IL buddhiSMO POSITIVO      


Introduzione del Dott. Tony Page - (trad. di Aliberth)

tratto da http://www.nirvanasutra.org.uk;

 

 

       Nei secoli scorsi, una delle tendenze più deplorevoli del buddhismo è stata la squilibrata e distorcente enfasi messa su alcuni aspetti negativi della Dottrina, come il non-sé, l’impermanenza, l'infelicità, e la vacuità o vuoto. Benché ciascuno di questi concetti, preso insieme o singolarmente, in realtà sia estremamente prezioso e importante come guida per la pratica e il distacco dal transitorio e dal mondano, essi non rappresentano tutta la storia buddhista: c'è anche una ricca vena di insegnamenti "catafatici" che ci arriva dal Buddha (cioè, insegnamenti diretti a comunicare un senso positivo di ciò che la vera Realtà è, piuttosto che un "apofatico" focus su ciò che essa non è), ed è a questa dimensione più positiva e affermativa del Dharma che tutti questi articoli sono dedicati. Abbiamo riportato alcuni testi ed articoli buddhisti che cercano di dare una presentazione più positiva di ciò che realmente insegnò il Buddha. Questo sito-web è estremamente positivo nel suo approccio, poiché presenta una massa di citazioni dirette (talvolta interi testi) dai sutra Tathagatagarbha (come lo Srimaladevi Sutra ed il Tathagatagarbha Sutra) i quali affermano la Realtà di una trascendente seppur immanente Essenza di Buddha in tutti gli esseri e, invero, in tutti i fenomeni. Io raccomando che il serio studente del "buddhismo Positivo" si immerga pienamente in questi testi. Il loro valore Dharmico è oltre ogni calcolo. 

     Al lettore può far piacere di esplorare anche il sito: www.attan.com; il quale contiene una poderosa raccolta, veramente eccellente e fortemente espressiva, degli insegnamenti positivi del Buddha riguardo al ‘Sé’ dai sutra Pali ed è perciò che specificamente lo raccomando. Il webmaster ha passato molti anni tentando di produrre accurate traduzioni di questi passaggi, che di solito sono distorti e mutilati sotto l'influenza di preesistenti "assolutisti" che assumono il Non-Sé. Da notare, comunque, che il sito usa un linguaggio molto forte e ardentemente appassionato, e presenta l’antico simbolo spirituale indiano della svastica (per la quale io personalmente mi sento chiaramente a disagio), benché ovviamente sul sito-web l'immagine non sia usata in nessun suggestivo modo per supportare la demoniaca ideologia Nazista (che rivoltò la forma e il significato della svastica). Inutile dire che io sono contrario ad ogni vizio, uccisione, pregiudizio razziale, pregiudizio sessuale, odio e rabbia (questi sono i klesha - le afflizioni mentali) ed io non li approvo assolutamente. La svastica, nella sua connotazione originale è presentata come un emblema del "Dio" che emana nel cuore di tutte le cose. Ecco un paio di traduzioni di articoli sul Sé (o Atman) tratti dal sito in parola: 

     "L'Anima (Atman) è il Guidatore del Carro" [Jataka-2-1341]-Gotama Buddha  

"Il Tathagata è privo del marchio di tutte le altre cose, egli dimora all'interno della inflessibile mente/volontà senza-segni (citta). Ivi, Ananda, è la dimora dell'Anima (atman) come Sua Luce, come Suo rifugio, con null’altro come rifugio."  

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Iniziamo quindi con uno splendido articolo sulla natura dell'Assoluto nel buddhismo scritto da John Paraskevopoulos, un prete buddhista Shin e studioso australiano.

 

Le concezioni dell'Assoluto nel buddhismo Mahayana

Di John Paraskevopoulos -  trad. di Aliberth

    Un perenne problema per i buddhisti è stata la questione di come articolare la relazione che da sempre esiste tra gli ordini relativi e assoluti della realtà, cioè tra Samsara e Nirvana. Anche se all'interno della tradizione buddhista le concezioni del Nirvana nei secoli si sono variamente modificate, c’è da dire che alcune delle sue caratteristiche attraverso le mutazioni dottrinali delle diverse scuole sono rimaste costanti. In effetti, in Occidente alcuni moderni studiosi di buddhismo si sono sovente interrogati se parlare di un Assoluto nel buddhismo ha un qualche significato, con la pretesa che una tale nozione sia una illegittima trasposizione di certe nozioni 'sostanzialiste' in relazione alla realtà suprema, che si trovano nella sua tradizione genitrice, l'Induismo. Questo articolo tenterà di rispondere alla domanda se nel buddhismo si possa significativamente parlare di un Assoluto, in cosa consiste tale realtà e quali siano le sue implicazioni per comprendere la mèta più alta del sentiero buddhista. Nel far questo, punterò il dito principalmente sulla tradizione Mahayana e, in particolare, su uno dei suoi principali testi metafisici, ‘Il Risveglio della Fede’ di Asvaghosa, - in cui ragionevol-mente troviamo uno dei trattati più comprensibili della 'Realtà Ultima' nella storia del buddhismo. Successivamente, indicherò poi alcune delle implicazioni di questo dibattito per poter conoscere la Via della Terra Pura ed il suo completamento nella prospettiva Shinran. 

