CAPITOLO XXI
ANALISI DEI PROCESSI DEL PENSIERO
Tradotto in italiano da Silvana Ziviani
La diffusione dei testi tradotti è consentita in qualsiasi modo tranne che a fini di lucro
In questo capitolo esamineremo in modo più specifico e diretto come l’analisi della coscienza e l’analisi degli stati mentali possano contribuire al risveglio dell’intuizione e anche come tale analisi possa essere interpretata nella vita quotidiana al fine di cambiare la comprensione della situazione in cui ci troviamo.
Perché dunque analizzare i processi del pensiero o i processi della percezione? Per rispondere a questa domanda dobbiamo rammentarci che lo scopo principale dell’Abhidharma, è quello di facilitare la comprensione della natura ultima delle cose, che hanno tutte le tre caratteristiche universali di impermanenza, sofferenza e non sé. Nell’analisi dei processi di pensiero possiamo vedere chiaramente l’impermanenza e il non sé, come mostrano due analogie riportate dal Buddha. Il Buddha paragonò la durata di vita di un essere vivente a un punto preciso sulla ruota di un carro. Egli disse che, a rigore, un essere vivente dura solo il tempo che prende un pensiero a sorgere e a svanire, così come la ruota del carro, sia che giri o stia ferma, tocca il terreno in un solo punto. In questo contesto il momento passato è esistito, ma non esiste ora, né esisterà mai più in futuro; il momento presente esiste ora, ma non è esistito in passato né mai esisterà in futuro e il momento futuro, sebbene esisterà in futuro, non esiste ora né è esistito nel passato.
Il Buddha fa anche l’analogia con un re che non aveva mai sentito il suono di un liuto. Quando ne udì uno, chiese ai suoi ministri cos’era quella cosa così incantevole e affascinante. I ministri dissero che era il suono di un liuto. Il re chiese di averne uno e quando i ministri glielo portarono, il re chiese dov’era il suono. Quando i ministri gli spiegarono che il suono era prodotto dalla combinazione di vari fattori, il re disse che il liuto non valeva niente, lo ruppe con le sue mani e ne fece bruciare i pezzi e gettar via la cenere. Il re disse che ciò che i ministri chiamavano il suono del liuto non era rintracciabile da nessuna parte. Allo stesso modo in nessuno dei fattori fisici e mentali dell’esperienza (i fattori di forma, sensazione, percezione, volizione e coscienza) è rintracciabile un sé. Come il suono del liuto così i processi di pensiero sono privi di un sé.
L’analisi dei processi di pensiero la si applica specificamente all’area dello sviluppo mentale, della padronanza e del controllo degli oggetti dei sensi.
Abbiamo parlato in precedenza della sensibilità della mente verso gli oggetti dei sensi e abbiamo detto che la mente è continuamente soggetta a distrazioni che sorgono dal contatto con cose visibili, tangibili, con suoni, odori, gusti e oggetti tattili. Il Buddha stesso disse che uno o è conquistato dagli oggetti dei sensi o li conquista: in altre parole o uno è soggetto e controllato dagli stimoli sensoriali o cerca di dominarli. Nagarjuna una volta disse che anche un animale può vincere una battaglia, ma il vero eroe è colui che riesce a conquistare i momentanei e sempre mutevoli oggetti dei sensi.
Quando uno soggioga, domina e controlla gli oggetti dei sensi, diciamo che è vigile. La vigilanza è simile alla consapevolezza, che il Buddha indicò come una delle vie verso la liberazione. La mancanza di vigilanza è la sorgente della morte e della schiavitù nel samsara, mentre la vigilanza è la sorgente della non morte o Nirvana. Chi era prima incurante e poi diventa vigile, come Nanda e Angulimala, riesce a raggiungere il traguardo della liberazione.
Analizzare e comprendere come la coscienza percepisca e assimili l’oggetto dei sensi prepara la strada verso la Retta Comprensione dell’impermanenza e del non sé, e verso il controllo sui mutevoli oggetti dei sensi. Infine perfezioniamo la vigilanza, che è la chiave per mezzo della quale possiamo trasformare la nostra vita, facendola cambiare da una dominata dalle afflizioni a una purificata e nobile.
Possiamo cominciare l’analisi dei processi di pensiero esaminando il posto che essi hanno nella nostra esperienza. Paragoniamo la vita a un fiume che ha una sorgente e uno sbocco. Tra la vita e la morte, tra la sorgente del fiume e il suo sbocco vi è un continuum ma non un’identità. In termini abhidharmici la nascita o rinascita (patisandhi) è il fattore che “unisce” o “connette”, mentre il continuum vitale è il fattore “subconscio” (bhavanga) e la morte è il fattore della “disintegrazione” (chuti). Questi tre fattori hanno in comune il loro oggetto che è l’ultimo fattore conscio della vita precedente. E’ questo oggetto che li rende fattori di coscienza risultanti salutari o non salutari.
In questo contesto è importante tenere presente che bhavanga fluisce insieme al karma riproduttivo, che dà le caratteristiche generali a una particolare vita e la sostiene finché viene interrotta o si esaurisce.
Perciò il passato, presente e futuro di una vita sono uniti, non solo consciamente per mezzo di patisandhi, bhavanga e chuti, ma anche a livello subconscio dal solo bhavanga. Questo fattore subconscio di continuum vitale mantiene la continuità e sostiene la vita anche in assenza di processi di pensiero coscienti, come nel sonno senza sogni o in momenti di incoscienza come il coma. Tra l’uno e l’altro dei vari processi di pensiero coscienti, riappare nuovamente bhavanga, preservando così la continuità della vita.
Riassumendo, la nostra vita comincia con il fattore cosciente di unione o connessione (patisandhi), che ricollega la vita precedente a questa vita. E’ sostenuto durante tutto il corso di questa vita dal fattore subconscio del continuum vitale (bhavanga) e finisce con la disintegrazione (chuti) che di nuovo precede la connessione (sotto forma di patisandhi) con la vita seguente.
La coscienza, come contrapposizione a subcoscienza (bhavanga), sorge come un fenomeno di resistenza e vibrazione. In altre parole bhavanga rimane subconscia finché non viene interrotta o ostruita da un oggetto, come quando costruiamo una diga in un fiume, interrompendone così il corso o sottoponendo una corrente elettrica a resistenza in modo che appaia il fenomeno “luce”. Il contatto tra bhavanga e un oggetto procura una resistenza, che a sua volta risulta in vibrazione che sfocia infine in un processo di pensiero cosciente. I processi di pensiero che risultano da questa interruzione sono sia processi di pensiero fisici che operano attraverso le cinque porte dei sensi (occhi, orecchie, naso, lingua e corpo) sia processi di pensiero mentali che operano tramite la mente, il sesto organo dei sensi. I processi di pensiero fisici sono determinati dall’intensità, o impatto, dell’oggetto che causa l’interruzione del flusso del continuum vitale. Perciò più l’ostruzione è forte più lungo sarà il processo di pensiero e viceversa.
Ci sono quattro tipi di processi fisici di pensiero, che vanno da quello che si svolge in 17 momenti-pensiero a quello che non raggiunge neanche il punto di determinazione o identificazione dell’oggetto (meno di otto momenti-pensiero). Ci sono due tipi di processi mentali di pensiero, uno detto “chiaro” che arriva fino alla assimilazione, cioè allo stadio finale, del processo stesso, e l’altro detto “scuro” che finisce prima dello stadio finale di assimilazione. La maggiore o minore intensità e lunghezza del processo di pensiero dipendono dall’intensità dell’ostruzione nel flusso subconscio del continuum vitale.
Diamo un’occhiata ai 17 momenti-pensiero che formano il più lungo processo di pensiero sia fisico che mentale. Ricordiamo che ognuno di questi momenti-pensiero dura meno di un miliardesimo di un batter d’occhio. Per cui quando il Buddha disse che un essere dura quanto un momento-pensiero, si riferiva a un tempo estremamente breve. Il primo di questi momenti-pensiero è detto “entrata” e si riferisce a un oggetto che irrompe nella corrente del continuum vitale oppure al sorgere di un’ostruzione nel fiume della vita.
