CAPITOLO XI
LE TRE CARATTERISTICHE UNIVERSALI
Tradotto in italiano da Silvana Ziviani
La diffusione dei testi tradotti è consentita in qualsiasi modo tranne che a fini di lucro
In questo capitolo parleremo di un’altra parte importante degli insegnamenti del Buddha: le tre caratteristiche universali dell’esistenza. Come le Quattro Nobili Verità, il karma, l’Origine interdipendente, i cinque aggregati, l’insegnamento delle tre caratteristiche è una parte di quello che potremmo chiamare il contenuto dottrinale della saggezza. In altre parole, quando parliamo della conoscenza e della comprensione implicite nella saggezza, ci riferiamo anche a questo insegnamento.
Prima di passare ad esaminare le tre caratteristiche singolarmente, cerchiamo prima di capire che significato hanno e come possono essere utilizzate. Prima di tutto che cosa è una caratteristica e cosa non è? Una caratteristica è qualcosa sempre connesso con qualcos’altro. Siccome la caratteristica è necessariamente connessa a una cosa, ci può indicare la natura di quella cosa. Facciamo un esempio: il calore è la caratteristica del fuoco, ma non dell’acqua. Il calore è la caratteristica del fuoco perché è sempre e invariabilmente connesso col fuoco, mentre invece, che l’acqua sia calda o no dipende da fattori esterni come una stufa elettrica o il calore del sole o altro. Il calore del fuoco invece è connaturato al fuoco. E’ in questo senso che il Buddha usa il termine “caratteristica” per riferirsi ai fatti riguardanti la natura dell’esistenza che sono sempre connessi all’esistenza stessa o che comunque si trovano nell’esistenza. La caratteristica “calore” è sempre connessa con il fuoco. Possiamo capire qualcosa sulla natura del fuoco per mezzo del calore. Capiamo che il fuoco è caldo e quindi potenzialmente pericoloso, che può consumare il nostro corpo e ciò che possediamo, se non è sotto controllo. Però possiamo usare il fuoco per cucinare, per scaldarci e così via. Perciò la caratteristica del calore ci spiega qualcosa del fuoco: cosa è il fuoco e come usarlo.
Se pensassimo alla caratteristica del calore in riferimento all’acqua, non ci aiuterebbe a capire la natura dell’acqua o a come usarla in modo intelligente, perché il calore non è sempre connesso con l’acqua. L’acqua non ci brucia necessariamente, non consuma i nostri beni, né dobbiamo per forza cuocere il cibo con l’acqua o usarla per scaldarci. Quindi quando il Buddha ha parlato delle tre caratteristiche dell’esistenza, intendeva dire che queste caratteristiche sono sempre presenti nell’esistenza e che ci aiutano a capire cosa farne dell’esistenza.
Le tre caratteristiche dell’esistenza sono: impermanenza, sofferenza, non sé. Queste tre caratteristiche sono sempre presenti o connesse all’esistenza e ci parlano della natura dell’esistenza. Ci aiutano a sapere cosa farne di questa esistenza. Come risultato della comprensione di queste caratteristiche, impariamo a sviluppare la rinuncia o distacco. Quando capiamo che l’esistenza è universalmente caratterizzata da impermanenza, sofferenza e non sé, abbandoniamo l’attaccamento all’esistenza. E una volta abbandonato l’attaccamento all’esistenza, arriviamo alla soglia del Nirvana.
Questo è lo scopo della comprensione delle tre caratteristiche: rimuove l’attaccamento, abbandonando l’illusione che ci porta erroneamente a pensare che l’esistenza sia permanente, piacevole e collegata a un sé. Questa è la ragione per cui le tre caratteristiche fanno parte del contenuto della saggezza.
Vediamo ora la prima delle tre caratteristiche dell’esistenza, la caratteristica dell’impermanenza. L’impermanenza fa parte non solo del pensiero buddhista, ma anche della storia del pensiero umano. Fu Eraclito, filosofo dell’antica Grecia, ad affermare che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Questa osservazione che implica la natura sempre mutevole e passeggera delle cose, è molto buddhista. Nelle scritture buddhiste si dice che il mondo è impermanente come nuvole autunnali, che la nascita e la morte sono come una danza, e che la vita umana è come un lampo o una cascata. Sono tutte irresistibili immagini di impermanenza che ci aiutano a capire che tutto è segnato o caratterizzato dall’impermanenza.