Edward Conze, in uno dei suoi primi seminari sul buddhismo(1), nel dibattere la questione se il primitivo buddhismo potesse essere considerato ateo, compendiò la primitiva visione Hinayana del Nirvana come segue: “Abbiamo detto che il Nirvana è permanente, stabile, imperituro, immobile, immortale, che non invecchia, non è mai nato, e mai svanirà, che è potere, beatitudine e felicità, è un rifugio sicuro, un ricovero, ed il luogo dell’inattaccabile sicurezza; che è la reale Verità e la Realtà suprema; che è il Bene, la mèta suprema e l’unico e solo compimento della nostra vita, l'eterna, nascosta ed incomprensibile Pace. Quindi, dev’essere contrapposto a questo mondo, che è totalmente condizionato e impermanente, che è considerato enfaticamente del tutto malato, totalmente pervaso di sofferenza, come qualcosa che dev’essere completamente rifiutato, totalmente abbandonato per l’unica mèta del Nirvana”(2).

In tal senso, il primitivo buddhismo era radicalmente dualistico nel modo di come percepì questi due reami - semplicemente non c'era collegamento tra essi. In altre parole, l'individuo può raggiungere il Nirvana solamente tramite la risoluzione di questa stessa individualità - quindi la dottrina dell’anatman o 'non-sé'. Inoltre, c'era anche la tendenza a vedere il Nirvana più come uno stato da realizzare che non uno stato di 'essere', data la ‘apofatica’ reticenza del primitivo buddhismo a emettere dichiarazioni definitive nei riguardi di questa realtà ineffabile e, almeno in una certa misura, per il suo volontario desiderio di defilarsi dalle metafisiche delle 'Upanishad'. Tuttavia, per quanto le polemiche tra questi due campi fossero semplicemente conseguenza di un reciproco malinteso, significato e implicazioni del concetto di atman è un discutibile punto che richiederebbe un intero trattato in se stesso. 

La crescita del Mahayana come distinto veicolo del Dharma per suo proprio diritto, testimonia una tendenza crescente ad universalizzare il concetto della Buddhità come un principio spirituale che trascende la personalità umana di Shakyamuni ed incarnante una realtà più elevata e permanente. Da qui, il concetto del Buddha 'eterno' che noi vediamo promulgato in tutte quelle scritture centrali, come il Sutra del Loto, ed in tali dottrine fondamentali come quella dei trikaya o i Tre Corpi del Buddha, col Dharmakaya (Corpo di Dharma), che diventa effettivamente uguale all’Assoluto in chiave buddhista. Altre correnti di pensiero all'interno del Mahayana svilupparono ulteriormente questa nozione che preferisce vedere il Buddha o il Nirvana come una realtà onni-pervasiva, che abbraccia tutte le cose, inclusa la totalità del samsara. Col tempo, questa crescente tendenza di attenuare la distinzione tra i due reami, alla fine condusse, specialmente nella scuola Madhya-mika, verso una decisa identificazione che noi troviamo esplicitamente formulata nella nota affermazione 'Samsara è Nirvana'. Dalla dualità quasi inqualificata del Hinayana troviamo ora una non-dualità radicale all'apice del pensiero Mahayana - e tutto questo sotto l'ombrello del 'buddhismo'! Una simile rivoluzione nel pensiero sembra non aver altri precedenti nella storia religiosa, il che chiaramente serve a dimostrare le inerenti complessità e controversie nella lotta della tradizione, al fine di comprendere la realtà dell’illuminazione. Comunque, quanto noi consideriamo che realmente questo sviluppo sia stato grandemente innovativo dipende dal fatto di credere che le origini del Mahayana possano essere riportate alla persona stessa di Shakyamuni. Se, come è stato suggerito, i dogmi fondamentali del Mahayana erano già stati tratteggiati dal Buddha dopo la sua illuminazione e poi di conseguenza disseminati da alcuni discepoli attraverso una tradizione orale fino al tempo in cui fu considerato necessario spiegarli in maniera discorsiva attraverso le scritture scritte nei secoli successivi, allora forse l’ontologia del Mahayana può essere considerata integrale più di quanto originalmente suggerito, ma dovrebbe piuttosto essere considerata un dispiegamento naturale, al di là del tempo, di ciò che fin dall'inizio fu insegnato da Buddha Shakyamuni. Questa indubbiamente è una questione che, benché ancora soggetta a molti dubbi e controversie, tuttavia offre al pensiero molto materiale stimolante. 

