Questo libro sostiene che la generosità (Dana) è una delle pratiche principali nel buddhismo antico perché, senza di essa, il buddhismo non sarebbe sopravvissuto e fiorito così nei molti secoli del suo sviluppo ed espansione. Questa ‘generosità’ buddhista si basa sulle antiche credenze e pratiche vediche, in particolare quelle che coinvolgevano le cerimonie funebri e la trasfigurazione rituale degli antenati (pitras). Il tipo di rapporto buddhista tra donatori e rinuncianti sviluppò rapidamente in una complessa rete che coinvolgeva la vita materiale e le opinioni su come partecipare ad essa. Richieste di come acquisire e utilizzare correttamente la ricchezza, come appropriatamente dare e ricevere doni individuali e in comune, come bisognava pensare riguardo all’utilizzare e trasferire i meriti, e cosa costituiva il buon cibo, vestiti, alloggio, e medicine sono centrali nel "Contesto-Dana". Il sistema del Dana riflette l'evoluzione dinamica della vita nell’India settentrionale come ricchezza e incremento del tempo libero, e come nuovi potenti gruppi di persone si guardarono intorno per affiliare religioni alternative. Il grande successo del dana buddhista è dovuto all’antico e continuativo uso di accomodarlo con altre fedi come valore fondamentale, consentendo in tal modo alla tradizione di adattarsi al mutare delle circostanze.
Ellison Banks Findly, Professoressa di Religioni e Studi Asiatici al Trinity College, dove insegna corsi di cultura Vedica, Induismo, buddhismo, arte Indiana, e Lingua Sanscrita, ha pubblicato oltre trenta articoli sui Veda, Mughal, studi sul buddhismo Antico, e tra i suoi libri vi sono quelli delle Corti Indiane: L'Arte Indiana al Worcester Museum, e Nur Jahan: Imperatrice dell’India Mughal. Ha curato un certo numero di raccolte, tra cui ‘Donne, Religione, e Mutazioni Sociali’, un testo di Arte e Cultura Asiatica sul tema "Commercio Tessile Indiano", e ‘Donne del buddhismo, buddhismo delle Donne’. Attualmente la Prof.ssa Findly sta lavorando su ‘Borderline Beings; Piante Vive nelle tradizioni Indiane’.
Prefazione La nostra esperienza del mondo è l’interdipendenza. In questo, noi siamo consapevoli delle cose nella nostra esperienza, ci accorgiamo che appaiono nel nostro campo di conoscenza attraverso i cinque sensi e le varie componenti dei cinque aggregati. L’indagine di queste cose ci porta a constatare che esse non sono elementi isolati, ma collegati uni agli altri in molteplici riverberi di cause e condizioni. Un albero dipende dal suolo, il suolo dipende dalla materia organica, la materia organica dipende dal carbonio, e così via, in ondate di infinita regressione. Arrivare a vedere l'esperienza come il risultato di cause e condizioni è parte della Vipassana o Intuizione Profonda. Coloro che sono interessati al Sentiero buddhista, ma che sono ancora ad una certa distanza da essere Risvegliati, spesso hanno la necessità di una guida nell’insegnamento del Dharma, per essere diretti verso una maggiore capacità intuitiva. Il Dharma fornisce una struttura attraverso la quale può essere sviluppata una visione affidabile dell’esperienza. Il Danadhamma, o l'insegnamento sul Dana, ‘generosità’, è una di queste guide; attraverso essa al praticante è fornita uno strumento con cui egli, o ella, arriva ogni giorno al punto di contatto tra i laici (persone del mondo) e coloro che hanno scelto la rinuncia (monaci), e vede che essi sono reciprocamente dipendenti l’uno dall'altro. Questo insegnamento elementare, che è l'insegnamento del ‘dare’, ha il potere di portare in modo simile laici e rinuncianti a realizzare che l'interdipendenza non è solo un segno della natura o del corpo, ma della vita sociale umana. Si dice che i rinuncianti vivano upanissaya dipendendo dalle risorse a loro donate dai laici, mentre questi ultimi vivono nel Dharma dipendendo dai rinuncianti, la cui presenza davanti alle porte dei laici modella l’equanimità, l'anonimato, e l'umiltà di una vita senza possessi, ed i cui insegnamenti offrono una guida per seguire il contratto che, se seguito con fiducia, può dare origine ad autentiche esperienze di, e di visione profonda nella, interdipendenza. L'insegnamento sul Dana fornisce anche la prova che una delle posizioni centrali dell’antica comunità buddhista verso lo stare nel mondo è quella dell’accomodamento. Per questo, la sopravvivenza della comunità dipende dall’avere abbastanza cibo, vestiario, alloggio, e medicine, e quindi la pratica del Dana consente all'interazione nel provvedere tali risorse di essere flessibile e adattabile, e adatta in ogni caso alle particolari esigenze e circostanze della transazione individuale tra laici e rinuncianti. L’incarico del dare insegnamenti, ad esempio, solo nella lingua locale e non nel metro Chanda, cioè in dialetto Vedico, è indicativo del desiderio di venir incontro ai potenziali seguaci al loro livello iniziale. E l'insegnamento che permette ai donatori di desiderare la "benedizione" di ‘lunga vita’ per il monaco che tossisce e che quindi deve rispondere in qualità, non solo appaga la sensibilità dei donatori, ma aiuta anche il rinunciante a rompere l’attaccamento alla tradizione monastica e all’abitudine. L'esperienza di interdipendenza e la pratica dell’accomodamento sono ricchi vantaggi della pratica di Dana, una dottrina stabilita, in parte, come uno scambio: i laici donano in accordo agli insegnamenti sulla generosità, chiamati danadhamma, e i rinuncianti ricompensano le offerte dei laici con il dono dell’insegnamento chiamato dhammadana. Poiché i benefici del dare ed ottenere Dana e Dhamma sono immensi, essi sono la forma rituale di questo stesso scambio che continua ad avere un proprio potere di insegnare e di trasformare.