Il secondo momento è detto “vibrazione” perché la ripercussione di un oggetto sulla corrente del continuum vitale produce una vibrazione.
Il terzo è un momento di “arresto” perché a questo punto l’ostruzione interrompe o arresta la corrente del continuum vitale.
A questo punto ci si può chiedere come mai la corrente del continuum vitale (bhavanga), avente il proprio oggetto che forma la base del fattore di unione (patisandhi) e del fattore di disintegrazione (chuti), possa avere un oggetto secondario sotto forma di un oggetto materiale dei sensi. Ciò si spiega con un’analogia. Buddhagosha disse che se uno battesse su uno dei granelli di zucchero sparsi sulla superficie di un tamburo, causerebbe una vibrazione che raggiungerebbe una mosca posata su un altro granello sul tamburo; allo stesso modo gli oggetti materiali dei cinque sensi fisici hanno una ripercussione che fa vibrare bhavanga.
Una volta che questi tre momenti (entrata, vibrazione e arresto o interruzione) hanno avuto luogo, l’oggetto entra nella sfera cosciente attraverso il quarto momento-pensiero, chiamato della “coscienza risonante”. Nel caso di un processo fisico di pensiero, la coscienza risonante può essere di cinque tipi: occhio, orecchio, naso, lingua e corpo.
A questo succede il quinto momento, la coscienza “percipiente” che può essere di cinque tipi: coscienza dell’occhio, coscienza dell’orecchio, ecc.
Segue poi il sesto momento, la “coscienza ricevente”; il settimo, la “coscienza investigativa” e l’ottavo momento, la “coscienza determinante”. E’ la coscienza determinante che identifica e riconosce l’oggetto percepito.
Questa coscienza determinante è seguita da sette momenti di “coscienza-impulso” (javana), che ha la funzione di ‘attraversare’ l’oggetto assimilandolo così completamente nella coscienza. I momenti-pensiero dal nono al quindicesimo sono seguiti da due momenti di coscienza risultante o assimilativa, il che porta il tutto a 17 momenti-pensiero. I sette momenti di coscienza-impulso sono karmicamente attivi e possono essere salutari o non salutari. Anche i momenti di coscienza risultante o assimilativa possono essere sia salutari che non salutari.
In funzione della pratica, è importante sapere a che punto di questi 17 momenti-pensiero si è liberi di agire sia nel bene che nel male. I tre primi momenti di bhavanga sono risultanti. La coscienza risonante e la coscienza determinante (4 e 8) sono funzionali. La coscienza percipiente (5) è risultante. Quindi solo i sette momenti di coscienza-impulso (javana) (da 9 a 15) sono i primi momenti-pensiero karmicamente attivi. Il primo di questi sette momenti determina gli altri sei, per cui se è salutare anche gli altri saranno salutari e se non è salutare anche il resto non sarà salutare.
E’ al punto in cui la coscienza determinante (8) è seguita dai sette momenti-impulso che gli stati risultanti o funzionali diventano stati attivi. Questo è il punto più importante del processo di pensiero perché, anche se non si può alterare il carattere degli stati risultanti o funzionali, lo si può invece fare negli stati attivi, che hanno un potenziale salutare o non salutare. Perciò è estremamente importante la presenza della retta attenzione all’inizio del sorgere dei momenti javana. Se è presente la retta attenzione è più probabile che gli impulsi siano salutari, ma se è assente è più facile che prevalgano gli impulsi non salutari.
L’oggetto di questi 17 momenti-pensiero non è di per sé rilevante perché, sia esso desiderabile o spiacevole, comunque non determina la qualità salutare o non salutare dei sette momenti-impulso. A questo proposito è interessante ricordare il caso del Venerabile Tissa: avvenne che la nuora di una certa famiglia, avendo litigato col marito, indossasse i suoi vestiti migliori e tutti i gioielli che aveva e si mise in cammino per ritornare dalla sua famiglia. Quando incontrò il venerabile Tissa, avendo un carattere sfrontato, gli rise in faccia. Vedendo i suoi denti, il venerabile Tissa reagì con la percezione della repulsione del corpo e a causa della forza di questa percezione divenne immediatamente un arahat. Quando il marito della donna arrivò sul luogo, chiese a Tissa se avesse visto passare una donna, l’arahat replicò che non sapeva se era un uomo o una donna, ma sapeva di aver visto un mucchio di ossa che camminava lungo la strada. Questa storia sta a significare che qualunque sia la coscienza determinante, i sette momenti seguenti di coscienza impulso possono portare direttamente sia allo stato di arahat che a un ulteriore cumulo di momenti di coscienza che hanno un valore karmico non salutare. A un altro uomo che non fosse stato Tissa, la vista di una donna che ride avrebbe potuto suscitare impulsi radicati nella lussuria piuttosto che quelli che portano alla realizzazione dello stato di arahat.
Dato che la retta attenzione o la mancanza di essa determina il valore karmico dei momenti-impulso che seguono, dobbiamo sempre mantenere la retta attenzione per aumentare le probabilità che sorgano momenti-pensiero di coscienza salutare.
Vorrei concludere con una nota similitudine che Buddhagosha usa ne “La via della purificazione” (Visuddhi Magga) per illustrare i 17 momenti di coscienza del processo-pensiero. Mettiamo che un uomo si sia addormentato ai piedi di un mango pieno di frutti maturi. Un mango maturo si stacca dall’albero e cade a terra. Il suono del mango che cade a terra stimola l’orecchio dell’uomo addormentato, che si sveglia, apre gli occhi e vede il frutto per terra non lontano da lui. Allunga il braccio e prende in mano il frutto. Lo stringe, lo annusa e poi lo mangia. L’intero processo illustra i 17 momenti di percezione di un oggetto fisico. Il suono del mango che cade si ripercuote nelle orecchie dell’uomo analogamente ai tre momenti di bhavanga: entrata, vibrazione e interruzione. Quando l’uomo usa gli occhi e scopre il mango è analogo ai momenti di coscienza risonante e percipiente; quando allunga la mano per prendere il frutto, al momento della ricezione; quando stringe in mano il mango corrisponde al momento investigativo; quando lo odora al momento determinante; quando lo mangia e lo gusta ai sette momenti di coscienza-impulso; e anche se Buddhagosha non ne parla, aggiungiamo che quando digerisce il frutto corrisponde ai due momenti risultanti di assimilazione.
Se esaminiamo attentamente i processi-pensiero e se siamo in grado di controllarli con la retta attenzione, avremo una profonda comprensione della natura ultima delle cose, che si riveleranno impermanenti e non sé. Questa analisi può portare anche a dominare gli oggetti dei sensi, e questo avrà come risultato distacco, gioia e libertà.
Dobbiamo perciò applicare alla nostra esperienza quotidiana la conoscenza che acquistiamo sulla natura mutevole, condizionata e impermanente dei processi di pensiero e percezione, al fine di promuovere quella comprensione e quella retta attenzione che ci danno la possibilità di moltiplicare i momenti di potenziale karmico salutare e minimizzare quelli di potenziale karmico non salutare. Se siamo capaci di farlo, significa che siamo riusciti ad estendere lo studio dell’Abhidharma dalla pura sfera intellettuale a quella pratica ed esperienziale.
CAPITOLO XXII
ANALISI DELLA MATERIA
Tradotto in italiano da Silvana Ziviani
La diffusione dei testi tradotti è consentita in qualsiasi modo tranne che a fini di lucro
L’Abhidharma tratta le quattro realtà ultime: coscienza (citta), stati mentali (cetasika), materia (rupa) e Nirvana. La materia, come anche la coscienza e gli stati mentali, sono realtà condizionate mentre il Nirvana è una realtà incondizionata. Considerare le tre realtà condizionate è come considerare i cinque aggregati dell’esistenza psico-fisica.