Avendo assai brevemente tracciato i rudimentali contorni della transizione dalle prime visioni buddhiste del Nirvana alla più matura e comprensiva concezione del Dharmakaya sviluppata dai Mahayanisti, potremo andare un pò più in profondità nella natura di questo Assoluto. In una delle sue prime opere, D.T.Suzuki cita il seguente passaggio sul Dharmakaya, dal grande Avatamsaka Sutra(3): 

“Il Dharmakaya, mentre si manifesta comunque nel triplice mondo, è libero dalle impurità e dai desideri. Esso si manifesta qui, là e dappertutto, rispondendo alla chiamata del karma. Non è una realtà individuale, non è una falsa esistenza, ma è puro ed universale. Esso non proviene da alcun luogo, e non va in nessun luogo; non asserisce se stesso, né è soggetto ad annientamento. È sempre sereno ed eterno. È il ‘Quello’, l’Uno, privo di ogni determinazione. Questo corpo di Dharma non ha confini, né lati, ma è incarnato in tutti i corpi. La sua libertà o spontaneità è incomprensibile, come è incomprensibile la sua presenza spirituale nelle cose materiali. Tutte le forme di corporalità lo hanno racchiuso in se stesse all’interno, ed è quindi in grado di creare tutte le cose. Esso, assumendo un concreto corpo materiale come richiesto dalla natura e dalle condizioni del karma, illumina tutte le creazioni. Sebbene sia il tesoro dell'intelligenza, è privo di qualunque particolarità. Non c'è luogo nell'universo in cui questo Corpo non prevalga. L'universo è divenire ma questo Corpo vi rimane per sempre. È libero da tutti gli opposti ed i contrari, eppure sta funzionando in tutte le cose per condurle verso il Nirvana”. 

Immediatamente, abbiamo una visione più dinamica e onni-inclusiva della realtà ultima, piena di personalità, compassione e intelligenza, che prende l'iniziativa nella liberazione degli esseri senzienti. Ciò è in rigido contrasto al Nirvana degli Hinayana, che è piuttosto una realtà statica, indifferente e spassionata, senza un intimo collegamento al nostro mondo di nascita-e-morte. Nondimeno, entrambe le tradizioni buddhiste sarebbero d'accordo che, comunque concepito, il Nirvana (che in realtà non è nient’altro che la dimensione di esperienza del Dharmakaya) resta l'ultimo scopo dello sforzo umano e l'unica vera fonte di pienezza e felicità umane. In ogni caso, impersonando l'Assoluto e forgiando un sentiero non-monastico per il suo ottenimento, il Mahayana ha aperto le porte del Dharma a tutte le persone, specialmente ai laici che avevano fin qui avuto un ruolo fortemente periferico nella vita spirituale. 

Sotto molti aspetti, il culmine di questa concezione ‘catafatica’ dell'Assoluto potrà essere trovata in un breve ma profondo e influente trattato noto come il ‘Risveglio della Fede nel Mahayana’, tradizionalmente attribuito ad Asvaghosha, sebbene sia esistente soltanto in Cinese. Quest’opera, che è considerata come una sintesi delle tradizioni Madhyamika, Yogacara e del Tathagata-garbha, spesso ha esercitato la sua influenza sui fondatori di tutte le più importanti scuole del Mahayana, i quali hanno venerato il testo come un'incensurabile autorità sulle questioni di cui tratta. A tal riguardo, essa serve come un affidabile e utile compendio delle metafisiche Mahayana contenente, come fosse una piccola ma forbita bussola, una serie di sofisticati e sottili insegnamenti che uno potrebbe diversamente incontrare solo consultando numerosi altri sutra e shastra, in cui gli stessi punti sono presentati spesso solo in modo trasversale. 

Il fondamentale punto di vista del ‘Risveglio della Fede’ sta nella sua credenza nell'Assoluto, che esso chiama 'Talità' (tathatà). Come abbiamo già visto, questa realtà è stata chiamata con molti altri nomi, secondo la prospettiva dalla quale è immaginata, e cioè, Dharmakaya, Nirvana, Buddha, Shunyata, Bodhi, ecc. Ora, la Talità, la realtà suprema, secondo questo testo è trascendente ed immanente. In altre parole, è completamente oltre qualsiasi cosa che noi possiamo immaginare o concepire nel nostro mondo della relatività ed illusione, con tutte le sue molteplici limitazioni, e però allo stesso tempo, esso costituisce il vero centro di tutto ciò che esiste - il centro più profondo e la 'Sorgente Ultima’(4) del Samsara stesso. A corollario di questo, c’è da dire che l'Assoluto, che è senza-forma, manifesta se stesso attraverso le forme che, anche se limitate e finite, non sono nient’altro che l'Assoluto, di cui esse sono i suoi riflessi. Questo è l’unico modo di comprendere il significato di 'Samsara è Nirvana'. Non significa, chiaramente, voler dire che sono identici, ma piuttosto che in modo ultimo essi sono non-duali. In questo modo, il mondo che ci circonda è allora visto come una mescolanza di condizionato e di incondizionato. Fa-tsang, il più illustre maestro della scuola Hua-Yen, era un gran devoto del Risveglio della Fede, sul quale scrisse il più autorevole commentario. Il suo stesso pensiero fu profondamente influenzato da questo testo come ci viene attestato dal seguente passaggio del libro di Francis Cook sul buddhismo Hua-Yen, che io cito allo scopo di chiarire ciò che in precedenza fu detto sulla relazione tra samsara e Nirvana(5): 