Fielding Hall, un ufficiale Britannico che viveva nella Birmania del diciannovesimo secolo, chiese una volta il conto in quella che egli aveva preso per una trattoria di paese, e con sorpresa scoprì che era stato alimentato come ospite in una casa privata. Quel poco che egli sapeva della semplice mentalità popolare era soltanto che essi praticavano uno dei fondamentali imperativi etici del buddhismo – l’atto del donare incondizionato. Infatti, la principale attività che un buddhista impara a sviluppare è la condivisione disinteressata, che costituisce una base per ulteriori sviluppi morali e spirituali. Se la chiave di ogni religione si trova nella sua storia, la letteratura buddhista, ricca di tali racconti, dà ampie testimonianze della grande stima in cui è tenuto questo particolare punto.
Dana, o generosità, è incoraggiata come un’attitudine essenziale, che è il miglior modo di contro-bilanciare la tendenza umana all’auto-centralismo ed attaccamento individuali. E’ anche considerata come una fondamentale forma di rinuncia, aperta sia ai laici che ai monaci. L’antico Canone buddhista così dice: 'Come un vaso di acqua, quando è rivoltato, si svuota di tutto il suo contenuto, non per riceverlo indietro, così uno senza pensarci sù dovrebbe dare via denaro, fama, la propria progenie, o anche il nostro stesso corpo a qualcuno che ci avvicina con una tale lista dei desideri'. (Introduzione al Jataka) In tutte le ‘Storie del Jataka’, la prima ingiunzione quando ogni discorso è espresso, è quella di dare offerte ai poveri, cibo agli ospiti e sostegno e onori ai santi uomini. Anche nell’Induismo, l’offerta del cibo è considerata particolarmente virtuosa perché: 'La vita è sostenuta dal cibo ed il cibo è vita, e quindi, offrire cibo agli altri è come dare loro la vita'. (Mahabharata: 13.63.26). L'ospitalità deve essere onnipervadente, e l'ospite, chiunque possa essere, deve essere ben accolto a braccia aperte: ‘Perfino se il più basso degli infimi arriva come ospite, il padrone di casa dovrebbe ben accoglierlo. (Mahabharata: 14.92). Nel 'Bhagavata Purana’, un testo senza tempo, è narrato un episodio assai istruttivo in cui Krishna, giocando con alcuni suoi amici affamati, è avvicinato quindi da uno di questi: “O Krishna, tu che hai annientato i potenti demoni che ci tormentavano, così salvaci anche da questa angoscia della fame". Krishna, sempre esaudendo le necessità dei suoi devoti, rispose: “Andate all’eremo qui vicino in cui eruditi Brahmini stanno effettuando un grande rituale per raggiungere il cielo. Dite loro che siete stati inviati da me e chiedete loro di darvi un po’ di riso cotto". Obbedendo alle istruzioni, i giovani andarono su all’eremo, si prostrarono ai sacerdoti e dissero loro: “Venerabili santi, noi siamo i servitori del Signore Krishna che sta giocando con noi nelle vicinanze. Ora egli è affamato e ci ha detto di venire a chiedere del cibo da voi - veri conoscitori del Dharma". Questi, impegnati erroneamente in faticosi rituali e nelle azioni di vita quotidiana, però vanagloriosi della loro saggezza testuale, i Brahmini, anche se sentirono le sollecitazioni del Signore, che per sua Grazia inviò i suoi amici a chiedere cibo ad essi, non tennero conto delle loro esigenze. Delusi, i giovani ritornarono e riferirono ciò che era accaduto a Krishna, il quale ridendo disse ad alta voce: “Ora andate dalle affettuose mogli di questi Brahmini e chiedete la stessa cosa ad esse. Esse vi sazieranno sicuramente e il vostro cuore sarà contento". Allora i giovani si presentarono rispettosamente dalle pie donne: “Salute a voi, onorevoli donne virtuose. Siamo stati inviati dal Signore Krishna a cercare cibo per tutto il gruppo che ha fame". Non appena ebbero sentito che il Signore era così vicino, dando loro la possibilità di soddisfare la sua fame e quella dei suoi seguaci, le mogli dei Brahmini subito raccolsero sontuoso cibo in grandi vassoi e come i fiumi scorrono veloci verso l'oceano, così esse con impazienza raggiunsero il Signore Krishna accogliendolo attraverso le porte dei loro occhi, e stabilendolo nei loro cuori. Krishna prima col cibo fece fare festa ai suoi amici e solo dopo ne prese per se stesso. Più tardi, i santi, ricordando il loro comportamento non-caritatevole, si lamentarono: "Ahinoi, abbiamo ignorato il Signore che ha assunto la forma di un essere umano. Tutta la nostra conoscenza, i voti e la nascita pura sono inutili, perché a causa del nostro orgoglio, non siamo stati in grado di riconoscere il Divino nell’umano". (Bhagavata Purana: 10.23) Questo semplice racconto ha una profonda implicazione, di farci capire che se siamo così fortunati da avere qualcuno che ha bisogno del nostro aiuto, egli è forse Dio stesso che ha acconsentito a volerci benedire. Quindi è detto: 'Con l’ospite arrivano tutti gli dei. Se l’ospite è onorato, così lo sono essi, se lui va via deluso, anche loro sono delusi'. (Mahabharata: 14.92) Significativamente, in