Articoli di Dharma

 

L’IMPORTANZA del SAMADHI
(nella Meditazione ADVAITA-VEDANTA)
Di Michael Comans (Philosophy East & West, Vol.43 No 1, pag..19-38, Jan. 1993 - Copyright by University of Hawaii Press
(Presentato dal Wanderling)Trad. di Aliberth Meng
http://www.angelfire.com/indie/anna_jones1/trilogy.html
 

 

 
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Michael Comans, Ph.D., ha iniziato un serio studio dell’ Advaita-Vedanta da studente residente di Swami Saraswati Dayananda. Dopo il suo ritorno in Australia, ha studiato per il suo Dottorato sotto la guida del celebre Indologo, il Prof. J.W. de Jong, presso l'Australian National University. Egli ha avuto anche la possibilità di studiare col Pandit Srinivasa Shastri del Deccan College, Pune, e col Dr. R. Krishnamurti Shastri del Madras Sanskriti College. Il Dr. Comans ha anche insegnato presso l'Università di Sydney (Centro per gli studi sull'India) per un certo numero di anni. Egli ora conduce la sua vita un po’ a Sydney, dove insegna Vedanta e Sanscrito, ed un pò in India.


La parola Samadhi [1], entrò a far parte del vocabolario di diversi intellettuali occidentali verso la fine della prima metà di questo secolo. Due autori ben noti, Aldous Huxley e Christopher Isherwood, rimasero impressionati dal pensiero Orientale ed in particolare da quello Indiano. Huxley, nel 1946, fece una popolare antologia della letteratura mistica sia Orientale che Occidentale, dal titolo "The Perennial Philosophy", e nel suo ultimo romanzo, "Island" (1962), si trovano parole in lingua originale non tradotte, come samadhi  e moksa. In entrambe queste opere, Huxley usa il termine "samadhi falso", implicando che il lettore avesse già dimestichezza con un ‘samadhi’ reale. Convenientemente sorvolando su una enfasi per quanto riguarda la dea Indù Kali-Ma, Isherwood ha scritto un racconto della vita del mistico bengalese del XIX° secolo Sri Ramakrishna Paramahamsa e dei suoi discepoli (1959), e pubblicò la seconda parte della sua trilogia autobiografica tratta da un resoconto degli anni trascorsi con il suo maestro, Swami Prabhavananda dell'Ordine Ramakrsna, in "Il mio Guru e il suo discepolo" (1980). Il perché questi scrittori furono attratti dal pensiero spirituale Orientale, e dagli insegnamenti Vedanta in particolare, non viene discusso qui. Ma forse una ragione importante è che con il declino della religione organizzata, dopo la Prima Guerra Mondiale, questi scrittori trovarono nel Vedanta, presentato loro dai seguaci di Sri Ramakrsna e dal suo discepolo Swami Vivekananda, una spiritualità che sottolineava l'autorità dell’esperienza diretta come l'unico modo per verificare ciò che era presentata come la Verità. Il Vedanta, come essi lo videro, era "un minimo di ipotesi di lavoro", che poteva essere convalidato attraverso il coltivare un certo tipo di esperienza, e quella esperienza era vista come un mistico, super-cosciente stato di consapevolezza chiamato samadhi.

Isherwood pubblicò un libro di articoli dal titolo "Vedanta per il mondo Occidentale" (1948). Nella sua introduzione, egli evidenzia la centralità dell’avere una diretta e personale esperienza della Realtà, che, egli dice, gli scrittori Cristiani chiamano "l'Unione mistica" e i Vedantici chiamano "Samadhi". Isherwood solleva la questione di come la Realtà può essere sperimentata, se essa è oltre e aldilà della percezione sensoriale, e risponde alla domanda in termini di esperienza del samadhi: ‘Si dice che il Samadhi sia un quarto tipo di coscienza: esso è aldilà degli stati di veglia, di sogno e di sonno senza sogni. Coloro che lo hanno testimoniato come un fenomeno esterno riportano che l'esperienza sembrava essere diventata una specie di trance. Con tutti i capelli sulla testa ed i peli del corpo dritti. Gli occhi socchiusi che diventavano fissi. A volte, c’era una sorprendente perdita di peso, o addirittura una levitazione del corpo da terra. Ma questi sono solo meri sintomi, e non dicono nulla. C'è un unico modo per scoprire cosa è davvero il samadhi: dovete provarlo da voi stessi!

Huxley e Isherwood non scoprirono la spiritualità Indiana andando in India – piuttosto fu l'India, che trovò loro, e la varietà della spiritualità Indiana con la quale questi Inglesi entrarono in contatto nella California alla fine del 1930, era quella della Vedanta Society, fondata da Swami Vivekananda e i suoi seguaci, che erano monaci dell’Ordine di Ramakrishna, di recente costituzione(1886). Se cerchiamo di individuare la fonte di orientamento della vita spirituale sul coltivare l’esperienza del samadhi, che è diventata una delle principali caratteristiche del Vedanta moderno, si deve risalire a Sri Ramakrsna stesso. Ramakrsna non era un Vedantino nell’ortodosso senso di chi aveva ricevuto una istruzione centrata sulla esegesi dei testi sacri (sastra), che sono generalmente in Sanscrito, da un insegnante (Acarya), e che quindi si colloca consapevolmente all’interno di un corpo specifico degli insegnamenti ricevuti (sampradaya). Ramakrsna, come è noto, ha affermato che la varietà delle diverse discipline e tradizioni all'interno dell'Induismo, ed anche al di fuori dell’Induismo, è sempre valida in quanto essi erano tutti i mezzi efficaci per lo stesso obiettivo spirituale. Tuttavia, come è stato poi sottolineato, sarebbe più corretto collocare gli insegnamenti di Ramakrsna all'interno di un paradigma tantrico [3]. (Il tempo trascorso sotto la direzione di Totapuri, che si diceva fosse un ‘Advaitin’, fu assai più breve del tempo trascorso studiando il Tantra, e le informazioni disponibili su Totapuri sono assai scarse, quindi è difficile essere sicuri se egli fosse in realtà un 'Advaita' piuttosto che un seguace dello Yoga). Il Tantra è un'esperienza espressamente orientata alla disciplina, e si basa su tecniche yoga, di Hatha Yoga in particolare[4], per ottenere un’esperienza di samadhi. Ramakrsna si sottopose con frequenza a stati di trance, di cui si fa riferimento nel ‘Vangelo di Sri Ramakrishna’ come esperienze di samadhi. Una descrizione tipica nel ‘Vangelo’ sarebbe il seguente passaggio:

