo tingi con un colore puro, allora il colore potrebbe   essere puro, ma sarà soltanto di un solo colore.

TR. R. : Non necessariamente sarebbe di un solo colore. Potresti tingere il tuo abito con un mucchio di colori. E ogni volta che lo fai, vi potrà essere un differente tipo di sorriso ed un differente piacere. Noi non stiamo parlando di un sentire poetico completamente totalitario ; stiamo parlando di una poetica che può racchiudere situazioni varie : differenti tipi per differenti persone. Ma, all’inizio dobbiamo prima fare pulizia. E’ sempre bene. Dopo averlo lavato può essere impregnato con un mucchio di colori. E’ come uno specchio ben pulito : moltissime cose possono esservi riflesse.

Ora, senza troppo attardarci, mi piacerebbe continuare a discutere dello sviluppo   della purificazione e di un senso di desiderio per la liberazione, di cui parlavamo prima, e aggiungere una terza fase.

Le tre fasi di cui stavamo discutendo sono in verità uniti da un fondamentale senso di gioia. A volte per gioia s’intende un proprio modo personale di non lavorare onestamente con se stessi, ma avere a che fare con un senso di indulgenza. Qui, invece, gioia significa non indulgere verso se stessi. Questo è la prima fase che  avevamo descritto come purificazione di se stessi e rifiuto dei propri modelli abituali.

In altre parole, gioia significa che la nostra percezione del mondo può essere resa più chiara. La miglior filosofia poetica, in questo caso, è di avere un senso di precisione e accuratezza nel  come realmente percepiamo l’universo, e questo è la seconda fase.

Quando rendiamo chiara la nostra percezione, noi non ci imbrogliamo più con il verde, giallo, rosso, blu, rosa o arancione. Non ci prendono più in giro e neppure le montagne, i torrenti, fiori o api. Lascio alla vostra immaginazione il sorgere di tutte queste cose nella vostra mente. Non veniamo più ingannati da nostro padre, nostra madre, le nostre sorelle o fratelli, oppure dai nostri amanti. Tutte queste cose potrebbero essere temi centrali per la poesia ma, al tempo stesso, queste cose possono essere ostacoli ; potrebbero rendere ciechi.

Forse qui c’è da dire di più sulla gioia. La gioia è qualcosa che vediamo,   che possiamo   sperimentare nell’universo, nel nostro mondo in modo totale e completo. In altre parole, non siamo immusoniti, cominciamo ad apprezzare questo mondo in cui viviamo. Questo mondo è un mondo piacevole,   meraviglioso. La tradizione giudaico - cristiana direbbe che è un dono di Dio. Nella tradizione buddhista   si dice che è un risultato della nostra perfezione karmica. In ogni caso, la gioia è sempre presente.

La terza fase si riferisce al fatto che dobbiamo essere puri e chiari nella nostra parola e nella nostra mente.

Quando parliamo di poeti e in generale di poesia, ne parliamo in termini di esprimere noi stessi così in modo così ricco,   preciso,   che non c’è solo un bisbiglìo di parole, un bisbiglìo della mente o un bisbiglìo del corpo. Nel mondo poetico, abbiamo qualcosa che ci risveglia e che ci eccita. Vi è un senso di audacia e una atteggiamento grande e definito a non venir più spaventati da ogni tipo di minacce. Cominciamo a darci coraggio e ad apprezzare il nostro mondo, che è già bellissimo.  Ecco, io penso che il punto sia proprio questo.

ST. : Hai parlato delle molte cose che non dovrebbero ingannarci nella nostra esperienza quotidiana. Cosa intendi dire per questo ?

TR.R. : Penso che sia semplicemente una questione di essere presenti in modo preciso. Non dovremmo lasciarci usare da qualcun altro come parte delle sue fantasie, dal   suo egocentrismo o dalla   sua visione filosofica. Dovremmo semplicemente restare ciò che siamo. In modo preciso. In questo caso la filosofia potrebbe essere qualsiasi cosa - religiosa, sociologica o politica. L’idea è che non dovremmo permettere di essere sedotti da nessuna esperienza, senza sperimentarla in maniera appropriata, completa, sapendo bene ciò che stiamo facendo.

ST. : Sapendo che stiamo filosofeggiando sulle montagne e sui torrenti ?

TR.R. : Bè, si possono levare lodi alle montagne, si possono levare lodi al cielo ; si possono fare queste cose. Ma qualsiasi fantasia si applichi alle cose, dovete lasciarla andare.

 ST. : E allora vi sarà gioia ?

TR.R. : Sì. Se siete infelici - non gioiosi - allora raccogliete un mucchio di fantasie. Avrete sempre un muso lungo, e ci cascherete sempre quando qualcuno ve ne presenterà l’occasione. In questo caso stiamo dicendo che una volta che siete pieni di gioia e di coraggio - sentite chi siete e vi sentite bene - allora saprete automaticamente chi è che sta cercando di imbrogliarvi e chi invece sta cercando di aiutarvi.

ST. : Quanta energia si dovrà spendere cercando di capire se qualcuno ti sta ingannando o se ti stai ingannando da solo ?

TR.R. : Bè, è assai complicato, sai, poiché talvolta pensi di essere l’altro e l’altro pensa di essere te. Così, credo che il miglior approccio sia di godersi le montagne, i fiumi, le foreste, la neve, la pioggia e la grandine da soli. Troverai un qualche modo poetico di salvarti in questo modo. In realtà, io penso al motivo per cui vi sono le montagne, in origine. I torrenti sono lì perché tu possa fare tutto ciò - e pure gli alberi e la giungla. Perciò sii te stesso da te stesso. Sono sicuro che se farai ciò saprai comporre magnifiche poesie.

ALLEN GINSBERG : Talvolta trovo che sia difficile concepire il provare gioia quando sono malato o sofferente. Mi domando come mi sentirei se fossi molto vecchio o se mi trovassi su una strada della Giordania con grappoli di bombe  e lingue di fuoco che mi volano intorno, pensando alla distruzione della famiglia e della mia casa. Mi domando come sarebbe possibile scrivere valide poesie in situazioni e condizioni estremamente dolorose, come la vecchiaia, la malattia e la morte.

TR.R. : Bè, il dolore si accompagna con il piacere, sempre. Questo è una classica regola. Quando senti il dolore, è perché nel contempo ti senti felice. Perché ti metti gli occhiali scuri ? Li metti perché ti arriva troppa luce. Capisci il ragionamento ? La nozione di frustrazione si presenta allo stesso modo. Tu hai sempre  la sensazione di entrambe le cose. Quando ti trovi nel peggior dolore, spesso provi la più grande felicità. Lo hai mai sperimentato ? Lo abbiamo letto nelle storie di Milarepa e Marpa - di tutti i poeti del lignaggio Kagyu.

A.G. : E’ il senso di stabilità della mente, coltivata dalla pratica di meditazione, che ti preserva dal più completo disinganno, dalla depressione e dal  dolore fisico ?

TR.R. : Penso che ci sia una certa  scintilla, una certa esplosione di gioia,   in mezzo al dolore. Di solito si produce   maggiormente nel   dolore.

A.G. : Pensi che ciò possa accadere realmente alla gente che si trova in circostanze terribili, come per esempio in Libano ?

TR.R. : Sì, penso di sì. Dato che vi è così tanto caos, vi è quindi così tanta tranquillità. La tranquillità è in rapporto al caos. E’ la filosofia di Einstein.

ST. : Pensi ci sia una carenza nella poesia in America dovuta al fatto che non abbiamo una tradizione meditativa ?

TR.R. : Bè, penso che i poeti americani ci stanno arrivando, per così dire. Ma devo dire che essi non hanno bisogno di un tipo di disciplina meditativa per apprezzare il mondo fenomenico, per apprezzare che il verde dell’erba è meraviglioso, che il blu del cielo è adorabile e che il biancore della nuvole è così fantastico. Forse i poeti passano troppo tempo a scrivere poesie. Essi dovrebbero scorgere   la vivida intensità del mondo.

L ‘America è un luogo meraviglioso. Avete delle altissime montagne, bellissimi laghi e straordinarie coltivazioni di frutta. Avete di tutto in questo paese. Dovreste essere orgogliosi del vostro paese, così da poter vedere la bellezza dell’America - se mai diventaste poeti.

ST. : Rinpoche, ho sentito il detto che ‘la sofferenza è la scopa che spazza via la causa della sofferenza’. Quando tu parli delle scintille di piacere contenute nel dolore, è questa la qualità a cui ti stai riferendo ?

TR.R. : Ben detto. Devi studiare il buddhismo ! (Risate). Tu devi studiare il Vajrayana.

ST. : E’ stato Situ Rinpoche ad aver detto quella frase.

TR.R. : Oh, sì, è giusto. Veramente molte grazie.

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                                                                    13) ENERGIA VERDE

 Composto originalmente per una speciale edizione di Harper sul denaro, nel 1976

“Quando abbiamo a che fare  nel giusto modo con il denaro, questo non diventa più una merce di scambio o una energia astratta,  ma anche una disciplina. Non   più legati adesso  come a una medicina   diventata una droga, possiamo trattarlo in maniera pratica e terrena, come un mastro tratta coi suoi attrezzi”.

Trattando col denaro, siamo costantemente presi in una sorta di caos. E’ il risultato di una frattura   nella relazione   tra noi e la terra. Collegarsi alla terra significa sapere come agire in modo pratico e diretto ; significa sentire realmente una affinità con qualunque lavoro si stia facendo Quando si parla di  problemi   denaro, raramente abbiamo questo sentimento.