sanscrito il termine utilizzato per ‘ospite’ è 'atithi', 'tithi' significa ‘data’ ed il pre-fisso 'a' è una negazione. Pertanto, chi arriva all’improvviso e inaspettato senza una prevista data o appuntamento, è l'ospite evidenziato qui: 'Un athithi è un'occasione per il cielo, e tutti gli dèi sono soddisfatti quando egli è soddisfatto'. (Mahabharata: 14.92) La Bhagavad Gita chiama una tale imprevista possibilità di eseguire il proprio dovere (reso possibile dalla sorte e dal non sforzo), una porta aperta diretta verso il cielo (2,32). La nostra esperienza del mondo è quella dell’interdipendenza, e noi non esistiamo come elementi isolati, ma siamo legati gli uni agli altri, come molti aspetti di un unico tessuto. I testi Indù e buddhisti forniscono strutture attraverso le quali un affidabile punto di vista di questa esperienza può essere sviluppato, riconoscendo che tale interdipendenza non è solo la natura del corpo, ma ad un livello più profondo, della stessa vita sociale umana. Una tale visione comporta non solo l'accomodamento, ma costantemente seppur lentamente coltiva in noi l'ideale della rinuncia, definita come l'abbandono delle cose materiali, oltre a qualcos’altro, e che è il necessario primo passo verso il Nirvana o Moksha. Infatti, la qualità del dare è una delle virtù perfezionate in numerose vite dal Buddha nella sua fase da bodhisattva, prima del culmine finale nel Nirvana, dopo aver abbandonato tutti gli attaccamenti. Questo è simboleggiato dal sacrificio del proprio corpo quando egli non ha nient’altro da offrire ad un ospite inatteso. Nel racconto dei Jataka intitolato 'Shasha Jataka' (storia n. 316), in cui il Buddha è nato come un coniglio, e incapace di offrire qualche altro cibo ad un Brahmano che tornava a casa, si gettò dentro ad un fuoco per offrire se stesso come arrosto. In seguito, ovviamente, si scopre che il suo ospite, non è altri che Dio che lo mette alla prova. Un messaggio analogo è dato nel Jataka Mala, dalla storia del re Shibi che, avendo dato via tutto il suo patrimonio, fu ancora assai commosso dai piccoli insetti che volavano intorno a lui, e inflisse più ferite sul suo corpo per nutrire le zanzare. In un altro racconto dello stesso testo, il bodhisattva si getta davanti ad un tigre affamata, che, altrimenti, era sul punto di azzannare il proprio cucciolo. Questo non è tuttavia l'unico esempio del futuro Buddha nel sacrificare, in tutto o in parte, il suo corpo fisico e numerosi racconti abbondano nella letteratura Canonica buddhista per illustrare questo tema. Nell’antico Samadhiraja-Sutra, Ananda, principale discepolo del Buddha, chiede come un bodhisattva possa allegramente subire la perdita dei suoi arti, ecc. e non sentire alcun dolore, quando ha mutilato se stesso per il bene degli altri. Il Buddha allora gli spiega che è l’intensa compassione per l'umanità e l'amore per la Bodhi (Risveglio spirituale), sostenere e ispirare un bodhisattva verso l’eroismo, così come gli uomini del mondo sono inclini a godere dei piaceri sensuali, anche quando i loro corpi sono infiammati a causa della febbre. Il Bodhisattva, in molte delle vite precedenti alla sua Buddhità prima di essere così spiritualmente avanzato da poter fare questi supremi sacrifici, continuò a coltivare la perfezione (paramita) della Dana, sperimentando il massimo piacere nel dare piuttosto che in quello del ricevere. Quando l'attività del ‘dare’ è interiorizzata così in maniera profonda, diventando quasi una seconda natura, anzi primaria, Krishna paragona una tale magnanimità disinteressata con l'ispirante vita degli alberi: “Guardate questi grandi alberi benedetti, che vivono solo per il benessere degli altri, fronteggiando le più severe tempeste di vento, scrosci di pioggia, ondate di calore e bufere di neve, e proteggendo tutti noi da questi. La nascita degli alberi è la più benedetta in tutto il mondo, in quanto contribuiscono senza riserve al benessere di tutte le creature. Così come una persona che ha bisogno non ritorna mai delusa dalla casa di un individuo benevolo, analogamente lo fanno questi alberi per coloro che vi si avvicinano per rifugiarvisi. Tutte le loro molte parti - foglie, fiori, frutti, ombra, radici, corteccia, il legno e la fragranza, sono utili agli altri. In realtà, ci sono molti esseri che vivono su questa terra, ma è utile solo la nascita di quelli che, per quanto possibile, attraverso la loro ricchezza, intelligenza, parola e vita, si impegnanoi in atti che favoriscono il benessere degli altri". (Bhagavata Purana 10.22.32 - 35) Il Mahabharata ci chiede di abbracciare uno che dovesse arrivare presso la nostra soglia, anche se è percepito come un nemico: 'Se anche un nemico arrivasse alla porta della nostra casa, dovrà essere accolto con rispetto. Un albero non ritira la sua fresca ombra neppure da chi è venuto a tagliarlo'. (12.146.5) Il Bodhichariyavatara, classico della letteratura religiosa buddhista, composto dal monaco Shantideva (685-763 d.C.), descrive in versi i vari passi da compiere da parte del bodhisattva sul sentiero della Buddhità. Esso indica che il bodhisattva è uno che è senza attaccamento verso individui specifici, ma che percepisce con benevolenza tutte le creature come un padre verso il suo figlio. Vi è un bel passo nel Bhagavata Purana che è il complemento ideale di quanto