(Janice Willis (BA e MA in filosofia, Università di Cornell, Dottorato di Ricerca in Studi Indiani e buddhisti, Columbia University) è professore di Religione e Walter A. Crowell, professore di Scienze Sociali alla Wesleyan. Ha studiato con i buddhisti Tibetani in India, Nepal, Svizzera e Stati Uniti per più di trent’anni ed ha insegnato corsi di buddhismo per venticinque anni. E' autrice di diversi libri di argomento buddhista…) “I miei ringraziamenti alla Signora Howaida Hassan ed al Summit dei Popoli per avermi invitato a partecipare a questa conferenza molto importante. E' sempre bene avere una conoscenza di chi vi sta parlando. Pertanto, prima di aprire il mio discorso di oggi, vorrei dire brevemente chi sono e quello in cui credo.
Sono cresciuta nell'epoca di Jim Crow negli Stati Uniti del Sud. Nel 1963, ho marciato con Martin Luther King Jr. Nel 1965, dopo aver vinto borse di studio all’università, la mia famiglia subì un assalto dal KKK. Nel 1967-68, andai in India e lì incontrai alcuni Tibetani. Nel 1969, dopo aver avuto una infame aggressione a Cornell, ho aderito ad una rivolta armata di studenti. Dopo di che ho dovuto scegliere tra aderire al Black Panther Party o ritornare in Nepal per studiare in un monastero buddhista. Alla fine, ho scelto la pace della seconda ipotesi. Credo che tutto ciò che riguarda la persona sia politico, credo che dobbiamo pensare globalmente mentre agiamo localmente, credo che la pace e la non violenza siano le uniche scelte sane in un mondo violento; credo, come il grande pacifista AJ Muste, che non vi sia alcun sentiero per la pace, ma anzi che la pace stessa è la Via; credo che il pacifismo non significhi passività e, infine, credo che il buddhismo offra metodi pratici per aiutarci ad affrontare un mondo violento e per lo sviluppo duraturo della pace, prima in noi stessi e poi in modo sistematico. Dopo questa introduzione, sono felice di parlare con voi, oggi, sul buddhismo e la pace”. I. Le basi del buddhismo
Tra il 563 aC e 483 aC, viveva nelle regioni meridionali dell’odierno moderno Nepal, un uomo di nome Siddhartha Gautama, nato come principe del clan dei Sakya. Successe che, all'età di trentacinque anni, dopo aver meditato e raggiunto uno stato chiamato "Illuminazione", egli iniziasse a insegnare una dottrina completamente nuova in India. Tale dottrina, da allora, è nota come ‘buddhismo’. Alla fine della sua vita, il "Buddha", come lo chiamarono i suoi seguaci fin da allora, disse di aver passato i suoi precedenti quarantacinque anni insegnando solo due cose: la verità della sofferenza, e la verità della sua cessazione. Infatti, l’accento sulla sofferenza insita nel samsara (letteral., il reame del "continuo andare e venire") ha causato nel corso dei secoli che essa fosse vista come una tradizione pessimistica. In realtà, il Buddha predicò una dottrina che richiede un'analisi approfondita della sofferenza e delle sue cause, come un mezzo per realizzare la fine della sofferenza e, quindi, per innescare una nuova e duratura pace, tranquillità e intuizione profonda. La più sintetica formulazione della dottrina del Buddha, fu fornita dal primo Sermone che egli predicò. Questo "Primo Sermone" stabilì le Quattro Nobili Verità del buddhismo, e cioè: 1. Vi è la sofferenza (duhkha). 2. Vi è una causa di sofferenza (duhkha-samudaya). 