Articoli di Dharma

 

L’IDEALE DEL BODHISATTVA:
L’ESTETICA DEL SE’
Tratto da Internet: www.exoticindia.com - giugno 2002
(trad. di A.Mengoni)

 

 
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Un gruppo di persone stava viaggiando una volta attraverso un deserto, quando accadde che tre di loro deviarono la via e si persero. Stanchi ed assetati questi tre vagarono per il deserto nella speranza di trovare un luogo per far una sosta. Finalmente la loro ricerca finì quando scoprirono un pozzo. Il primo uomo corse verso di esso, guardò in giù e vide che era pieno di deliziosa ambrosia liquida. Lui immediatamente gridò in un gesto di frenetica euforia e saltò giù senza più fare ritorno. Il secondo pure fece lo stesso. Infine il terzo uomo si diresse quietamente fino al pozzo, sbirciò oltre l’alto muro, poi si voltò e tornò indietro verso il deserto a cercare gli altri suoi amici viaggiatori, per aiutare a guidarli in questo paradiso.  

Anche la vita di un bodhisattva è fatta così. In stretti termini canonici si definisce ‘bodhisattva’ un individuo che scopre la sorgente della Verità Ultima, meglio nota come Nirvana, ma posticipa la sua propria Illuminazione finché non ha guidato tutti i suoi amici esseri senzienti a questa stessa sorgente della Realizzazione. Un compito formidabile, come minimo. Il Sentiero del bodhisattva è così una estrema abnegazione del proprio ‘sé’. Secondo il Lankavatara sutra (4 secolo d.C.): 

"Un bodhisattva desidera aiutare tutti gli esseri a raggiungere il nirvana. Egli deve perciò rifiutare di entrare lui stesso nel nirvana, perché apparentemente non può rendere alcun servizio agli esseri viventi dei mondi dopo il suo proprio nirvana. Lui si trova così nella posizione alquanto illogica di indicare la Via del nirvana agli altri esseri, mentre lui resta in questo mondo di sofferenze per far il bene a tutte le creature. Questo è il suo grande sacrificio per gli altri. Lui ha fatto il grande Voto: "Io non entrerò nel nirvana finale prima che tutti gli esseri siano stati liberati". Lui non realizza la suprema Liberazione per sé-stesso, poiché non può abbandonare gli altri esseri al loro destino. Egli dice: "Io condurrò tutti gli esseri alla liberazione. Io starò qui fino alla fine, anche nell'interesse di un solo essere vivente." 

La stessa parola 'bodhisattva' è fautrice di una ricca analisi etimologica. Essa è composta di due parole: 'bodhi' e 'sattva', che connotano entrambe significati profondamente spirituali. Bodhi significa "risveglio" o "illuminazione", e sattva significa "essere senziente". Sattva ha anche radici etimologiche che significano "intenzione", intendendo l'intenzione di illuminare gli altri esseri. Così la parola composta ‘bodhisattva’ significa la vera essenza degli esseri divini a cui si riferisce. 

L’ estetica buddhista, come molta sua letteratura, riporta le verità spirituali nella più semplice maniera accessibile per tutti. Anche i vari bodhisattva dominano la scena dell’arte buddhista, illustrando quest’astratta concettualizzazione in una maniera così forte come i vari miti che li circondano. A tal riguardo, il bodhisattva più prominente è Avalokiteshvara

La parola 'Avalokiteshvara' deriva dal verbo Pali 'oloketi ’ che significa "guardare a, guardare giù o su, esaminare o ispezionare". Il termine avalokita ha un significato attivo, ed il nome significa, "il signore che vede (il mondo con pietà)". Il tibetano equivalente è spyanras-gzigs (il signore che guarda con occhi). Il testo noto come Karanda-vyuha (8 secolo d.C.) spiega che egli è chiamato così perché lui vede con compassione tutti gli esseri che patiscono i mali dell’esistenza. Qui è interessante notare che una caratteristica dominante nella descrizione di Avalokiteshvara è la sua capacità di "vedere" la sofferenza degli altri. Nessuna meraviglia quindi che lui è rappresentato con mille occhi che spesso simboleggiano la sua onni-inclusiva abilità di vedere con compassione la sofferenza degli altri, condividendo così il loro dolore, un primo passo verso il loro sollievo ultimo. Non solo, ma egli ha inoltre anche mille mani che lo aiutano nell’enorme compito di liberare gli innumerevoli esseri verso il loro ultimo adempimento spirituale. La mitologia associata ad Avalokiteshvara è come la sua iconografia, molto interessante: 