detto sopra: “L'uomo ha solo diritto alla ricchezza tanta quanta gliene serve a soddisfare la sua fame. Colui che pretende un surplus è solo un ladro e merita una punizione. Si dovrebbe guardare agli animali, come cammelli, asini, scimmie, ratti, le creature che strisciano sulla terra (serpenti, ecc), uccelli e zanzare, come se fossero i propri figli e, pertanto, questi non dovrebbero essere scacciati da casa o dai campi, se vi entrano per mangiare, perché qual’è realmente la differenza tra questi e i nostri figli?” (7.14.8 - 9) Probabilmente, ciò è simile al concetto del Mahatma Gandhi di attenzione agli altri, in cui chiunque abbia ricchezza in eccesso rispetto ai suoi fondamentali bisogni, capisce di essere solo un affidatario della sua prosperità, e capisce che la sua continuità nell’affare dipende solo dal suo vigilare che esso sia giudiziosamente condiviso tra tutti gli azionisti. Il Bodhichariyavatara riporta anche una più approfondita visione, mettendo un particolare accento sul mettere se stessi nella posizione degli altri (par-atma-parivartana), al fine di promuovere il ‘non-sé’ (an-atman) e la compassione (karuna): 'Chiunque desideri la salvezza dovrebbe praticare il mistero supremo - lo scambio di se stesso con gli altri'. (8,120). Governato da questo elevato ideale, un tale ‘dare’ disinteressato non si aspetta nulla in cambio. Forse è solo un modo di dire grazie all’unico Dio che ci ha creati tutti in equanimità. Secondo Krishna, una condivisione che pretende un ritorno, non è che un semplice mantenere il proprio negozio: "Vi sono coloro che amano solo quando sono amati, e tutta la loro impresa si basa sull’egoismo. È solo un dare e prendere. Non è né una unione di cuori, né Dharma. Questo amore è solo per interesse personale e nient'altro. Coloro che dimostrano affetto anche a coloro che non ricambiano il loro amore sono come i genitori, pieni di amore compassionevole (karuna). Qui si trova il Dharma puro e senza macchia". (Bhagavata Purana 10.32.17 - 18). Ciò che tutti questi casi suggeriscono è che il senso di dare non è semplice dare elemosina o carità, ma una condivisione di ciò che ad uno è stato dato, nella consapevolezza che la vita è collegata con gli altri esseri. L'ospitalità è una vera espressione di questa realizzazione, al di là della semplice etichetta rituale: “Anche se studia diligentemente i Veda ogni giorno, ma non accoglie il suo ospite con amore, allora la vita di un tale Brahmino è vana. Se si vuole cogliere i frutti dei riti rituali, allora si deve accogliere l’ospite che arriva con fame e sete al proprio domicilio offrendogli il cibo e il rispetto”. (Mahabharata: 14.92) Altrettanto importante, nell'atto di dare, è l'atteggiamento, il sentimento con cui vengono fatte le offerte. La parola usata in Sanscrito per l’atto del dare, è 'Dana', i cui significati sono la condivisione, comunicazione, compartecipazione, restituzione (riguardo ad un debito), il ripristinare, e l’aggiungere.
L'Ayurveda, antica tradizione della guarigione olistica, parla di quattro tipi di difetti che possono rendere nocivo il cibo cucinato: 1). Il difetto del Tempo (Kala Dosha) - Il cibo che è stato tenuto per troppo tempo. 2). Il difetto del Sapore (Rasa Dosha) – Il cibo che ha perso il suo sapore. 3). Il difetto dello Stare Insieme (Samsarga Dosha): Quando è toccato con le mani sporche, o in cui è caduto qualche insetto … 4). Il difetto del Sentimento (Bhava Dosha) - Ciò che viene offerto con malagrazia o senza amore. Un tale prodotto alimentare non è cibo, è veleno ed è il peggiore dei quattro categorie. Anche nell’Etica buddhista, l'attenzione si concentra sugli aspetti psicologici di un’azione, vale a dire sulla intenzione o volontà (chetana) che sta dietro ad essa. Il Kathavatthu del Canone Pali ritiene che Dana non è solo l'atto di donare, o il dono in sé, ma è proprio lo stato mentale della pura liberalità. Quindi, non è la dimensione assoluta del dono che ha valore, ma la sua proporzione in base alla nostra possibilità, che caratterizza la 'ricchezza' di un dono. C’è la storia di Re Rantideva che illustra un episodio simile, in cui questo monarca, dopo aver dato via tutte le sue ricchezze, ebbe giorni di vero disagio, e dovette stare perfino senz’acqua per circa quarantotto giorni. Tuttavia, la mattina del quarantanovesimo, riuscì a ottenere un pasto di riso cotto nel burro. Non appena lui e la sua famiglia si sedettero per rompere il loro digiuno, arrivò un ospite Brahmino e la famiglia, vedendo Dio in tutti, lo accolse con riverenza e gli dette una parte del cibo. Prima di poter iniziare a mangiare la restante parte del cibo, un altro straniero, questa volta uno Shudra(un servo), bussò alla loro porta. Ed anche a lui fu amorevolmente data una parte del pasto. Dopo di lui arrivò uno straniero con i suoi cani, che chiese cibo per sé e per i suoi cani. L’ex-Re si inchinò lealmente davanti a Dio che era giunto in forma dei cani e del loro maestro. Infine, quando ormai era rimasta solo l’acqua, anche questa fu richiesta da un’assetato Chandala (custode del cimitero). Re Rantideva, vedendo la situazione di quest'ultimo, dichiarò: ‘Io non chiedo al Signore Onnipotente nessun tipo di poteri speciali. Io vorrei solo dimorare in tutti gli esseri viventi e vorrei che le loro sofferenze siano riversate in me stesso, così da alleviare le loro miserie. Con l'offerta d’acqua a questa persona infelice, tutta la mia sete, la fame, l’angoscia e la stanchezza sono state acquietate". Successivamente, tutta la famiglia fu benedetta da una visione (darshan) del Signore stesso, il quale evidenziò il loro sacrificio che consisteva nell’aver donato tutto ciò che essa possedeva.