“Alla semplice menzione di Krishna e Arjuna, il Maestro entrò in samadhi. In un batter d'occhio il suo corpo divenne immobile ed i suoi occhi iper-fissi, mentre il suo respiro poteva a stento esser notato [5]. Ramakrsna stesso ha collegato il verificarsi del samadhi con il Kundalini Yoga, che è riferito nei trattati sull’Hatha Yoga, ed è fondamentale per la soteriologia Tantra. Ad esempio, vi è registrato che Ramakrsna osservasse: ‘La Coscienza di un uomo spirituale non è risvegliata finché non si risveglia la Kundalini. La Kundalini dimora nel Muladhara (chakra). Quando si risveglia, essa passa lungo il nervo Sushumna, attraversa i centri di Svadhisthana, Manipura, e così via, ed alla fine raggiunge la testa. Ciò è chiamato il movimento del Mahavayu, corrente (vento) spirituale che culmina nel samadhi [6].
Da quanto sopra, dovremmo essere in grado di vedere l'importanza che l'esperienza del samadhi ha nella vita e negli insegnamenti di Sri Ramakrsna. Una visione della spiritualità orientata all’esperienza come questa, fu l’eredità che passò da Ramakrsna a Vivekananda. Vivekananda era ricettivo a questa visione, perché essa sembrava accordarsi con ciò che egli aveva studiato dei filosofi empiristi Inglesi e del positivista Auguste Comte, in quanto dalla University of Hawaii Press essi avevano sottolineato la centralità dell'esperienza empirica. Vivekananda estese l'epistemologia empirista, la quale afferma che tutta la conoscenza deriva dal senso dell'esperienza nel dominio della metafisica, perché pensava che, poiché l'esperienza è la base di ogni conoscenza, quindi se una Realtà metafisica esiste, essa pure non dovrebbe essere disponibile per esperienza diretta? E dal suo associarsi con Ramakrsna, egli comprese che il samadhi era l'esperienza necessaria per conoscere Dio. Nei suoi scritti, egli pose molta enfasi sulla necessità di raggiungere il samadhi. Egli tradusse liberamente ‘Samadhi’ come una "super-coscienza"[8] e, nella sua opera ‘Raja-Yoga’ espresse in un commentario in lingua Inglese sui ‘Yogasutra’ di Patanjali, che l'esperienza del samadhi è l’acme della vita spirituale: ‘Il Samadhi è la proprietà di ogni essere umano - anzi, di ogni animale. Dal più basso animale fino al più alto angelo, prima o dopo, ognuno dovrà arrivare a quello stato, e dopo, soltanto dopo, per lui avrà inizio la vera religione. Fino ad allora noi dobbiamo solo sforzarci per quello stadio. Non c'è differenza ora, tra noi e coloro che non hanno religione, perché neanche noi ne abbiamo esperienza. Cosa c’è di buono nella concentrazione, se non di portarci a questa esperienza? Ciascun passaggio per raggiungere il samadhi è stata ragionato, correttamente regolato, scientificamente organizzato, e, se e quando sarà fedelmente praticato, ci porterà sicuramente all scopo desiderato. Allora, tutte le angosce cesseranno e tutte le sofferenze svaniranno, i semi delle azioni saranno bruciati, e l'anima sarà libera per sempre [9]’.
Vivekananda fu attratto da Ramakrsna per ragioni in qualche modo simili a quelle che fin dall’inizio attrassero Huxley e Isherwood al Vedanta insegnato dai seguaci di Vivekananda: tutti loro cercavano una diretta verifica esperenziale delle proposizioni della metafisica religiosa, e tutti loro arrivarono a credere che la chiave di tale verifica stava nel raggiungimento di un samadhi o di una esperienza "super-conscia". Questo patrimonio di Ramakrsna, la ricerca di un’esperienza extra-ordinaria al fine di convalidare la vita spirituale, non solo si estese nell'Occidente tramite i monaci dell'Ordine Ramakrsna che Vivekananda contribuì a fondare, ma diventò anche una visione dominante all’interno delle classi medie Occidentali educate alla visione Indiana, tramite la diffusione della letteratura di Ramakrsna e Vivekananda. Il moderno filosofo Indiano, Sarvepalli Radhakrishnan, importante eloquente avvocato con esperienze nella religione, ha descritto il samadhi nel modo seguente: "Nel samadhi o coscienza estatica, abbiamo un senso di immediato contatto con la Realtà Ultima… Esso è uno stato di puro apprendimento"[10].

A questo punto il lettore può chiedersi se non stiamo affermando l'ovvio, perché non è forse proprio perché il samadhi è così importante che i Vedantini moderni come Vivekananda e Radhakrishnan gli hanno dato tanta enfasi? E' certamente importante per il Vedanta moderno, tuttavia la questione può essere legittimamente sollevata in merito a quale importanza esso ha nelle Upanisad, la fonte stessa del Vedanta, e nel Vedanta classico come nelle opere di Sankara, il più famoso di tutti i gli insegnanti Vedanta. Questo è l'argomento principale a cui dovremmo indirizzarci ora.

Il primo punto da notare è che il termine ‘samadhi’ non appare nelle dieci principali Upanishad su cui Sankara ha fatto un commento [11]. Questa non è una questione da sottovalutare, perché, se è vero che il raggiungimento del Samadhi è centrale alla verifica esperienziale del Vedanta, come si può cogliere che è cosi, a giudicare dalle dichiarazioni di alcuni Vedantini moderni come quelli sopra citati, allora potremmo legittimamente aspettarci che il termine compaia nelle principali Upanisad che sono la fonte stessa del Vedanta. Eppure il termine non compare. La parola che approssimativamente più si avvicina al samadhi nelle antiche Upanisad è il participio passato passivo samahita nel Chandogya e Brhadàranyaka Upanisad [12]. In entrambi i testi la parola samahita non è usata nel senso tecnico del samadhi, cioè nel senso di un assorbimento o estasi meditativa, anche se nel Brhadàranyaka c’è una sorta di significato molto vicino a questo senso. Nel primo riferimento (BU 4.2.1), Yajnavalkya dice a Janaka: "Hai completamente attrezzato la tua mente (samahitatma) con così tanti nomi segreti [del Brahman, cioè, delle Upanisad]"[13]. Qui la parola ‘samahita’ dovrebbe essere tradotta come "concentrato, raccolto, riunito, o composto".

Nel secondo caso (BU 4.4.23), Yajnavalkya dice a Janaka che un conoscitore del Brahman diventa "calmo (shanta), controllato (danta), ritirato dal piacere dei sensi (uparati), tollerante (titiksu), e con mente raccolta (samahita)". Questo riferimento a samahita è l'approssimazione più vicina al termine samadhi nelle Upanisad, che è ben noto nella tarda letteratura Yoga. Tuttavia, i due termini non sono sinonimi, nelle Upanisad la parola samahita significa "raccoglimento della mente", e non vi è alcun riferimento ad una pratica di meditazione che conduca alla sospensione delle facoltà, come si trova nella letteratura che tratta con lo yoga. Le cinque qualità mentali menzionate nel BU 4.4.3, formate più tardi con l'aggiunta della fede (sraddha) in una lista di sei qualificazioni richieste ad uno studente Vedanta, si trovano spesso all'inizio dei testi Vedanta[14]. In questi testi, i participi passati utilizzati nelle Upanisad sono regolarmente trasformati in forme nominali: shanta diventa sama, danta diventa dama, e samahita diventa samadhana, ma non l’affine sostantivo ‘samadhi’. Sembrerebbe quindi che, mentre gli autori Vedanta intesero samahita e samadhana come termini equivalenti, essi non vollero mettere sullo stesso piano il termine samadhi, altrimenti non ci sarebbe stato alcun motivo per cui tale termine non avrebbe potuto essere usato al posto di samadhana. Sembra invece che esso sia stato deliberatamente evitato, tranne nel caso di un successivo lavoro Vedanta, il ‘Vedantasara’, a cui avremo occasione di fare riferimento. Perciò, noi suggeriremmo che, nei testi Vedanta, samadhana non ha lo stesso significato che il termine samadhi ha nei testi di yoga. Questo è confermato quando si guarda a come gli autori Vedanta descrivono i termini samahita e samadhana. Sankara, nella BU 4.2.1, trasforma samahitatma come samyuktama, "ben attrezzata o collegata". In BU 4.4.23, spiega il termine samahita come "diventare unidirezionato" (aikagrya), tramite dissociazione dai movimenti degli organi di senso e la mente" [15]. Il termine si ritrova ancora una volta nella Katha Upanisad 1.2.24, nella forma negativa asamahita, che Sankara chiama come "uno la cui mente non è unidiretta (anekagra), la cui mente è dispersiva" [16]. In manuali introduttivi al Vedanta, samadhana è spiegato anche con "unidiretto" (ekàgra) [17]. Il termine samadhana può quindi essere inteso come avente il significato di "unidirezionato" (ekàgra). Nel Yogasutra, "unidirezionato" (ekàgra) è usato per definire la concentrazione (dharana)[18], che è il sesto degli otto rami dello Yoga e una disciplina preliminare al dhyana e samadhi. Possiamo vedere, quindi, che il samadhana Vedanta significa "concentrazione, unidirezionalità" ed è equivalente al dharana-yoga, ma non sarebbe equivalente al samadhi-yoga.