Se guardiamo a noi stessi vediamo che il corpo è impermanente e soggetto a un cambiamento continuo. Dimagriamo, invecchiamo, i capelli incanutiscono, i denti e i capelli cadono. Se volete una prova dell’impermanenza della forma fisica, basta che guardiate le foto della patente o del passaporto attraverso gli anni. Anche gli stati mentali sono impermanenti. Un momento siamo felici, un altro tristi. Da bambini non capiamo molto; da adulti, nel fiore della vita, capiamo molto di più; da vecchi perdiamo la forza delle facoltà mentali e ritorniamo bambini. Questo è vero anche per ciò che ci circonda. Nessuna delle cose che vediamo intorno a noi durerà per sempre: né le case, i templi, i fiumi, le isole, le catene di montagne, gli oceani. Sappiamo per certo che anche tutti i fenomeni naturali, anche quelli che ci sembrano più durevoli, perfino lo stesso sistema solare, un giorno cesseranno di esistere.
Questo processo di cambiamento continuo, personale e impersonale, interno ed esterno, va avanti in continuazione, anche quando non ce ne accorgiamo e influisce profondamente su di noi nella vita quotidiana. I rapporti con gli altri sono soggetti alla caratteristica dell’impermanenza e del cambiamento. Gli amici diventano nemici e i nemici diventano amici. Addirittura i nemici possono diventare parenti e i parenti nemici. Se osserviamo profondamente la nostra vita vediamo come il rapporto con gli altri sia segnato dall’impermanenza. Anche i nostri beni sono impermanenti. Tutto ciò che amiamo, case, automobili, vestiti è impermanente. Tutto si deteriora e alla fine viene distrutto. In tutti gli aspetti della vita sia materiali che mentali, sia nelle relazioni con gli altri che con i nostri beni, possiamo verificare direttamente l’impermanenza, osservandola nella sua immediatezza.
E’ importante capire l’impermanenza non solo per la pratica del Dharma, ma anche per la vita quotidiana. Spesso le amicizie si deteriorano e finiscono perché una delle due persone non si accorge che l’atteggiamento e gli interessi dell’amico sono cambiati. E quanti matrimoni falliscono perché uno o entrambi i partner non tengono conto del fatto che l’altro è cambiato?
Siamo talmente bloccati da idee fisse, artificiali, immutabili sul carattere e le personalità degli amici e parenti, che non riusciamo a sviluppare un giusto rapporto con loro e perciò non riusciamo a capirci. Ugualmente, non possiamo sperare di avere successo nella vita pubblica o di lavoro se non ci teniamo al passo col cambiamento delle situazioni, come ad esempio una nuova svolta nella nostra professione o attività. E’ necessario capire l’impermanenza della nostra vita privata e sociale, se vogliamo essere efficienti e creativi nel modo di rapportarci alle nostre situazioni personali e professionali.
Sebbene la comprensione dell’impermanenza offra immediati benefici qui e ora, è un aiuto particolarmente efficace anche nella pratica del Dharma. La comprensione dell’impermanenza è un antidoto all’attaccamento e alla malevolenza. Ci sprona a praticare il Dharma e infine è una chiave per capire la natura ultima delle cose, cioè come esse realmente sono.
Si dice che, per chi vuole praticare il Dharma, il ricordo della morte è come un amico e un insegnante. Rammentarsi della morte indebolisce l’eccessivo attaccamento e la malevolenza. Quante contese, dissensi insignificanti, quante ambizioni e inimicizie durate tutta una vita perdono ogni importanza di fronte al riconoscimento dell’inevitabilità della morte? Attraverso i secoli, i maestri buddhisti hanno sempre incoraggiato i praticanti seri a ricordarsi della morte, a ricordare l’impermanenza di questa nostra personalità.
Alcuni anni fa un mio amico andò in India a studiare meditazione. Andò da un famoso e dotto maestro buddhista e gli chiese istruzioni per la meditazione. Il maestro era riluttante a dargliele perché non era convinto della sua sincerità. Ma il mio amico insistette e gliele chiese varie volte. Alla fine il maestro gli disse di andare da lui il giorno dopo. Pieno di aspettative il mio amico andò da lui, come gli era stato detto. Il maestro gli disse: “Morirai, medita su questo”.
La meditazione sulla morte è molto benefica. Tutti dobbiamo rammentarci della certezza della nostra morte. Dal momento della nascita procediamo inesorabilmente verso la morte. Ricordando questo e ricordandosi che al momento della morte dovremo abbandonare famiglia, ricchezze e fama, dobbiamo volgere la mente alla pratica del Dharma. Sappiamo che la morte è assolutamente certa. Non c’è mai stato alcun essere che ne sia scampato. Eppure, anche se la morte è certa, il momento della morte è incerto. Possiamo morire in ogni istante. Si dice che la vita sia come una candela al vento o come una bolla d’acqua; può spegnersi o scoppiare da un momento all’altro. Sapendo che il momento della morte è imprevedibile e che ora abbiamo le condizioni e l’opportunità di praticare il Dharma, dobbiamo praticarlo subito, in modo da non sprecare questa opportunità e questa preziosa vita umana.