Il denaro è in fondo una cosa molto semplice. Ma il nostro modo di avvicinarci sovraccarico, pieno di idee preconcette che derivano dallo sviluppo di un io ingigantito e dai suoi processi manipolativi. Il puro e semplice atto di maneggiare denaro - solo pezzi di carta - è considerato un gioco molto serio. E’ più o meno come costruire un castello di sabbia e poi vendere biglietti per il suo ingresso . La differenza tra giocare come un bambino e giocare come un adulto è che, nel caso dell’adulto, vi è implicato il denaro. I bambini non hanno idee sul   denaro, mentre agli adulti piacerebbe far pagare l’ingresso alla loro solenne costruzione.

Anche quando cerchiamo di non dare peso al denaro,   una semplice credenziale o   pegno della nostra creatività o   praticità, dato che il denaro è connesso con l’energia che sorge dai nostri preconcetti, è tenuto in grande considerazione. Possiamo anche sentire dell’imbarazzo a causa del denaro - è quasi qualcosa di troppo vicino al cuore. Cerchiamo di chiamarlo in qualche altro modo - ‘il pane’ oppure ‘pecunia’ - per attenuare questa sensazione. Oppure, preferiamo pensare al denaro come a un àncora di salvezza, come una fonte di sicurezza ; la sua qualità astratta rappresenta qualche indicibile aspetto della nostra personalità. Diciamo per esempio : “Sono andato in rovina e mi sono perso d’animo”, o “Sono un serio cittadino con un solido conto in banca”, oppure “Ho così tanto denaro che nella mia vita non vi è spazio per la semplicità”.

L’energia che il denaro produce, crea una enorme differenza nella comunicazione e nella relazione. Se improvvisamente un amico rifiuta di pagare il suo conto al ristorante, automaticamente si crea un senso di rancore o distanza nei suoi confronti. Se si offre una tazza di thè ad un amico - che è solo una tazza, acqua calda, e thè - in qualche modo ci si aggiunge un fattore di interesse.

Mi sembra che sia utile lavorare con gli aspetti negativi del denaro, per ottenere una certa comprensione di noi stessi. Dobbiamo cercare di scoprire il modo in cui vedere questa imbarazzante e potente comodità come una parte di noi stessi che non possiamo ignorare. Quando ci relazioniamo in maniera adeguata ad denaro, esso non è più un mero segno di scambio o di una nostra astratta energia ; è anche una disciplina. Non più agganciati ad esso come una medicina che diventa una droga, possiamo trattare con esso in un modo pratico e terreno, come un mastro che tratta coi suoi attrezzi.

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                                                         14) MANIFESTARE L'ILLUMINAZIONE

Discorso tenuto al Naropa Institute, nella terza Conferenza sulla Meditazione buddhista e cristiana, 1983

Nella tradizione cristiana, come pure in quella buddhista, se aspettate troppo a lungo, non accadrà nulla. Per esempio, il concetto di ‘Spirito Santo’ ed il concetto di ‘primo pensiero, migliore pensiero’ semplicemente vi piomba addosso, senza  essere voi ad attenderlo. Questo richiede un certo senso di coraggio : dovete essere disposti a fare un salto in avanti. Appena c’è una qualche ispirazione, voi semplicemente ci saltate dentro. Ecco perché è detto che ‘il primo pensiero è il migliore’. Semplicemente ci saltate dentro !”.

L’illuminazione è un argomento alquanto rilevante ed a me piacerebbe mantenere il   discorso ad un livello    piuttosto semplice. In sanscrito, la parola per definire illuminazione è bodhi, che significa ‘risveglio’. Quando la parola bodhi si trasforma in sostantivo diventa buddha. Buddha si riferisce a qualcuno che ha sviluppato uno stato di essere risvegliato. Parlare di risveglio non ha nulla a che vedere con l’essere fisicamente svegli in opposizione all’essere addormentati. Piuttosto, risvegliato significa essere fondamentalmente realizzato, essere capace di vedere il dolore del mondo ed essere capace di vedere l’uscita dal mondo della sofferenza.

Dopo l’ottenimento dell’illuminazione, il Buddha passò sette settimane a contemplare il modo in cui poter comunicare questa esperienza di risveglio agli altri.

Suppongo che potremmo fare un paragone   con Cristo che passò un  lungo tempo   nel deserto : alcuni dicono pure che Cristo viaggiò fino in Tibet, o quanto meno fino al Kashmir.

Il Buddha scoprì e insegnò che, di fatto, gli esseri umani sono in grado di essere risvegliati. Lo stato di essere risvegliato possiede due qualità principali : la prima, karuna in sanscrito, è una tenerezza, una gentilezza, che chiamiamo ‘compassione’ ; la seconda, upaya in sanscrito, la chiamiamo ‘abili mezzi’. L’aspetto della compassione è connesso con se stessi mentre   gli ‘abili mezzi’ sono connessi al     trattare con gli altri. Compassione e abili mezzi   insieme sono ciò che si intende con ‘assenza di ego’. Non-ego significa essere liberi da qualsiasi tipo di schiavitù, liberi da qualsiasi motivazione fissa a cui legare il proprio essere fondamentale.

Noi abbiamo la tendenza a tenerci stretti a concetti e percezioni di ogni tipo. Dobbiamo riconoscere tale tendenza e realizzare che situazioni simili ci legano ai reami inferiori : il reame dell’inferno, il reame degli spiriti affamati ed il reame degli animali. Credo che nella tradizione cristiana questi reami siano legati all idea di peccato. Nella tradizione buddhista non si parla di una punizione in quanto tale ed il concetto di peccato originale non esiste. Invece, il buddhismo parla di modelli abitudinari. Per esempio, quando un cane vede una persona, gli viene da abbaiare e vuole morderlo ; quando una pulce vi salta addosso, è presa dal bisogno di mordervi ; quando un essere umano vede un altro essere umano, gli viene da baciarlo, e così via. Questo tipo di risposte istintive è quel che si intende per modelli abitudinari. Quando una persona rimane bloccata nei modelli abitudinari, essa vive nei reami inferiori della   passione, dell’aggressività e della illusione.

Vi sono una infinità di tendenze abitudinarie connesse col nostro voler conservare ciò che siamo. La gente divorzia perché pensa che potrebbe trovare un compagno migliore. Le persone cambiano ristorante perché pensano di poter trovare cibo migliore e a più a buon prezzo. I modelli abitudinari dell’ego operano in questo modo. La nozione di illuminazione è un senso di liberazione da questi schemi. Ed il modo per ottenere questa libertà avviene tramite la pratica della meditazione seduta.

Nella pratica seduta, noi osserviamo le nostre menti e manteniamo una buona postura. Quando armonizziamo in questo modo il corpo e la mente, stiamo imitando il Buddha - cioè l’appropriato modo di essere. Poi cominciamo a sviluppare simpatia verso noi stessi, anziché restare soltanto immobili. Cominciamo a sviluppare un senso di tenerezza. Possiamo vedere tutto ciò da come i buddhisti parlano dolcemente e camminano consapevolmente.

Oltre alla meditazione seduta stessa, cominciamo ad espandere la nostra esperienza di tenerezza e consapevolezza ad altre attività, come l’andare a far compere, cucinare, lavare e ogni attività che facciamo. Cominciamo a scoprire che le cose sono modificabili anziché essere controverse e problematiche. Scopriamo che la vita merita di essere vissuta e cominciamo a trattarci meglio ; indossiamo buoni vestiti, mangiamo cibo più sano e sorridiamo costantemente. Siamo più allegri e realizziamo che nella vita vi è qualcosa di buono. Ed inoltre realizziamo che possiamo far entrare anche gli altri nella nostra società, nel nostro mondo.

Possiamo comportarci consapevolmente ed apprezzare il mondo dei fenomeni. Possiamo realizzare che i contrasti della nostra vita non sono creati dagli altri ; al contrario, siamo noi stessi che ce li creiamo. Quindi, possiamo rimuoverli ed apprezzare il nostro mondo pienamente. Vorrei suggerire a tutti : siamo consapevoli del nostro essere, celebriamo il modo in cui sperimentiamo la nostra vita, cerchiamo di sorridere almeno tre volte al giorno. Grazie.

Chiedo scusa se tutto ciò suona come un sermone. Se qualcuno vuole fare delle domande, ne sarò più che lieto.

DOMANDA : Sono così contento di essere qui, da cristiano, per la vostra ospitalità che ha reso possibile tutto ciò. Il mio cuore è pieno d’amore per lo spirito che rende possibile tutto ciò. Abbiamo così tanto da imparare gli uni dagli altri. Io ho così tanto da imparare. Mi sono chiesto se questo incontro al Naropa Institute era stato reso possibile per il fatto che ti eri incontrato prima con Thomas Merton. Se avrai la cortesia di parlarne, mi piacerebbe ascoltare le tue impressioni su quell’incontro, così da coglierne i frutti qui oggi.

TRUNGPA RINPOCHE : Grazie. Il viaggio di Padre Merton nel Sud-Est asiatico avvenne quando io mi trovavo a Calcutta. Egli fu invitato da un gruppo che aveva una filosofia da acquisti spirituali ed egli fu la sola persona ad accorgersi che vi era una grande confusione. Egli sentì che lì vi era un senso di ignoranza, ciononostante egli si unì al gruppo. Abbiamo pranzato insieme abbiamo parlato molto del materialismo spirituale. Abbiamo anche bevuto molti gin e tonic. Ho avuto la sensazione di aver incontrato un vecchio amico, un amico genuino.

Di fatti, abbiamo programmato di lavorare insieme ad un libro contenente passi scelti dalle sacre scritture del cristianesimo e del buddhismo. Abbiamo anche deciso di rincontrarci in Gran Bretagna o nel Nord America. Egli fu la prima genuina persona occidentale che incontrai.

Dopo aver incontrato Padre Merton, visitai diversi monasteri di monaci e monache in Gran Bretagna e, in alcuni di essi, mi fu richiesto di tenere discorsi sulla meditazione, cosa che feci. Rimasi molto colpito.