Il termine ‘samadhi’ appare per la prima volta nelle scritture Indù nell’ Upanisad Maitrayni (6,18, 34), un testo che non appartiene agli strati delle prime Upanisad [19] e che menziona cinque degli otto rami dello Yoga classico. La parola appare anche in alcune delle Upanisad sullo Yoga e sul Sannyasa dell’Atharvaveda [20]. Quindi, ‘samadhi’ sembrerebbe essere una parte della pratica yogica, entrata nella successiva letteratura Upanishadica, con testi come il ‘Yoga Upanisad’, che è il risultato di ciò che Mircea Eliade chiama "l'osmosi costante fra gli ambienti delle Upanisad e lo Yoga" [21]. I diversi insegnamenti dello Yoga furono sistemati da Patanjali negli ‘Yogasutra’, in cui si spiega che l'obiettivo dello yoga è quello di fermare totalmente tutte le fluttuazioni mentali (vrtti), così da determinare lo stato di samadhi. Lo stesso Samadhi ha due stadi, samprajnatasamadhi, o un’estasi in cui vi è ancora l’oggetto di coscienza, ed asamprajnata-samadhi o nirbija-samadhi, in cui non vi è più alcun oggetto-di-coscienza. Asamprajnatasamadhi divenne poi noto nei successivi circoli Vedanta come Nirvikalpa-Samadhi [22]. Il punto da rilevare circa lo Yoga è che la tutta sua soteriologia si basa principalmente sulla soppressione delle fluttuazioni o modificazioni mentali (vritti), così da passare prima nello stato di samprajnatasamadhi e da lì, attraverso la completa soppressione di tutte le fluttuazioni mentali, in asamprajnatasamadhi, lo stato in cui il Sé rimane solamente in e come ‘se stesso’, senza più venire nascosto da fattori esterni e condizionanti, imposti dalla mente (citta).

Quando tuttavia esaminiamo le opere di Sankara, troviamo un uso molto parco del termine ‘samadhi’ [23]. Nel Brahmasutrabhasya egli fa tre riferimenti al Samadhi come la condizione di assorbimento o estasi [24]. Nel primo di essi (2.1. 9), implicitamente egli rifiuta l'idea che il samadhi è, di per sé, un mezzo per la liberazione, perché dice: ‘Benché c’è una naturale eliminazione della differenziazione nel sonno profondo e nel samadhi, ecc, poiché la falsa conoscenza non è stata rimossa, le differenze si verificano ancora una volta, al momento del risveglio, proprio come prima’[25].

Ciò che Sankara dice è che la dualità, come distinzione fondamentale tra soggetto e oggetto, viene annullata nel sonno profondo e nel samadhi, così come in altre condizioni tipo svenimento e il coma, ma la dualità è solo temporaneamente cancellata per riapparire poi quando ci si risveglia dal sonno o si riprende coscienza dopo lo svenimento e il coma, e ricompare anche quando lo yoga si genera dal samadhi. Il motivo per cui la dualità persiste è perché la falsa conoscenza (mithyajana) non è stata rimossa. Da questa breve asserzione è evidente che Sankara non considera che il raggiungimento del samadhi sia un motivo sufficiente per sradicare la falsa conoscenza e, sempre secondo Sankara, poiché la falsa conoscenza è la causa della schiavitù, il samadhi non può quindi essere la causa della liberazione. Il solo riferimento significativo del samadhi, nel Brahmasatrabhasya, appare nel contesto di una discussione in cui lo stato di ‘agente’ è considerato una proprietà essenziale del sé. Secondo l'interpretazione di Sankara, i sutra 2.3.33-39 accettano lo stato di ‘agente’ come una proprietà del sé, ma il sutra 2.3.40 presenta il definitivo parere che lo stato di ‘agente’ non è affato una proprietà intrinseca del Sé, ma una sua sovrapposizione. Il termine samadhi appare poi in 2.3.39 (samadhy-abhavacca), e qui Sankara commenta brevemente, "…samadhi, il cui scopo è l'accertamento del Sé, conosciuto dalle Upanisad, che è insegnato nei testi Vedanta come: 'Il Sé, caro mio, dovrebbe essere visto; esso poi dovrebbe essere sentito, pensato e meditato'."(BU 2.4.5) [26]. Sankara mostra con la frase atmapratipattiprayojana ("il cui scopo è l'accertamento del Sé") che egli riconosce che la pratica del samadhi ha un ruolo nel Vedanta. Tuttavia, questi due riferimenti, non presentano in se stessi un quadro conclusivo del pensiero di Sankara, perché nel primo riferimento è evidente che non ritiene che il samadhi sia uno strumento sufficiente per la liberazione, mentre nel secondo egli chiaramente glì dà un posto più positivo come mezzo per la liberazione. Questo secondo riferimento, comunque, dev’essere trattato con una certa circospezione, in quanto esso forma il commento di un sutra che Sankara non ritiene che presenti la posizione definitiva.

Altro riferimento al samadhi, dove sembra avere un ancor più positivo valore, appare nel commento alla Mandukyakarika di Gaudapada, in cui nel versetto 3,37 il termine samadhi è dato come sinonimo del ‘Sé’. Sankara offre il termine samadhi in due modi diversi, e nel primo egli dice: "samadhi = poiché [il Sé] può essere conosciuto attraverso la saggezza derivante dal samadhi" [27]. Così possiamo vedere che, secondo Sankara, il samadhi ha un ruolo da svolgere nel Vedanta, ma ancora il primo riferimento (2.1.9) indica che questo ruolo è forse più circoscritto rispetto a ciò che i moderni esponenti del Vedanta vorrebbero farci credere. Noi cercheremo di risolvere la questione attraverso un più ampio esame del pensiero di Sankara, ed in particolare per quanto riguarda il suo uso dello yoga. La prima menzione specifica dello yoga è nel ‘Katha-Upanisad’, in cui c’è un versetto che in dettaglio mostra un certo tipo di meditazione yoga: ‘La persona che discrimina dovrebbe frenare i discorsi che avvengono nella mente, egli dovrebbe fermare la mente nel sé che conosce, egli dovrebbe fermare la cognizione del sé nel 'grande Sé' e trattenere quel 'grande Sé' nel Sé pacificato’ [26].

Sankara introduce questo versetto con il commento che l’Upanisad qui presenta, "un mezzo per l'accertamento di esso [il ‘Sé’]"[29].  Nel suo commento sul Brahmasutra 1.4.1, Sankara si riferisce a questo versetto del Katha con l'osservazione che "…la Sruti mostra che lo yoga è un mezzo per la comprensione del Sé"[30]. Nel suo commento sul Brahmasutra 3.3.15, si riferisce di nuovo a questo versetto, quando Sankara dice che "è solo per una chiara comprensione del Sé che la Sruti impone la meditazione, cioè 'la persona che discrimina dovrebbe frenare i discorsi della mente…"[31]. Quindi è evidente che Sankara ritiene che il versetto di cui sopra presenti un metodo di meditazione yoga che porta alla conoscenza del Sé. Riguardo alla sua comprensione di questo versetto del Katha, egli lo ha spiegato in poche parole nel suo commento al Brahmasutra 1.4.1: “Questo è ciò che viene detto. 'Egli dovrebbe frenare i discorsi nella mente', significa che abbandonando le funzioni dei sensi esteriori, come l'organo della parola, e così via, egli dovrebbe rimanere solo in quanto mente. E poiché la mente è inclinata verso il congetturare sulle cose, egli dovrebbe, grazie al vedere il difetto coinvolto nel congetturare, fermare l’intelletto la cui caratteristica consiste nel determinare, e che qui è detto con la parola 'il sé che conosce'. Quindi determinando un aumento di sottigliezza, egli dovrebbe frenare quell'intelletto nel 'grande Sé', cioè l'esperienza, ovvero l’intelletto ‘uni-direzionato’. E inoltre egli dovrebbe stabilire il 'grande Sé' nel Sé pacificato, cioè in quel supremo Purusha, che è proprio l'argomento in esame, che è il 'obiettivo Supremo' [32].