“La stessa base del pensiero Hua-Yen sembra essere la visione di un Assoluto che nel tempo fosse pre-esistente e antecedente ad un mondo concreto di cose, quale poi esso divenne”. E’ detto che ogni oggetto fenomenico è una mescolanza di Vero e di falso, o Incondizionato e condizionato (naturalmente, la somma totale di tutte le cose è questa stessa mistura). Prendendo prima il lato assoluto delle cose, Fa-tsang dice che esso ha due aspetti. Il primo, lui dice, è immutabile. Non deve quindi sorprendere perché tutte le religioni proclamano l'immutabilità come la natura dell'assoluto. Che razza di assoluto sarebbe ciò che cambia come le cose ordinarie del mondo? Essendo immutabile, l'assoluto è per sempre stabile, puro, eterno, immobile e sereno. Questa è, infatti, una descrizione comune dell'assoluto in tutte le forme di buddhismo Mahayana. Cionondimeno, Fa-tsang in seguito dice qualcosa che non solo sembra contraddire questa asserzione, ma che è anche assai insolita nel buddhismo; egli dice che mossa da certe condizioni, questa pura ed eterna Realtà immobile cambia ed appare come l'universo degli oggetti feno-menici. Tuttavia, come l'oro che è diventato un anello, l'immutabile assoluto resta assoluto ed immutabile. Qui il ritratto è apparentemente quello dell'emanazione dell'universo concreto da un assoluto immutabile col risultato che le cose sono una mescolanza di assoluto e fenomenico. 

Ho a lungo citato questo passaggio per mostrare l'influenza che il Risveglio della Fede ha avuto sulla principale scuola di buddhismo che, benché non più estesa come in passato, continua a vivere attraverso le dottrine e pratiche della scuola Zen, di cui è il complemento intellettuale. Quando Cook parla di questa 'davvero insolita' asserzione di Fa-tsang, egli si sta riferendo a nient’altro che alla centrale tesi del Risveglio della Fede, da cui questo eminente maestro Hua-Yen fu così grandemente influenzato. E’ comunque importante notare che questa prospettiva non è così tanto insolita dacché è stata così esplicitamente resa, poiché è una posizione dottrinale che deve logicamente provenire dagli altri fondamentali dogmi del buddhismo Mahayana. 

Un'altra distintiva caratteristica di questo testo è il suo forte accento sull'Assoluto essere sia di sunya ('vuoto') che di a-sunya ('non vuoto'). In primo luogo, la ‘Talità’ è vuota perché fin dall’inizio non è mai stata riferita ad un qualsiasi stato contaminato di esistenza, essa è libera da tutti i marchi di distinzione individuale delle cose e non ha niente a che fare con pensieri concepiti da una mente illusa'. (6) Considerato in tal modo, 'il vuoto' (o vacuità) non dovrebbe essere considerato come 'non-esistente', ma semplicemente (come nota Yoshito Hakeda, nel suo commentario) 'privo' di un’assoluta, distinta, indipendente, permanente entità o essenza individuale, come un irriducibile componente di un mondo pluralistico..... Tuttavia, questa negazione non esclude la possibilità che la ‘Talità’ sia considerata da un diverso punto di vista o ordine, con cui uno non è familiarizzato. Quindi, c'è spazio per presentare la Talità, se è fatto simbolicamente, come un pieno con attributi'(7). Asvaghosha, dopo avere ben indicato che la Talità 'non fu spinta a esistere all'inizio né cesserà di essere alla fine dei tempi; essa è eterna da sempre' prosegue col dire: 

‘Da tempi senza inizio la Talità, nella sua natura, è fornita pienamente di tutte le qualità eccellenti; vale a dire, è dotata di luce della grande saggezza, delle qualità di illuminare l'intero universo, di vera conoscenza e di mente pura nella sua auto-natura; di eternità, beatitudine, purezza e vero Sé; di rinfrescante immutabilità e libertà.... queste qualità non sono indipendenti dall'essenza della Talità, e sono iper-razionali attributi della Buddhità. Poiché essa è completamente dotata di tutti questi e non le manca niente di qualsiasi cosa, è chiamata il tathagata-garbha (nello stato latente), ed anche il Dharmakaya del Tathagata.... Benché, in realtà, abbia tutte queste qualità eccellenti, non ha alcuna caratteristica differenziata; mantiene la sua identità ed è di un unico sapore; la Talità è solamente l’Uno.... è l’Uno senza Secondo(8)'. 