(Original Version) Living Like Trees: The Hindu and Buddhist Ideal of Sharing This article by Nitin Kumar. www.exoticindia.com, This book argues that donation (dana) is one of the central practices in early Buddhism for, without it, Buddhism would not have survived and flourished in the many centuries of its development and expansion. Early Buddhist donation draws on older Vedic beliefs and practices, especially those involving funeral ceremonies and the ritual transfiguration of the ancestors (pitrs). Buddhist relationship between donors and renunciants developed quickly into a complex web that involves material life and the views about how to attend to it. Questions of how to properly acquire and use wealth, how to properly give and receive individual and communal gifts, how to think about using and transferring merit, and what constitutes proper food, robes, lodging, and medicine are central to the "dana contract." The Dana system reflects the changing dynamics of life in northern India as wealth and leisure time increase, and as newly powerful groups of people look around for alternative religions affiliation. Buddhist dana's great success is due to the early and continuing use of accommodation with other faiths as a foundational value, thus allowing the tradition to adapt to changing circumstances. Ellison Banks Findly is Professor of Religion and Asian Studies at Trinity College, where she teaches courses on Vedic culture, Hinduism, Buddhism, Indian art, and Sanskrit Language. He has published over thirty articles on Vedic, Mughal, an early Buddhist studies, and among her books are From the Courts of India: Indian Art in the Worcester Museum and Nur Jahan: Empress of Mughal India. She has edited a number of collections, including Women, Religion, and Social Change, an Asian Art and Culture volume on "Indian Textiles and Trade," and Women's Buddhism, Buddhism's Women. Professor findly is currently working on Borderline Beings; Plant Lives in Indian Traditions. Preface Our experience of the world is of interdependence. In that we are mindful of things in our experience, we notice that they appear in our field of knowing through the five senses and as various components of the five aggregates. Investigation of these things brings us to see that they are not isolated elements but related to one another in manifold reverberations of cause and condition. A tree depends on soil, soil depends on organic matter, organic matter depends on carbon, and so forth, in waves of infinite regress. Coming to see experience as the result of causes and conditions is part of vipassana or insight. Those who are interested in the Buddhist pathway, but who are still some distance from awakened being, often need the guidance of the teaching, of Dhamma, to turn them toward greater insight. Dhamma provides structure through which trustworthy views of experience can be developed. Danadhamma, or the teaching on dana, donation, is one such guide; through it the practitioner is provided a structure by which she or he comes, daily, to the moment of contact between those staying at home and those who have chosen to go forth, and sees that they are mutually dependent one on the other. This very elementary teaching which is the teaching on giving has the power to bring laypeople and renunciants alike to the realization that interdependence is not just a mark of nature or of the body, but of human social life. Renunciants are said to live upanissaya 'depending on' the resources given to them by householders in Dhamma depending on renunciants whose presence at the household door models the equanimity, anonymity, and humility of a life without possession, and whose teachings give guidance for following contract which, if followed in confidence, can give rise to authentic experience of, and insight into, interdependence. The teachings on Dana also provide evidence that one of the central postures of the early Buddhist community toward being in the world is one of accommodation. In that the survival of the community depends on having enough food, clothing, lodging, and medicine, the practice of dana allows the interaction which provides these resources to be flexible and adaptable, and suited in every case to the particular needs and circumastances of the individual lay-renunciant transaction. The charge to give teachings, for example, only in the local language and not in Chandas or meter, that is, in Vedic dialect, is indicative of a desire to meet potential followers at their own starting point. And the teaching which lets donors wish the "blessings" of al long life on a monk who sneezes and who then must respond in kind, not only appeases donor sensibilities, but also helps to break renunciant attachment to monastic custom and habit. The experience of interdependence and the practice of accommodation are rich benefits of dana practice, a doctrine set up, in part, as an exchange: householders give according to the