Questo ci riporta a quanto detto nel capitolo XVII circa il rapporto tra soggetto e oggetto, tra mente e materia. Entrambi questi schemi possono essere ridotti a due elementi: l’elemento mentale o soggettivo e l’elemento materiale o oggettivo. Da una parte c’è la mente e gli stati mentali: coscienza, volizione, percezione e sensazione, e dall’altra abbiamo l’oggetto: forma e materia.
Nel contesto dell’Abhidharma bisogna ricordare che la materia non è separata dalla coscienza; mente e materia possono essere considerate semplicemente le forme soggettiva e oggettiva dell’esperienza. Vedremo meglio la validità di questa asserzione quando considereremo le quattro basi della materia (terra, acqua, fuoco e aria), viste come qualità piuttosto che come sostanza della materia. Dato l’approccio fenomenologico buddhista dell’esistenza, la materia è importante solo perché, come oggetto di esperienza, influenza il nostro essere psicologico. Mentre gli altri sistemi sostengono un dualismo assoluto e radicale, una dicotomia tra mente e materia, nel buddhismo abbiamo semplicemente forme di esistenza soggettive e oggettive.
L’Abhidharma classifica e ordina la materia suddividendola in 28 elementi. I quattro elementi primari, o quattro basi della materia, sono semplicemente chiamati terra, acqua, fuoco e aria. Tuttavia sarebbe meglio chiamare la terra “principio di estensione o resistenza”; l’acqua “principio di coesione”; il fuoco “principio di calore” e l’acqua “principio di movimento o oscillazione”. Queste sono le componenti elementari della materia e da esse derivano i cinque organi dei sensi fisici e i loro oggetti.
In questo contesto, come in quello dei cinque aggregati, la materia non è solo quella dei nostri corpi, ma di tutti gli oggetti fisici dell’esperienza che fanno parte del mondo esterno. Oltre agli organi e ai loro oggetti, la materia è presente anche nella mascolinità e femminilità, nel cuore o principio di vitalità e nel nutrimento. Ci sono sei ulteriori elementi di materia: principio di limite o spazio, due principi di comunicazione (comunicazione corporea e verbale), leggerezza, morbidezza e duttilità. Infine ci sono quattro elementi chiamati “caratteristiche”: produzione, durata, distruzione e impermanenza.
Quindi le componenti della materia (o più precisamente dell’esperienza materiale) sono 28 in tutto: le quattro basi, i cinque organi dei sensi ed i loro rispettivi cinque oggetti, le due dimensioni della sessualità, vitalità, nutrimento, spazio, due forme di comunicazione, leggerezza, morbidezza, duttilità e le quattro caratteristiche.
Osserviamo meglio i quattro fondamenti della materia dal punto di vista della loro realtà come qualità sensorie. E’ importante tener presente che quando parliamo dei quattro elementi primari della materia, non li vediamo come terra, acqua, fuoco e aria di per sé, ma qualità sensorie di questi elementi, cioè la qualità che possiamo sentire e che quindi rende possibile l’esperienza della materia. Perciò abbiamo a che fare con qualità sensorie quali durezza e morbidezza che appartengono al principio di estensione, e di caldo e freddo che appartengono al principio del calore. Non parliamo di essenza ma di qualità che possono essere sperimentate.
E questo a sua volta significa che stiamo trattando l’aspetto puramente fenomenologico della materia, in cui le qualità sensorie funzionano da caratteristiche definitive della materia. E sono queste qualità sensorie che costituiscono la realtà ultima. In altre parole, non è né il tavolo né il mio corpo che rendono possibile l’esperienza della materia, ma le qualità sensorie di durezza e morbidezza, che appartengono sia al tavolo che al mio corpo. In questo contesto, gli oggetti della mia esperienza (tavolo, corpo) sono realtà convenzionali, mentre le qualità sensorie di durezza, morbidezza, ecc., che portano all’esperienza della materia, sono realtà ultime.
In filosofia viene chiamata “visuale modale”, una visuale che si concentra sulle qualità dell’esperienza piuttosto che sull’essenza dell’esperienza. Cercare l’essenza della materia vuol dire entrare nella sfera della speculazione, andando oltre l’esperienza empirica, mentre osservare le qualità della materia è rimanere nel campo dei fenomeni, dell’esperienza. E’ interessante notare che questa visuale modale della materia è condivisa da alcuni filosofi moderni, tra cui il più noto è forse Bertrand Russell. Ed è sempre questa visuale modale della realtà che sta alla base di gran parte del pensiero contemporaneo sulla materia. Gli scienziati sono giunti a riconoscere che la materia è un fenomeno, che è impossibile arrivare all’essenza della materia e questo è stato convalidato dalla scoperta dell’infinita divisibilità dell’atomo.
La visuale modale della realtà ha anche un’altra importante implicazione: prendendo visione della realtà, dell’esistenza puramente fenomenologica ed esperienziale, non sorge il problema del mondo esterno, nel senso di una realtà che sta in qualche posto “fuori”, oltre i limiti della nostra esperienza. In quanto il mondo esterno rende possibile l’esperienza della materia, esso è solo la dimensione obiettiva o materiale della nostra esperienza, non una realtà indipendente che esiste di per sé.
A livello personale vediamo che la nostra esistenza psico-fisica è formata da due componenti: la componente mentale o mente, e la componente fisica o corpo. La mente e il corpo hanno una natura alquanto diversa, soprattutto perché la mente è più duttile e mutevole del corpo. Il Buddha disse che è più comprensibile identificarsi col proprio corpo che considerare la mente il proprio sé, in quanto il corpo almeno mantiene a lungo dei tratti riconoscibili. Possiamo verificarlo attraverso l’esperienza personale. La mente cambia molto più velocemente del corpo. Per esempio, posso prendere la risoluzione di non mangiare cibi farinacei o grassi, ma ci vuole un bel po’ prima che questo cambiamento mentale si rifletta sulla forma del corpo. Il corpo resiste ai cambiamenti molto più della mente e questo ha a che fare con la caratteristica dell’elemento terra, che si manifesta nel principio di resistenza. Il corpo è il prodotto del karma passato, della passata coscienza ed è allo stesso tempo la base della coscienza presente. Questo spiega il disagio profondo che molti intellettuali provano nei riguardi del corpo. Un famoso filosofo, Plotino, una volta disse che si sentiva prigioniero nel proprio corpo, che egli considerava una tomba.
Talvolta vorremmo sedere più a lungo in meditazione, ma non possiamo a causa del disagio che il corpo ci procura per il fatto stesso di esserci. Certe volte vorremmo continuare a lavorare (o a stare svegli per guardare un particolare programma in TV), ma non possiamo a causa della stanchezza proveniente dal corpo. C’è tensione tra mente e corpo, perché il corpo è la materializzazione del karma passato; e siccome ha la caratteristica di resistenza, risponde più lentamente della mente alle azioni volontarie. Il corpo perciò è, in un certo senso, d’ostacolo allo sviluppo mentale.
Possiamo veder ciò nel caso di esseri liberati. Nel libro “Domande del Re Milinda” il re chiede a Nagasena se gli arahat possono sperimentare dolore. Nagasena risponde che, sebbene gli arahat non sperimentino più la sofferenza mentale possono però sentire il dolore fisico. Gli arahats non sentono la sofferenza mentale perché le basi per sentirla (avversione, ostilità, odio) non ci sono più; però possono sperimentare il dolore fisico fino a che è presente la base di esso, cioè il corpo. Fino a che un arahat non entra nel Nirvana finale (“Nirvana senza residui”, senza la personalità psico-fisica), rimane la possibilità del dolore fisico. E’ per questo che, nella storia della vita del Buddha e dei suoi discepoli principali, ci furono dei momenti in cui essi provarono dolore fisico. Il corpo occupa una posizione intermedia, speciale, in quanto è il prodotto della coscienza passata e la base di quella presente. Questa posizione intermedia si riflette anche nel fatto che alcune funzioni corporali sono coscienti e possono essere controllate dalla volontà, mentre altre sono inconsce ed automatiche. Si può decidere di mangiare altro cibo, ma è una funzione fisica inconscia quella che lo digerisce o non lo digerisce; non posso costringere il corpo a digerirlo.