3. Vi è la cessazione della sofferenza (duhkha-nirodha) e 4. C'è un sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza (duhkha-nirodha-marga). In accordo alla prima Nobile Verità, la sofferenza è definita nel modo seguente:"Vi è la sofferenza: la nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la malattia è sofferenza, la morte è sofferenza; il dolore, il lamento, l’angoscia, l’ansia e la disperazione sono sofferenza, l'unione con ciò che è spiacevole è sofferenza, la separazione da ciò che ci piace è sofferenza, il non ottenere ciò che si desidera è sofferenza". Tuttavia, vi è l'ulteriore ingiunzione a comprendere che cosa si intende con il termine duhkha in tutte le sue connotazioni. Riguardo a questo, i testi buddhisti ulteriormente delineano "tre tipi o livelli di duhkha”, cioè: la sofferenza 'pura e semplice,' la quale comprende ogni tipo di dolore fisico e mentale, il disagio o l’insofferenza, la 'sofferenza prodotta dal cambiamento,' soprattutto quella sofferenza provocata dall’improvviso passaggio da uno stato felice che si trasforma in infelice, e la sofferenza che è 'insita nel samsara', che è quel tipo di sofferenza che si verifica a causa della natura stessa di tutte le cose che esistono nel samsara, cioè il loro essere in assoluto impermanenti, dolorose, e vuote di un'esistenza indipendente. La Seconda Nobile Verità dichiara che la causa più evidente della nostra sofferenza è il desiderio e la sete di vari tipi, che sono tutti condannati ad essere insoddisfacenti, in quanto essi falsamente attribuiscono permanenza a ciò che è, in realtà, impermanente. Tuttavia, la causa principale del desiderio e dell'odio è l'ignoranza, che dà un’idea falsa sulla permanenza di sé-stessi. Pensare, erroneamente, che l'io o ‘sé’, l’ego o l'anima, esista in modo permanente, ci causa di dover desiderare certe cose, mentre ci genera avversione verso altre. Solo estinguendo questa idea falsa e illusoria sulla natura del nostro io, o ‘sé’, come pure sulla natura delle cose, si potrà raggiungere una duratura liberazione dalla sofferenza. Un tale stato di Liberazione è chiamato ‘Nirvana’, nella Terza Nobile Verità. Il concetto di Nirvana è stato grossolanamente frainteso nel corso dei secoli come uno stato simile alla completa estinzione o annientamento. Secondo il buddhismo, tuttavia, il Nirvana non è visto come un estinzione del sé, bensì è solo l'estinzione della falsa idea che si ha sul ‘sé’. Una espressione più contemporanea per questo stato potrebbe essere: "Non si perde nulla, tranne ciò che è falso". Il buddhismo non nega l'esistenza di un "sé relativo, impermanente e dipendente". Esso nega solo la visione erronea che fa credere che il sé esista come entità intrinsecamente e indipendentemente esistente. La Quarta Nobile Verità ci dice che c'è un Sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza. Una volta che abbiamo stabilito che il samsara non è affatto soddisfacente, dovremmo entrare nel Sentiero e attraversarlo, attraverso l’intraprendere i vari metodi di meditazione e di pratica, per poi raggiungere lo Stato di Illuminazione di un Buddha. La grande varietà di tecniche e di metodi di meditazione offerti dalla multiformità delle tradizioni buddhiste che esistono in tutta l'Asia, con i suoi 2600 anni di storia, è ciò che si intende con la voce "Sentiero". Già ai tempi del grande re indiano Asoka (269-232 a.C.), le tradizioni buddhiste hanno cominciato a migrare fuori dell'India ed a diffondersi nelle regioni del Sud e Sud-Est Asiatico. L’Hinayana, ovvero il buddhismo Theravada, si diffuse a Sud in Sri Lanka, a Nord e ad Est in Birmania, Thailandia, Laos e Cambogia. Poi, dal IV° al VIII° secolo d.C., il buddhismo Mahayana aveva raggiunto il Tibet, la Cina, la Corea e il Giappone. Secondo i recenti dati del censimento mondiale, ci sono circa 305 milioni di buddhisti in tutto il mondo, di cui la maggior parte vive in Asia. Tuttavia, si ritiene che vi siano anche più di un milione di buddhisti (alcune recenti fonti parlano di almeno 4/5 milioni) che sono nati in Occidente, e che vivono e praticano in Europa e negli Stati Uniti. II. Che cosa il buddhismo ha da dire sulla Pace e sulla risoluzione pacifica dei conflitti