Mentre stavo studiando ad Oxford, ebbi come insegnante un prete belga, un prete gesuita, che aveva studiato in Sri Lanka. Egli conosceva il sanscrito ed aveva letto molti sutra buddhisti coi relativi commentari. Fui molto impressionato e commosso dall’aspetto contemplativo della cristianità e dagli stessi monasteri. Lo stile di vita ed il modo in cui si comportavano mi convinse che il solo modo di unificare la tradizione cristiana e quella buddhista sarebbe stato di mettere insieme la pratica contemplativa cristiana con la pratica meditativa buddhista.

D.: Signore, l’altro giorno Tenshin Anderson Sensei parlò circa un punto immobile nel nostro centro interno in cui vivono i buddha - in cui si sperimenta il dolore di tutti gli esseri senzienti, la sofferenza di tutti gli esseri senzienti. Egli disse che è da lì che sorgono le formazioni, o nuvole che iniziano a formarsi e a sollevarsi. Egli disse che questa è l’essenza della compassione e dei mezzi abili e che da questa sorgente puoi andar fuori nel mondo e fare il bene per tutti gli esseri senzienti. Questo fatto mi fece pensare al ‘primo pensiero, miglior pensiero’. Potresti dirmi qualcosa sul ‘primo pensiero, miglior pensiero’ e l’azione compassionevole nel mondo ?

TR.R. : Penso che sia una questione di non aspettare. Nella tradizione cristiana, come pure in quella buddhista, se aspettate troppo a lungo, non accadrà nulla. Per esempio, il concetto di ‘Spirito Santo’ ed il concetto di ‘primo pensiero, migliore pensiero’ semplicemente vi piomba addosso, senza  essere voi ad attenderlo. Questo richiede un certo senso di coraggio : dovete essere disposti a fare un salto in avanti. Appena c’è una qualche ispirazione, voi semplicemente ci saltate dentro. Ecco perché è detto che ‘il primo pensiero è il migliore’. Semplicemente ci saltate dentro 

D :Abbiamo parlato della ossessione di voler aiutare e di muoversi troppo presto nel voler cambiare qualcuno. Se qualcuno sta soffrendo, tu vuoi fermare quella sofferenza, ma ciò potrebbe essere costrittivo e causare maggior danno. Potresti dire qualcosa di più sulla distinzione tra vera azione compassionevole e comportamento ossessivo ?

TR.R. : E’ una questione di starnutire e pulirsi il naso. Tu prima starnutisci spontaneamente e dopo ti pulisci il naso. Non il contrario.

D: Molte grazie !

DOMANDA : Prima di tutto vorrei dire che hai fatto un discorso cristiano molto bello.

TR.R. : Grazie.

D. : Però, essendo qui e avendo incontrato molti cristiani, trovo che essi stanno sempre molto sulla difensiva circa l’idea che i buddhisti non credono in alcun tipo di realtà o   concetto di Dio. Ed io cerco di tranquilizzarli dicendo che nelle mie letture ho trovato che i buddhisti semplicemente usano altri termini. Essi scrivono con la maiuscola il termine, oppure la parola Quello o   Quiddità. Presumo che esse abbiano un qualche significato speciale. Ma oggi ho avuto una esperienza interessante. Ho incontrato una persona della tradizione ortodossa che è diventato buddhista e questa persona mi ha riferito una   cosa che tu una volta dicesti in sua presenza, cioè che tu hai avuto una certa affinità con la visione ortodossa della realtà   di Dio . Vorrei sentirti dire qualcosa su questo e come tu intendi quell’idea.

TR.R. : In verità, la tradizione ortodossa fu per me una grazia salvifica nel mio periodo di vita ad Oxford, poiché i suoi seguaci capiscono il significato della  meditazione e comprendono che la meditazione non è solo un far nulla, ma include anche l’irradiare il  proprio senso di apertura. Le tradizioni contemplative dell’ebraismo e della cristianità, in particolare la tradizione giudeo - cassidica ed anche la Preghiera del Cuore della tradizione cristiano - ortodossa, che io ho un po’ studiato, sembrano essere il terreno per unire insieme la filosofia orientale con quella occidentale. Non è tanto una questione di dogma, ma è una questione di cuore ; qui sta il  terreno comune. Uno di questi giorni andrò a portare alcuni miei studenti sul Monte Athos a vedere come si comportano i monaci Ortodossi.

D. : Sarei interessato a qualche commento che tu potessi fare circa la pratica delle divinità yoga e in che modo la visualizzazione delle divinità produce un cambiamento di coscienza.

TR.R. : Di che tipo di coscienza stai parlando ?

D.: Il cambiamento che è prodotto dallo yoga delle divinità, dalla pratica di queste divinità yoga, sul nostro normale stato di consapevolezza nel mondo. La domanda che sto facendo è, dove porta tutto ciò ? Che tipo di coscienza si produce ?

TR.R. : Ognuno qui è una divinità. E’ molto semplice. Penso che uno dei punti fondamentali sia di comprendere il concetto assoluto, di sacralità. Sacro, in sanscrito, è adhishthana, che significa anche ‘benedizione’. Adhishthana ti procura un cuore aperto e contemporaneamente un senso di attenzione vigile. Sta avvenendo proprio qui e ora, mentre stiamo in conversazione. Capito ?

D.: Grazie, signore.

TR.R. : Purtroppo, signore e signori, vi è qualcosa chiamato tempo, e lo stiamo superando, perciò  ci potremmo fermare qui. Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno preso parte al nostro incontro e in special modo gli organizzatori. Siete stati tutti molto cortesi e genuini e buoni. Voglio sperare che possiate ancora tornare e dare   un maggior contributo, se possibile. Sarà un’altra porzione della torta che salverà il mondo. Molte grazie .

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APPENDICI

IL SISTEMA DI VITA BON

Lo studio del Bon, la religione nativa, pre - buddhista del Tibet, è un soggetto ampio e non trattato. Sfortunatamente, una accurata informazione concernente l’elevato addestramento spirituale del Bon è estremamente difficile da trovare ; il materiale che al momento è disponibile contiene solo dati incompleti, oscurati da sovrapposizioni di buddhismo popolare. Per di più, facendo ricerche presso gli attuali preti Bon, si trova che essi parlano maggiormente in termini buddhisti, tracciando paralleli tra le parti salienti della loro dottrina e gli insegnamenti buddhisti.

Una ricerca investigativa sulla religione Bon è complicata inoltre dall’esistenza nel Tibet del ‘Bon bianco’, che si somma ad un buddhismo ‘bonizzato’. Il ‘Bon bianco’ è fondamentalmente una forma adottata di buddhismo, in cui però il Buddha è chiamato Shenrab (vedi più avanti), Il vajra buddhista è sostituito da una svastika (*[B1] ) che ruota in senso antiorario ed il bodhisattva è chiamato yungdrung-sempa, cioè svastikasattva.  Dove i testi menzionano dharma, si è sostituita la parola Bon. Vi sono equivalenti nomi Bon per tutti i Buddha e bodhisattva ed anche per i dieci stadi - o bhumi in sanscrito - del sentiero del bodhisattva. Molti fedeli Bon contemporanei non sono perciò buone fonti di informazione che possano garantire la pura tradizione della loro religione.

Infatti, la maggioranza degli originali testi Bon fu definitivamente distrutta oppure fu pesantemente influenzata da edizioni buddhiste. In assenza di fonti filosofiche Bon sopravvissute, la comprensione cosmologica del Bon deve essere ricostruita dai testi rituali che furono lasciati intatti grazie alla loro assimilazione da parte del buddhismo. Nondimeno, alcuni testi Bon sono sopravvissuti ed è possibile far derivare da questi la fede fondamentale Bon.

Bon, che in tibetano significa ‘modo di vivere’, è tradizionalmente interpretato nel senso di ‘legge fondamentale’. Il nome tibetano per designare il Tibet è Bo, che   è la stessa parola. Inoltre, fino al settimo secolo circa, il Tibet fu designato Bon dai suoi abitanti, mentre Bo fu adottato solamente più tardi. Ciò si può verificare dagli antichi rotoli trovati nelle caverne dell’Afghanistan recentemente in questo secolo, come pure dagli antichi rotoli khotanesi che raccontano di tasse pagate al ‘grande re di Bon’. Perciò il nome della religione tibetana fu, almeno arcaicamente, sinonimo della nazione stessa.

Gli elevati insegnamenti del Bon furono trasmessi ai tibetani dal saggio Shenrab Miwo. Shen significa ‘celestiale’ ; rab significa ‘il supremo’ e miwo significa ‘grande uomo’. Shenrab visse molto tempo prima del Buddha. Il mito di Shenrab si rifà al Buddha, il maestro di saggezza ; indi a Gesar, il maestro di guerra ; al Signore di Taksik, il maestro della legge di ricchezza ; e così via. Tutti loro sono considerati incarnazioni di Shenrab. L’opera di Shenrab esiste ancora in Tibet sotto forma di circa quattrocento volumi, ma essa è stata sottoposta ad una pesante riedizione buddhista. Una piccola parte dei libri che non caddero in mano buddhista poté dare una certa traccia di come il praticante avrebbe dovuto procedere nel sentiero del Bon.

La religione Bon si occupa della creazione dell’universo in un modo tale da consacrarvi l’esistenza del paese, dei costumi e delle abitudini del popolo tibetano. Ciò è in contrasto con la spiritualità del buddhismo, che sorge in un contesto di gran lunga più astratto dell’evoluzione psicologica.

La spiritualità Bon è basata su una realtà cosmologica : nove dei crearono il mondo, un mondo in cui nascita, morte, matrimonio e malattia hanno tutti il loro posto. Se l’adorante piò accordarsi a questi dei per mezzo di svariate cerimonie rituali e attraverso una comprensione di queste cerimonie, allora egli è in una posizione di compiere qualunque cosa gli venga chiesta dall’ordine cosmico.