Con i suoi sforzi sostenuti, alla fine Avalokiteshvara fu in grado di portare all’illuminazione tutti gli esseri senzienti, gestendo la salvezza per tutti. Entusiasta, egli rivelò il successo dei suoi sforzi al suo spirituale padre, Amitabha. Amitabha gli chiese di guardarsi dietro. Girandosi indietro, Avalokiteshvara vide che il mondo si era riempito di nuovo con nuovi sofferenti che attendevano la loro fuga dal ciclo continuo di nascita, morte e rinascita. Sprofondando nella disperazione, gli occhi di Avalokiteshvara versarono lacrime di compassione. Egli pianse in modo così pietoso che gli scoppiò la testa. Amitabha tentò di riassemblarne i pezzi ma non vi riuscì completamente. Nella confusione che ne seguì egli mise insieme nove facce complete, ognuna con un'espressione gentile. Aldisopra egli vi mise la testa demoniaca di Vajrapani che ha la funzione di scacciar via il male, e infine, in cima mise la sua stessa testa per assicurarsi che in futuro tale evento non riaccadesse. 

Egli quindi siede così a guardia sulla cima delle file di teste di Avalokiteshvara, per rendere definitivo il fatto che Avalokiteshvara nella sua compassione infinita non sarà più portato via, arrivando alla sua propria distruzione.

Oltre ad Avalokiteshvara due altri importanti bodhisattvas sono: 

Manjushri 

Una volta ad una assemblea di numerosi bodhisattva nella casa di Vimalakirti, il discepolo laico del Buddha, si sviluppò un dibattito sul significato di non-dualità, un precetto essenziale del pensiero buddhista. Dopo che molti bodhisattva avevano espresso in modo eccellente le loro opinioni sull’argomento e il loro successo nella comprensione della sua essenza, venne la volta di Manjushri. Egli così si alzò ed annunciò che tutti i precedenti discorsi erano essi stessi condizionati da limitazioni linguistiche e sottilmente dualistici. Quando Manjushri si rivolse verso Vimalakirti e chiese la sua opinione, Vimalakirti mantenne proprio il silenzio, dimostrando così la verità dell'asserzione di Manjushri. 

Questa storia è una buona riflessione sull'ironia dell’erudizione che tenta in un certo modo di esprimersi attraverso un mezzo (il linguaggio) che contiene dentro di sé una contraddizione dei veri ideali fondamentali che ci si propone di esporre. In questo caso particolare Manjushri identifica questa intrinseca discordanza. Una persona elevata può dimostrarsi eloquente sulle virtù della non-dualità e della sua comprensione di questo concetto astratto, ma proprio lo stesso linguaggio usato per esprimere queste visioni è inerentemente duale poiché è composto di parole e significati, due entità esclusive. Questa sottile e tuttavia significativa gradualità sta a dimostrare una profonda verità che si rivolge a ogni senso di una realizzazione derivata da supportata erudizione. Così Manjushri porta veramente nelle sue mani un libro ed una spada. 

Questa spada c’è per tagliare le catene nate non per ignoranza ma per quelle che sorgono tramite la conoscenza, significata dal libro. Questa non è una negazione della conoscenza relativa ai libri, ma solo un'asserzione della realizzazione che, se noi non la otteniamo, non possiamo conoscerne la sua futilità, nella ricerca verso le verità spirituali ultime. Manjushri appropriatamente suggerisce non il Sentiero della rinuncia ma quello del corretto karma. Una storia Zen illuminerà questo aspetto: 

>Una volta il cuoco principale di un tempio su Monte Wutai (la montagna favorita di Manjushri), era occupato a preparare il pranzo. Manjushri ripetutamente gli apparve seduto sopra la pentola del riso. Questo capo-cuoco che più tardi divenne un celebre Maestro Zen (Hui-Neng, n.d.T.), alla fine colpì Manjushri col suo cucchiaio di legno e lo scacciò via, dicendo, "Anche se venisse il buon vecchio Shakyamuni, io colpirei pure lui". Nei tempi dello Zen la posizione di capo-cuoco era estremamente stimata. Questa storia denota la priorità di prendersi cura della vita di ogni giorno, oltre all’attenzione ad una fluente retorica. Curare i dettagli della vita quotidiana è visto talvolta come più importante che non sprecare tempo nello studiare i sutra o nel concentrarsi nelle sale di meditazione, e invero molti monaci, incluso forse questo capo-cuoco, sono stati incoraggiati ad abbandonare ogni preferenza verso la meditazione per il quotidiano lavoro 'ordinario’. 