Come tutte le principali religioni del mondo, il buddhismo al suo interno è una religione di pace. Un’antica raccolta in Pali di versi sulla pratica buddhista nella vita quotidiana, il Dhammapada (Theravada), rende molto chiaramente questo tema. Il Versetto cinque del testo (di 423 versi) afferma: "L'odio non è mai placato dall'odio. L’odio è placato solo dall’Amore (o, non-inimicizia). Questa è una legge eterna". Il termine Pali per dire "legge eterna" è “Dhamma” (Dharma), ovvero gli Insegnamenti buddhisti. Quindi, questo versetto sulla ‘non-inimicizia’ tratta un principio-dogma della fede buddhista che è fondamentale, cioè la pace e il non-danneggiare. (Inoltre anche gli ultimi versi del Dhammapada, anche se non spesso citati, condannano le classi sociali (varna) e le altre pregiudizievoli distinzioni che dividono le persone). Se poi andiamo avanti di parecchi secoli, troviamo il famoso poeta Mahayana dell’8° secolo, Santideva, che dice più o meno la stessa cosa. Ad esempio, nella grande opera di Santideva, il Bodhicaryavatara, si trovano questi versi per quanto riguarda i pericoli dell’odio: “"Non c'è peggior male rispetto all'odio, e nessuna pratica spirituale pari alla pazienza. Perciò, si dovrebbe sviluppare la tolleranza, con vari mezzi e con un grande sforzo." - (Cap. 6, versetto 2). E ancora: "La propria mente non potrà trovare pace, né godere di piacere o diletto, né rilassarsi nel sonno, e non sentirsi sicura, finché il dardo dell’odio è ancora conficcato nel cuore" - (Cap. 6, versetto 3). Gli insegnamenti buddhisti ci dicono che l'odio e l’avversione, come pure i loro opposti, il desiderio e l'avidità, nascono tutti da una forma di ignoranza fondamentale. Questa ‘ignoranza’ è la nostra innata concezione errata della nostra esistenza permanente ed indipendente. Con questo tipo di ignoranza, vediamo noi stessi come esseri separati e scollegati dagli altri. Ciechi al nostro vero stato di interdipendenza e interconnessione, questa ignoranza di fondo è ciò che ci mantiene divisi. Solo la pratica che porta al superamento di tale ignoranza potrà aiutarci a liberarci dalla prigione in cui richiudiamo noi stessi e gli altri. Tutti noi alimentiamo continuamente pregiudizi di vario tipo. Non c’è eccezione né scampo a questo fatto. Nessuno di noi è completamente libero da questi atteggiamenti pregiudiziali. Determinati colori, forme o suoni non ci piacciono, siamo infastiditi da certe circostanze, comportamenti o stili di fare le cose. Siamo fortemente critici anche con noi stessi. Avere simpatie e antipatie è scontato. Infatti, la capacità di discriminare è considerata una parte essenziale di ciò che ci rende esseri umani. Dopo tutto, gli esseri umani, a differenza di altre creature viventi, possono formare giudizi e fare delle scelte. Il libero arbitrio e la scelta personale sono considerati diritti fondamentali. Quindi, ci si potrebbe chiedere, qual è il problema? Il problema si verifica, e purtroppo è spesso il caso, proprio quando i nostri ‘mi-piace’ e ‘non-mi-piace’ diventano reificati e solidificati, quando noi non solo formiamo inflessibili opinioni, ma le prendiamo come verità; quando formiamo giudizi negativi su altri esseri umani e su noi stessi e tali valutazioni diventano per noi le lenti attraverso cui vediamo e sperimentiamo noi stessi, il mondo intorno a noi, ed i suoi abitanti. A questo punto, siamo entrati nell'arena di un pregiudizio di una specie molto perniciosa, di quelli che causano danno e sofferenza sia per noi stessi che per gli altri. E sia che si tratti di aver distrutto amicizie e amorevoli relazioni personali, o di combattute guerre di religione o di contestati territori, o di un gruppo di esseri che domina su un altro, o di frenare la loro libertà di movimento, a questo punto, noi cessiamo di essere quella parte migliore degli ‘esseri umani’. In generale, gli Americani per secoli avevano goduto periodi di pace e prosperità senza precedenti. Quei sentimenti di sicurezza e di invincibilità improvvisamente