 L’acquisizione della comprensione spirituale nel Bon è basata sul concetto di tendrel, che significa ‘legge cosmica’. Questa è simile al termine buddhista nidana. Entrambi i concetti presentano il flusso degli eventi come un incatenamento causale. Ma mentre il concetto buddhista suggerisce la natura realistica del fato, il termine tendrel dà molto più l’idea di un intervento influenzante. Secondo il Bon, chiunque si sintonizzi, per mezzo di appropriati riti e pratiche, col movimento dell’interdipendenza di eventi non corre il pericolo di venirne respinto. Comprendendo questa interdipendenza, egli può interpretare i suoi segni. Invocando il nome della suprema divinità Bon nel modo giusto e continuando a ripeterlo insieme col suo stesso nome egli piò chiamare gli dei alla sua presenza, come alleati e difensori.

Il supremo principio divino del Bon è considerato Yeshen. Questa divinità suprema possiede la stessa qualità della totalità cosmica che si trova nella maggioranza delle religioni teistiche. Ye significa ‘primordiale’ o ‘originale’ ; shen significa ‘divino’, ‘celestiale’ o ‘spirituale’ ma ha anche una implicazione antropomorfica. L’impressione è di un antenato divino. Shen ha anche il senso di ‘amico’ o ‘alleato’, quindi vi si aggiunge una qualità benevola. L’aspetto ancestrale porta con sé anche il sentimento dell’abbondanza di età unita al senso di divinità. Yeshen è considerato passivo e pacifico, compiacendo l’idea di una pace finale per l’adorante.

L’aspetto energetico della sfera del divino è rappresentato da un altro principio - Se. Se, che è particolarmente vendicativo nel carattere, comunica direttamente con l’uomo. Egli crea il legame tra il piano assoluto e divino ed il piano relativo dell’uomo. Il punto è che il praticante del Bon deve acquistare l’abilità di vedere la qualità Yeshen in qualunque situazione della vita. Se egli è capace di farlo, la guida per l’ulteriore applicazione della sua pratica arriverà da Se, che lo indirizzerà verso l’appropriata direzione spirituale.

Se è un potente guerriero ; il credente Bon lo chiama dio (lha). Anche il re nazionale del Tibet veniva reputato lha nel titolo, partecipando inoltre all’immagine del potente guerriero. Anticamente, la capitale del Tibet fu perciò chiamata Lhasa (sa significa ‘luogo’), indicando la sede del re come la sede del dio.

A questo punto, forse, sarebbe più utile dare qualche indicazione dei metodi usati per relazionarsi con Se e raggiungere l’unione con Yeshen. Il Bon, a differenza delle religioni emerse dalla cultura Ariana - specialmente induismo, buddhismo e jainismo nella loro forma quasi popolare - tiene meno in conto il perseguimento di salvezza per mezzo delle pratiche di austerità. La filosofia Bon parla di Yeshen come essere riflesso nell’interazione tra il cielo e la terra. Quindi, l’aspirante Bon ricerca poteri magici attraverso l’unione con la natura Yeshen come viene manifestata nelle montagne, negli alberi, nei laghi e fiumi - i quali sono tutti in maniera imponente presenti in Tibet. Vi è un forte orientamento verso le cascate, le nevicate, le nuvole e la foschia che sorge dalle profonde vallate, poiché tutto ciò è considerato come l’attività di Yeshen. Il credere nella magia di queste rappresentazioni naturali è un fatto preminente e supremo.

Sforzandosi di essere in comunione con Yeshen, il praticante deve prima trovare il picco più elevato della località. Egli invoca il nome di Yeshen nella pratica di lhasang, che è una cerimonia purificatrice spesso eseguita nelle occasioni favorevoli in Tibet (anche dagli stessi buddhisti).

In preparazione per il lhasang, viene fatto un fuoco di aghi di cedro. Vengono fatte offerte con i ‘tre bianchi’ (latte, burro e cagliata) ; i ‘tre dolci’ (zucchero scuro, zucchero trasparente e miele) e insieme viene offerta la tsampa, strofinata nel burro con orzo croccante e calici di birra d’orzo, thè e latte. Poi si immagina che Yeshen, Se e gli otto degyés (messaggeri di Se) scendano dal cielo sul fumo del fuoco. Il cedro è l’albero di Se ed il suo legno, nonché il fumo che si sprigiona, sono considerati ritualmente puri. La cerimonia serve come intenzione di far scendere il divino nella sfera della vita umana, nonché di elevare la particolare occasione nella sfera del divino. Bruciare gli aghi di cedro è uno dei principali sistemi per comunicare con Yeshen. Il devoto diventa assorbito nel fumo del fuoco rituale. Determinati messaggi vengono letti dai disegni delle volute del fumo ; per esempio, fumo bianco che si alza lentamente e gentilmente significa accettazione, mentre fumo nero che viene continuamente interrotto dal vento significa che vi sono ostacoli.

Vi sono nove divinità creatori-del-cosmo (incluso lo stesso Se), che figurano come parti del principio Se. Solo attraverso la mediazione di Se, o delle altre immagini che manifestano il suo principio, l’adorante può comunicare con Yeshen. Vi è il senso che, se adeguatamente appellato, Se possa avvicinare Yeshen per predisporre l’energia assoluta dell’universo in un modo più favorevole all’adorante. Le altre otto divinità sono i messaggeri (degyés) di Se. I degyés dovrebbero essere più giustamente considerati dei tipi, o princìpi, che non esseri individuali, poiché ciascuno di essi può avere diverse manifestazioni locali. Ciascun degyé ha una scorta di serventi, attendenti, aiutanti e così via, che agiscono secondo le sue intenzioni.

La natura di queste divinità Bon può essere dedotta dall’iconografia e dalle pratiche ad esse associate. Una rappresentazione iconografica generale di Se e dei degyé mostra il loro risalto nel per, un indumento caratteristico simile ad un kimono che arriva alle caviglie con grandi pieghe triangolari come maniche sopra ciascun fianco. Il per era l’indumento degli antichi reali tibetani. I degyés guerrieri indossavano un’armatura sotto il per ed elmetti fiammanti nei loro particolari colori. I piumaggi variavano secondo lo stato della persona. Se indossava un per di colore bianco con l’armatura e l’elmetto trasparenti. Il bianco è associato con la divinità ; esso è puro e comprende tutti gli altri colori. Egli cavalcava un cavallo bianco provvisto di ali turchesi.

Il solo degyé di sesso femminile è Lu, che è associata con l’acqua. Apportatrice di pioggia, essa arreca anche fertilità. Quindi essa è la divinità patrona delle donne, specialmente delle giovani fanciulle. Laghi, fonti e sorgenti, in cui erano stati costruiti altarini, sono consacrati ad essa. D’altro canto, Lu castiga con la lebbra, i reumatismi e le malattie della pelle. La si rende propizia con le offerte dei ‘tre bianchi’ e dei ‘tre dolci’. Lu è associata con i serpenti, con i cavalli grigio-blu e con i muli dello stesso colore. E’ vestita con un abito di piume e una fascia di seta acquatica senza cuciture a forma di foschia. Essa cavalca un cavallo blu a strisce bianche disegnate d’acqua e tiene in mano un vaso di cristallo pieno di gemme.

Tsen è il dio del fuoco. Egli ha il potere di distruggere tutto all’istante. E’ associato alla velocità ed al compimento delle azioni - specialmente azioni distruttive. Egli non uccide i suoi nemici dall’esterno ma, a causa della rapidità del suo cavallo e la sua facilità ad arrabbiarsi, è capace di penetrare istantaneamente nel corpo del suo nemico attraverso la bocca o l’ano. Tsen è la divinità patrona dei banditi e dei guerrieri. I danni a lui associati sono gli attacchi di cuore e la morte per incidente. Egli viene offeso accendendo fuochi in luoghi inappropriati, per arrostire le carni o, in generale, quando si crea disturbo e disarmonia in qualche particolare ambiente. Le offerte a Tsen sono il sangue e la carne di capra. Egli è associato coi cavalli sauri e gli sciacalli. Tsen indossa un’armatura di rame sotto il suo per rosso e cavalca un roano rosso. La generale sensazione dell’immagine è sanguigna e fiammeggiante. Il momento migliore per colpire è il tramonto. Tiene in mano una scimitarra ed un lasso.

Un altro degyé è Therang, che si pensa essere incarnato nei ciottoli, nelle ceneri e nei dadi. Egli porta fortuna nei giochi, in special modo nei dadi, ma anche in ogni gioco da tavolo. Nelle guerre dell’antichità, si pensò che egli guidasse le traiettorie dei sassi catapultati. La febbre e le vertigini sono associate a Therang. Le offerte a lui gradite sono i chicchi d’orzo tostato insieme al latte. Egli è il dio patrono dei bambini e dei fabbri ferrai ed è anche in qualche modo associato con la pioggia. Therang cavalca un caprone e indossa una pelle di capra sopra il suo per nero. Reca in mano un mantice ed un martello.

Du è associato con l’oscurità. Se non viene propiziato con offerte di avanzi egli arreca sfortuna. E’ collegato ai corvi ed ai maiali neri. Du cavalca una cavallo nero con una vampata di bianco. Egli indossa un’armatura ferrea con l’elmo ed un per nero. Tiene una spada e una lancia con uno stendardo nero. Attaccata alla sua sella vi è una borsa d’acqua piena di veleno ;una lunga assicella nera con sopra scritti a mano i nomi delle sue vittime ed inoltre una palla di fili multicolori che possiede la vita e che può saltare via dalla sua sede e attorcigliare una vittime in modo straziante.