Anche il respiro è rappresentativo di questa posizione intermedia del corpo, perché può avere sia una funzione inconscia oppure può essere portato a livello conscio e volitivo allo scopo di concentrare e calmare il corpo e la mente.
Parlando della nostra esistenza fatta di mente e corpo, dobbiamo tener presente che la mente rappresenta il principio dinamico, fluido, volitivo, mentre il corpo rappresenta il principio di resistenza. E’ per questa ragione che il corpo non può cambiare così velocemente come la mente durante il processo di sviluppo e liberazione.
CAPITOLO XXIII
ANALISI DELLA CONDIZIONALITÀ
Tradotto in italiano da Silvana Ziviani
La diffusione dei testi tradotti è consentita in qualsiasi modo tranne che a fini di lucro
L’analisi delle relazioni o condizionalità è importante quanto l’analisi della coscienza e degli altri aspetti dell’esperienza psico-fisica che abbiamo considerato negli ultimi capitoli. E’ un’analisi spesso trascurata nello studio dell’Abhidharma, cosa abbastanza paradossale se si pensa che, dei sette libri che compongono l’Abhidhamma Pitaka, il Libro delle Relazioni Causali (Patthana) che tratta della condizionalità, è uno dei più lunghi. Solo prestando la dovuta attenzione all’analisi della condizionalità, potremo evitare il rischio di una visuale della realtà eccessivamente analitica. Vi ho già alluso nel capitolo XVI, quando ho fatto l’esame e il paragone tra i metodi analitico e relazionale di investigazione, che messi insieme formano l’approccio globale della filosofia abhidharmica.
Alcuni studiosi hanno definito la filosofia abhidharmica “pluralismo realistico”, forse perché l’approccio analitico ha ricevuto più attenzione di quello relazionale. Questa definizione suscita molti tipi di somiglianze con i movimenti della filosofia moderna occidentale, quali il positivismo e le opere di Bertrand Russell. Porta alla conclusione che il risultato dell’analisi buddhista è un universo in cui vari individui, entità separate e indipendenti esistono di per sé e in senso ultimo.
Questa è forse stata l’idea di alcune scuole del primitivo buddhismo in India, ma certamente non lo è del buddhismo in generale, sia Theravada che Mahayana.
Il solo modo di evitare questa visione pluralistica e frammentaria della realtà è prendere in considerazione l’approccio relazionale messo in evidenza nel Patthana e ulteriormente sviluppato nel Compendio delle Relazioni (Abhidhammattha Sangaha). Solo così potremo avere una visione corretta ed equilibrata della filosofia buddhista, una visione che considera sia l’aspetto analitico dell’esperienza che quello dinamico e relazionale.
L’importanza di comprendere le relazioni o le condizionalità è espressa nelle parole stesse del Buddha, il quale in varie occasioni associò chiaramente la comprensione della condizionalità o Origine interdipendente con la realizzazione della liberazione. Disse che è proprio perché non abbiamo capito l’Origine interdipendente che andiamo vagando da tempo immemorabile nel ciclo delle continue rinascite. Spesso si dice che l’illuminazione del Buddha consistette nella conoscenza penetrativa dell’Origine interdipendente. Questa stretta connessione tra Origine interdipendente e illuminazione è ulteriormente illustrata dal fatto che l’ignoranza è quasi sempre definita ignoranza delle Quattro Nobili Verità o ignoranza dell’Origine interdipendente, sia nei Sutra che nell’Abhidharma.
Ora, il tema comune alle Quattro Nobili Verità e all’Origine interdipendente è la condizionalità o causalità, la relazione tra causa e effetto. Perciò la conoscenza della condizionalità equivale a distruggere l’ignoranza e ad ottenere l’illuminazione.
Nella tradizione abhidharmica, l’analisi della condizionalità si svolge in due modi: attraverso l’analisi dell’Origine interdipendente e l’analisi delle 24 condizioni. Li analizzeremo prima separatamente e poi insieme per mostrare come essi interagiscono e si sostengono reciprocamente.
Non spiegherò qui in dettaglio e singolarmente le dodici componenti ( che sono: ignoranza, volizione, coscienza, nome e forma, sei sfere dei sensi, contatto, sensazione, bramosia, attaccamento, divenire, nascita, vecchiaia e morte) dell’Origine interdipendente, poiché le ho già descritte nel capitolo X del saggio precedente, ma vorrei ricordare i tre schemi principali per l’interpretazione delle dodici componenti: a) lo schema che divide e distribuisce le dodici componenti nel corso di tre vite: passata, presente e futura; b) lo schema che le divide in: afflizioni (ignoranza, bramosia, attaccamento), azioni (volizione, divenire) e sofferenza (coscienza, nome e forma, sei sfere dei sensi, contatto, sensazione, nascita, vecchiaia e morte) e c) lo schema che le divide in categorie attive (o causali) e reattive (o risultanti). In questo terzo schema, ignoranza, formazioni mentali o volizione, bramosia, attaccamento e divenire appartengono alla categoria causale e sia alla vita passata che presente, mentre coscienza, nome e forma, sei sensi, contatto, sensazione, nascita, vecchiaia e morte appartengono alla categoria degli effetti e alla vita presente o futura. Quindi nella formula dell’Origine interdipendente c’è un’analisi di causa ed effetto (o condizionalità).
Le 24 condizioni non si escludono a vicenda. Molte di esse sono parzialmente o interamente identificabili con le altre. La sola spiegazione del perché in molti casi ci sono fattori quasi (o completamente) identici sta nel desiderio degli autori di essere totalmente esaurienti in modo da evitare anche la più remota possibilità di tralasciare un modo di condizionalità.
Le 24 condizioni sono: 1. Causa; 2. Condizione obiettiva; 3. Predominanza; 4. Contiguità; 5. Immediatezza; 6. Origine simultanea; 7. Reciprocità; 8. Sostegno; 9. Sostegno deciso; 10. Preesistenza; 11. Post-esistenza; 12. Ripetizione; 13. Karma; 14. Effetto; 15. Nutrimento; 16. Controllo; 17. Assorbimento; 18. Via; 19. Associazione; 20. Dissociazione; 21. Presenza; 22. Assenza; 23. Separazione e 24. Non-separazione.
Bisogna fare una distinzione fra causa o causa-radice e condizione. Per far questo è necessario riferirsi alla letteratura abhidharmica, perché nei sutra i due termini vengono usati in modo intercambiabile. In generale possiamo capire questa distinzione facendo un’analogia col mondo fisico: il seme è la causa del germoglio, mentre i fattori quali acqua, terra e sole sono le condizioni affinché il seme germogli. Nell’analisi abhidharmica della condizionalità, la causa opera a livello mentale e si riferisce alle sei radici salutari e non salutari: non-bramosia, non-odio e non-illusione con i loro opposti: bramosia, odio e illusione.
La condizione obiettiva si riferisce generalmente all’oggetto che condiziona l’esistenza. Per esempio un oggetto visivo è la condizione oggettiva della coscienza visiva. Predominanza si riferisce a quattro categorie di attività mentali o volizionali: desiderio, pensiero, sforzo e ragione che hanno un’influenza dominante sui fattori dell’esperienza.
Contiguità e Immediatezza sono praticamente sinonimi e si riferiscono al condizionamento di un momento-pensiero da parte del momento-pensiero immediatamente precedente. Si riferiscono anche al condizionamento di un dato stato mentale o materiale da parte di uno stato mentale o materiale immediatamente precedente. Possiamo capirli meglio se pensiamo a contiguità e immediatezza nel senso di prossimità immediata rispettivamente nel tempo e nello spazio.