sono crollati, però, con i terribili avvenimenti dell'11 settembre 2001, quando un grande evento terroristico di proporzioni catastrofiche si è verificato entro i loro confini, a casa nostra. Noi non eravamo più semplicemente gli osservatori delle carneficine umane, stavolta siamo stati i suoi obiettivi. E anche se non tutti eravamo completamente sorpresi che un odio di questo tipo stava addolorando tutto il mondo intorno a noi, ben pochi di noi erano preparati alla virulenza di questo sentimento anti-americano che provocò simile devastante perdita di vite sui nostri lidi. I pregiudizi etnici e razziali dilagano nella odierna multiculturale società globale, così il nostro mondo è pieno di conflitti. I Serbi disprezzano i Croati, in Irlanda del Nord c’è un’eterna guerra tra gli Inglesi e gli Irlandesi, in Israele ci sono rari momenti di pace tra Israeliani e Palestinesi, i Ruandesi si macellano a vicenda in nome della purezza tribale, ed in tutto il mondo si combattono guerre in nome della religione. Ovunque si guardi, antichi odi esplodono nel mondo contemporaneo, con conseguenze devastanti. Dall’11 settembre, ora noi sappiamo che tali azioni piene di odio non sono solo eventi che possono essere osservati in sicurezza da lontano, in televisione, nei nostri salotti. Non è più il caso in cui ci si può vedere semplicemente come innocenti osservatori dei "cattivi". Certo, avessimo saputo che la gran mole di armi nelle nostre scuole e nelle nostre case era diventata una minaccia degna di seria indagine; che la cruda violenza sia all'estero che in patria era arrivata alla ribalta nella nostra era. Però, non avremmo fatto molti progressi sia nel prevenirla o trattare con essa. All'indomani dell'11 settembre, la più pressante domanda diventò: ‘Cosa dobbiamo fare ora?’. Un Buddhista Occidentale, Lama Surya Das, il giorno immediatamente successivo ha osservato: "Naturalmente, i criminali che hanno perpetrato questo atto di terrorismo dovranno certamente essere assicurati alla giustizia. Non si può permettere che il terrorismo continui. Dobbiamo condannare il crimine, ma non lasciare che la nostra rabbia sfoci in un’irragionevole aggressività, nel razzismo ed in ancor più violenza nel mondo. Dobbiamo andare alle radici del problema, e non solo punire gli individui singoli". Martin Luther King una volta disse: "Noi abbiamo solo due scelte: coesistere in modo pacifico, o arrivare a distruggere noi stessi". Ogni santo giorno, noi stessi incontriamo - e generiamo - atteggiamenti e comportamenti pregiudiziali. Se, in ultima analisi, siamo per sopravvivere a tutto, su questo piccolo pianeta che è la nostra casa comune, allora dobbiamo imparare ad apprezzarci e valorizzarci gli uni con gli altri come esseri umani e quindi a vivere insieme in pace. Mentre un disarmo generale di tutti gli Stati nazionali sembrerebbe l'ideale, questo processo non può essere iniziato fino a che non abbiamo prima disarmato i nostri propri, singoli cuori. In realtà, nel nostro intimo, noi siamo tutti esattamente la stessa cosa: siamo esseri umani che desiderano avere felicità ed evitare la sofferenza. Eppure, per ignoranza, noi andiamo in giro cercando questi obiettivi, ciecamente e senza la comprensione. Viviamo le nostre vite apparentemente ignari dei nostri pregiudizi perfino quando essi sono proprio di fronte ai nostri occhi. In breve, noi soffriamo proprio perché siamo abbracciati alla errata concezione della nostra separazione gli uni dagli altri. L'illusione di separatezza funziona effettivamente per impedirci di trovare l'inizio di questa erronea spirale. Le tradizioni buddhiste ci dicono che dal momento stesso in cui le nozioni di 'io' e 'mio' sorgono, contemporaneamente nascono i concetti di 'non-me' e 'non-mio'. Cioè, dal momento stesso che concepiamo un 'noi', immediatamente esiste un 'loro'. Una