Chuglha è il dio della ricchezza. Egli ricompensa la parsimonia con la prosperità e punisce lo spreco con la povertà. Egli può anche arrecare reumatismi, ulcere, e tumefazioni, Egli è la divinità patrona dei mercanti e delle casalinghe e gli viene offerto burro e grano. E’ associato alla terra, nonché alle pecore, agli yak ed ai cavalli. Chuglha cavalca una cavallo giallo o un leone. Egli indossa un per dorato sopra un’armatura pure dorata ed un cappello dorato con quattro punte nella forma stilizzata di petali di fiore. Egli porta uno stendardo da vittoria, multicolore e a forma cilindrica, nella mano destra e un rotolo nella sinistra. E’ raffigurato mentre vomita delle gemme.

Nyen è il dio della cultura popolare tibetana e patrono dei governanti e di tutti i patrioti. E’ associato con le montagne. Gli viene offerto formaggio, i ‘tre bianchi’ i ‘tre dolci’ e spighe di cereali. Lo si offende abbattendo quegli alberi che possono essere stati localmente a lui consacrati e scavando terra consacrata ; ed anche con l’odore di cibi bruciati e con i raggi di torce o lampade agitate sulla cime di colline o montagne a lui consacrate. Il suo castigo si manifesta amplificando la debolezza fisica e causando scombussolamenti domestici. I suoi animali sacri sono i cavalli ed i cervi (specialmente il cervo muschiato), come pure tutti i quadrupedi in generale e gli uccelli. La sua controparte femminile è associata agli uragani ed agli agenti atmosferici. Il colore dell’armatura di Nyen ed il suo per variano secondo le località, ma molto spesso sono bianchi. Porta uno stendardo pendente di colore bianco. Reca anche con sé un vassoio o un vaso colmo di gioielli. Il colore del suo cavallo varia anch’esso da zona a zona.

Za è il dio dell’energia psicologica, dei fulmini, della grandine e, più recentemente, dell’elettricità. Se disturbato, può confondere i sensi o causare attacchi epilettici e follia. Può venir offeso interrompendo qualcosa di integro - per esempio, tagliando una corda o rovinando colori e inchiostri. Viene rabbonito con offerte di carne di capra o sangue di capra. Egli è il patrono dei maghi ed è associato con i draghi. Za cavalca un coccodrillo irato. Ciascuna delle sue otto facce - ne ha una per ogni tipo di mitico drago fulmineo - termina con una testa di corvo che emette dardi fulminanti. Possiede sei braccia e reca uno stendardo della vittoria, un laccio fatto di pelle di serpente, una borsa di acqua velenosa, una arco ed un mucchio di frecce. Za ha una grossa bocca nella pancia ed il suo corpo è coperto di molteplici occhi.

Drala è il dio della guerra e il patrono dei guerrieri e dei signori della guerra. Egli viene in qualche modo identificato con i temporali e con le nuvole temporalesche. Viene offeso dall’uso maldestro delle armi. Drala punisce con le umiliazioni e gli scandali, l’insonnia e gli incubi ed anche con la propria perdita d’animo (o ‘spirito’, la in tibetano). Le offerte che gli si offrono sono birra di orzo, thè, nonché i ‘tre bianchi’ e i ‘tre dolci’. A lui vengono consacrati yak, cavalli, aquile e corvi. Drala cavalca un cavallo, solitamente bruno rossiccio. Indossa un’armatura ed un elmo di metallo laccato ed un per rosso. Diciotto pennacchi svolazzano dal suo elmo, mentre tiene sollevata una bandiera con diciotto nastri che pendono a lato. Indossa anche una cintura a cui sono appesi un arco e le frecce, un laccio, un’ascia, un arpione, un pugnale, una spada ed altri strumenti di guerra. Drala emana una tigre dal suo corpo, un orso nero col cuore bianco da una delle sue gambe, uno sciacallo da ciascun occhio e un falco ed un’aquila da sopra la sua testa.

Dopo aver dato una breve descrizione delle divinità e dei loro poteri, secondo la credenza Bon, verrà dato un resoconto di alcuni usi e pratiche relativi alla situazione di vita dei fedeli Bon, onde avere una ulteriore comprensione del mondo Bon. Secondo la stessa tradizione Bon, quando deve essere costruita una casa, il luogo deve venir scelto da una persona nota per la sua saggezza e sapienza. Vi sono quattro elementi principali che devono essere cercati. La costruzione deve essere situata in maniera che abbia una montagna della catena Nyen nel retro, cioè ad ovest. Questa montagna è chiamata lhari, cioè ‘montagna degli dei’. E dovrebbe essere una montagna rocciosa, preferibilmente coperta da licheni rossi, il tutto rassomigliante ad un grande uccello rosso. La casa sarà così protetta, come un bimbo nel grembo di sua madre.

Dovrebbe esservi una montagna anche sul davanti, ma non così alta come quella del retro. Dovrebbe essere un po’ tufacea o gessosa, idealmente rassomigliante ad una tigre bianca. Alla destra dovrebbe esservi un fiume che scorre in una valle aperta che, nella forma del suo corso, dovrebbe rassomigliare ad un serpente-dragone. Nella parte sinistra dovrebbe esservi una cortina di montagne rassomigliante al dorso di una tartaruga. Le cime e la dorsale di questa catena situata a nord non dovrebbero essere dentellate, ma dovrebbero presentare una massa solida, in quanto spazi nettamente intervallati nella loro forma sono ritenuti rappresentare i denti della morte. E ciò potrebbe arrecare morte nella famiglia. Tutti gli alberi morti o che stanno imputridendo, che si trovano all’intorno, preannunciando accidenti, devono essere tagliati, a patto che non siano la sede di qualche dio locale.

Il tradizionale primo passo nell’accostarsi al luogo, consiste nel costruire una torre, o sekhar, sulla cima della ‘montagna degli dei’, cioè il lhari. La torre viene eretta come un altare a Se, al locale Nyen, o a qualunque altro degyé che si pensa essere potente nell’area. La torre ha lo scopo di attirare le loro benedizioni sul luogo. Nella cerimonia di consacrazione della torre, una fune di lana viene stesa nelle quattro direzioni. Ciò agisce come conduttore per Se allorché egli discende dal cielo. Alcune zone intorno alla torre vengono designate come sacrosante ; nessuno vi può passare senza fare delle offerte.

Il seguace del Bon considera la nascita come estremamente sacra. Tuttavia le donne erano considerate impure, poiché esse rappresentano la tentazione delle passioni. Quindi, le future madri venivano obbligate a restare distese dentro le capanne fino al completamento del parto dei loro figli. Nei Bon si osservava anche una enorme riverenza per la santità e la saggezza dei vecchi. Quindi toccava alla nonna, all’apparire della stella del mattino, di andare a prendere l’acqua dal torrente e portarla alla madre ed all’infante. (La stella del mattino era ritenuta essere la stella di fronte, rappresentativa della saggezza e dell’erudizione. La nozione Bon della stella del mattino, Venere per noi, contiene anche l’idea di rinnovamento. Nel calendario Bon, il cambio di data ha luogo all’apparizione della stella del mattino, che preannuncia l’aurora). Una volta nato il bambino, esso veniva identificato con l’eredità della sua famiglia - comprese le montagne di famiglia, il lago di famiglia e gli alberi di famiglia. Gli veniva anche assegnata una pietra turchese, così come posseduta da ciascun membro della sua famiglia.

Il rito associato con la nascita è chiamato lalu, che significa ‘redimere il la’. La parola la ha un significato simile alla parola ‘anima, o spirito’. Tutti gli esseri umani possiedono un la, ‘la coscienza’ (pure detta sem), e la vita, o sok. Nella tradizione Bon, gli animali non possiedono la. Il la è un’entità che è parte del nostro essere, ma non ha una sua intelligenza. Perciò può essere sottratto, confiscato, oppure riguadagnato, come pure rinforzato per mezzo di poteri spirituali. Esso può essere magnetizzato da qualsiasi forma di calore o richiesta. Il la del neonato si genera quando il bimbo lascia l’utero ed è tagliato il cordone ombelicale. A causa del loro colore bianco, sia il latte che il burro vengono associati al la, anche perché, come già menzionato, il colore bianco rappresenta la divinità.

Nella cerimonia del lalu, che è tuttora praticata, col burro viene formata una immagine di pecora ed il neonato viene bagnato nel latte, per esortare il la a restare. La cerimonia del lalu è usata anche per combattere la malattia. I Bon pensano che la malattia sia causata direttamente o indirettamente dai degyé o da alcune forze maligne. Essa ha inizio con la debolezza e la diminuzione della vitalità di una persona. Ciò potrebbe essere causato dal don, una divinità negativa. I don si nascondono furtivamente al di fuori del dominio di Yeshen ed hanno qualcosa delle qualità degli spiriti affamati o dei cani-ladro- sembrano timidi ma, una volta afferrata una presa, non la lasciano più. Un don entra nell’organismo di una persona che ha abusato dell’ordine divino, o forse vi entra in un momento di depressione o di qualche altra debolezza. Una volta in possesso del don, la persona cade vittima degli scagnozzi di uno dei degyé che gli sottrae il suo la. Se ciò accade, allora il sok (la vita) è soggetto all’attacco ed alla cattura per mezzo di tutti i tipi di malattia. Se questo attacco ha successo, la persona muore. Nel caso di una malattia causata come diretta punizione di una delle otto divinità degyé, la vita può essere carpita senza passare attraverso gli stadi di cui sopra ; un degyé può prendere il controllo del sok direttamente. Un don o un servo del degyé si impossessa del la (e quindi del sok) perché può usarlo per aumentare la sua propria presenza e vitalità.