Questi sono passaggi critici che possono aiutarci a capire la natura e la funzione della Talità. Ciò che noi vediamo è un concetto di 'Assoluto', non solo come la sorgente di tutta la felicità, la gioia e la bellezza di cui noi sperimentiamo soltanto le pallide ombre in questo mondo, ma la fonte di illuminazione e attività salvifica di tutti i Buddha e Bodhisattva, diretta verso la sofferenza degli esseri senzienti che sono nel samsara. Perciò, per la corretta comprensione della Talità è cruciale non vederla sotto l’altro suo sinonimo, cioè il Vuoto o Vacuità, a voler significare un mero nulla o la non-esistenza - questo vorrebbe dire cader preda del nichilismo contro il quale i grandi maestri Mahayana ci hanno sempre messo in guardia. Per essere sicuri, la Talità non è quel tipo di esistenza da considerare analoga alle realtà con cui siamo familiarizzati in questo effimero mondo di fugaci apparenze, ma piuttosto è ben più 'reale' di qualsiasi cosa all'interno dell’ambito della nostra limitata esistenza empirica. Vi è un gran pericolo, specialmente quando uno legge  certi moderni studi di buddhismo qui in Occidente, nel non riuscire a riconoscere che la nozione di 'vacuità', di cui si sente così tanto parlare, non è un vuoto o mancanza di realtà come curiosamente talvolta è supposto, ma un vuoto di limiti, di relatività e di illusione. A tal riguardo, il vuoto serve come un mezzo (upaya) per aiutare le persone a liberarsi delle visioni malintese e fuorvianti della realtà più elevata, piuttosto che essere un tipo di comprensibile asserzione che lo riguardi. Uno è spinto a considerare le dialettiche punitive di Nagarjuna ed il suo sistema  del Cammino di Mezzo (Madhyamika) semplicemente come una forma di terapia intellettuale progettata per rimuovere gli ostacoli ad una più chiara comprensione della Talità - entrando nei razionali e convenzionali modi in cui noi artificialmente costruiamo ciò che crediamo essere la realtà, e per promuovere una maniera più diretta ed intuitiva di consapevolezza, tramite prajna o 'saggezza trascendentale'. Ma tale esercizio si ferma solo a metà-strada, altrimenti la storia del buddhismo non avrebbe testimoniato lo sviluppo di successive scuole che cercarono, per così dire, di colmare i vuoti lasciati dall’approccio puramente negativo ed apofatico della visione di sunyata. Così, vi fu un crescente bisogno di una più positiva concezione della realtà ultima, una concezione che indirizzasse le fondamentali necessità di intelligenza e volontà in risposta a ciò che, in primo luogo, sorse nello Yogacara seguito dalle scuole di pensiero del Tathagata-garbha con la loro enfasi sulla dimensione catafatica dell'Assoluto. Anche il buddhismo Tantrico può essere considerato una risposta ad alcune delle limitazioni percepite con la prima visione Madhyamika. In ogni caso, ora noi troviamo una più ricca e complessa ontologia che cercò di integrare l’esistenza nella sua interezza, ed a tutti i suoi livelli, con la Talità. Nessun dharma o elemento di esistenza fu considerato essere fuori del suo abbraccio o influenza, così che ogni realtà fu soffusa della presenza del Buddha - una nozione impensabile per l’ Hinayana, che non era nella giusta posizione per riconciliare questo mondo di sofferenza ed illusione col reame che liberasse uno da tutto questo dolore. Nondimeno, malgrado la paradossale natura del preferito modo del Mahayana di vedere l'Assoluto, esso sentì che la sua più difficile visione fosse ampiamente giustificata in vista di ciò che esso considerava essere una più profonda consapevolezza dell'onnipresente attività della Talità, nel nostro mondo di tutti i giorni dell’esistenza samsarica. 

Il sorgere della scuola della Terra Pura del buddhismo Mahayana fu contemporaneo estesamente con il fiorire del Mahayana stesso e costituì una delle sue più prime manifestazioni. In un certo senso, si potrebbe argomentare che la Via della Terra Pura rappresentasse l'esempio più esplicito del tentativo di rendere l’Assoluto buddhista tanto accessibile quanto possibile alle persone ordinarie attraverso l'uso di un ricco e positivo simbolismo progettato per elevare l'aspirazione per la stessa illuminazione. Così, il sentiero della Terra Pura può essere anche visto come il più bell’esempio della visione a-sunya della realtà assoluta, ossia in contrasto alla visione della Talità Madhyamika vista come il 'Vuoto' o 'Vacuità' (sunya). Esso è visto nella sua pienezza, e la pienezza come la fonte inesauribile di tutti i meriti, virtù, saggezza e compassione - un archetipico reame di perfezione e beatitudine. Da qui, le tradizionali descrizioni della Terra Pura che sono piene degli attributi di illuminazione, attraverso il simbolismo evocativo di gioielli, musica, fragranze, colori, ecc. Così, assumendo apparentemente un’immagine sensuale, questi sutra tentano di portare, in termini che potrebbero essere prontamente capiti, un senso della perfetta felicità del Nirvana - in contrasto, senza dubbi, all'imperfezione che affligge la visione ordinaria del mondo del devoto medio. Il patriarca della Terra Pura, T'an-luan, affermò che ciò che distingue il buddhismo della Terra Pura dalle altre scuole è che il 'Dharmakaya della natura-di-Dharma' prende l'iniziativa in relazione agli esseri illusi e sofferenti che si manifestano come 'Dharmakaya degli Espedienti' nella forma di vari Buddha, Bodhisattva e Terre Pure. Questo è l'atto di compassione ultimo perché senza questa iniziativa, gli esseri ordinari rimarrebbero arenati nel samsara, senza nessuna speranza di liberazione, essendo che nell'Età Decadente del Dharma i nodi dell'ignoranza e dell’illusione erano considerati troppo forti per permettere che sforzi individuali ed iniziativa fossero sufficenti  al conseguimento dell’illuminazione. 