volta che le nozioni o concetti di separatezza, diversità e alterità entrano nel nostro pensiero, essi poi vanno - letteralmente e figurativamente - a colorare tutte le nostre successive esperienze, giudizi e percezioni. Noi vediamo il mondo in termini di ‘noi contro loro’, ‘io contro tutti gli altri’, ‘i miei contro i tuoi’. Siamo subito coinvolti in un mondo di odio e pregiudizio sbagliato, logicamente infondato, e apparentemente incontrollabile. E tutte queste biforcazioni dualistiche accadono alla velocità della luce e per la maggior parte, perfino impercettibilmente. Il radicamento molto profondo di questa sbagliata idea di separatezza sembra rendere impossibile perfino immaginarne la cessazione. Eppure, come i buddhisti pure dicono, "dalla Comprensione l'ignoranza è distrutta". Allora, alla domanda: "Possono cessare gli odi ed i pregiudizi razziali, etnici e religiosi tra gli esseri umani?", dovrà sorgere la risposta: “Sì, è possibile”. Ovviamente, far cessare questa cosa così profonda e così inconsciamente operativa non è un compito facile. Ma è un compito così urgente nella nostra situazione attuale, che è un’impresa che ne vale ben la pena. Lo smantellamento degli odiosi pregiudizi comincia con il riconoscimento che, di fatto, siamo noi che li facciamo crescere. Quindi, dobbiamo essere disponibili a riconoscere i nostri particolari pregiudizi con onestà e determinazione. Abbiamo bisogno di sapere come e perché noi, come esseri umani particolari, alimentiamo questi specifici punti di vista che abbiamo e, tramite questa comprensione, essere adesso disposti a sostituirli con opinioni e comportamenti più positivi. Infine, dobbiamo sapere che possiamo fare davvero la differenza, che possiamo lavorare insieme per un positivo cambiamento nella nostra società e nel mondo. Così, con la comprensione e con la pratica arriva un ammorbidimento delle nostre rigide posizioni. I nostri cuori possono aprirsi e, alla fine, possiamo trasformarci in individui amorevoli e compassionevoli, e amare i nostri simili; in breve, possiamo diventare esseri umani migliori. Specialmente in Occidente, l'ingiunzione Giudaico-Cristiana "ama il prossimo tuo come te stesso" è una comune linea guida etica e spirituale. Eppure, una scarsa attenzione o pensiero è stato dato alle estreme difficoltà derivanti da entrambe le parti di questa celebre frase. Non si può semplicemente ‘decidere’ di amare il prossimo. E neppure molti di noi sono confortati dall'idea di amare se stessi. Entrambe queste ingiunzioni richiamano dei metodi per permetterci di poterle realizzare. Eppure, per molti di noi, è proprio questi metodi che ci mancano. I vari sistemi religiosi e filosofici nel corso della storia hanno cercato di offrirci consigli utili. Una di queste tradizioni, il buddhismo, mi pare che in realtà offra numerosi metodi per la trasformazione personale per chiunque voglia affrontare questo importantissimo impegno. L'odio viene imparato. Deve essere nostro compito imparare a disimpararlo. Anche il razzismo, le caratterizzazioni razziali, le distinzioni etniche e di classe sono comportamenti acquisiti. Dobbiamo annullare questa acquisizione. Dobbiamo arrivare a vedere e ad apprezzare la comune umanità che unisce tutti noi. III. Come la pratica buddhista, con una modo pacifico di pensare, può aiutare a sostituire la mentalità ostile in un Paese dilaniato dalla guerra.