Origine simultanea: la si può vedere negli aggregati mentali di coscienza, volizione, percezione, sensazione e anche nelle quattro basi della materia (terra, acqua, fuoco e aria). Reciprocità o mutualità si riferisce alla mutua dipendenza e sostegno dei fattori tra di loro, come nel caso delle gambe di un tripode che si sostengono a vicenda e dipendono una dall’altra. Sostegno significa la base di ogni singolo fattore, come ad esempio la terra sostiene l’albero o la tela sostiene il dipinto. Ma quando il semplice sostegno diventa sostegno decisivo va inteso nel senso che porta verso una certa direzione. Sarà più chiaro quando esamineremo il modo in cui i 24 tipi di condizionalità funzionano in rapporto alle dodici componenti dell’Origine interdipendente.
Pre-esistenza o antecedenza si riferisce alla pre-esistenza di fattori che continuano ad esistere anche dopo la manifestazione di fattori posteriori. Un esempio è la preesistenza degli organi dei sensi e degli oggetti dei sensi che continuano ad esistere, condizionando così ulteriori esperienze fisiche e mentali.
Post-esistenza è complementare alla preesistenza e si riferisce all’esistenza di fattori posteriori come l’esperienza mentale e fisica che condiziona i fattori preesistenti, quali gli organi dei sensi e gli oggetti dei sensi.
Ripetizione è importante nella vita mentale e porta capacità o familiarità. Questo è esemplificato nei sette momenti di coscienza-impulso (vedi cap. XXI). La ripetizione è particolarmente importante nella sfera delle azioni salutari e non salutari, poiché aumenta la forza del momento-pensiero sia salutare che non salutare.
Karma è un’azione conscia sia salutare che non salutare. Effetto o risultato indica che l’aspetto reattivo del karma precedente influenza e serve a condizionare il fenomeno co-esistente. E’ interessante notare che, in misura limitata, anche gli effetti fungono da condizioni o da cause. E ciò risulta più evidente se ricordiamo che stiamo considerando la definizione di questi fattori in senso funzionale piuttosto che ontologico.
Nutrimento si riferisce non solo al cibo materiale, che è una delle condizioni del corpo fisico, ma anche al cibo mentale, quali le impressioni che sono il nutrimento dell’aggregato delle sensazioni. Controllo si riferisce alle cinque facoltà di controllo (fiducia, consapevolezza, sforzo, concentrazione e saggezza) che dominano o controllano i loro opposti.
Assorbimento non solo nella meditazione ma anche assorbimento in senso più generale, e che può essere sia salutare che non salutare. Ricorderete che i fattori d’assorbimento (jhananga) non sono necessariamente salutari e appartengono non solo agli stati di assorbimento meditativo, ma più in generale ad una condizione di intensificazione della coscienza, sia salutare che non salutare (vedi cap. XVIII). Via si riferisce sia alla via che porta a stati mentali infelici che comprendono idee errate, errato sforzo, eccetera sia a quella dell’Ottuplice Nobile Sentiero. Associazione si riferisce al condizionamento di un fattore per mezzo di un fattore simile, mentre dissociazione è il condizionamento per mezzo di un fattore dissimile, come dolcezza e amarezza, luce e buio che si condizionano a vicenda. Quindi la condizionalità non è solo in senso positivo ma anche negativo. In altre parole, un particolare fattore d’esperienza è condizionato non solo da fattori simili, ma anche da fattori dissimili.
Presenza si riferisce alla necessità che certe condizioni esistano affinché certi altri fenomeni avvengano. Per esempio, ci deve essere luce affinché avvenga l’esperienza di una forma visibile. Assenza è come la dissociazione, una forma di condizionalità in senso negativo. Per esempio l’estinzione della luce è una condizione per il sorgere del buio. Separazione e non-separazione sono identiche a dissociazione e associazione rispettivamente.
I 24 modi di condizionalità operano congiuntamente alle dodici componenti dell’Origine interdipendente. Per esempio, ignoranza, la prima delle dodici componenti condiziona la volizione, che è la seconda componente, per mezzo di due modi di condizionalità: condizione oggettiva e sostegno decisivo. Lo si può spiegare nel seguente modo: la volizione può essere meritevole o immeritevole, vantaggiosa o svantaggiosa e l’ignoranza funziona da sostegno decisivo per entrambe. L’ignoranza funziona da sostegno decisivo condizionando la volizione meritevole, se la si prende come oggetto di meditazione, in quanto il desiderio di liberarsi dall’ignoranza induce alla pratica della meditazione, e così via. In modo opposto, se uno stato mentale non salutare quale la bramosia (che nasce dall’ignoranza) diventa oggetto di assorbimento, allora l’ignoranza funziona da sostegno decisivo di una volizione immeritevole. Se poi commettete un’azione non salutare (diciamo rubare un biscotto), è perché l’ignoranza ha funzionato come condizione di sostegno decisivo, inducendovi a creare quella volizione non salutare, su cui si è basata l’azione non salutare. L’ignoranza può condizionare la volizione anche per mezzo di contiguità, ripetizione, ecc.
La volizione (la seconda componente dell’Origine interdipendente) condiziona la coscienza di rinascita (la terza componente) per mezzo del karma e del sostegno decisivo, mentre la coscienza condiziona nome e forma (la quarta componente) per mezzo della reciprocità e anche del sostegno. In tal modo ognuna delle dodici componenti condiziona la componente successiva in un modo particolare, identificabile nei termini delle 24 condizioni. Potremmo citare altri esempi, ma non farebbero che reiterare la modalità in cui i 24 modi di condizionalità condizionano le dodici componenti dell’Origine interdipendente.
L’idea centrale dell’insegnamento dell’Origine interdipendente come anche dell’insegnamento della condizionalità sta nell’evitare i due estremi, cioè l’errata idea dell’eternalismo e quella del nihilismo. Il Buddha disse che è un estremo vedere che chi fa un’azione e chi ne sperimenta il frutto siano identici, ma è un estremo anche vederli diversi. Per evitare questi due estremi insegnò la Via di Mezzo che emerge dalla comprensione dell’Origine interdipendente e della condizionalità.
Se esaminiamo i dodici fattori dell’Origine interdipendente alla luce dei 24 modi di condizionalità, scopriamo che in tutti i dodici fattori non c’è un sé, ma ci sono solo processi condizionati da altri processi; processi che sono, nella loro vera natura vuoti di un sé o di sostanza. Questa comprensione della vacuità del sé o sostanza si ottiene con la comprensione della condizionalità.
E’ in questo senso che la coscienza appartenente a questa vita e quella appartenente alla prossima vita non sono né identiche né diverse. Quando capiamo il rapporto tra questa e la prossima vita (tra chi fa un’azione e chi la sperimenta), come una cosa che non può essere descritta né in termini di identità né di differenza, arriviamo alla comprensione della Via di mezzo.
Il rapporto tra questa e la prossima vita è un rapporto di causa ed effetto, e non è né di identità né di differenza. In tal modo possiamo evitare i due estremi, quello di credere in un sé eterno e quello di rifiutare la legge della responsabilità morale o karma.
Possiamo meglio chiarire questo rapporto condizionato tra causa ed effetto ricorrendo ad un esempio tratto dalla vita quotidiana. Prendiamo il caso del seme e del germoglio. Il germoglio ha origine in dipendenza dal seme, ma il germoglio e il seme non sono né identici né diversi. E’ chiaro che non sono identici ma che neanche sono totalmente diversi. Per esempio, quando un suono produce un’eco, i due non sono identici ma non sono neanche diversi completamente. Allo stesso modo questa e la prossima vita non sono né identiche né differenti; la prossima vita sorge in dipendenza da questa vita, dalla volizione e dall’ignoranza.
In questo processo di origine condizionata non vi è un sé duraturo, permanente e identico, ma non c’è neanche un annullamento della continuità del processo di causa ed effetto. Se riusciamo a comprendere il rapporto tra causa (o condizione) ed effetto (o risultato) come un rapporto che non può essere descritto in termini di identità e differenza, permanenza e annullamento, comprenderemo la vacuità, la Via di Mezzo e come il non sé e la non sostanzialità sono compatibili con la responsabilità morale e con la rinascita.