La guarigione può avvenire in diversi modi, a dipendere dalla causa determinante per la malattia. In certi casi, si piò eseguire una cerimonia contro il don. Si esegue mostrando come offerta una effigie della persona malata, insieme ad un po’ di carne e un capello o indumenti del malato, come scambio per il don. Oppure, se è disponibile un prete altamente qualificato, questi può eseguire un rito per riunire in quell’area tutti i don e spaventarli manifestandosi come Se irato. Nel caso che ciò avvenga, la malattia scompare. Se non ha successo, allora viene eseguita la cerimonia lalu sopra descritta.

In questo caso, la cerimonia lalu è eseguita parzialmente a riscatto del confiscatore del la, ma anche per rimagnetizzare il la del malato. Per fare ciò, vengono riconsacrati alcuni oggetti : la pietra turchese della persona, il suo vaso del la (un vasetto posseduto da ciascun individuo specificatamente per questo scopo) ; e il femore di una pecora, con su scritto il nome della persona e la sua carta astrologica, e avvolto con fili colorati rappresentanti i cinque elementi, con al centro l’elemento dell’anno di nascita della persona. Se tutto questo ha effetto, la malattia è curata.

Se anche questo procedimento fallisce, allora c’è il problema di una malattia molto seria - un problema di vita o di morte. Dunque deve essere convocato per forza un prete qualificato. Il prete eseguirà il rito to, che invoca il potere di Se e chiama tutti gli otto degyé. Il prete offrirà loro piccole strutture, a mò di piccole case cucite con stoffa e filo, come luoghi di dimora.

Un’altra cerimonia ancor più influente è chiamata do. Questa cerimonia è usata spesso dai buddhisti per invocare i gonpo, i ‘protettori’ (mahakala in sanscrito). La cerimonia Bon invoca il degyé che si pensa essere coinvolto nella malattia. In questa cerimonia al degyé viene offerto un castello nuovo, una costruzione in miniatura molto elaborata, chiamata do. Lo scopo del rito è di allettare il degyé non solo ad andarsene fuori dal malato ma anche di cambiare luogo di dimora. Vengono fatte offerte giornaliere e, alla fine di un certo periodo, vi è una speciale sessione in cui il do è finalmente e completamente offerto al degyé se egli lascerà il malato.

Vi sono ulteriori cerimonie di questo tipo che possono essere eseguite soltanto dai preti più qualificati. In una di queste, il prete minaccia di distruggere il do se il degyé rifiuta di lasciare il malato. In un rito ancora più estremo, il prete si identifica con Se e quindi con i degyé e, richiamandoli, egli li imprigiona dentro alcuni oggetti sacri appropriati che egli poi sotterra. Se il prete fallisce nell’esecuzione di questa cerimonia, ciò è considerato catastrofico poiché il tentativo farà arrabbiare i degyé ed essi potrebbero vendicarsi. Molto facilmente lo stesso prete potrebbe ammalarsi o morire.

Un’altra importante pratica Bon sembrerebbe essere la circumdeambulazione in senso antiorario di una montagna consacrata a Se ed ai degyé nel mentre si esegue il rituale lhasang in determinati punti lungo il cammino.

Dobbiamo pure evidenziare alcuni incantesimi nell’antico linguaggio Shangshung, che vi è ragione di credere possa essere stato l’antenato del linguaggio tibetano. Si pensa che questi incantesimi possano sviluppare poteri spirituali, specialmente se accompagnati da certi movimenti fisici a mò di danza. Vi furono anche presumibilmente alcune visualizzazioni delle divinità Bon intese ad essere combinate con la pratica degli incantesimi e la danza, ma di queste non si conosce nulla. Quando il praticante avrà completato il training intensivo in queste pratiche, egli può dimostrare il suo ottenimento dei poteri gettando sculture di burro in acqua bollente e tirandole fuori ancora intatte, oppure lambendo con la lingua metallo infuocato.

Resterebbero da descrivere molti altri aspetti della religione Bon, sfortunatamente però il compito è maggiore dello scopo di questa breve presentazione. Nondimeno, vogliamo sperare che il profilo per una accurata rappresentazione di questa religione sia stato adeguatamente abbozzato e sia stato dato un certo qual senso della sua natura di base.

* La svastika (o swastika come è spesso pronunciata) rappresenta nel Bon una qualità immutabile e indistruttibile. In questo è come il vajra buddhista, ma vi differisce in quanto connota anche ricchezza e abbondanza. E’ usata spesso come simbolo di ricchezza, trovandosi nelle decorazioni della Chuglha - una borsa contenente oggetti consacrati al dio della ricchezza.

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                                                  L'ALTARE DI VAJRAYOGHINI

Una certa comprensione della saggezza coemergente è   necessaria per poter apprezzare il significato dell’altare di Vajrayoghini e gli oggetti rituali che ne fanno parte. Quando cominciamo a realizzare la coemergente qualità della realtà, possiamo riconoscere che anche un semplice oggetto, come un vaso o un tavolo o una sedia, contiene il potere potenziale di accendere la consapevolezza. La stessa cosa è vera per qualsiasi percezione sensoriale o qualsiasi emozione che possiamo sperimentare. Ci troviamo in un mondo di messaggi auto  esistenti. Poiché noi siamo capaci di ‘leggere’ i messaggi del mondo fenomenico come affermazioni della visione sacra, possiamo apprezzare appropriatamente l’altare di Vajrayoghini, dato che l’altare incorpora questi messaggi auto esistenti e li mette in comunicazione con gli altri. L’altare non è fatto per l’adorazione di una qualche divinità o forza esterna ; piuttosto esso è considerato come focalizzazione dei messaggi di sanità e di consapevolezza che esistono nel mondo, per poterli calare nell’esperienza del praticante e, in un certo senso, per amplificare la loro brillantezza e il loro potere.

Spesso il vajrayana è stato male interpretato come un sistema altamente simbolico. Per esempio, abbiamo sentito spesso che lo scettro vajra simboleggia i mezzi abili o che la ghanta  simboleggia la saggezza. Quando viene detto che il vajra è il simbolo dei mezzi abili o della indistruttibilità, questo è vero ; ma, nel genuino senso vajrayana, non è che   il vajra sia usato per rappresentare o simbolizzare gli abili mezzi, poiché questo   è un concetto troppo astratto con cui aver a che fare, o mostrare, in modo diretto. Lo scettro vajra è gli abili mezzi ; esso comunica e trasmette   l’azione abile direttamente, qualora si comprenda la letteralità del vajrayana. Per questo motivo, l’altare di Vajrayoghini e tutti gli attrezzi che sono sull’altare sono essi stessi considerati come oggetti sacri.

L’altare mostrato nella illustrazione che segue è un ‘altare abhisheka’ cioè esso include tutti quegli oggetti usati per conferire l’abhisheka di Vajrayoghini. Una versione semplificata di questo altare potrebbe essere usata per la pratica giornaliera della sadhana.

Il mandala di Vajrayoghini è situato al centro dell’altare. Esso è tradizionalmente composto da sabbie colorate, o talvolta vi è disegnato. Un mandala fatto di mucchietti di riso viene usato se non è possibile fare né il mandala dipinto né il mandala di sabbia. Il mandala e gli oggetti sopra di esso, di cui si parlerà più avanti, sono considerati un centro di particolare potere, o focalizzazione, dello stesso altare,  per magnetizzare l’energia e le benedizioni di Vajrayoghini, cioè per magnetizzare la consapevolezza auto esistente.

Nel centro del mandala dipinto si trova un simbolo per il coltello ricurvo che Vajrayoghini tiene nella sua mano destra. Questo significa che lo yidam principale, cioè Vajrayoghini stessa, risiede nel centro del mandala. In questo mandala dipinto il coltello ricurvo è situato nel mezzo di due triangoli incrociati, che rappresentano le due sorgenti dei dharma (chojung) che sono il palazzo e la sede di Vajrayoghini. La sorgente dei dharma corrispondente al palazzo di Vajrayoghini è in realtà una piramide a tre facce (triedro), però nel mandala dipinto è rappresentato soltanto a due dimensioni. L’apice del triangolo è un punto infinitesimale a testa in giù ; la bocca del triangolo, in cui risiede Vajrayoghini, è vasta e spaziosa e si apre verso l’alto.

La sorgente dei dharma sorge dalla vacuità e possiede tre caratteristiche : è non nata, non dimorante e incessante. Essenzialmente essa è spazio assoluto con una delimitazione o una ossatura. Ciò rappresenta la coemergente qualità di saggezza e confusione che sorgono dalla vacuità dello spazio. La sorgente dei dharma si riferisce talora ad un canale per la shunyata, oppure ad una cervice cosmica. La sorgente dei dharma è una forma astratta di coemergenza, laddove Vajrayoghini è la iconografica e antropomorfica forma della Madre Coemergente. La fattezza del triangolo - con la punta verso il basso e la base ampia verso l’alto - sta a significare che ciascun aspetto dello spazio può essere alloggiato contemporaneamente - microcosmo e macrocosmo insieme, con le più minuscole situazioni come pure con le più vaste.

E’ interessante notare che, in molte tradizioni teistiche, la piramide è un simbolo di raggiungimento ascendente per unirsi con la natura divina. Il pinnacolo delle cattedrali, o l’apice della piramide, si erge alto verso le soprastanti nuvole. In questo caso, la sorgente dei dharma punta verso il basso, cosicché il piacere, il dolore, la liberazione e la schiavitù si incontrano tutti al punto più inferiore del punto più basso della piramide. Nella tradizione non teistica del Tantra buddhista, il triangolo si allunga sempre più in basso nel terreno della realtà ; quando si arriva fino in fondo all’apice del triangolo, si scopre nella profondità del terreno quell’acqua che è conosciuta come amrita o come compassione.