Riportando le azioni di Manjushri con il suo stato di bodhisattva si comprende che qui vediamo una rara ma distintamente significativa affermazione nel pensiero buddhista di un'esistenza 'ordinaria', fatta di normalita e di vita in famiglia piuttosto che di quella di rinuncia. L'eseguire i propri doveri è tanto un'attività da adempiere spiritualmente quanto qualunque altra azione 'bodhisattvica'. Consideriamo per esempio l'attività di cucinare. Dice la Bhagvad Gita che uno che cucina per gli altri acquisisce il merito più alto, mentre chi cucina egoistamente solo il cibo per il suo proprio consumo, commette un peccato. Similmente, il cuoco del tempio era preso nello sforzo del merito più alto. In effetti, per i nostri tempi questo è un ultimo tributo a quelle donne di casa che diligentemente ci procurano un sostentamento che non solo adempie alle nostre necessità fisiche, ma ci nutre anche nello spirito.

Maitreya

Secondo le varie tradizioni buddhiste, il periodo della Legge buddhista è diviso in tre stadi: un primo periodo di 500 anni è nel giro della Ruota della Legge; un secondo periodo di 1,000 anni è la fase di deterioramento della Legge, ed il terzo periodo di 3,000 anni è quello durante il quale quasi nessuno pratica più la Legge. Dopo di ciò, essendo il buddhismo scomparso, apparirà un nuovo Buddha che di nuovo girerà la Ruota della Legge. Questo Buddha futuro, noto come Maitreya, per ora è ancora adorato nel cielo di Tushita, nello stato di bodhisattva. Si crede che lo stesso Gautama Buddha lo insediò come suo successore.

La parola 'maitreya' deriva dal termine Sanskrito maitri (amichevolezza). Quindi si dice che questo bodhisattva fondamentalmente incarni le qualità di amabilità e un attitudine di ben intenzionata simpatia. Secondo una leggenda, una volta dal cielo di Tushita di Maitreya discese sulla terra un insegnante laico Cinese chiamato Mahasattva Fu, ampiamente considerato un'incarnazione di Maitreya. Fu attirò molti studenti alle sue conferenze di Dharma. Vivendo in un periodo di grandi fatiche e carestie per i contadini, egli vendette tutti i suoi possedimenti per cibare i locali abitanti di un villaggio, e perfino digiunò per dare il suo cibo ai bisognosi. Una volta Fu fece un lungo digiuno per protestare contro il trattamento dei poveri da parte del re. Lui annunciò che avrebbe finito il digiuno con l’auto-immolazione, come offerta per beneficiare tutti gli esseri sofferenti. Al culmine del suo digiuno, molti dei suoi seguaci offrirono di immolarsi al posto suo, alcuni fino al punto di bruciarsi le dita o tagliarsi le orecchie come offerta e impegnandosi in altri estremi atti ascetici. Alla fine essi convinsero Fu di abbandonare il suo piano.

La nozione di un bodhisattva che sacrifica il suo completo ‘sé’ fisico o almeno parti di esso si adatta ad una simile nozione esposta negli antichi testi buddhisti. Per esempio, il 'Shat-sahasrika Prajna-paramita’ (5 sec.d.C.) dice: "Oltre alla ricchezza e agli oggetti materiali, un bodhisattva dovrebbe essere pronto a sacrificare i suoi arti per il bene degli altri, le sue mani, piedi, occhi, carne, sangue, midollo, lembi grandi e piccoli, ed anche la sua testa". Effettivamente, nelle storie del Jataka che sono storie leggendarie sui bodhisattva, abbondano numerosi esempi in cui si mostra che essi sacrificano parti dei loro corpi o anche le loro vite, per salvare quella degli altri.

