Traduzioni di Dharma

La ‘HASTÂMALAKA’
Un inno alla vera realtà

Del prof. E. B. Cowell, M.A., Cambridge.
VOL. IX. -- 1880. [Bombay, Education Society's Press]
(Digitalizzato a cura di Christopher M. Weimer, aprile 2002)
Traduz. Italiana di Aliberth Meng
 

Il poema, di cui di seguito mettiamo testo e traduzione, è davvero assai noto in India, ma non è mai stato edito in Europa. Molti istruiti nativi lo conoscono a memoria, ed esso è considerato universalmente come una delle migliori sintesi delle dottrine del Vedânta. La sua paternità è incerta, ma ci sono due commenti su di esso, ciascuno dei quali curiosamente è attribuito a Šhankara-Âchârya, il celebre maestro Vedantista dell'ottavo o nono secolo. Il Dr. Hall, nel suo Bibliographical Index attribuisce il poema ad Hastâmalaka. La dodicesima stanza, o strofa, è citata nel Vedânta-sâra (unica citazione dell’opera da me trovata), e lo stesso Hastâmalaka è indicato come l'autore, nel Commentario ‘Vidwan-manoranjinî’ sul Vedânta-sâra di Râmatîrtha-yati.

Hastâmalaka è celebrato come uno dei primi discepoli di Šhankara; e si afferma che successivamente abbia fondato una forma modificata di Vedântismo riconoscendo Vishnu come il supremo Brahma. E’ probabile, tuttavia, che il titolo del poema non abbia alcun riferimento ad un qualsiasi autore, dato che il termine ‘hastâmalaka’ può semplicemente significare 'il mirabolano tenuto in una mano', e quindi, può essere utilizzato metaforicamente per significare qualcosa di molto semplice ed ovvio, come un piccolo frutto rotondo nel palmo aperto.

Questa frase è quindi utilizzata nella ‘Vajrašuchi Upanishad’ (Weber's ed. Pag 213, 10), in cui il ‘reale’ Brâhman è descritto come 'un uomo compiuto, libero da desideri e passioni, che vede tutto ben visibile davanti a sé, come un ‘mirabolano’ sul palmo della sua mano' (karatalâmalakam iva)[1], e questa è l'interpretazione che, a Calcutta, uno dei miei Pa.n.dits (eruditi) ha dato al titolo.

    L'identità ultima dei singoli individui e l’anima suprema, è il grande principio del Vedânta. 'Quello Tu sei!' (Tat twam asi), è la prima lezione del neofita, e la visione ultima del mistico perfezionato. Una sola ‘anima suprema’ esiste; tutte le coscienze separate delle persone fisiche, non sono altro che il riflesso dell’unica anima sui molteplici 'organi interni', che è la creazione dell’ 'ignoranza' o illusione. Per raggiungere la ‘realtà’ dobbiamo strappare via i successivi ‘veli’ - prima di tutto, il mondo ‘dello stato di veglia’ (in cui l'anima è mascherata a causa degli effetti grossolani e materiali) e poi il mondo dei sogni (in cui essa è obnubilata dagli effetti sottili), fino a che si arriva al sonno sano (cioè, sonno senza sogni). Qui, per un certo periodo, l’anima individuale raggiunge la sua vera natura, ma la sua insita illusione rimane latente, ed essa è ancora obbligata a venir richiamata nella realtà apparente. Solo la conoscenza della verità ‘suprema’, come insegnato nel Vedânta, può abolire l'ignoranza, e così distruggere la personalità nella sua germinazione[2].

    La vera natura dell'anima, che è identica a Brahma, è sempre descritta come essenzialmente,  'esistenza, intelligenza, e beatitudine' (sat-cit-ananda), ma anche se definita come essenzialmente-intelligente, questa intelligenza non è esercitata su un oggetto qualsiasi, o su tutti gli oggetti, come pure sull’organo interno o 'mente', a farla riconoscere che le percezioni transitorie sono prodotti della 'ignoranza', e quindi irreali. A tal riguardo, vi è un sorprendente versetto del ‘Yoga-vâšish.ta’[3]:

   "Come sarebbe la pura natura della luce, se tutto ciò che è illuminato da essa, come lo spazio, la terra, e l’etere fossero annichiliti e distrutti, così sarebbe la solitudine del puro essenziato spettatore (l’anima), quando tutti gli oggetti, come io, tu, ed i tre mondi, fossero transitati nella non-esistenza".