Ai quattro punti cardinali del mandala dipinto, intorno al pugnale uncinato al centro, vi sono i simboli delle quattro famiglie, vajra, ratna, padma e karma.  Vajrayoghini manifesta la sua fondamentale qualità della famiglia buddha nello spazio centrale del mandala. Comunque, l’energia di Vajrayoghini crea un mandala completo che va oltre, e lavora con, le energie di tutte le famiglie buddha. Quindi, nell’iconografia di Vajrayoghini, essa è circondata dal suo seguito : la dakini vajra ad est, la dakini ratna a sud, la dakini padma ad ovest e la dakini karma al nord. Ciò è mostrato nel mandala dipinto dai simboli delle famiglie buddha ai quattro punti cardinali : il vajra ad est, che rappresenta la sua qualità buddha vajra ; il gioiello a sud, che rappresenta la sua qualità buddha ratna ; il loto ad ovest, che rappresenta la sua qualità buddha padma ; e la spada al nord, che rappresenta la sua qualità buddha karma. Il mandala dipinto mostra anche spirali di gioia, che simbolizzano la mahasukha, la grande beatitudine, che Vajrayoghini conferisce.

In cima al mandala sull’altare è situato il vaso principale dell’abhisheka, lo tsobum. Durante la prima abhisheka del vaso, come abbiamo visto precedentemente, ai praticanti viene conferito potere con l’acqua dello tsobum. Sopra al mandala dipinto vi è un tripode su cui è posta una calotta cranica piena di amrita, usata nel conferimento della seconda abhisheka, l’abhisheka segreto. Questa trasmissione dissolve la mente dello studente nella mente dell’insegnante e del lignaggio. In generale, l’amrita è il principio per esaltare la fede estrema con l’ebbrezza. La credenza estrema è basata sul credere nell’ego e, in questo modo, si dissolvono i limiti tra la confusione e la sanità mentale affinché possa essere realizzata la coemergenza.

Sulla calotta cranica è situato il mandala specchio di Vajrayoghini - uno specchio ricoperto di polvere rossa sindura, in cui sono inscritti il mandala ed il mantra di Vajrayoghini. Lo specchio mostra che il mondo fenomenico riflette la consapevolezza di Vajrayoghini e che il suo mandala è riflesso nell’esperienza del praticante. Questo è lo stesso tipo di messaggio auto esistente di cui si è discusso precedentemente. La polvere rossa sindura che ricopre lo specchio rappresenta la lussuria e la passione cosmiche della Madre Coemergente. A questo livello di pratica, la passione non è più considerata un problema. Liberata dall’attaccamento, essa diviene una forza di espansione e comunicazione ; essa è l’espressione della ‘auto-luminosa compassione’, come viene detto nella Sadhana di Vajrayoghini.

Disposti tutt’intorno al mandala dipinto, il vaso dell’abhisheka, la calotta cranica e lo specchio sono oggetti connessi con le cinque famiglie buddha e usati nella trasmissione dell’abhisheka del vaso. Proprio di fronte al mandala dipinto, verso est, è situato il vajra a cinque punte, simbolo della famiglia vajra. I simboli della famiglia buddha - la campana unita col dorje ed il pugnale uncinato - sono messi qui   un po’ a lato. A sud (lato destro) sono sistemati la corona ed il gioiello, che rappresentano la famiglia ratna. Ad ovest (dietro al mandala) sono piazzati il vajra a nove punte ed il loto, rappresentanti la famiglia padma. Infine, a nord (lato sinistro) vi sono la campana e la spada, che rappresentano la famiglia karma. Se non fosse possibile disporre degli effettivi oggetti rappresentanti le famiglie buddha, sull’altare vengono poste delle carte colorate (tsakali) con su dipinti quegli oggetti. Un secondo vaso dell’abhisheka, il lebum, è posto nell’angolo nord-est dell’altare. Il lebum è considerato l’espressione della dakini karma. All’inizio dell’abhisheka, prima ancora dell’abhisheka del vaso, i discepoli bevono l’acqua dal lebum per purificarsi e mondarsi ; in determinati punti della cerimonia, il maestro vajra spruzza i discepoli con l’acqua del lebum per significare una ulteriore purificazione ed il superamento degli ostacoli psicologici. La conchiglia, che contiene l’acqua del giuramento del samaya, è situata sul davanti (ad est) dell’altare tra i simboli della famiglia vajra e le scodelle di offerta sul fianco dell’altare.

Nel quadrante sud dell’altare (lato destro) è inoltre collocato il phagmo torma, che rappresenta Vajrayoghini col suo seguito. La torma è una forma di scultura di pane fatta con farina d’orzo   acqua, alcool ed altri ingredienti. Questo phagmo torma sull’altare è un importante modo di fare offerte a Vajrayoghini e, facendole, di invitare lo yidam ed il lignaggio a benedire l’ambiente delle pratiche. Le torme assumono un ruolo centrale nella festa di offerta (ganachakra), una parte della Sadhana di Vajrayoghini. L’idea di base della festa di offerta è di offrire tutte le percezioni e l’esperienza, trasformando in consapevolezza ciò che altrimenti sarebbero espressioni di confusione o indulgenza.

Ai lati dell’altare vi sono quattro serie di scodelle per offerte, sette scodelle per ciascuna serie. Le sette offerte sono : acqua di zafferano, fiori, incenso, lampade, cibo, acqua profumata e strumenti musicali. L’offerta di acqua di zafferano rappresenta la purificazione delle tendenze nevrotiche e contaminazioni emotive, cioè i klesha di corpo, parola e mente. Come è detto nella Sadhana :

Per purificare le tendenze klesha degli esseri senzienti offriamo questa abluzione in acqua per corpo, parola e mente.

L’offerta di fiori rappresenta l’offrire le percezioni piacevoli dei sensi :

Fiori che piacciono ai vittoriosi di tutti i mandala di varietà celestiale, superiore e di

bell’aspetto.

L’offerta di incenso rappresenta la disciplina :

La fragranza della disciplina è il miglior incenso supremo.

L’offerta della lampada rappresenta prajna :

Nel bruciare i velenosi klesha e dissipando il buio dell’ignoranza, il bagliore del prajna è una torcia gloriosa

L’offerta di acqua profumata rappresenta la gentilezza :

Acqua pura mista a profumo ed ingredienti di erbe è l’acqua in cui

si bagnano i vittoriosi...possa la gentilezza, piovendo giù dalle nuvole della saggezza,

purificare continuamente la moltitudine di odori ripugnanti.

L’offerta di cibo rappresenta l’amrita :

Sebbene i vittoriosi non abbiano mai fame, per il beneficio degli esseri, offriamo

questa amrita. 

L’offerta di strumenti musicali rappresenta la melodia della liberazione :

I gong ed i cimbali sono la liberante melodia di Brahma.

Sul muro dietro l’altare o su un muro adiacente, vi è una thangka, un dipinto di Vajrayoghini. La thangka del vajrayana è un ulteriore tributo ad essa, nonché un aiuto alla visualizzazione per  il praticante.

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NOTE SULL’AUTORE

 

Il Venerabile Chogyam Trungpa nacque nella Provincia del Kham, nel Tibet Orientale, nel 1940. All’età di tredici mesi, Chogyam Trungpa fu riconosciuto come un tulku maggiore, cioè la reincarnazione di un grande maestro. Secondo la tradizione tibetana, un maestro illuminato è capace, sulla base del suo voto di compassione, di reincarnarsi in forma umana dopo una successione di generazioni. Prima di morire, un tale maestro lascia una lettera, o un altro indizio, su come e dove avverrà la successiva reincarnazione. Più tardi, i discepoli e gli altri maestri realizzati indagano su questi indizi e, sulla base di attenti esami di sogni e visioni, fanno ricerche per scoprire e riconoscere il successore. Quindi, si formano particolari linee di insegnamento, che in alcuni casi si estendono per diversi secoli. Chogyam Trungpa fu l’undicesimo nel lignaggio di insegnamento conosciuto come il Trungpa Tulku.

Non appena i giovani tulku sono riconosciuti, essi affrontano un periodo di addestramento intensivo nella teoria e pratica degli insegnamenti buddhisti. Trungpa Rinpoche (Rinpoche è un titolo onorifico che significa ‘il prezioso’), dopo aver ottenuto l’insediamento come supremo abate del Monastero Surmang e governatore del Distretto di Surmang, cominciò un periodo di addestramento che sarebbe durato diciotto anni, fino alla sua partenza dal Tibet nel 1959. Come tulku della tradizione Kagyu, il suo addestramento fu basato sulla pratica sistematica della meditazione e su una raffinata comprensione teorica della filosofia buddhista. Tra i quattro grandi lignaggi del Tibet, il Kagyu è noto come il ‘lignaggio della pratica’.

All’età di otto anni, Trungpa Rinpoche ricevette l’ordinazione come monaco novizio. Dopo la sua ordinazione, egli intraprese uno studio intensivo e la pratica delle tradizionali discipline monastiche, dedicandosi pure alle arti della calligrafia, pittura di thangke e danza monastica. I suoi insegnanti principali furono Jamgon Kongtrul di Sechen e Khenpo Kangshar, insegnanti guida dei lignaggi Nyingma e Kagyu. Nel 1958, a diciotto anni, Trungpa Rinpoche completò i suoi studi, ricevendo il grado di kyorpon (dottore nelle divinità) e khenpo (maestro di studi). Ricevette anche la piena ordinazione monastica.

Gli ultimi cinquant’anni furono un periodo di grandi sconvolgimenti in Tibet. Non appena divenne chiaro che i comunisti cinesi avevano l’intenzione di conquistare il paese con la forza, molte persone, sia monaci che laici, fuggirono dal paese. Trungpa Rinpoche passò molti tormentati mesi viaggiando a piedi sopra le vette Himalayane (descritti nel suo libro Nato in Tibet). Dopo essere scampato per un pelo alla cattura da parte dei cinesi, egli raggiunse alla fine l’India nel 1959. In India, Trungpa Rinpoche fu designato da Sua Santità Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama, a prestare il suo servizio come consigliere spirituale ai giovani Lama nella Scuola Madre di Dalhousie, India. Egli prestò questo servizio dal 1959 al 1963.