teachings on donation called danadhamma, and renunciants return householders' offerings with a gift of teaching called dhammadana. While the benefits of giving an getting dana and Dhamma are immense, it is the ritual form of this exchange itself which continues to have its own power to teach and to transform. Fielding Hall, a British official in nineteenth-century Burma, once asked for a bill at what he had taken to be a village restaurant, and found that he had been fed as a guest in a private house. Little did he know that the simple-minded folk were just practicing one of Buddhism's fundamental ethical imperatives - the gesture of unconditioned giving. Indeed, the primary activity which a Buddhist learns to develop is unselfish sharing, which forms a basis for further moral and spiritual development. If the key to any religion is held in its stories, Buddhist literature, abounding in such narratives, gives ample evidence of the high esteem this particular trait is held in. Dana or generosity is encouraged as an essential attitude, which is the best way of offsetting the human tendency of individual self-centeredness and attachment. It is also regarded as a basic form of renunciation, open to both - the layperson and the monk. Thus says the ancient Buddhist Canon: 'Like a jar of water, when overturned, empties all its contents, never to receive them back, thus should one give away without regard to money, fame, one's progeny, or even our own body to anybody who approaches us with a wish list.' (Introduction to Jataka) Throughout the Jataka Stories, the first injunction when any discourse is delivered is to give donations to the poor, food to guests and support and honor to holy men. In Hinduism too, the gift of food is considered especially virtuous because: 'Life is sustained by food and food is life, thus, to give food to others is like giving life to them.' (Mahabharata: 13.63.26) The hospitality has to be all embracing, and the guest, whoever she or he may be, has to be welcomed with open arms: Even if the lowliest of the low arrives as a guest, the householder should welcome him. (Mahabharata: 14.92) In the timeless text, The Bhagavata Purana, an instructive episode is narrated where Krishna, playing with his famished friends, is addressed thus by the latter: "O Krishna, like you have annihilated mighty demons tormenting us, so also save us from these pangs of hunger." Krishna, ever the fulfiller of his devotees' needs, answered: "Go to the nearby hall where learned Brahmins are performing a great ritual to attain heaven. Tell them that you have been sent by me and request them to give you some cooked rice." Obeying the instructions, the young lads went over to the hermitage, prostrated them before the priests and requested: "Venerable saints, we are the servants of Lord Krishna who is playing with us nearby. He is now hungry and has asked us to seek food from you - the true knowers of Dharma." Ignorantly engaged in toilsome rituals and acts of everyday life, yet vainglorious of their textual wisdom, the Brahmins, though they heard the solicitations of the lord, who out of Grace send his friends for food to them, did not heed to their needs. Disappointed, they reported what had happened to Krishna, who laughing out aloud said: "Now go to the affectionate wives of these Brahmins and ask the same of them. They will definitely feed you to your heart's content." To those pious women the lads respectfully submitted: "Salutations to you virtuous ladies. We have been deputed by Lord Krishna to seek food for our hungry group." No sooner had they heard that the lord was so near, giving them an opportunity to fulfill his and his followers' hunger, the Brahmin women immediately gathered sumptuous food in large vessels and like rivers rushing towards the ocean, eagerly reached out to Krishna welcoming him through the gates of their eyes, establishing him into their hearts. Krishna first made his friends feast on the food and only afterwards did he partake it himself. Later, the saints, remembering their uncharitable behavior, lamented: "Alas, we have disregarded the lord who has taken the form of a human being. All our knowledge, vows and pure birth are useless, because due to pride, we were unable to recognize the divinity in humanity." (Bhagavata Purana: 10.23) This simple narrative has a profound implication, alerting us to the realization that if we are lucky enough to have somebody needful at our threshold, it is perhaps god himself who has condescended to bless us. Thus is it said: 'With a guest come all the gods. If a guest is honored, so are they; if he goes away disappointed, they are disappointed too.' (Mahabharata: 14.92) Significantly, the word used for guest in Sanskrit is 'atithi', 'tithi' meaning date and the prefix 'a' negating it. Therefore, one who arrives unexpectedly without prior date or appointment is the guest extolled here: 'An athithi is an occasion for heaven, and all gods are satisfied when he is satisfied.' (Mahabharata: 14.92) The Bhagavad Gita calls such an unsolicited opportunity to perform one's duty (made available by chance and not effort), a direct gateway to heaven (2.32). Our experience of the world is one of interdependence, and we do not exist as isolated elements but are related to each other as