Nell’Aranyaka Upanisad 2.4.11, che presenta il noto dialogo Yajanavalkya-Maitreyi, Sankara descrive brevemente un metodo di contemplazione, che è simile a quello citato nella Katha 1.3.13. Esso è come segue: “[Il testo]... come la pelle, è l'oggetto di tutti i tipi di contatto [dei commenti], sia duri che morbidi, lisci o ruvidi…. Con la la parola ‘pelle', si intende in generale il tatto che viene percepito dalla pelle; in esso sono riuniti diversi tipi di contatto, come vi sono diversi tipi di acqua nell'oceano, e senza di esso diventano nullità, perché sono solo sue modificazioni. Allo stesso modo, in generale, il tatto indicato con la parola ‘pelle', si fonde nella deliberazione del Manas [mente], vale a dire, in una generale considerazione di essa, così come i diversi tipi di contatto sono inclusi nel generale contatto percepito dalla pelle; senza questa considerazione del Manas essa diventa non-entità. La considera-zione del Manas è anche fusa in una cognizione generale da parte dell'intelletto, e diventa inesistente senza di essa. Diventando mera coscienza, essa è fusa nella Pura Intelligenza, il Supremo Brahman, come i diversi tipi di acqua nell'oceano. Quando, attraverso questi successivi passaggi, il suono e il resto, insieme ai loro organi riceventi, sono fusi nella Pura Intelligenza, non ci sono più appendici limitanti e rimane solo il Brahman, che è Pura Intelligenza, paragonabile a un pugno di sale, infinito, omogeneo, senza limiti e senza crepe. Quindi, soltanto il Sé dev’essere considerato come l’Uno senza un secondo [33].

Possiamo vedere che il tipo di yoga che Sankara presenta qui è un metodo di fondere, per così dire, il particolare (visesa) nel generale (samanya). Ad esempio, i diversi suoni vengono fusi nell’unico senso dell'udito, che ha una maggiore generalità, in quanto il senso dell'udito è il punto-di-arrivo di tutti i suoni. Il senso dell'udito si fonde nella mente, la cui natura è composta dal pensare alle cose, e a sua volta la mente è fusa nell'intelletto, che Sankara poi dice che consiste in 'pura e mera cognizione' (vijanamatra); cioè, ogni particolare cognizione che si risolve nel loro universale, che è conoscenza in sé, il pensare senza alcun oggetto particolare. E che, a sua volta, si fonde nella sua Universale e Pura Coscienza (prajnana-ghana), su cui dipende tutto ciò che in precedenza era riferito all’Ultimo. Ci sono due punti che meritano di essere osservati per quanto concerne la presentazione di Sankara dello yoga, che si differenziano dal modello che troviamo negli Yogasutra di Patanjali. Il primo punto riguarda il metodo. Sankara non dice che tutte le forme di pensiero devono essere immobilizzate, alla maniera del cittavrttinirodha dello Yogasutra. Mentre in altri punti Sankara ha fatto menzione che la meditazione comporta il ritiro della mente dagli oggetti di senso[34], egli ha anche chiarito che il controllo della mente (cittavrttinirodha) "non è conosciuto come un mezzo di liberazione" [35]. Piuttosto, il metodo di Sankara coinvolge il pensiero, anche se è il pensiero di un certo tipo, che porta dal coinvolgimento nei particolari ad una contemplazione di ciò che è più generale e, in definitiva, alla contemplazione di ciò che è ancor più generale, cioè, la Coscienza. Così il metodo di yoga di Sankara, che è un esercizio meditativo di ritiro dal particolare e di 'identificazione con l'universale’, conduce alla contemplazione di se stessi come ciò che è più universale, e cioè, la Coscienza. Questo approccio è diverso da quello dello Yoga classico di soppressione completa del pensiero.

Il secondo punto è quello dell’approccio, perché in nessun punto Sankara presenta l'Atman-Brahman come un obiettivo da raggiungere. Al contrario, il suo approccio è che l'Atman-Brahman non è certo un qualcosa che deve essere acquisito, dal momento che esso è la nostra propria natura, e la propria natura non è un qualcosa che può essere raggiunto. Questo approccio ha il suo corollario nel suo metodo di negazione: la rimozione delle sovrapposizioni, al fine di scoprire ciò che già esiste, anche se, per così dire, nascosto da tutti i tipi di false identificazioni basate, in ultima analisi, sull'ignoranza di chi veramente siamo. Tale approccio è diverso da quello dello Yoga classico degli Yogasutra, dove la mèta è presentata in termini di nirvikalpasamadhi, che uno deve raggiungere allo scopo di ottenere la liberazione. Che il metodo di Sankara sia quello della negazione al fine di "rivelare il mai rivelato" è evidente nella sua intera discussione del ruolo dell’azione in materia di Liberazione. Nel Brahmasutra 1.1.4, un contendente sostiene che il ruolo della Scrittura è ingiuntivo - è di intimare ad una persona o di fare qualcosa o di astenersi dal fare qualcosa - ed è anche il ruolo delle Upanisad che, dopo aver presentato la natura del Brahman, impone la meditazione sul Brahman come un mezzo di liberazione [36]. Sankara risponde che se la liberazione deve essere acquisita come risultato di un’azione, allora la liberazione deve essere impermanente. Egli precisa che le azioni possono essere di quattro tipi: un'azione in grado di produrre qualcosa, o può modificare una cosa, oppure può essere utilizzata per ottenere qualcosa, o per purificarla[37]. Egli a turno tocca ogni azione, e sostiene che la Liberazione non è un qualcosa che può essere prodotto, raggiunto, modificato, o depurato da una qualche azione sia fisica, verbale, o mentale. La sua tesi principale è che, se la liberazione è un effetto di qualche tipo di azione, allora la liberazione avrebbe un inizio e sarebbe limitata nel tempo e perciò essa non sarebbe eterna, e che una tale conseguenza andrebbe contro ogni vera tradizione che insegna che la liberazione è eterna. La visione di Sankara è che la liberazione non è altro che ‘essere Brahman’, e che essa è la nostra propria condizione inerente, anche se ora è oscurata dall'ignoranza. Egli dice che l’intero scopo delle Upanisad è proprio quello di eliminare la dualità, che è la struttura dell’ignoranza [38]. Non c’è più bisogno di produrre l’unità con il Brahman, poiché esso già esiste. Il frequente uso di Sankara della frase "na heya naupadeya" (non può essere accettata o respinta)[39], insieme con il termine "Atman", indica che il Sé non può essere l’oggetto di un qualsiasi tipo di azione di sorta. Così Sankara ha riassunto tutto ciò nel suo commento sulla Brhadàranyaka: “… La liberazione non è qualcosa che può essere posto in essere. Poiché la liberazione è proprio la distruzione della schiavitù, non è il risultato di un'azione. Poiché abbiamo già detto che la schiavitù è l'ignoranza, non è possibile che l'ignoranza possa essere distrutta dalle azioni. E le azioni hanno le loro potenzialità in una sfera visibile. Le azioni hanno le loro potenzialità nelle sfere della produzione, realizzazione, modificazione e purificazione. L'azione è in grado di produrre, di far raggiungere, di modificare o di purificare. La capacità di un’azione non ha altra possibilità che questa, perché non è noto nel mondo che abbia una qualsiasi altra possibilità. E la liberazione non è una di queste. Abbiamo già detto che essa è nascosta proprio dall’ignoranza [40].