Trungpa Rinpoche ebbe la prima opportunità di contattare l’occidente allorché ricevette un finanziamento dalla Fondazione Spaulding per frequentare l’Università di Oxford. Qui egli studiò Religione Comparata, filosofia e belle arti. Studiò anche l’arte giapponese di sistemare i fiori, ricevendo un diploma dalla Sogetsu School. Mentre si trovava in Inghilterra, Trungpa Rinpoche cominciò ad istruire gli studenti occidentali con gli insegnamenti del dharma (gli insegnamenti del Buddha) e, nel 1968, egli fondò, insieme con Akong Tulku, il Centro di Meditazione di Samye Ling a Dumfriesshire, Scozia. Durante questo periodo egli  inoltre pubblicò due libri, direttamente in inglese : Nato in Tibet e Meditation in Action.*

Nel 1969, Trungpa Rinpoche si recò nel Bhutan, ove intraprese un ritiro solitario di meditazione. Questo ritiro segnò un cambiamento capitale nel suo approccio all’insegnamento. Subito dopo il suo ritorno si smonacò e divenne laico, mettendo da parte i suoi abiti monastici e vestendo nello stile occidentale. Sposò inoltre una giovane donna inglese e lasciò insieme con essa la Scozia per andare nel Nord America. Molti suoi precedenti studenti trovarono questi cambiamenti assai scioccanti e sconvolgenti. In ogni caso, egli espresse la convinzione che, per poter prendere radici in occidente, il dharma aveva bisogno di essere insegnato libero e scevro da sfoggi culturali e fascini spirituali.

Durante gli anni settanta l’America era in un periodo di fermento culturale e politico. Era un tempo di fascinosa soggezione per tutto ciò che concerneva l’oriente. Trungpa Rinpoche criticò l’approccio materialistico e consumistico alla spiritualità che aveva incontrato, descrivendolo come un ‘supermarket spirituale’. Nei suoi discorsi e nei suoi libri ‘Al di là del materialismo spirituale’ e ‘Il mito della Libertà’, egli enfatizzò la semplicità e l’immediatezza della pratica di meditazione seduta come il modo per tagliare ed eliminare tali distorsioni nel cammino spirituale.

Durante i diciassette anni di insegnamenti da lui tenuti in Nord America, Trungpa Rinpoche sviluppò la reputazione di maestro dinamico e controverso. Conoscitore della lingua inglese, egli fu uno dei primi lama che seppero parlare direttamente agli studenti occidentali, senza l’aiuto di un traduttore. Viaggiando intensamente attraverso tutto il Nord America e l’Europa, Trungpa Rinpoche dette centinaia di conferenze e seminari. Istituì centri principali in Vermont, Colorado e Nuova Scozia, come pure piccoli centri di meditazione e studio in numerose città del Nord America ed Europa. Il Centro Vajradhatu fu costituito nel 1973 come corpo centrale amministrativo di tutta la rete.

Nel 1974, Trungpa Rinpoche fondò il Naropa Institute, che diventò la sola autorevole Università del Nord America di ispirazione buddhista. Egli tenne conferenze e corsi intensivi all’Istituto ed il suo libro ‘Viaggio senza meta’ è basato su un corso che egli tenne proprio qui. Nel 1976 istituì il programma Shambhala Training, una serie di programmi e seminari di fine settimana che prevede una istruzione nella pratica meditativa all’interno di una collocazione secolare. Il suo libro ‘Shambhala : la Via sacra del Guerriero’ dà una visione panoramica di questi seminari.

Trungpa Rinpoche fu attivo anche nel campo della traduzione. Lavorando insieme a Francesca Fremantle, compose una nuova traduzione del ‘Libro Tibetano dei Morti’, che fu pubblicato nel 1975 in America. Più tardi egli formò il Comitato Traduttori di Nalanda, allo scopo di tradurre testi e liturgie per i suoi studenti nonché per poter rendere di pubblica utilità testi molto importanti.

Trungpa Rinpoche fu noto anche per i suoi interessi nelle arti e, in modo particolare, per le sue intuizioni della relazione tra   disciplina contemplativa e   processo artistico. Il suo stesso lavoro artistico ha incluso calligrafia, pittura, composizione floreale, poesia, commedia e installazioni ambientali. Per di più, al Naropa Institute, egli creò una atmosfera educativa che attirò molti artisti e poeti di grido. L’esplorazione del processo creativo alla luce dell’addestramento contemplativo si prolunga qui come un dialogo provocatorio e stimolante. Trungpa Rinpoche ha pubblicato anche due libri di poesie : ‘Mudra’ e ‘First Thought Best Thought’ .

In diciassette anni di insegnamenti in Nord America, egli approntò le strutture necessarie per procurare ai suoi studenti un addestramento nel dharma completo e sistematico. Partendo da discorsi introduttivi fino ai corsi di pratiche avanzate per gruppi di ritiro, questi programmi pongono l’accento su un bilancio completo di studio e pratica, di intelletto e intuizione. Studenti di tutti i livelli possono proseguire nel loro interesse nella meditazione e nel sentiero buddhista tramite queste   forme di addestramento. Gli studenti anziani di Trungpa Rinpoche, in questi programmi, vengono coinvolti sia nell’insegnamento che nell’istruzione alla meditazione. Oltre ai suoi vasti insegnamenti sulla tradizione buddhista, Trungpa Rinpoche pose anche una grande enfasi sugli insegnamenti Shambhala, che accentuano l’importanza dell’addestramento della mente come elemento distinto dalla pratica religiosa ; il coinvolgimento nella vita comunitaria e la creazione di una società illuminata ; ed infine l’apprezzamento della propria vita di tutti i giorni.

Trungpa Rinpoche morì nel 1987, all’età di quarantasette anni. Ha lasciato sua moglie Diana e cinque figli. Dal momento della sua morte, Trungpa Rinpoche è stato riconosciuto come una figura centrale per l’introduzione del dharma nel mondo occidentale. Il suo grande apprezzamento per la cultura occidentale e la sua profonda comprensione della sua specifica tradizione diede un contributo rivoluzionario nell’insegnare il dharma, in quanto gli insegnamenti più antichi e profondi furono presentati in un modo assolutamente contemporaneo. Trungpa Rinpoche fu noto per la sua sicura e coraggiosa  proclamazione del dharma : scevra da esitazione, vera per la purezza della tradizione e assolutamente fresca. Possano questi insegnamenti mettere radici e fiorire per il beneficio degli esseri senzienti.

 

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(*) I titoli dei testi di Chogyam Trungpa pubblicati dalla Edizioni ASTROLABIO-UBALDINI sono stati tradotti in italiano così come appaiono nella Collana. Gli altri titoli sono lasciati in lingua inglese. (N.d.T.)

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LISTA DELLE FONTI

CAPITOLO 1 - Cos’è il cuore del Buddha ?

      Vajradhatu Sun 4 N.3 (Febbraio/Marzo 1981)

CAPITOLO 2 - Intelletto e Intuizione (Mai pubblicato finora)

CAPITOLO 3 - I Quattro Fondamenti della consapevolezza

      Garuda IV, Boulder : Vajradhatu Publications (1976)

CAPITOLO 4 - Devozione

      Empowerment, Boulder : Vajradhatu Publications (1976)

CAPITOLO 5 - Prendere rifugio

      Garuda V, Boulder : Vajradhatu Publications (1977)

CAPITOLO 6 - Il voto di bodhisattva

      Garuda V, Boulder : Vajradhatu Publications (1977)

CAPITOLO 7 - La visione sacra : La pratica di Vajrayoghini         

       “Sacred Outlook : The Vajrayoghini Shrine and Practice” La via della seta ed Il              

        sentiero del diamante : Esoteric Buddhist Art on the Trade Routes of the Trans-

        Himalayan Region, Dr. Deborah Klimburg-Salter, ed. Los Angeles : UCLA Art Council         Press (1977)

CAPITOLO 8 - Relazione

       Maitreya 5 : Relationship, Berkeley : Shambhala Publications (1974)

CAPITOLO 9 - Riconoscere la morte

      Journal of Contemplative Psychotherapy 3, Boulder : The Naropa Institute (1982)

      Pubblicato precedentemente in Healing, Olsen and Fossaghe ed. N.Y. (Human Science Press,

      New York, 1978)

CAPITOLO 10 - L’alcool come veleno o medicina

      “Amrita as Poison or Medicine” Vajradhatu Sun 2, N.3 (Febbraio/Marzo 1980)

CAPITOLO 11 -  Pratica e bontà fondamentale : un discorso per ragazzi

      “Talk by the Vajracarya to the Childrens’ Program” Vajradhatu Sun 1 N.5 (Giugno/Luglio  1979)

CAPITOLO 12 - Dharma poetico

      “Vajracarya on Dharma Poetics” Vajradhatu Sun 5 N.2 (Dicembre ‘82/Gennaio 1983)

CAPITOLO 13 - Energia verde

      Harper’s Magazine (Novembre 1973)

CAPITOLO 14 - Manifestare l’illuminazione

      Vajradhatu Sun 6 N.1 (Ottobre/Novembre 1983)

APPENDICI - Il sistema di vita Bon (Vajradhatu Sun 7 N.2 (Dicembre ‘84/Gennaio 1985)

      L’Altare di Vajrayoghini - “Sacred Outlook : The Vajrayoghini Shrine and Practice”

      (Vedi sotto Cap.7 - UCLA Art Council Press - Los Angeles - 1977)

 

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Traduzione dall’inglese a cura di Alberto Mengoni (Rivisto e corretto da Luca Fiorentino di Shambalah- Italia)

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