many strands of a fabric. Hindu and Buddhist texts provide structures through which trustworthy views of this experience can be developed, recognizing that such interdependence is not just of the nature of the body, but at a deeper level, of human social life. Such an outlook involves not only accommodation, but also slowly but steadily cultivates in us the ideal of renunciation, defined as the abandonment of material things over to someone else, and which is a necessary first step towards Nirvana or Moksha. In fact, the quality of giving is one of the virtues perfected over numerous lifetimes by Buddha in his bodhisattva phase, before the final culmination into Nirvana, after he has given up all attachment. This is symbolized by the sacrifice of his own body when he has nothing else to offer an unexpected guest. In the Jataka Tale entitled 'Shasha Jataka' (story no. 316), the Buddha is born as a rabbit, and unable to present any other food to a Brahmin come home, roasted himself in a fire. Later of course, it turns out that his guest is but god testing his resolve. A similar message is given by the story of King Shibi in the Jataka Mala, who having given away all his wealth, was still moved enough by small insects hovering around him, and inflicted several wounds on his body to feed the mosquitoes. In another narrative from the same text, the bodhisattva throws himself in front of a hungry tigress, who, otherwise, was on the verge of consuming her own cubs. This is however not the only instance of the Buddha-To-Be sacrificing his physical body partly or fully and numerous tales abound in Buddhist Canonical literature illustrating this theme. In the ancient Samadhiraja-Sutra, Buddha's principal disciple Ananda asks how a bodhisattva can cheerfully suffer the loss of his limbs etc and not feel any pain when he mutilates himself for the good of others. The Buddha explained that intense compassion for mankind and the love of Bodhi (spiritual awakening), sustain and inspire a bodhisattva towards heroism, just as worldly men are inclined to enjoy sensual pleasures even when their bodies are burning with fever. Before being so advanced spiritually so as to make these supreme sacrifices, the bodhisattva, in many of his live prior to Buddhahood, continued to cultivate the perfection (paramita) of Dana, experiencing greater pleasure in giving than those receiving it. When the action of giving is thus internalized in so profound a manner, becoming almost one's second, nay primary nature, Krishna compares such unselfish magnanimity with the inspiring life of trees: "Have a look at these great blessed trees, who live only for the welfare of others, themselves facing the severity of stormy winds, heavy showers, heat and snow, all the while protecting us from them. The birth of trees is the most blessed in the world, as they contribute unreservedly to the well being of all creatures. Just as no needy person ever returns disappointed from the house of a benevolent individual, similarly do these trees do for those who approach them for shelter. All of their many parts - leaves, flowers, fruits, shadow, roots, bark, wood and fragrance, are useful to others. Indeed, there are many who live on this earth, but the birth of only those is successful, who, as far as possible, through their wealth, intellect, speech and lives, engage in acts conducive to the welfare of others." (Bhagavata Purana 10.22.32 - 35) The Mahabharata asks us to embrace even one perceived to be an enemy, should he arrive at our threshold: 'Should even one's enemy arrive at the doorstep, he should be attended upon with respect. A tree does not withdraw its cooling shade even from the one who has come to cut it.' (12.146.5) The Bodhichariyavatara, a classic in the world's religious literature, composed by the monk Shantideva (AD 685-763), describes in verse form the various steps to be taken by the bodhisattva on the path to Buddhahood. It calls the bodhisattva as one without attachment to specific individuals, but who perceives all creatures with benevolence like a father his son. There is a beautiful passage in the Bhagavata Purana complementing the above ideal: Man has right over only that much wealth as is enough to satisfy his hunger. He who lays a claim on the surplus is a thief and deserves punishment. One should look upon beasts, camels, donkeys, monkeys, rats, creatures who crawl on the earth (serpents etc), birds and mosquitoes like one's own sons, and these should therefore not be driven out of the house or fields if they enter and begin to eat, for what indeed is the difference between them and his sons? (7.14.8 - 9) This is perhaps akin to Mahatma Gandhi's concept of trusteeship, where anyone with wealth in excess of his basic needs realizes himself to be only a trustee of his prosperity, and who understands that his continuation in the office depends only on his overseeing that it is judiciously shared amongst all shareholders. The Bodhichariyavatara takes even a deeper perspective, laying special emphasis on placing oneself in the position of others (par-atma-parivartana), in order to promote selflessness (an-atman) and compassion (karuna): 'Whoever wishes for salvation should practice the supreme mystery - the exchanging of himself and the other.' (8.120) Governed