CAPITOLO XXIV
I 37 FATTORI DI ILLUMINAZIONE
Tradotto in italiano da Silvana Ziviani
La diffusione dei testi tradotti è consentita in qualsiasi modo tranne che a fini di lucro
I 37 fattori d’illuminazione (bodhipakkhiya dhamma) sono importanti per due ragioni. Primo, stando alla tradizione, il Buddha stesso poco prima di entrare nel Nirvana finale, li raccomandò come i mezzi principali per raggiungere l’illuminazione. Secondo, questi fattori sono una parte fondamentale dell’Abhidharma, in quanto appartengono, come l’insegnamenti dei cinque aggregati, a quella categoria di insegnamenti che comprende i contenuti abhidharmici del Sutra Pitaka.
Nel capitolo XIV abbiamo parlato delle caratteristiche dell’Abhidharma e del rapporto tra il materiale abhidharmico e il contenuto dei discorsi o sutra. I fattori di illuminazione appartengono a questa categoria di materiale, che ha natura abhidharmica anche se si trova nei discorsi. Perciò appartengono al primo periodo della filosofia abhidharmica.
Senz’altro i 37 fattori di illuminazione sono di natura abhidharmica. Si possono applicare ad essi tutte e cinque le caratteristiche del materiale abhidharmico: 1. Definizione dei fattori; 2. Relazione tra di loro dei fattori; 3. Analisi dei fattori; 4. Classifica dei fattori; 5. Sistemazione in ordine numerico (vedi capitolo I).
I 37 fattori sono divisi in sette gruppi: a) le quattro basi della consapevolezza (satipatthana), b) i quattro retti sforzi (sammappadana), c) le quattro vie di potere (iddhipada), d) le cinque facoltà di controllo (indriya), e) i cinque poteri (bala), f) i sette rami d’illuminazione (bojjhanga), g) il Nobile Ottuplice Sentiero (atthangika magga).
Siccome abbiamo già considerato i quattro retti sforzi e il Nobile Ottuplice sentiero nei capitoli V, VI e VII del saggio precedente, non parlerò di questi due gruppi soffermandomi solo sugli altri cinque gruppi.
Il Buddha disse che la consapevolezza o presenza mentale è la sola via per l’eliminazione delle afflizioni, e affermò anche che la mente è la sorgente di ogni virtù. Quindi la pratica più importante è disciplinare la mente. L’importanza della consapevolezza è messa in evidenza anche dal fatto che appare in ben cinque dei sette gruppi che formano i 37 fattori di illuminazione e che il primo di questi gruppi è dedicato interamente alle quattro basi della consapevolezza (satipatthana). Inoltre il Satipatthana Sutta (Discorso sulle basi della consapevolezza) in cui si insegna la consapevolezza, ricorre due volte nel Canone pali. Tutto ciò indica la sua importanza.
Negli ultimi anni c’è stata una grande rinascita d’interesse per le quattro basi della consapevolezza, sia nella tradizione Theravada specialmente in Birmania, che nella tradizione Mahayana in cui le quattro basi della consapevolezza vengono considerate una parte importante della pratica di meditazione. Una delle ragioni per cui queste quattro basi di consapevolezza hanno avuto tanta importanza nella meditazione buddhista è perché portano alla realizzazione delle tre caratteristiche universali (impermanenza, sofferenza, non sé). Diventerà chiaro il modo in cui ciò funziona considerando quali sono le quattro basi: 1) consapevolezza del corpo; 2) consapevolezza delle sensazioni; 3) consapevolezza della coscienza; 4) consapevolezza degli oggetti mentali.
La consapevolezza del corpo, nel satipatthana, è più globale di quella applicata al contesto dei 40 tradizionali sostegni alla meditazione, in cui è una delle dieci contemplazioni, ma è limitata solo al corpo. Qui la consapevolezza non si applica solo al corpo, ma anche al processo di inalazione ed esalazione del respiro, agli elementi della materia, alla decomposizione del corpo, ecc.
La consapevolezza delle sensazioni si riferisce al contenuto emotivo della propria esperienza personale, alle sensazioni piacevoli, spiacevoli o indifferenti.
La consapevolezza della coscienza, o più precisamente la consapevolezza del pensiero, implica l’osservazione del sorgere e sparire dei pensieri.
La consapevolezza degli oggetti mentali si riferisce al contenuto della coscienza, e particolarmente ai concetti come impermanenza e simili.
La prima base della consapevolezza comprende la dimensione materiale dell’esperienza personale, mentre le altre tre riguardano la dimensione mentale (cioè gli aggregati di coscienza, volizione, percezione e sensazione). La perfetta applicazione della consapevolezza ha come risultato l’abbandono delle tre visuali erronee (permanenza, felicità e sé) e l’intuizione profonda delle tre caratteristiche universali (impermanenza, sofferenza e non sé).
Gli oggetti delle quattro basi di consapevolezza vengono interpretati diversamente a seconda delle tradizioni di meditazione buddhista, ma la precedente spiegazione dovrebbe essere accettabile dalla maggior parte delle tradizioni.
Consideriamo ora le quattro vie di potere (iddhipada): 1) voglia o desiderio; 2) energia; 3) mente o pensiero; 4) ragionamento. Questi quattro fattori si trovano anche nei 24 modi di condizionalità (vedi capitolo XXIII) in cui sono chiamati “condizioni predominanti” (adhipati). Entrambe, sia le “vie del potere” che le “condizioni predominanti” suggeriscono chiaramente il potere che ha la mente di influenzare l’esperienza.
Un semplice esempio è la capacità di controllare, fino a un certo punto, i movimenti del corpo e l’esercizio della parola. E’ un caso di potere non sviluppato della mente, del desiderio, dell’energia e del ragionamento per controllare dei fenomeni fisici.. Quando questi fattori predominanti vengono rafforzati, coltivando i cinque fattori d’assorbimento (applicazione iniziale, applicazione sostenuta, interesse, felicità, concentrazione) - e particolarmente intensificando la concentrazione, cosa che avviene quando si raggiunge il quinto grado di assorbimento della sfera della forma - allora diventano vie di potere.
Rafforzare i fattori predominanti porta a quelli che vengono chiamati tipi mondani di super conoscenza e alla conoscenza sopramondana.
Ci sono cinque tipi di super conoscenza mondana: la capacità di volare nel cielo a gambe incrociate, di camminare sull’acqua, di muoversi dentro alla terra, di leggere i pensieri degli altri e di ricordare le proprie vite passate. La conoscenza sopramondana è la conoscenza della distruzione delle impurità (asava), dell’ignoranza, eccetera. Forse è per questo che si dice spesso che le quattro condizioni predominanti possono essere sia mondane che sopramondane. Se sono dirette verso la sfera mondana, risultano nei cinque tipi di super conoscenza mondana, mentre se sono dirette verso la sfera sopramondana, o Nirvana, risultano nella penetrazione delle Quattro Nobili Verità e nella distruzione delle impurità.
Come le quattro Vie di potere, così anche le cinque facoltà di controllo (indriya): fede, energia, consapevolezza, concentrazione e saggezza, si trovano nei 24 modi di condizionalità. Nel Libro delle relazioni causali (Patthana) le cinque Facoltà di controllo vengono definite fattori dominanti. Sono strettamente collegate alle quattro Vie del potere, come è dimostrato dalla loro mutua presenza nei modi di condizionalità e dal fatto che entrambe controllano, dominano e disciplinano. Le cinque facoltà si dicono di “controllo” perché controllano e dominano i loro opposti: la fede (o fiducia) controlla la mancanza di fede (o dubbio); l’energia controlla l’indolenza; la consapevolezza controlla la disattenzione; la concentrazione controlla l’irrequietezza e la saggezza controlla l’ignoranza.