Anche se la scuola della Terra Pura afferma che la natura compassionevole e dinamica della Talità sia il massimo sviluppo del pensiero Mahayana, è possibile trovare i semi di questo concetto nel Risveglio della Fede nella sua stessa dottrina della 'permeazione' (vasana).(9) E così, noi troviamo che:

“L'essenza della Talità è provvista, da tempi senza inizio, con il perfetto stato di purezza. È dotata di funzioni super-razionali e della sua natura di manifestarsi. A causa di queste due ragioni, essa è perpetuamente permeata di ignoranza. Tramite la forza di questa permeabilità, induce l’uomo ad aborrire la sofferenza del samsara, a cercare la beatitudine nel Nirvana e, confidando che egli abbia il principio di Talità al suo interno, fa si che la sua mente si sforzi.… Tutti i Buddha e i Bodhisattva hanno il desiderio di liberare tutti gli uomini, spontaneamente permeandoli con le loro influenze spirituali e non abbandonandoli mai. Attraverso il potere della saggezza che è tutt’uno con la Talità, essi manifestano le attività in risposta alle necessità degli uomini allorché li vedono e li sentono”. 

Questo passaggio chiaramente mostra l'onnipresente attività della Talità, che è in funzione come l’immanente Assoluto che opera in tutte le cose per portarle verso l’illuminazione, tanto che anche l'aspirazione di un individuo a cercare la Buddhità è stimolata dal compassionevole lavorìo del Tathagata, pur senza preoccuparsi del fatto se l'aspirante è conscio o no di questa influenza. A tal riguardo, il dibattito su 'l’auto-potere' e 'l'altro-potere' può essere risolto se si riconosce che c'è solamente un unico potere - quello dell'Assoluto - che pervade e sostiene tutte le cose e che uno può sia riconoscere e collaborare con esso (cioè, conformandosi al Dharma) o permettergli di operare in incognito (cioè, continuando a vivere in uno stato di nescienza) – in un modo o nell’altro, l’opera della Talità, secondo il Mahayana, alla fine porterà tutti gli esseri senzienti al compimento nirvanico, poiché non vi è nulla che non costituisca il Corpo-di-Dharma (Dharmakaya) e non sia quindi abbracciato pienamente dalla sua saggezza e compassione. 

Infine, vorrei fare qualche breve considerazione sul pensiero di Shinran e sui suoi tentativi di riconciliare gli insegnamenti tradizionali della Terra Pura che egli ha ereditato, con la prospettiva sapienziale del Mahayana che lui avrà indubbiamente assorbito da vent’anni come monaco Tendai sul Monte Hiei. La visione della scuola della Terra Pura, a lungo-stabilita, era che l'oggetto principale della devozione non fosse lo stesso Dharmakaya senza-forma ma il Buddha di Luce Infinita (Amitabha) che in precedenza era stato un bodhisattva chiamato Dharmakara, il quale, per la sua compassione verso le moltitudini di esseri senzienti sofferenti, si sottopose a eoni di pratiche e austerità auto-sacrificanti che lo misero in grado di accumulare un sufficiente merito per raggiungere la Buddhità e stabilire una Terra Pura sulla quale egli presiede, e che procura agli aspiranti un ambiente ideale in cui poter intraprendere il Dharma e raggiungere l’illuminazione. Per lungo tempo, Amitabha fu riconosciuto come uno dei tanti Buddha che esistono in tutto l'universo, ognuno con la sua propria Terra Pura, generata dalle loro stesse pratiche e voti. In ogni modo, la devozione verso Amitabha fu considerata particolarmente efficace grazie al fatto che i suoi voti furono intesi specificamente per gli esseri ordinari con poca o nessuna capacità spirituale, mentre altri Buddha avevano stabilito certi requisiti difficili indispensabili per l’ammissione alle loro rispettive Terre Pure. 

Shinran, pur non ripudiando esplicitamente questa visione tradizionale, piuttosto sceglie di universalizzare ciò che egli ha considerato il simbolismo mitologico che c’è dietro alla storia di Dharmakara, radicandolo nei fondamentali principi del Mahayana – un pò per canalizzare le forti critiche delle altre "nétte che consideravano la Via della Terra Pura non-Buddhista, ed in parte perché lui aveva senza dubbio una profonda consapevolezza di una realtà più alta (che egli spesso chiama ‘jinen’ o come il 'ciò-che-è') che vide come operante in tutte le cose e che si manifesta attraverso innumerevoli sembianze compassionevoli, come i Voti di Amitabha e la sua Terra Pura. Per Shinran, jinen significa ‘ciò che è oltre la forma e il tempo, ed oltre il dominio della volontà e dell’intelletto umano’. È il corpo-di-Dharma come Talità, che 'riempie i cuori e le menti dell'oceano di tutti gli esseri' (10). In una delle sue famose lettere, Shinran fa la seguente osservazione: “Il Buddha Supremo è senza-forma e grazie al fatto di essere senza-forma, esso è chiamato 'jinen'. Quando questo Buddha è mostrato come avendo una forma, non si chiama il Buddha o supremo nirvana. Per farci comprendere che il vero Buddha è senza-forma, egli è espressamente chiamato Amida Buddha; così mi è stato insegnato. Amida Buddha è il mezzo tramite il quale a noi è fatto ben capire il 'jinen’'. (11)”