Così possiamo vedere che la prospettiva di Sankara è fondamentalmente diversa da quella della tradizione Yoga dove, anche se il Purusha non è presentato come un qualcosa da essere acquisito, la liberazione è nondimeno un vero obiettivo da raggiungere tramite un processo di disciplina mentale, che richiede l'eliminazione completa di tutte le attività mentali. Che verso lo yoga vi sia una certa ambivalenza da parte dei seguaci del Vedanta si può vedere nel Brahmasutra, 2.1.3, "In tal modo, lo Yoga è rifiutato", che mostra un rifiuto dello Yoga in seguito alla negazione della filosofia Sankhya. Il problema, come lo vede Sankara, è che le pratiche di Yoga si trovano nelle stesse Upanisad, e così si pone la questione di che cosa, riguardo allo yoga, deve essere respinto. A tale scopo, Sankara dice che la confutazione dello yoga ha a che fare con la sua pretesa di essere un mezzo di liberazione indipendente dalla rivelazione Vedica (Sruti). Egli dice: "... La Sruti respinge la tesi che vi sia un altro mezzo per la liberazione, oltre alla conoscenza della unicità del Sé che è rivelata nei Veda"[41]. Egli poi fa il punto che "i seguaci del Sankhya e Yoga sono dualisti, non vedono l'unicità del Sé"[42]. Il punto che "i seguaci dello Yoga siano dualisti" è interessante, perché se gli yogin sono dualisti, anche quando essi sono esponenti di asamprajnatasamadhi (nirvikalpasamadhi), allora un tale samadhi non darà di per sé luogo alla conoscenza dell’unità, come gli esponenti del moderno Vedanta vorrebbero farci credere. Perché se così fosse, allora non sarebbe stato possibile che gli yogin fossero considerati dualisti. Chiaramente, i moderni Vedantini, nella loro aspettativa che il samadhi fosse la chiave per liberarsi nell'unità, hanno rivalutato il termine e gli hanno dato un significato che non è supportato nei testi yoga. E, suggeriamo noi, hanno dato ad esso un significato che non possiede nemmeno nel Vedanta classico, in quanto noi siamo in grado di discernere ciò dagli scritti di Sankara.

La questione da risolvere è: in quale luogo il samadhi, e lo yoga in generale, è sostenuto nel pensiero di Sankara... Noi suggeriamo che il suo commentario sul Bhagavad Gita contiene alcune dichiarazioni programmatiche, che sono di assistenza generale nel determinare le sue visioni su quale sia il luogo di samadhi e yoga nello schema Advaita della Liberazione. Nel Gita, Sankara utilizza assai spesso la parola ‘yoga’ quando appare in un versetto in cui c’è il termine samadhi, indicando così che in molte occasioni egli intende ‘yoga’ per indicare la pratica di una certa disciplina in cui il samadhi è il fattore chiave, come nel versetto 6,19, "... per uno che si impegna nello yoga concernente il Sé" (yunjato atmanah yogam), che Sankara chiosa: "… pratica il samadhi concernente il Sé" (atmanah samadhim anutisthatah)[43]. E' evidente che egli considera il samadhi come uno stato in cui tutte le normali distinzioni sono annullate, come è evidente dalla sua dichiarazione in 18,66, "i malanni degli stati di agente e fruitore, ecc., non sono appresi nel sonno profondo o nel samadhi, ecc, in cui vi è una sorta di discontinuità del flusso dell'erronea idea che il Sé è identico al corpo"[44]. Qui, come pure nel suo commento sul Brahmasutra 2.1.9, Sankara collega il sonno profondo e il samadhi, ed è evidente che egli riconosce che il samadhi è uno stato in cui le distinzioni sono temporaneamente risolte, come lo sono nel sonno profondo.

All'inizio del suo commentario sul Bhagavad Gita, Sankara fa una significativa dichiarazione che tratta la relazione tra Sankhya e Yoga[45]. Egli afferma che ‘Sankhya’ significa “accertare la verità sul ‘Sé’” come realmente è, e che Krishna lo ha fatto nel suo insegnamento nei versi da 2,11 fino a 2,31. Egli afferma che sankhyabuddhi è la comprensione che nasce dall’accertare il significato nel suo contesto, e consiste nella comprensione che il Sé non è l’agente dell’azione, perché il Sé è libero dalle sestuplici modificazioni che iniziano con l'entrata in essere (venire in esistenza). Egli afferma ancora che coloro ai quali tale comprensione diventa naturale sono chiamati ‘Sankhya’. Dice poi che lo Yoga è anteriore al sorgere della comprensione di cui sopra. Lo Yoga consiste nell'eseguire quelle discipline (sadhana), che portano alla liberazione, e presuppone la discriminazione tra le virtù e il loro contrario, e dipende dall'idea che il Sé è altro che il corpo, e che esso è l’agente e il fruitore. Tale comprensione è detta yogabuddhi, e le persone che hanno una tale comprensione sono chiamati Yogi. Da questo è chiaro che Sankara relega lo Yoga nella sfera dell’ignoranza metafisica (Avidyà), perché gli Yogi sono coloro che, a differenza del Sankhya, prendono il Sé per l’agente e il fruitore, mentre è in realtà esso non è nessuno dei due. Essi, pertanto, agli occhi di Sankara, non sono ancora conoscitori della verità.

Sankara delimita ancora chiaramente il Sankhya e lo Yoga nei suoi commenti sul versetto 2,39, dove Krishna dice: "O Partha, ti è stata impartita questa comprensione sul Sankhya. Ora, ascolta questa comprensione sullo Yoga..." Secondo Sankara, 'Sankhya' significa: "la discriminazione riguardo alla Verità Ultima", e la 'comprensione' riferita al Sankhya significa: "la conoscenza che è la causa diretta per la risoluzione del difetto che provoca che il samsara è composto di dolore e delusione e così via". Egli poi dice che lo Yoga è il "mezzo per quella conoscenza" (tatpraptyupaya), e anche che lo Yoga è costituito dal karmayoga, cioè, eseguire riti e funzioni come offerta al Signore, una volta che vi sia stato l’abbandono degli opposti (ad esempio come ‘mi piace e non mi piace’) attraverso il distacco, e il samadhiyoga[46]. Sankara, nel verso 4,38, spiega ancora una volta la parola yoga che appare nel versetto come riferita sia a karmayoga che a samadhiyoga[47]. E' evidente che Sankara comprende la parola yoga nel Gita, in riferimento sia al karmayoga che alla pratica della meditazione, e cioè, il samadhiyoga. E' anche evidente che egli considera che lo yoga sia uno dei mezzi più importanti per la conoscenza Sankhya, ma che esso (lo yoga) non è lo stesso che la conoscenza-Sankhya. In 6,20, Sankara dice che uno apprende il Sé per mezzo di "una mente, che è stata purificata con il samadhi" [48].
Dalle testimonianze di cui sopra si evince che, secondo Sankara, il ruolo del samadhi è di supporto - o purificativo - ed è un preliminare che non necessariamente coincide con il sorgere della conoscenza liberatoria. Come è noto, Sankara ritiene che solo la conoscenza, l'intuizione relativa alla verità delle cose, è ciò che libera. A tale scopo, egli pone un forte accento sulle parole, in particolare sulle parole delle Upanisad, che forniscono i mezzi necessari e perfino sufficienti per generare questa conoscenza liberatrice. Sankara sottolinea più volte l'importanza del ruolo del Maestro (guru/Acarya) e dei testi sacri (sastra) che trattano della liberazione. Ad esempio, il passaggio sastracaryopadesa, "l'istruzione da parte dell’insegnante e le Scritture", appare sette volte nel suo commento sul solo Bhagavad Gita, insieme ad altre varianti, come vedantacaryopadesa, ed appare regolarmente anche in tutte le altre sue opere[49]. Il moderno Vedantino, d'altra parte, ha forse inconsciamente trascurato l'importanza del linguaggio sacro e dell’istruzione nel Vedanta classico come mezzo di conoscenza (pramana) e ha dovuto compensare questa lacuna accrescendo l'importanza del samadhi yogico che è poi presentato (erroneamente) come la condizione necessaria e sufficiente per la liberazione.

Il contrasto tra l’Advaita Vedanta di Sankara e alcuni dei suoi moderni esponenti è abbastanza chiaro. Ma non si deve pensare che la moderna enfasi sul samadhi yogico sia senza precedenti. Come già detto, c’è evidenza delle tecniche yoga nelle stesse maggiori Upanisad, anche se poi esse non hanno un’enfasi dominante, e questo si riflette nell’approccio di Sankara nei suoi commenti. Tuttavia, nei secoli successivi a Sankara, gli advaitin hanno mostrato un graduale aumento del loro affidarsi alle tecniche yoga. Questo può essere dimostrato esaminando alcune delle ‘Advaita-Prakaranagranthas’, composizioni non-commentari di autori Advaita.