Un persistente paradosso riguardo a Maitreya è la sua visualizzazione come entità del futuro. Ciò presenta un contrasto in molte pratiche e insegnamenti buddhisti che enfatizzano l'importanza del presente, attuale momento. Questo talvolta è riferito come l’eterno senza tempo. Secondo di punto di vista buddhista, il tempo non esiste come un contenitore esterno, ma è l'espressione e l’attualizzazione vitale del nostro proprio essere. Il tempo non esiste separato dalla nostra stessa presenza. Come bodhisattva associato al futuro, contro il fondamentale accento che il buddhismo pone sul momento presente del tempo, Maitreya rappresenta una meravigliosa fusione ed un complesso composito sul piano del tempo. Il pensiero esoterico buddhista lo realizza in un’abile maniera associandolo ai bambini. I bimbi non sono che il 'presente' del nostro 'futuro'. C’è un gran numero di storie che illustrano la sua amorevole bontà per i bambini:

>Una volta, in una sua incarnazione come poeta spirituale, un parente chiese a Maitreya di aiutarlo nel trattare con suo figlio che stava diventando un malfattore. Il poeta (Maitreya) visitò la famiglia e rimase la notte senza dire niente al figlio. La mattina dopo, appena si preparava a partire, egli chiese al ragazzo di aiutarlo a calzare i suoi sandali. Allorché il giovane si preparava a farlo, vide una lacrima cadere giù dalla guancia del poeta. Nulla fu detto, ma da allora il ragazzo cambiò completamente. Il facile cameratismo con i bambini e l’attenzione ai giovani mostrati dalle figure di Maitreya giustificano ampiamente l’origine 'amichevole' del suo nome, come descritto sopra.  

In Cina, Maitreya è anche sinonimo della sua presunta incarnazione nel monaco Zen cinese Hotei del decimo-secolo, popolarmente noto come il Buddha Ridente. Hotei è leggendario come saggio errante con poteri soprannaturali che passava il suo tempo nelle strade dei villaggi piuttosto che nella sicurezza dei templi. La sua immagine è riconoscibile nel Buddha grasso e sorridente, la cui statua può essere vista in tutti i templi buddhisti cinesi. Il nome ‘Hotei’ significa "borsa di stoffa", e si crede che lui portasse un sacco pieno di canditi e giocattoli da dare ai bambini con cui egli spesso è dipinto mentre ci gioca.

Questo Buddha sciatto e disordinato aggiunge calore e bontà alla nostra ordinaria comprensione di Maitreya. La grassa pancia di Hotei e l'affinità con i bambini riflettono ancora un altro aspetto di Maitreya nella folkloristica religione popolare, quella di una divinità di fertilità. Egli infatti è adorato da quelli che vogliono avere bambini. Questo rituale è popolare specialmente in Corea. 

Conclusioni

Il Samadhiraja-sutra (4 sec.d.C.) spiega perché un bodhisattva non sente dolore, anche quando si mutila per il bene degli altri. Quando al Buddha fu chiesto come un bodhisattva poteva serenamente soffrire della perdita delle sue mani, piedi, orecchi, naso, occhi e testa, egli spiegò che la pietà per l’umanità e l'amore della mente-bodhi sostenevano ed ispiravano un bodhisattva nel suo eroismo, proprio come gli uomini mondani sono pronti a godere i cinque tipi di piaceri sensuali, anche quando i loro corpi stanno bruciando con febbre. Un bodhisattva dovrebbe considerare ogni azione e movimento del suo corpo come un'occasione per la coltivazione di pensieri amichevoli per il bene di tutte le creature. Quando egli si siede, pensa così: "Possa io aiutare tutti gli esseri ad arrivare all’illuminazione." Quando giace sul suo lato destro, pensa così: "Possa io condurre tutti gli esseri al nirvana." Quando si lava le mani, pensa così: "Possa io rimuovere le inclinazioni peccaminose di tutte le creature." Quando si lava i piedi, lui pensa così: "Possa io togliere l'immondizia di peccati e passioni da tutte le creature". In questo modo, il suo corpo può essere convertito in un sacro vaso benedetto. Benedetto davvero è colui che perde la sua esistenza fisica nel fare il bene ad altri. Un bodhisattva non può amare mai il corpo per il suo proprio scopo, se lo cura lo fa solamente perché in qualche luogo, in un’occasione o in un'altra, egli si accingerà a salvare qualcuno in un momento di tribolazione. Concettualizzando l'alto ideale del bodhisattva, il buddhismo pone un alto standard di condotta virtuosa da emulare per noi mortali ordinari, così sforzandoci per una vita spiritualmente ricca, radiante col bagliore dell'auto-abnegazione, ovvero la base per un’esistenza significativa e compiuta, sia per l'individuo e per il mondo intorno, di cui egli non è che un microcosmo.