Questo passaggio fu scritto verso la fine della vita di Shinran e segnala un atteggiamento radicale nel modo di pensare al Buddha, all'interno della tradizione della Terra Pura. È come se Shinran avesse distrutto il complesso e ricco edificio della spiritualità della Terra Pura giù ai suoi nudi principi. Tuttavia, questo non è un riduzionismo da parte di Shinran, ma un tentativo di riabilitare l’aspetto 'saggezza' del Mahayana, che era in pericolo di essere probabilmente un po’ oscurato dai ricchi 'upaya' offerti dal grande messaggio della compassione che, in molti modi, formava il punto centrale del messaggio della Terra Pura. In Shinran si trova pure, ed in misura maggiore del suo stesso illustre insegnante Honen, un profondo apprezzamento della natura plurisfaccettata del Nirvana e della sua attività(12): 

“Il Nirvana ha innumerevoli nomi. È impossibile mostrarli in dettaglio; Io ne elencherò soltanto alcuni. Il Nirvana viene chiamato l’estinzione delle passioni, l'increato, la felicità pacificata, la beatitudine eterna, la vera realtà, il Dharmakaya, la dharma-natura, la Talità, l'unicità e la Buddha-natura. La Buddha-natura non è nient’altro che il Tathagata. Questo Tathagata pervade tutti gli innumerevoli mondi; riempe i cuori e le menti dell'oceano di tutti gli esseri. Così, piante, alberi e terre, tutti raggiungono la Buddhità. Poiché è con questi cuori e menti di tutti gli esseri senzienti che essi si affidano al Voto del corpo-di-dharma come compassionevoli mezzi, questo shinjin non è nient’altro che la Buddha-natura. Questa Buddha-natura è dharma-natura. Dharma-natura è il Dharmakaya”. 

Shinran qui sta difendendo una presa più vasta del Nirvana, che abbiamo visto in alcuni dei suoi predecessori, anche se poi lui fu fortemente influenzato da essi (specialmente da T'an-luan) nel giungere alla sua ben sviluppata posizione. Amitabha, perciò, diviene la compassionevole personificazione stessa della Talità, e non la conseguenza delle innumerevoli pratiche di un particolare individuo storico in diversi kalpa. Perfino lo stesso Dharmakara, secondo Shinran, emerge dall' 'oceano di Talità' per rendere noti i voti del ‘Buddha di Luce Infinita’ grazie ai sutra della scuola della Terra Pura. Inoltre, lui prende la radicale scelta di associare la Terra Pura con il Nirvana stesso, piuttosto che trattarlo come una più favorevole dimora per la pratica buddhista, così che l’ottenere una nascita nella Terra Pura diventa uguale a raggiungere l’illuminazione. Similmente secondo Shinran, in relazione all'esperienza centrale della vita religiosa, cioè shinjin, noi non troviamo più solo una rudimentale fede nel Buddha ed il suo potere per salvare, ma un riconoscimento che questa stessa esperienza ha la sua fonte nel vero cuore della realtà stessa - un altro modo per dire che la consapevolezza del Buddha che sta operando tramite l'esperienza di shinjin non è nient’altro che l'attività del Buddha stesso negli esseri senzienti. 

L'influenza di T'an-luan sul pensiero di Shinran non può essere sottovalutata e, invero, essa fu criticamente seminale nel plasmarne la successiva posizione matura in relazione a queste questioni. In effetti, si potrebbe argomentare su un lignaggio dottrinale della trasmissione ad iniziare da Asvaghosha e passando attraverso Nagarjuna, Vasubandhu e T'an-luan, i quali alla fine portano a Shinran stesso. L'influenza profonda di T'an-luan può essere facilmente vista nei numerosi passi che Shinran cita dal Commentario sul Discorso sulla Terra Pura di Vasubandhu, un’opera di inestimabile significato nella tradizione della Terra Pura. In lui, noi troviamo la genesi di molte importanti idee che hanno formato il marchio di garanzia di questa tradizione. Per esempio, è in T'an-luan che troviamo la prima menzione dei due tipi di Dharmakaya riferiti al passato come pure la giustificazione filosofica che c’è dietro all'idea che il Nome del Buddha contiene tutti i meriti e le virtù della Talità, distinguendo quei nomi che stanno per le cose e quei nomi (cioè, di Buddha e Bodhisattva) che sono identici con le realtà a cui essi si riferiscono. Il secondo, in particolare, fu utile nell’aiutare Shinran a formulare la sua posizione sul significato del Nome di Amida e la pratica di ‘nembutsu’. Nei suoi Inni sui Patriarchi, troviamo il seguente passaggio(13): 

Il Nome del Tathagata di Luce Sempre Accesa

E la Luce che è l'incarnazione della Saggezza 

Disperda l'oscurità della lunga notte dell'ignoranza 

Ed adempia alle aspirazioni degli esseri senzienti 

e nelle sue Note su 'Essenziali di Sola Fede', noi troviamo(14): 

“Il sacro nome di Amida supera ogni misura, descrizione e comprensione concettuale; è il Nome del Voto che incarna il grande amore e la grande compassione, che porta tutti gli esseri senzienti al supremo Nirvana.... il Nome si espande universalmente in tutti i mondi nelle dieci direzioni, innumerevoli come minute particelle, e guida tutti alla pratica degli insegnamenti del Buddha”. È chiaro che Shinran immaginò che il Nome possedesse tutte le qualità della stessa illuminazione - la perfetta forma presa dal Buddha senza-forma per rendersi conosciuto e comprensibile dagli esseri senzienti. 