L'unica opera non-commentario che è ampiamente accettata come composizione di Sankara è il testo Upadesasahasri. In quest’opera, il termine ‘samadhi’ raramente appare. Nel verso 13.25, è presente la parola ‘samahita’, e in precedenza abbiamo affermato che samahita (concentrazione) ha significato equivalente alla parola ’samadhana’, ‘concentrazione mentale’, ma che non ha lo stesso significato di nirvikalpasamadhi [50]. Sankara menziona ‘samadhi’ tre volte nel Upadesasahasri [51], ma egli non la esalta; al contrario, parlando dalla comprensione che il Sé è per natura nirvikalpa, egli contrappone il Sé e la mente, e dice: “Poiché io non ho irrequietezza (viksepa) non ho quindi nessun assorbimento (samadhi). Irrequietezza o assorbimento appartengono alla mente, che è mutevole” [52].

Una visione simile è espressa in 13,17 e 14,35. Nel veroso 15,14, Sankara presenta una critica della meditazione come un'attività strutturata essenzialmente in modo dualistico[53]. Inoltre, in 16,39-40, Sankara implicitamente critica la visione Sankhya-Yoga che afferma che la liberazione è dissociazione dalla associazione di Purusha e Prakriti[54], quando egli dice: “Non è affatto ragionevole che la liberazione sia una connessione [con il Brahman] o una dissociazione [dalla Prakriti]. Dato che una associazione non è eterna, e lo stesso vale anche per la dissociazione[55]”.

Quindi, da quanto sopra, è evidente che Sankara implicitamente respinge tanto la soteriologia dello yoga, e cioè che la liberazione deve essere compiuta mediante la reale dissociazione del Purusha da Prakriti, e pure la ricerca verso quel fine, cioè, la realizzazione di nirvikalpa o asamprajatasamadhi.
Tuttavia, tale visione è diventata confusa negli scritti degli Advaitin post-Sankara. Questo può essere dimostrato esaminando brevemente alcuni successivi testi Prakarana-Advaita. Ad esempio, nel noto testo del XIV° secolo, Pancadasi, troviamo un misto di idee Vedanta e Yoga. Verso la fine del primo capitolo sulla "Discriminazione del Reale" (tattvaviveka), l'autore spiega i termini sravana, manana, e nididhyàsana nelle Upanisad (vv. 53-54), e poi passa a descrivere la coltivazione del samadhi come mezzo tramite cui la mediata conoscenza verbale derivata dalle Upanisad è trasformata in esperienza immediata (vv. 59-62). Tuttavia, nel nono capitolo, "La Lampada della Meditazione" (Dhyanadipa), la meditazione è prescritta per coloro che non hanno l'acutezza intellettuale per intraprendere l’indagine del Sé, e nel settimo capitolo (v. 265), l'autore ripete il versetto di Sankara dall’Upadesasahasri: ("Io non ho inquietudine"), che è stato citato prima. E pertanto, sembrerebbe che il Pancadasi sia uno dei primi esempi di un testo Vedanta, che coscienziosamente ha fatto spazio allo Yoga classico, ma che non ha perso di vista la prospettiva di Sankara [56].

Il Vivekacudamani è un testo popolare nei circoli Vedantini contemporanei ed è attribuito a Sankara. Tuttavia, è fortemente improbabile che si tratti di un vero e proprio lavoro di Sankara, perché il fatto che su quest’opera non ci sono commentari Sanscriti fatti da qualcuno dei ben noti commentatori delle opere di Sankara, starebbe ad  indicare che il Vivekacudamani o è una più tarda composizione o non era considerata come opera di Sankara dai precedenti Advaitin[57]. In questo testo, il samadhi è oggetto di notevoli elogi, come ad esempio: “La riflessione dovrebbe essere considerata un centinaio di volte superiore all’ascolto, e la meditazione un centinaio di migliaia di volte superiore anche perfino alla riflessione, ma il Nirvikalpaka-Samadhi è infinitamente superiore nei suoi risultati [58]”.

In questo testo, possiamo osservare che il Samadhi è considerato il requisito indispensabile per la liberazione, e nel verso successivo possiamo vedere che il Samadhi è sostenuto per lo stesso motivo, come si vede nel Yogasutra, 1.1.4: "Altre volte [il Sé] assume la medesima forma della modificazione mentale (vrttisarupyamitaratra)"; Grazie al Nirvikalpaka-samadhi la verità del Brahman è chiaramente e definitivamente realizzata, ma non altrimenti, perché poi la mente, essendo instabile per natura, tende ad essere confusa con altre percezioni [59].

Come esempio finale dell'uso del Samadhi in quest’opera, citiamo il versetto seguente: “Attraverso la diversità delle sopravvenute condizioni (upadhi), un uomo tende a pensare anche a se stesso come pieno di differenze, ma con la rimozione di queste, egli torna a essere di nuovo il suo Sé immutabile,  Pertanto, il saggio deve sempre dedicarsi alla pratica del Nirvikalpa Samadhi per lo scioglimento degli ‘upadhi’ [60]”.

Se si confronta l'idea contenuta in questo versetto con le idee dell’ Upadesasahasri, non troviamo in nessuna parte dell’Upadesasahasri che Sankara propugni lo scioglimento degli upadhi: Al contrario, il suo atteggiamento in tutto l’Upadesasahasri sta a dimostrare che un upadhi dev’essere negato solo e proprio attraverso la conoscenza che è un mero oggetto, perché come oggetto esso non può essere identico al percipiente, e poiché un upadhi è essenzialmente non-reale (mithya), non può negare la verità non-duale, e quindi non serve sprecare nessun ulteriore sforzo per la sua rimozione.

Come ultimissimo esempio della continua tendenza a identificare il Vedanta e lo Yoga, ci riferiamo ad un tardo testo del Vedanta, il ‘Vedantasara’ di Sadananda (XV°sec.d.C.). Egli, come l'autore del Pancadasi, ha aggiunto ‘samadhi’ alla triade di ‘sravana, manana, e nididhyàsana’. Ma quello che qui interessa è che egli ha reinterpretato il samadhi per renderlo conforme alle idee dell’Advaita, tanto che, per esempio, nirvikalpa-samadhi è riferito come lo stato in cui la mente è senza distinzioni di conoscitore, conoscenza, e oggetto di conoscenza, ed è diventato totalmente fuso nella "Realtà non-duale"[61]. Inoltre, il testo elenca gli otto rami della pratica Yoga menzionati da Patanjali (Yogasutra, 2,29), opportunamente reinterpretati per conformarli all’Advaita-Vedanta. Ci sono pure altri successivi testi Vedanta che fanno quest’opera di reinterpretazione[62]. Così vediamo che attraverso i secoli, il Vedanta si è sempre più avvicinato allo Yoga, arrivando in tempi moderni alla quasi totale assenza di una distinzione tra i due.

 
Conclusione
Anche se l'importanza della concentrazione è evidente fin dalle prime Upanisad (BU 4.4.23), una forma di pratica yoga che porta allo stato di assorbimento del samadhi è evidenziato solo nei testi più tardi. Abbiamo visto che Sankara parla di un tipo di concentrazione sul Sé, che è simile allo yoga nella misura in cui vi è il ritirarsi della mente dagli oggetti di senso, ma egli invero non lo sostiene più di tanto e non avanza l'opinione che invece troviamo nel classico Yoga sulla necessità di soppressione totale del pensiero. Abbiamo visto che egli ha utilizzato il termine ‘samadhi’ con molta parsimonia, e quando lo ha usato, non è stato sempre in un contesto inequivocabilmente favorevole. Dovrebbe essere chiaro che Sankara non proprone il nirvikalpasamadhi come una mèta spirituale. Infatti, se lui  avesse pensato che esso fosse un requisito indispensabile per la liberazione, allora l'avrebbe detto. Ma non lo ha detto. La ‘Contemplazione del Sé’ è ovviamente parte dell'insegnamento di Sankara, ma la sua contemplazione è diretta verso il vedere ‘l’onnipresente Sé’, come libero dai condizionamenti di ogni tipo, piuttosto che verso il raggiungimento del nirvikalpasamadhi. Ciò è in significativo contrasto con il pensiero di molti moderni Advaitini, per i quali tutto ciò che nel Vedanta è stabilito come "teoria", ha la sua controparte esperenziale nella "pratica" yoga. Io suggerirei che la loro visione del Vedanta sia una forma di allontanamento dalla posizione propria di Sankara. Tuttavia, i moderni Advaitini non sono certo senza precursori, e perciò ho cercato di indicare che, nei secoli successivi a Sankara, c'è stato un graduale aumento della pratica orientata verso il samadhi, come si può vedere in altri articoli basati su testi Advaita… (vedi sul sito: “La Trilogia del Samadhi”).