by this high ideal, such selfless giving does not expect anything in return. It is perhaps only a way of saying thanks to the one god who has created us all in equality. According to Krishna, a sharing which wants its price is but mere shop keeping: "Those who love only when loved, their whole enterprise is based on selfishness. It is only giving and taking. It is nor a joining of hearts, neither Dharma. This love is just for self-interest and nothing else. Those who show affection to even those who do not reciprocate their love are like parents, full of karuna. Here lies pure and spotless Dharma." (Bhagavata Purana 10.32.17 - 18) What all these instances suggest is that the sense of giving is not mere alms giving or charity, but a sharing of what one has been given, in the awareness that one's life is connected with other beings. Hospitality is one such expression of this realization, beyond mere ritual etiquette: Even if he diligently studies the Veda day after day, but fails to welcome his guest, then the life of such a Brahmin is in vain. If one wishes to reap the fruits of ritual rites, then let one attend upon a guest who arrives hungry and thirsty at his doorstep with food and respect. (Mahabharata: 14.92) Equally important with the act of giving is the attitude, the feeling with which the offerings are made. The word used for ritual giving in Sanskrit, is 'Dana', whose meanings are sharing, communicating, imparting, paying back (as a debt), restoring, and adding to. The ancient tradition of holistic healing, Ayurveda, speaks of four kinds of defects which can afflict cooked food: 1). The Defect of Time (Kala Dosha) - The food that has been kept for too long. 2). The Defect of Flavor (Rasa Dosha) - That which has lost its taste. 3). The Defect of Company (Samsarga Dosha): Touched by unclean hands, or in which some insect has fallen 4). The Defect of Sentiment (Bhava Dosha) - That which is offered with ill grace or without affection. Such a food is not food, it is poison and the worst out of the four categories. In Buddhist Ethics too, the overall focus is on the psychological aspects of an action, that is, on the intention or volition (chetana) behind it. The Kathavatthu of the Pali Canon holds that Dana is not only the act of giving and gift itself, but the mental state of liberality as well. Thus it is not the absolute size of the gift that is noteworthy, but its proportion out of one's own stock, that characterizes the 'abundance' of a gift. The story of King Rantideva illustrates one such episode, where this monarch, having given away all his wealth, fell on to days of hardship, and had to go even without water for a stretch of forty-eight days. However, on the morning of the forty-ninth, he managed to get a meal of rice cooked in butter. As soon as the family sat down to break their fast, a Brahmin guest arrived, and the family, visualizing god in everything, received him with reverence and gave him a share. Before they could partake of the remaining food, another stranger, this time a Shudra, knocked at their door. He was also lovingly given a portion of the meal. After him came a stranger with his dogs, requesting to be fed along with his hounds. The householder dutifully bowed before the god arrived in the form of the dogs and their master. Lastly, only water having remained, that too was asked by for by a parched Chandala (keeper of funeral grounds). King Rantideva, observing the latter's plight said: I do not seek from The Almighty Lord any kind of special powers. I would rather prefer to dwell in all beings and undergo their sufferings myself, relieving them of their miseries. By offering water to this unfortunate person, ally my thirst, exhaustion, distress and hunger have been quenched." Later, the family was blessed with a vision (darshan) of the lord himself, who extolled their sacrifice, which consisted of all they possessed. References and Further Reading: Badrinath, Chaturvedi. The Mahabharata An Inquiry in the Human Condition New Delhi, 2006. Dayal, Har. The Bodhisattva Doctrine in Buddhist Sanskrit Literature Delhi, 1999. Findly, Ellison Banks. Dana: Giving and Getting in Pali Buddhism Delhi, 2003. Kausalyayan, Bhadant Anand (tr.) Jatak (Hindi Translation in Six Volumes): Allahabad, 1995. Keown, Damien. Oxford Dictionary of Buddhism: Oxford, 2003. Mishra, Dr. Jagdishchandra (tr.) Jatakmala (Sanskrit Text with Hindi Translation): Varanasi, 1989. Narain, Vijay. Jatakmala or The Pearls Of Indian Wisdom Delhi, 2006. Ranganathananda, Swami. Universal Message of the Bhagavad Gita (3 Vols.) (2nd ed.): Kolkata, 2003. Saraswati, Swami Akhandananda (tr). Shrimad Bhagavata Purana (2 Volumes): Gorakhpur, 2004. Sharma, Parmananda. Santideva's Bodhicharyavatara (Original Sanskrit Text with English Translation and Exposition Based on Prajnakarmati's Panjika) New Delhi, 2001. Shaw, Sarah (tr.) The Jatakas Birth Stories of the Bodhisatta New Delhi, 2006. Tagare, G.V. (tr). The Bhagavata Purana (5 Volumes (Annotated)) Delhi, 2002. We hope you have enjoyed reading the article. Any comments or feedback that you may have will be greatly appreciated. Please send your feedback to feedback@exoticindia.com. Tradotto da Aliberth – Finito di tradurre nel mese di ottobre 2008, per il Centro Nirvana, senza scopo di lucro. | | |