Shinran era ben consapevole di non essere visto come uno che indulgesse nelle innovazioni non ortodosse, ecco perché provoca tali dolori quando cita autorevoli scritture in appoggio alle sue visioni. Da un lato, egli ebbe bisogno di convincere le altre sette del Mahayana che il suo insegnamento non fosse un'aberrazione del Dharma e, dall'altro, doveva assicurare quelli che erano all'interno della tradizione della Terra Pura che lui non era un infedele alla loro visione. Il risultato che egli ottenne nel portare a termine questo difficile compito è attestato dal fiorire straordinario del Jodo Shinshu durante il corso dei successivi settecento anni. Uno dei testi principali che Shinran usò in appoggio alle sue visioni riguardo alla realtà ultima fu il famoso Nirvana-Sutra che egli praticamente cita interamente nella sua opera-magna ‘Kyogyoshinsho’. Per rinforzare il mio punto sull'unanimità tra Shinran e la grande tradizione metafisica Mahayana che lui venerò profondamente, in conclusione, gradirei citare solo alcuni importanti passaggi (15) dal Nirvana-Sutra che Shinran cita con approvazione nel Kyogyoshinsho, per mostrare che Shinran non solo è completamente Mahayanista nella sua prospettiva dell'Assoluto, ma che lui compì una meravigliosa sintesi tra le rispettive richieste di saggezza e compassione nella sua propagazione di fede della Terra Pura: 

“Il Tathagata è anche così – che non-sorge, che non-muore, e che non-invecchia, imperituro, indistruttibile ed incorruttibile; non è un'esistenza creata.... Tutte le cose create sono instabili.... impermanenti e vuote…. la natura di Buddha è increata; ecco perché è eterna. I Tathagata degli esseri sono eterni e immutabili; ecco perché essi sono chiamati la vera realtà. Sebbene gli esseri senzienti siano impermanenti, però la loro Buddha-natura è eterna ed immutabile. Il corpo-di- dharma (Dharmakaya) del Tathagata è eternità, beatitudine, ‘Vero-Sé’ e purezza”. 

Nel chiudere, vorrei reiterare la grande importanza di una adeguata e soddisfacente concezione dell'Assoluto che è indispensabile al sentiero buddhista. In un clima di crescente scetticismo e riduzionismo, specialmente in certi circoli culturali buddhisti in Occidente, è imperativo che uno non perda di vista il fatto che senza tali concetti come Dharmakaya, Talità, Nirvana, Sunyata, ecc. che sono radicati in una vera ed esistente realtà che insieme trascende e infonde tutte le cose, il buddhismo è lasciato senza fondamenta e così basato sul nulla, perdendo con ciò ogni efficacia sapienziale e soteriologica. Alcuni, tentano di fare un buddhismo più alla moda negando che esso abbia parecchio in comune con la visione della realtà ultima, come nelle altre tradizioni spirituali, ma così si fa un pessimo servizio non riuscendo a riconoscere i chiari paralleli là dove essi esistono - paralleli, che in realtà non dovrebbero sorprendere nessuno. Parlare di tutti questi termini per descrivere come 'simbolico' l'Assoluto, nel tentativo di declassare in qualche modo la realtà dell'ultimo oggetto di aspirazione è pura follia – e di cosa sono precisamente simboli? Certamente, questi termini non esauriscono la insondabile profondità della realtà alla quale loro si riferiscono ma, d'altra parte, nemmeno essi sono vuoti simboli creati da noi per adempiere a qualche sorta di nostalgica e illusoria ricerca dell'Infinito che, nella vera natura delle cose, non ha una vera base. Un sentiero spirituale che non può offrire liberazione da ciò che è limitato, imperfetto ed illusorio, e che non permette la beatitudine eterna e la liberazione dalla sofferenza e dai vincoli dolorosi dell’esistenza samsarica, semplicemente non è neanche degno del nome. 

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Note: 

1. Edward Conze, buddhismo: la sua essenza e sviluppo (Harper & Row 1975), p.40. 

2. Conze, p.21 

3. D.T.Suzuki, Saggii di buddhismo Mahayana (Schocken: New York 1963), pp. 223-224. 

4. il Risveglio della Fede: Attribuito ad Asvaghosha - con commentario, tradotto da Yoshito S. Hakeda (Columbia UniversitY Press: New York 1967), p.92. 

5. Francis H. Cook, Il buddhismo Hua-Yen: Il Gioiello della Rete di Indra (Pennsylvania State  University, 1977), p.94. 

6. Hakeda, p.34. 

7. Hakeda, p.36. 

8. Hakeda, p.65. 

9. Hakeda, p.59 & p.63. 

10. Raccolta delle Opere di Shinran: Volume II (Jodo Shinshu Hongwanji-ha 1997), p.191 

11. Lettere di Shinran: Una Traduzione del Mattosho, Serie del buddhismo Shin, ed. Yoshifumi Ueda (Centro Internazionale Hongwanji: Kyoto 1978), p.30. 

12. Raccolta delle Opere di Shinran: Volume I (Jodo Shinshu Hongwanji-ha 1997), p.461 

13. Idem: Volume I, p.373. 

14. Idem: Volume I, p.452. 

15. Idem: Volume I, p.181, p.184, p. 185, p.188. 

 
 

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