 

NOTE:
Nelle note qui di seguito sono usate abbreviazioni come segue:

BSBh: Brahmasutra-Sankarabhasyam con i commentari: Bhasyaratnaprabha di Govindananda, Bhamati di Vacaspatimisra e Nyaya-Nirnaya di Anandagiri. Edited J. L. Sastri. Delhi: Motilal Banarsidass, 1980. –  BU: Brhadaranyakopanisad. – ChU: Chandogyopanisad. –

US: Upadesasahasri di Sankaracharya, A Thousand Teachings: in due parti - prosa e poesia. Tradotto da Swami Jagadananda. Madras: Sri Ramakrishna Math, 1979.


1. Quando il termine ‘samadhi’ è usato in questo articolo, si riferisce solo alla fase più alta del Samadhi nota come ‘Nirvikalpa Samadhi, che è un’estasi "senza costruzioni di pensiero". Cfr. nota 22 di seguito.
2. “Vedanta per il mondo Occidentale”, ed. C. Isherwood (London: Libri Unwin, 1975), p. 15.
3. I tre anni di sadhana tantrica continuata sotto la direzione dei Bhairava Brahmani fu la sua più lunga e più significativa formazione. Vedi W. Neevel, "The Transformation of Sri Ramakrishna" in ‘Hindù-ism’. New Essays in the History of Religions, ed. B. Smith (Leiden: E. J. Brill, 1976). Il tempo trascorso sotto la direzione di Totapuri, che si diceva di essere un Advaitin, fu molto più breve del tempo trascorso a studiare Tantra, e le informazioni disponibili su Totapuri sono assai scarne, così è difficile essere sicuri se in realtà fosse un Advaitin piuttosto che un seguace dello Yoga.
4. M. Eliade, Yoga: Immortalità e libertà, Bollingen Series, no. 56 (New York: Princeton University Press, 1973), pp. 227 ss., E The Hathayogapradapika di Svatmarama (Madras: Adyar Library, 1984), p. 125.
5. Ramakrishna, il Vangelo di Sri Ramakrishna, trad. Swami Nikhilananda (Madras: Sri Ramakrishna Math, 1974), p. 195.
6. Ibidem, pag. 814. Inoltre cfr. pp. 310, 576.
7. Cf. The Complete Works of Swami Vivekananda (Calcutta: Advaita Àshrama, 1970), vol. 1, p. 470, "Se c'è un Dio, si dovrebbe essere in grado di vederlo. In caso contrario, lascialo andare…".
Cfr.anche la sua introduzione al Raja-Yoga, pp. 125 sgg., e vol. 2, p. 220, "La conoscenza non può essere ottenuta in un solo modo, la via dell’esperienza, non c'è altro modo di sapere…."
8. Ibid., Vol. 1, pp. 137, 180, 181.212, e vol. 5, p. 300.
9. Ibid., Vol. 1, p. 188.
10. S. Radhakrishnan ‘Religioni Orientali e Pensiero Occidentale’ (London: Allen & Unwin, 1940) p.51.
11. G.A.Jacob, A Concordance to the Principal Upanisad and Bhagavadgita (Motilal Banarsidass, Delhi, 1971); GM Kurulkar, Sasandarbhanighantusahita Dasopanisadah (Tilak Maharastra Vidyapitha,
Pune, 1973).
12. Chu 8.1.3, 4, 5, BU 4.2.1, 4.4.23.
13. The Brhadàranyaka Upanisad, con il commento di Sankaracarya, trad. Swami Madhavananda (Calcutta: Advaita Àshrama, 1975), p. 410.
14. Cf. BSBh, p. 36; Vivekacudamani, di Sri Sankaracarya, trans. Swami Madhavananda (Calcutta: Advaita Àshrama, 1974), vv. 19-27; Aparoksanabhuti o la Realizzazione del Sé di Sri Sankaracarya, trad. Swami Vimuktananda (Calcutta: Advaita Àshrama, 1977), vv. 3-8.
15. ‘Ten Principal Upanisad, with Sankarabhasya’, opere originali in sanscrito di Sankaracarya, vol. 1 (Delhi: Motilal Banarsidass, 1978), p. 937, "samahitah indriyantahkaranacalanarupad vyavrtya   aikagryarupena samahito bhutva". (di seguito, tutti i riferimenti Upanisad contenenti il commento di Sankara).
16. Ibidem, pag. 78, "asamahitah-anekagramana viksiptacittah".
17. Tattva bodha of Sankaracharya (Bombay: Central Chinmaya Mission Trust, n.d.), p. 7; Aparoksanabhuti (op. cit. n. 14 sopra), v. 8.
18. Georg Feuerstein, The Philosophy of Classical Yoga (Manchester: Manchester University Press, 1980), p. 84.
19. Paul Deussen, La filosofia delle Upanishad (New York: Dover, 1966), pp. 23-26. Inoltre, vedere Winternitz citato in S. Dasgupta, una storia della filosofia indiana (Delhi: Motilal Banarsidass, 1975), vol. 1, p. 39. Eliade ritiene che la Maitrayani appartenga allo stesso periodo, come la Bhagavadgita, vale a dire, tra il II secolo aC ed il II secolo dC (Eliade, Yoga, p. 124).
20. Amrtabindu 6, 16; Aruneya 2. Appare anche nel Bhagavadgita a 2,44, 53, 54.
21. Eliade, Yoga, p. 114, osserva: "E' vero che le Upanisad rimangono nella linea della metafisica e
     contemplazione, considerando che lo yoga utilizza l'ascetismo e una tecnica di meditazione. Ma
     questo non è sufficiente ad arrestare l'osmosi costante tra gli ambienti Upanisadici e lo Yoga".
22. Io non so perché poi i Vedantini usavano la parola Nirvikalpa per caratterizzare essenzialmente
     ciò che è il asamprajnata samadhi yoga. Forse hanno voluto distinguere la loro pratica da quella
     dei classici Yoga. Il termine nirvikalpaka è stato introdotto nel tradizione ‘astika’("ortodossa") di
     Kumarila Bhatta, che la usò nella sua spiegazione della percezione, sotto l'influenza del filosofo
     buddhista Dignaga. V. D.N. Shastri, The Philosophy Nyaya-Vaisesika e il suo conflitto con la Scuola
     buddhista Dignaga (Delhi Bharatiya Vidya Prakashan, 1976), p. 438. Si veda anche nota 1.
23. Io parto dal presupposto che Sankara non sia l'autore del Yogasutrabhasyavivarana, dato che
    questa questione non è stata ancora stabilita. Vedi W. Halbfass, Tradition and Riflession: Explo-
    rations in Indian Thought (New York: State University of New York Press, 1991), cap. 6.
24. BSBh 2.1.9 (p. 365, riga 6), 2.3.39 (p. 545, riga 10), 2.3.40 (p. 551, linea 2); Word Index to the
     Brahma-Sutra-Bhasya of Sankara, T.M.P. Mahadevan, general ed., 2 voll.
(Madras: Università di
     Madras, 1973).
25. BSBh 2.1.9 (p. 365, linea 6).
26. Ibid., 2.3.39 (p. 545, linea 10).
27. Mandukya 3,37 (p. 224, linea 3).
28. Katha 1.3.13. Cf. J. Bader, Meditation in Sankara’s Vedanta (Delhi: Aditya Prakashan, 1990), c. 3.
29. Katha 1.3.13 (pag. 83, riga 11).
30. BSBh 1.4.1 (p. 295, linea 10).
31. Ibid., 3.3.15 (p. 694, linea 12).
32. Ibid., 1.4.1 (p. 295, righe 12 ss.).
33. BU 2.4.11 (p. 764, righe 11 e segg.). Vedi anche Madhavananda, trad., Brhadaranyaka Upanisad,   
     (cit. n. 13), pp. 253 ss. Ho qui citato la traduzione di Madhavananda poiché non posso fare alcun
     significativo miglioramento su di esso.
34. Cf. commentario su Katha 1.2.12 e Bhagavadgita 16.1.
35. BU 1.4.7 (p. 663, linea 9).
36. BSBh 1.1.4 (pag. 69, riga 6).
37. Ibid., 1.1.4 (p. 79, righe 7 e segg.). Inoltre, per riferirsi all’azione in quanto composta da quattro
     tipi, cfr. BU 3.3.1 (p. 798, righe 22 e segg., E p. 801, righe 1 ss.) 4.4.22 (p. 933, righe 21 sgg.);
     Mundaka 1.2.12 (p. 152, righe 25 e segg.); US 17,50; Shri Shankaracharya's Upadeshasahasri
   con il Padayojanika Gloss, ed. D. V. Gokhale (Bombay: The Gujarati Printing Press, 1917); Shri
    Shankarabhagavatpada’s Upadeshasahasri con il Tika di Shri Anandagiri Acharya, ed. S. Subrama- 
    nyasastri (Varanasi: Mahesh Research Institute, 1978).
38. BSBh 1.1.4 (pag. 79, riga 1); anche BU 2.1.20 (p. 739, righe 20 e 24).
39. BSBh 1.1.4 (p. 64, righe 2 e 4, p. 84, righe 3 e segg. P. 85, righe 1 e segg.
P. 87, righe 4 segg.).
40. BU 3.3.1 (p. 798, righe 19 sgg.).
41. BSBh 2.1.3 (p. 354, righe 1 ss.).
42. Ibid., 2.1.3 (p. 354, riga 3).
43. Bhagavadgita con Sankarabhasya, opere di Sankaracarya nell’originale sanscrito, vol. 11 (Delhi: Motilal Banarsidass, 1978), 6,19 (p. 107, riga 9 e segg.), E anche 5.21, 6.4, 8.10, 12.6, 13.10, 18,33.
44. Ibid., 18,66 (p. 296, righe 6 e segg.).
45. Ibid., Introd., 2,11 (p. 9, righe 14 e ss.).
46. Ibid., 2,39 (p. 27, righe 13 ss.).
47. Ibid., 4. 38 (pag. 80, riga 18).
48. Ibid., 6.20 (p. 107, riga 16 [corsivo mio]).