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  1. 'Chi sei tu, figlio mio, e da chi e dove vai tu? Qual’è il tuo nome, e da dove sei venuto? Dimmi tutto questo chiaramente per allietarmi, - riempi tu il mio cuore di gioia'.

 
  2. 'Io non sono un uomo né un dio, né un semi-dio, non Brâhman, Kshatriya, Vaišya, né Šûdra; non sono uno studente, né un padrone di casa, né anacoreta, né religioso mendicante; Io sono la innata Conoscenza.

 
  3. 'L’occhio, ed il resto, che è la causa di azione della mente, come il sole è la causa dei movimenti degli esseri viventi, ma che in sé-stesso è vuoto di tutti i travestimenti condizionanti, come l'infinito etere, - cioè lo Spirito, Io sono in sostanza l’eterna percezione.

 
  4. 'Ciò che essendo in se stesso Uno, immutabile, ed essenzialmente conoscenza eterna (come il fuoco è essenzialmente calore), è il substrato che trasporta, allorché agisce, la mente, l’occhio, e il resto, - che sono solo Ignoranza[4], - Io sono quello Spirito, essenzialmente eterna percezione.

 
  5. 'Il riflesso del viso visto in uno specchio, non è nulla che sia, di per sé, separato dal viso stesso, così l'anima personale di per sé non è altro che il riflesso dell’Intelligenza sullo specchio della mente, o organo interno, - Io sono quello Spirito, essenzialmente eterna percezione.

 
  6. 'Come il riflesso svanisce quando non c’è più lo specchio, e rimane solo il volto, aldilà di tutte le illusioni, così è quello Spirito che rimane senza un riflesso quando non c’è la comprensione, - Io sono quello Spirito, essenzialmente eterna percezione.

 

  7. 'Ciò che dimorando separato dalla mente, l’occhio, ed il resto, è esso stesso mente, occhio, e il resto, e la cui natura di mente, occhio, e il resto non può raggiungere, - quello Spirito Io sono, essenzialmente eterna percezione.

 
  8. 'Ciò che, essendo Uno, rifulge auto-manifestato, essendo esso-stesso pura intelligenza, e Luce essenziale, e che però appare come se fosse variamente modificato in vari organi interni, come un unico sole che brilla riflesso in diversi vasi di acqua - quello Spirito Io sono, essenzialmente eterna percezione.

 
  9. 'Come il sole, illuminando innumerevoli occhi, a ciascuno illumina l'oggetto allo stesso tempo, così lo Spirito, l’unica Intelligenza, che illumina innumerevoli organi interni, - quello Spirito Io sono, essenzialmente eterna percezione.

 
  10. 'Come il senso del corpo illuminato dal sole coglie la forma dell'oggetto, ma però quando non è illuminato non la coglie, così ciò per cui l’unico sole deve essere esso stesso illuminato per illuminare il senso, - quello Spirito Io sono, essenzialmente eterna percezione.

 
  11. 'Come l’unico sole sembra che siano molti nelle acque smosse, e anche quando riflesso in acque calme deve però essere riconosciuto come realmente distinto, così ciò che, benché realmente uno,  sembra i molti negli agitati organi interni, - Io sono quello Spirito, essenzialmente eterna percezione.

 

  12. 'Come colui il cui occhio vede una nube che lo copre e nella sua illusione pensa che il sole sia oscurato ed abbia perso la sua luce, così è quello spirito che sembra legato a colui il cui occhio della mente è cieco, - quello Spirito Io sono, essenzialmente eterna percezione.

 
  13 'Ciò che essendo in se stesso Uno, è legato a tutte le cose e con le quali però non viene mai a contatto, e che, come l'etere, nella sua natura è sempre puro e incontaminato[5], - quello Spirito Io sono, essenzialmente eterna percezione.

 
  14. 'Come i puri cristalli appaiono diversi in presenza di un contaminante[6], così anche Tu appari differente dalla diversità delle singoli menti; come i raggi della luna sembrano essere tremolanti nell’ acqua, così anche Tu, o Vish.nu, appari sfarfallante nel nostro mondo!'.