Se si potesse semplicemente decidere di diventare pacifici, gentili e premurosi in tutte le nostre interazioni con gli altri esseri e con il mondo, allora dovremmo essere tutti pieni di una cultura di pace. Eppure, arrivare ad una tale cultura non è facile. Per farlo, serve sforzo, determinazione, pazienza, cooperazione, e pratica. Per fortuna, tuttavia, è disponibile la pratica - e qui mi riferisco alle varie forme di pratiche meditative, che si sono sviluppate nei 2600 anni di storia delle tradizioni buddhiste. Serve solo che siano rese più facilmente e ampiamente accessibili. Il mio suggerimento è semplice: poiché la meditazione è il cuore del buddhismo, i buddhisti (e tutti gli altri) dovrebbero avvalersi dei suoi metodi di meditazione per cercare in profondità le origini dei nostri pregiudizi vari - riguardo a noi stessi e verso gli altri - e di trasformarli. Possiamo cambiare le nostre menti, possiamo cambiare le nostre opinioni, possiamo diventare noi stessi più sereni e, di conseguenza, possiamo contribuire a generare la pace nel mondo. Io sto suggerendo di focalizzarsi sui vari 'odio', 'razzismo', 'sessismo,' e su tutti gli altri ‘ismi’ che riempiono la nostra mente e di portarli costantemente nella nostra meditazione. Cerchiamo di farne, per mutuare un termine dal buddhismo Zen, il nostro nuovo koan. La trasformazione è la funzione della meditazione. Se noi riteniamo che lo stato attuale delle cose sia atroce, sceglieremo questo metodo e saremo determinati a fare il lavoro. Infine, vorrei dire che non credo che questi metodi siano solo limitati al buddhismo. In un carcere di sole donne del nostro Stato, una detenuta una volta mi disse, tenendo in mano la Bibbia: "Ho proprio qui tutte le meditazioni che mi servono". Io fui d'accordo con lei. Perché quale consiglio potrebbe essere migliore di "Conta le tue benedizioni" o "Ama il prossimo tuo come te stesso"? Ciò che ho scoperto è che, per me, le tradizioni buddhiste hanno offerto i metodi per aiutare a fare quelle cose. Inoltre, tutti potremmo cooperare per formare metodi che siano meno carichi di teorie dottrinali e terminologie dogmatiche, metodi che ci parlino e ci istruiscano senza farci impantanare in dottrine e credenze. Per fare un esempio, un mio nipote di quattordici anni capì tutto del buddhismo tantrico quando gli parlai dei metodi di visualizzazione che gli atleti utilizzano prima di una gara sportiva. Il buddhismo è prima di tutto una metodologia pratica per riconoscere e quindi poi trasformare la nostra ignoranza. È sempre stato così fin dal suo inizio. Il Buddha non si dichiarò mai "illuminato" senza prima aver eseguito le azioni associate a ognuna delle Quattro Nobili Verità e cioè finché non ebbe compreso la sofferenza, eliminate le cause, realizzata la sua cessazione, e seguito il Sentiero. Ciascuna delle Quattro Verità ha queste specifiche azioni associate ad essa. E' questo pragmatismo del buddhismo che trovo così affascinante e così necessario nella nostra attuale comunità globale… Ancora, non basta che noi ci limitiamo semplicemente a usare i metodi del Buddhismo per trovare la pace interiore solo per noi stessi (pur se questo è un primo passo molto importante). Piuttosto, avendo trovato questa pace interiore, dobbiamo condividerla e diffonderla e ciò comporta un ulteriore impegno ed azione. I miei sforzi recenti hanno stimolato la collaborazione di un collega olandese per sviluppare una serie di esercizi chiamati "Eliminare l’odio", che ci aiutano a riconoscere i nostri pregiudizi individuali (su noi stessi e sugli altri) e trasformarli in opinioni e comportamenti più positivi. Sarei felice di parlare di più di questo particolare progetto nelle nostre sessioni. In conclusione, vorrei lasciarvi con questi due pensieri: 1) Essere un pacifista non significa essere passivi. 2) Nel buddhismo tantrico Tibetano, che è la mia tradizione personale, ci insegnano a usare il fine come mezzo, cioè, per diventare un Buddha dobbiamo cominciare adesso ad agire e pensare come un Buddha. Quindi, così come A. J. Muste, io credo che si debba smettere di pensare alla pace come ad una qualche lontana e forse irrealizzabile mèta e farlo il nostro obiettivo proprio qui ed ora. Ed ancora, con le parole di Muste, "Non c'è una via per la pace, la pace è la Via." Grazie. | |