 
49. Ibid., 2,21 (p. 20, riga 12), 2,63 (p. 36, riga 12), 8,8 (p. 128, riga 16), 13.30 (p. 215, riga 23),
     13,34 (p. 217, riga 19), 18,16 (p. 263, riga 19), 18,17 (p. 264, riga 4), 18,50 (p. 281, riga 7),
    18,55 (p. 284, riga 9); Word-Index to Gitabhasya Sankara, ed. Francis X. D'Sa (Pune: Istituto per
     lo Studio della Religione, 1985). Anche cf. BU 2.1.20 (p. 744, riga 23), 2.4.2 (p. 767, riga 5),
     2.5.15 (p. 776, riga 12); Chu 6.15.2 (p. 537, riga 12), 8.1.6 (p. 571, riga 2); Katha 1.5.12 (p. 96,
     riga 1); Mundaka 1.2.12 (p. 153, riga 5), 2.2.7 (p. 162, riga 22); US 17,51-52.
     In un altro interessante e penetrante articolo, "The Path of No-path: Sankara and Dogen on the
    Paradox of Practice"(Philosophy East and West 38, no. 2 [Aprile 1988]), David Loy è giunto ad una
    conclusione erronea (p.133) che "non ci può essere nessuno strumento - nemmeno la Sruti – per    
    realizzare il Brahman. .." Ma se così fosse, non sarebbe possibile spiegare il concertato sforzo di
    Sankara nel commentare così meticolosamente la Sruti, e tale dichiarazione si propone anche per i
    numerosi riferimenti in cui egli afferma che la Sruti è il mezzo per conoscere il Brahman. Ed è
    proprio perché Sankara non vede altro modo per arrivare alla conoscenza dell’incondizionato
    Assoluto che egli fa ricorso alle sacre parole delle Upanisad come il mezzo per dissipare l'ignoranza
    dell’onnipresente Sé. Tra gli studiosi Occidentali, le visioni di Sankara sulla Sruti sono state assai  
    ben articolate da W. Halbfass nella sua discussione del ruolo della Sruti nel pensiero di Sankara;
    Vedere la sua ‘Tradizione e Riflessione’ (cit. alla nota 23), cap. 5.
50. Samadhana è menzionato in US 17,23-24. Cf. Tattvabodha (cit.alla nota 17), p. 7: "samadhanam
     kim? cittaikagrata".
51. US, 13,14, 17 e 14,35.
52. Ibid., 13.14.
53. Ibid., 15.14.
54. Il Sankhyakarika di Isvara Krishna, ed. e trad. di S.S. Suryanarayana Sastri (Madras: Università di
     Madras, 1973), vv. 20, 21, 66, 68.
55. US 16,39-40.
56. Cf. Pancadasi, di Sri Vidyaranya Swami, trad. Swami Swahananda (Madras: Sri Ramakrishna
     Math, 1975).
57. Ci sono due commentari sul Vivekacudamani: uno è di Harinathabatta, uno scrittore poco noto, e
    l’altro è un recente commentario di Sri Chandrasekhara Bharati, che fu il Sankaracarya di Sriagiri
    Matha dal 1912 al 1954. Cfr. R. Thangaswami, Advaita-Vedanta Literary: A Bibliographical Survey
   (Madras: Università di Madras, 1980), p. 218; Advaita Grantha Kosa, preparato da un discepolo di
    Sri Ista Siddhindra Saraswati Swami dell’Upanisad Brahmendra Mutt (Kancheepuram: p. nn, nd),
    p. 67. Forse il Vivekacudamani è esso stesso un lavoro di uno dei ‘Sankaracarya-Sringiri’?
58. Vivekacudamani (cit. n. 14), v. 364.
59. Ibid., V. 365.
60. Ibid., V. 357.
61. Vedantasara, o l'Essenza del Vedanta di Sadananda Yogindra, trad. di Swami Nikhilananda
    (Calcutta: Advaita Àshrama, 1974), p. 110.
62. Il Aparoksanubhuti è stato attribuito a Sankara, ma è improbabile che sia un’opera genuina. Vedi
     Encyclopedia of Indian Philosophies, ed. Karl Potter, vol. 3, Advaita Vedanta up to Sankara and
     his Pupils (Delhi: Motilal Banarsidass, 1981), p. 320. I quarantaquattro versi finali (su 144 versi)
     descrivono lo yoga. Qui, però, lo yoga è consapevolmente reinterpretato in una maniera Vedanta:
    "L’oblio completo di ogni pensiero che prima lo rende non-mutevole e quindi identificandolo con il
     Brahman, è chiamato ‘Samadhi’ noto come Conoscenza"(trad. di Vimuktananda, op. cit. in nota
     n.14 sopra, v.124). Il Sarvavedantasiddhantasarasangraha è un'altra opera, anch’essa probabile
    che non sia opera di Sankara. Vedi Thangaswami, Advaita-Vedanta Letter.(cit. al n. 57 sopra), p.
    220; Potter, Advaita Vedanta up to Sankara, p. 339; Advaita Grantha Kosa (cit. al n. 57 sopra), p.
    68. In questo lavoro troviamo di nuovo l'innesto del nirvikalpasamadhi-yoga sugli insegnamenti
    Vedanta. Si veda The Quintessence of Vedanta, trad. Swami Tattwananda (Emakulam: Sri Rama-
    Krishna Advaita Àshrama, 1960), pp. 171 ss.