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 Dei due diversi commenti sull’ Hastâmalaka, attribuiti a Šhankara-Âchârya, uno è stato edito alla fine dell’edizione del Vedânta-sâra a Calcutta, nel 1853, dell'altro vi è una MS. nell’ India Office Library, (a.D.1506) appartenente alla collezione Gaikwâ.d, e copiato da Samvat nel 1563. Entrambi i testi proclamano di rivendicare come loro autore Šhankara-Âchârya, ma tutti e due, e specialmente il secondo, sono troppo diffusi per rivendicare la loro pretesa di essere stati scritti dal più grande autore filosofico che l'India abbia prodotto. Come esempio di ciò, io aggiungo il passo introduttivo, in cui ciascuno professa di spiegare l'origine e l’oggetto del poema. Nessuna chiosa commenta le prime due stanze, come si trovano nel nostro testo attuale; entrambe iniziano le loro spiegazioni alla terza.

 Il Commentario della E.I. Library (Ms 2532), si apre così: "Un certo studente, che aveva raggiunto la suprema conoscenza, e che aveva assunto l'ultimo corpo prima dell’emancipazione assoluta, essendo stato espulso da casa dai suoi parenti perché egli appariva ostinatamente muto, fu stigmatizzato da suo padre e, di conseguenza, da parte dell'autore del Commentario (sul Vedânta-Sûtra; cioè da Šhankara) gli fu chiesto, 'Chi sei tu?'. Egli, provando il desiderio che anche altri potessero avere una dignità come la sua, procedette quindi a descrivere la sua preminenza, e prese perciò a dichiarare ‘quello che egli era’ nelle successive strofe (vale a dire, quelel che iniziavano con la terza)".

 L'altro Commentario si apre con la seguente introduzione:

    "Tutti gli esseri di questo mondo hanno un istintivo desiderio di ottenere la felicità e di sfuggire il dolore; ora, una certa persona, in possesso di una preminente quantità di merito, e considerando la felicità del mondo soltanto come un mucchio di sofferenza, perché inseparabile dalla sua connessione con il dolore e la transitorietà, diviene pienamente e totalmente disgustata verso tutta l’esistenza mondana, ritenendola banale, e nel suo disgusto egli cerca di fuggire dai suoi attaccamenti, ed il suo maestro, dicendogli che l'ignoranza riguardo alla natura dell'anima è la causa di ogni esistenza in questo mondo, e la conoscenza della stessa è la causa della sua abolizione, e quindi lo istruisce nella conoscenza dello spirito degli individui".

    Nessuno di questi due paragrafi d’apertura fà un qualche accenno all'autore o alle reali situazioni in cui fu composto il poema. Una traduzione Bengalese vi inserisce una curiosa leggenda, la quale dice che Šhankara, nel corso dei suoi vagabondaggi come riformatore religioso, incontrò un giorno per strada un certo bel giovane, che lo avvicinò con le parole del primo versetto, ed a cui egli ripeté il resto del poema come sua risposta, ma non ci sembra che vi sia alcuna autorità per questa storia.

Vi è anche una curiosa somiglianza all’ Hastâmalaka in un’ode del grande mistico Persiano Shamsi Tabrîz, citato da Erskine nel primo volume (pag. 108) della Bombay Literary Society’s Translactions: --             

"Che consiglio avete, o Mussulmani, se Io non conosco me stesso;

Io non sono né Cristiano né Ebreo, non sono un adoratore del Fuoco, né Mussulmâno.

 Io non sono dell'Oriente, né dell'Occidente, né io sono della Terra o del Fuoco,

              Io non sono del paese di 'Îrâk, né io sono della terra dei Khurâsân.

              Io non sono né dell’acqua né dell’aria, né io sono del fuoco o della terra;

              Io non sono di Adamo ed Eva, né io sono degli abitanti del Paradiso.

              Il mio luogo è ‘nessun luogo’, il mio segno è ‘senza segni’:

              Io non ho né corpo né anima, - e allora? Io sono l'anima del mio Amato"[7].

 
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Tradotto da  http://www.sacred-texts.com/journals/ja/tbg.htm - da aliberth meng, per conto del centro nirvana, nel mese di Maggio 2008 - senza scopo di lucro-