Infine, comprendere l’impermanenza è un aiuto alla comprensione della verità ultima sulla natura delle cose. Vedendo che tutto si deteriora e cambia ad ogni istante, cominciamo anche a vedere che nulla ha un’esistenza propria, essenziale, che in noi e intorno a noi non c’è nessun “sé”, niente di consistente. In questo senso l’impermanenza è in rapporto diretto con l’ultima delle tre caratteristiche, la caratteristica del non sé. Capire l’impermanenza è la chiave per capire il non sé. Parleremo ancora di ciò più tardi, ma per ora andiamo alla seconda delle tre caratteristiche: la caratteristica della sofferenza.
Il Buddha ha detto che tutto ciò che è impermanente è doloroso, e che tutto ciò che è impermanente e doloroso non ha un sé. Tutto ciò che è impermanente è doloroso perché l’impermanenza è occasione di sofferenza. L’impermanenza è un’occasione di sofferenza piuttosto che una causa di sofferenza, perché l’impermanenza è solo un’occasione di sofferenza finché sono presenti ignoranza, bramosia e attaccamento. Perché? Nella nostra ignoranza della vera natura della realtà, desideriamo e ci attacchiamo alle cose nella vana speranza che siano durature, che possano dare una felicità permanente. Non capendo che la gioventù, la salute e la vita stessa sono impermanenti le desideriamo e ci attacchiamo ad esse. Vogliamo trattenere la gioventù e prolungare la vita, ma, siccome sono impermanenti per natura, ci scivolano tra le dita. Ed è allora che l’impermanenza diventa occasione di sofferenza. Ugualmente, se non riconosciamo la natura impermanente dei nostri beni, del potere e del prestigio, li desideriamo e ci attacchiamo ad essi. Quando finiscono, la loro impermanenza è occasione di sofferenza.
L’impermanenza di tutte le situazioni nel samsara è occasione di sofferenza quando avviene nelle sfere cosiddette fortunate. Si dice che la sofferenza degli dei è maggiore della sofferenza degli esseri nelle sfere inferiori, perché gli dei si accorgono che stanno precipitando dal paradiso nei regni inferiori. Perfino gli dei tremarono, quando il Buddha ricordò loro l’impermanenza. Poiché anche le piacevoli esperienze che desideriamo e a cui ci attacchiamo sono impermanenti, l’impermanenza è occasione di sofferenza e tutto ciò che è impermanente è sofferenza.
Ora trattiamo della terza caratteristica universale dell’esistenza, la caratteristica del non sé, impersonalità o insostanzialità. Questo è uno degli aspetti veramente distintivi del pensiero buddhista e dell’insegnamento del Buddha. Nel tardo periodo di sviluppo della filosofia e della religione in India, le scuole induiste divennero sempre più simili all’insegnamento del Buddha riguardo alle tecniche di meditazione e ad alcune idee filosofiche. Per cui i maestri buddhisti sentirono la necessità di sottolineare che vi era tuttavia un tratto distintivo che separava il buddhismo dalle scuole induiste che gli assomigliavano. Questo tratto distintivo è l’insegnamento del non sé.
Talvolta questo insegnamento del non sé causa una certa confusione perché la gente si domanda come sia possibile negare l’esistenza di un sé. In fin dei conti, diciamo “Io sto parlando” o “Io sto camminando”, “Io mi chiamo così e così” o “Io sono il padre (il figlio) di quella certa persona”. Come possiamo allora negare la realtà di questo “io”?
Per chiarir ciò, è importante ricordare che il rifiuto buddhista di un “io” non è il rifiuto della designazione convenzionale del termine “io” o di un nome. E’ piuttosto il rifiuto dell’idea che il nome o il termine “io” sottintende: una realtà sostanziale, permanente, immutabile. Quando il Buddha disse che i cinque fattori dell’esperienza personale non sono il sé e che il sé non può essere trovato in loro, voleva dire che, se si analizza il nome o il termine “io” non corrisponde ad alcuna essenza o entità.
Il Buddha usò l’esempio di un carro e di una foresta per spiegare il rapporto tra il nome o il termine “io” e le componenti dell’esperienza personale. Il Buddha spiegò che la parola “carro” è semplicemente un nome convenzionale per indicare un raggruppamento di parti messe insieme in un certo modo particolare. Le ruote non sono il carro, né l’asse, né la struttura e così via. Ugualmente un solo albero non è una foresta, né lo sono un certo numero di alberi. Eppure non c’è foresta separata dai singoli alberi, per cui il termine “foresta” è il nome convenzionale di un raggruppamento di alberi.