Come per le quattro Vie di potere, così anche le facoltà di controllo possono controllare i loro opposti solo se sono rafforzate dai fattori di assorbimento. Per esempio, la fede funziona da facoltà di controllo solo se rafforzata dalla presenza dei tre fattori di assorbimento di interesse, felicità e concentrazione; e la saggezza funziona efficacemente solo quando è rafforzata dall’applicazione iniziale, dall’applicazione sostenuta e dalla concentrazione. I cinque fattori di assorbimento danno forza ed energia alle cinque facoltà di controllo in modo che queste funzionino realmente da fattori propulsivi verso l’illuminazione. I cinque fattori di assorbimento e le cinque facoltà di controllo si potenziano a vicenda. Per esempio la concentrazione rafforza l’interesse e la felicità. Può quindi dirsi che il loro è un rapporto di mutuo sostegno e potenziamento.
Sebbene le cinque facoltà di controllo siano indispensabili per trasformare un’esistenza dubbiosa, letargica, disattenta, agitata e ignorante in un’esistenza illuminata, esse devono essere coltivate in modo equilibrato. Ciò vuol dire che tra le facoltà di controllo ci sono dei fattori che si equilibrano a vicenda. Per esempio fede e saggezza formano una coppia; se si lascia che la fede domini la saggezza, ne risulta un indebolimento delle capacità critiche, del potere intellettuale di analisi e indagine; se però si lascia che la saggezza domini la fede, la fiducia diminuirà fino al punto da diventare incertezza e mancanza di incentivo a praticare. Ugualmente se si lascia che l’energia domini la concentrazione ci sarà agitazione, e se invece prevale la concentrazione ciò porterà a indolenza e torpore.
Perciò è necessario sviluppare e mantenere in equilibrio fede, energia, concentrazione e saggezza e la facoltà che lo può fare è la consapevolezza. La consapevolezza è il garante che assicura che il mutuo rapporto tra fede e saggezza e tra energia e concentrazione sia equilibrato.
L’altro gruppo dei fattori di illuminazione, i cinque poteri (bala): fede, energia, consapevolezza, concentrazione e saggezza sono, sia per il numero che per il nome, identici alle facoltà di controllo, ma sono chiamati poteri perché a questo stadio fede, energia, consapevolezza, concentrazione e saggezza diventano salde, costanti e potenti.
Il Buddha disse che le cinque facoltà di controllo e i cinque poteri sono due aspetti della stessa cosa; la gente di un’isola in mezzo al fiume chiama lato ovest o lato est le sponde del fiume, sebbene in effetti le due parti del fiume siano la stessa cosa. Le cinque facoltà di controllo sono potenzialità che vanno rafforzate e sviluppate, combinandole con i cinque fattori d’assorbimento. Quando diventano ferme e stabili attraverso questa intensificazione, solo allora possono chiamarsi poteri.
Dobbiamo aggiungere che comunque i cinque poteri diventano assolutamente incrollabili solo nel caso dei Nobili (vedi capitolo VI). Diventando, per esempio, un sotapanna (uno che entra nella corrente) la fede diventa incrollabile perché è stato eliminato l’impedimento del dubbio.
Sebbene nei 37 fattori di illuminazione siano riportate solo cinque facoltà di controllo e cinque poteri, in una classificazione abhidharmica più vasta, ad esse vengono aggiunte altre tre facoltà (mente, gioia e vitalità) e due altri poteri (scrupolo morale e timore morale). Insieme vengono chiamati i “guardiani del mondo”. Lo scrupolo e il timore morali sono paragonabili all’onestà morale e al timore di riprovazione o censura. Sono chiamati guardiani del mondo perché, quando sviluppati a livello di potere, diventano i guardiani e garanti delle azioni salutari.
L’ultimo gruppo che tratto qui è i sette rami dell’illuminazione (bojjhanga): consapevolezza, indagine, energia, interesse, tranquillità, concentrazione, equanimità. Di nuovo abbiamo la consapevolezza come uno dei fattori e di nuovo è in testa al gruppo, perché la via dell’illuminazione comincia con la consapevolezza. E’ attraverso la consapevolezza della propria situazione che si inizia a progredire sulla via. Questo progresso viene sostenuto dall’indagine, cioè in questo caso dall’indagine sui fattori.
Anche qui c’è l’energia, come nelle quattro vie di potere, nelle cinque facoltà di controllo e nei cinque poteri. L’energia è essenziale per continuare a progredire lungo la via spirituale. Spesso i nostri sforzi sono sporadici: facciamo un grande sforzo per un po’ e poi ci rilassiamo per molto più tempo. Il progresso deve essere sostenuto con continuità ed è l’energia che dà questa fermezza, questo costante avanzamento lungo la via.
Il quarto fattore, l’interesse (piti), che è anche uno dei cinque fattori d’assorbimento è permeato di felicità, ma è meglio vederlo come interesse che come pura e semplice gioia o estasi (vedi capitolo XVIII).
Tranquillità, in questo contesto, è la tranquillità mentale che sorge dopo aver eliminato le afflizioni dell’ignoranza, dell’ostilità e dell’attaccamento.
Concentrazione è sinonimo di unificazione che è uno dei cinque fattori di assorbimento.
Equanimità è l’eliminazione della tendenza della mente a divagare. Come molti altri termini abhidharmici, anche l’equanimità funziona a vari livelli. A livello di sensazioni può essere indifferenza; a livello dello sviluppo della meditazione sulle quattro dimore divine (brahmavihara) l’equanimità è l’imparzialità verso tutti gli esseri senzienti, cioè l’assenza di attaccamento ai propri cari o amici, e l’assenza di avversione verso i nemici. Nell’analisi dell’esperienza personale sui cinque aggregati, l’equanimità è rimanere neutrali di fronte alle otto condizioni mondane (felicità e dolore, guadagno e perdita, lode e rimprovero, fama e infamia). Qui, nel contesto dei sette fattori d’illuminazione, equanimità è quello stato mentale integro e saldo che è completamente libero dall’abituale tendenza della mente a divagare.
Questi 37 fattori sono stati codificati, trasmessi e insegnati da generazioni di maestri, per una sola ragione: perché sono ritenuti utili e benefici allo sviluppo mentale e di grande aiuto nel progredire verso l’illuminazione. La buona conoscenza di questi fattori può essere di immediato e chiaro giovamento per raggiungere il nostro traguardo, sia che si pratichi le quattro basi della consapevolezza, i quattro sforzi, le quattro vie del potere, i sette rami di illuminazione o l’ottuplice nobile sentiero.
CAPITOLO XXV
L’ABHIDHARMA NELLA VITA QUOTIDIANA
Tradotto in italiano da Silvana Ziviani
La diffusione dei testi tradotti è consentita in qualsiasi modo tranne che a fini di lucro
In questo capitolo vorrei puntualizzare alcune idee già trattate nei capitoli precedenti, mettendole in relazione con la vita quotidiana e con la pratica dell’insegnamento del Buddha. Ho trattato estesamente l’Abhidharma e abbiamo visto che parte del materiale è piuttosto tecnico. Anche se non possiamo usare tutto ciò che abbiamo appreso spero però che esso vi rimanga in un angolo della mente e che col passare del tempo possiate ritornarvi e usarlo.
Vorrei iniziare rammentandovi l’orientamento fondamentale del Buddha e del buddhismo sulla questione del progresso spirituale. Ricorderete che la maggior parte dei 37 fattori di illuminazione (vedi capitolo XXIV) riguardano lo sforzo e la mente. Sempre il buddhismo ha posto in rilievo questi due aspetti, in palese contrasto con altre tradizioni religiose, in cui la risposta alla questione del progresso spirituale verte soprattutto sul destino o sulla grazia, in altre parole su un potere a noi esterno (sia un potere impersonale, invisibile come il destino, che un potere personale come Dio) che determina il nostro progresso e il nostro destino. Anche al tempo del Buddha, come oggi, destino e grazia erano le tipiche risposte di molte tradizioni. Hanno tutte una cosa in comune: dipendono da qualcosa di esterno su cui abbiamo poco o nessun controllo.
Il Buddha invece ha detto che il proprio progresso e destino dipendono dallo sforzo e dalla mente. La mente e lo sforzo sono la chiave per lo sviluppo personale, come chiaramente si percepisce nei 37 fattori di illuminazione. Per questo spesso è stato detto che la mente è la cosa più preziosa che abbiamo; la mente è stata paragonata a una gemma magica che esaudisce ogni desiderio, in quanto può far rinascere in mondi felici o miserevoli. Ed è sulla base della mente che uno varca la soglia dell’esistenza condizionata per entrare negli stati sopramondani dei Nobili. E’ la mente che determina e lo fa per mezzo di azioni volontarie o karma, che sono espressione della volontà della mente e che portano alle condizioni particolari in cui ci troviamo ora.
Possiamo vedere l’importanza della mente nelle quattro vie di potere (vedi capitolo XXIV), che sono fattori mentali con il potere di influenzare e controllare la materia. Ciò che dobbiamo fare è potenziare, coltivare ed elevare la mente. Possiamo vederlo bene quando osserviamo i cinque fattori di assorbimento o potenziamento (jhananga) e i cinque impedimenti (nivarana), due aspetti della nostra coscienza ordinaria e mondana (vedi cap. XVIII). I cinque impedimenti sono tipici di un livello di sviluppo della coscienza molto basso, come la coscienza degli animali che è satura di questi fattori. La presenza di questi impedimenti significa che la mente è totalmente manipolata e condizionata dai vari stimoli.
Opposti a questi impedimenti ci sono i cinque fattori di assorbimento che sono presenti anche nella coscienza degli animali. I cinque assorbimenti contrastano e infine eliminano i cinque impedimenti. In tal modo possiamo ridurre il potere di controllo degli impedimenti in proporzione a quanto coltiviamo gli assorbimenti.
E’ come se fossimo a un incrocio stradale. Nella mente abbiamo tutti e dieci i fattori – gli impedimenti e gli assorbimenti - e il punto sta nel lasciarci dominare dagli impedimenti o nello sviluppare i fattori di potenziamento in modo che siano essi a dominare nella mente. E’ una battaglia molto importante perché fino a che gli impedimenti predominano è probabile vederne i risultati in questa vita e nella prossima sotto forma di rinascita miserevole o in stati di dolore. Ma se la mente viene elevata coltivando i cinque fattori di assorbimento, raggiungeremo un alto livello di sviluppo sia in questa vita che nella prossima.
Una volta intensificato e aumentato il potere della mente per mezzo dei cinque fattori di assorbimento, possiamo motivare e dirigere la mente in una certa direzione. E questo vien fatto dalle cinque facoltà di controllo: fede, energia, consapevolezza, concentrazione e saggezza (vedi capitolo XXIV). Si dice che per praticare il Dharma siano necessarie due cose: fede e saggezza. La fede è il prerequisito della cosa principale che è la saggezza. In alcune tradizioni non buddhiste fede significa cieca aderenza, ma nella tradizione buddhista fede significa fiducia nella possibilità di riuscire. In altre parole se non abbiamo fiducia nella riuscita, non ci sarà la possibilità di riuscire, per quanto uno ci provi. In questo senso, la pratica senza la fede è come un seme bruciato che non emette mai il germoglio del progresso spirituale, anche se il terreno è fertile e ben coltivato.
La fede e la saggezza sono la prima e l’ultima delle facoltà di controllo. Insieme alle altre tre – energia, consapevolezza e concentrazione – sono presenti nell’Ottuplice nobile sentiero. Energia, consapevolezza e concentrazione corrispondono ai tre fattori di Retto Sforzo, Retta Consapevolezza e Retta Concentrazione del gruppo dello sviluppo mentale dell’Ottuplice nobile sentiero.
La fede può essere inclusa nel gruppo morale dell’Ottuplice Nobile Sentiero, perché è la fede, in fondo, che all’inizio della pratica ci spinge ad osservare le regole di buona condotta e credere nella legge del karma.
Fino a che, e a meno che, non otterremo livelli sopranormali di coscienza (come il Buddha e i suoi principali discepoli che erano in grado di percepire direttamente gli effetti di azioni salutari e non salutari), dobbiamo basarci sulla fede per gettare le fondamenta della nostra pratica morale.
La saggezza corrisponde esattamente al gruppo della saggezza dell’Ottuplice Sentiero. Perciò nelle cinque facoltà di controllo abbiamo in embrione gli otto punti dell’Ottuplice Nobile Sentiero.
Riassumendo: per avanzare verso il traguardo dell’illuminazione dobbiamo potenziare, elevare e motivare la mente. Il modo per farlo è: coltivare i cinque fattori di assorbimento in modo da ridurre l’influenza dei cinque impedimenti e poi sviluppare le cinque facoltà di controllo e combinarle con la pratica dell’Ottuplice Nobile Sentiero. Quando le cinque facoltà di controllo sono incrollabili diventano i cinque poteri (vedi capitolo XI), che portano a realizzare lo stato sopramondano dei Nobili.
La saggezza, ultimo gruppo dell’Ottuplice Nobile Sentiero, è particolarmente rilevante negli studi abhidharmici che abbiamo intrapreso, perché la saggezza è la comprensione della verità ultima, e l’Abhidharma appunto tratta la verità ultima. Quando parliamo di saggezza ne consideriamo i due aspetti di non sé e vacuità.
Abbiamo già discusso l’approccio analitico e quello relazionale all’analisi dell’esperienza personale negli insegnamenti, rispettivamente, del non sé e dell’Origine interdipendente. Quando consideriamo il non sé dobbiamo pensare al sé in rapporto ai cinque aggregati. Come l’idea sbagliata di un serpente esiste in dipendenza e in relazione alla corda e al buio, così quando cerchiamo il sé in rapporto agli aggregati, troviamo che non esiste in nessun modo. Il sé non può essere trovato negli aggregati di coscienza, sensazioni, percezioni, volizioni e forma. Il sé non può possedere gli aggregati come uno possiede una macchina. Il sé non controlla gli aggregati, non controlla la mente né il corpo. Il sé non è accertabile né dentro né fuori dagli aggregati.
Essendo arrivati a questa comprensione del non sé, diamo un’occhiata ai cinque aggregati. A questo punto passiamo dall’analisi dell’esperienza personale nei termini dei cinque aggregati all’analisi dei cinque aggregati in termini di Origine interdipendente. I cinque aggregati non sono originati per caso, né senza una causa. Nascono in dipendenza dalle afflizioni (ignoranza, bramosia e attaccamento) e dal karma, volizione e divenire. E’ stato detto che l’Origine interdipendente è il tesoro più prezioso degli insegnamenti del Buddha. Capire l’Origine interdipendente è la chiave per rompere la catena che ci ha tenuti avvinti al samsara per così tanto tempo.
Il Buddha stesso ha detto che chi vede l’Origine interdipendente vede il Dharma e chi vede il Dharma vede il Buddha. Questa è un’affermazione molto incoraggiante, perché se cominciamo a vedere la vita quotidiana in termini di Origine interdipendente, cioè nei termini di natura condizionata, relativa e vuota dei fattori di esperienza, allora vedremo il Dharma e vedendo il Dharma, vediamo il Buddha. Non sarà più valido quindi dire che non possiamo vedere il Buddha, che il Buddha non è presente qui e ora.
Spero che questo studio dell’Abhidharma non rimanga un esercizio intellettuale, ma venga applicato alla vita quotidiana, anche se superficialmente. Sarebbe certo difficile applicare tutto ciò di cui abbiamo parlato in questi capitoli, ma credo comunque che tutti noi che abbiamo studiato l’Abhidharma non cadremo più nell’errore di pensare alla realtà come a un sé unitario, indipendente e duraturo e a degli oggetti intorno a noi sostanziali e con un’essenza.
Poiché abbiamo cominciato a comprendere la realtà in modo nuovo in termini di fattori e funzioni interdipendenti e relative, ci siamo avviati nella direzione che ci porterà a vedere il Dharma e il Buddha. FINE | |