Questo è il significato del rifiuto del “sé” del Buddha. Il suo è il rifiuto della credenza in un’entità reale, indipendente e permanente rappresentata dal nome o dal termine “io”. Se ci fosse una tale entità dovrebbe essere indipendente, dovrebbe essere sovrana come un re è sovrano di quelli intorno a lui. Dovrebbe essere durevole, immutabile e resistente ai cambiamenti, ma una tale entità permanente, un tale sé non si può trovare da nessuna parte.
Il Buddha usò il seguente metodo d’analisi per dimostrare che il sé non si può trovare da nessuna parte del corpo e della mente: 1) Il corpo non è il sé perché se fosse il sé, questo sé sarebbe impermanente, sarebbe soggetto a cambiamenti, al decadimento, alla distruzione e alla morte. Quindi il corpo non può essere il sé. 2) Il sé non possiede il corpo, nel senso di come io posseggo una macchina o una televisione, perché il sé non può controllare il corpo. Il corpo si ammala, si stanca, invecchia a dispetto di ogni nostro desiderio. Il corpo spesso ha un’apparenza che non si accorda col nostro desiderio. Perciò in nessun modo il sé possiede il corpo. 3) Il sé non esiste nel corpo. Se ispezioniamo il nostro corpo, cominciando dalla testa fino alla punta dei piedi, in nessuna parte troveremo il sé. Il sé non è nelle ossa o nel sangue, nel midollo spinale, nei capelli o nella saliva. In nessuna parte del corpo possiamo trovare un sé. 4) Il corpo non esiste nel sé. Affinché il corpo possa esistere nel sé, bisognerebbe trovare il sé separato dal corpo e dalla mente, ma questo sé non si trova.
Allo stesso modo a) la mente non è il sé perché, come il corpo, la mente è soggetta a un continuo cambiamento ed è agitata come una scimmia. La mente un momento è felice e il momento dopo è infelice. Perciò la mente non è il sé, perché la mente cambia in continuazione. b) Il sé non possiede la mente perché la mente si esalta e si deprime contro ogni nostro desiderio. Sebbene sappiamo che certi pensieri sono positivi e altri negativi, la mente segue i pensieri negativi ed è indifferente a quelli positivi. Perciò il sé non possiede la mente, perché la mente agisce indipendentemente dal sé. c) Il sé non esiste nella mente. Per quanto accuratamente ispezioniamo il contenuto della mente, per quanto accuratamente ispezioniamo le sensazioni, le idee, le tendenze, in nessun angolo della mente o degli stati mentali troveremo il sé. d) La mente non esiste nel sé, perché di nuovo il sé dovrebbe esistere separatamente dalla mente e dal corpo, e un tale sé non lo troviamo da nessuna parte.
C’è un semplice esercizio che ognuno può fare. Ci sediamo tranquillamente per un po’ e guardiamo nel corpo e nella mente; sicuramente scopriremo che non possiamo localizzare alcun sé nella mente e nel corpo. L’unica conclusione possibile è che il “sé” è solo un nome convenzionale per un insieme di fattori. Non c’è un sé né un’anima, un’essenza, un nucleo centrale di esperienza personale separati dai fattori fisici e mentali dell’esperienza personale, come le sensazioni, le idee, le abitudini e le tendenze e questi fattori sono sempre mutevoli, interdipendenti e impermanenti.
Perché ci prendiamo tanta pena per dimostrare l’inesistenza di un sé? Che benefici ne traiamo? Ne ricaviamo un duplice vantaggio: il primo a livello mondano, nella vita quotidiana, perché diventiamo più creativi, più aperti, siamo più a nostro agio. Fino a quando ci aggrappiamo a un sé dobbiamo sempre cercare di difendere noi stessi, le nostre proprietà, il nostro prestigio, le nostre opinioni e persino le nostre affermazioni. Ma una volta abbandonata la credenza in un sé indipendente e permanente, potremo rapportarci con gli altri e con le situazioni senza paranoia. Potremo agire liberamente, spontaneamente, creativamente. Quindi la comprensione del non sé ci aiuta a vivere meglio.
In secondo luogo, e cosa molto più importante, capire il non sé è la chiave per l’illuminazione. Credere in un sé è sinonimo di ignoranza e l’ignoranza sta alla base delle tre afflizioni. Il momento che identifichiamo, che immaginiamo o che concepiamo noi stessi come un’entità, immediatamente creiamo uno scisma, una separazione tra noi e le persone e cose che ci circondano. Quando abbiamo questo concetto di un sé, reagiamo alle cose e persone intorno a noi con attaccamento o avversione. In questo senso il sé è il vero cattivo della situazione.
Vedendo che il sé è la fonte e la causa di ogni sofferenza e che il rifiuto del sé è la causa della fine della sofferenza, perché non fare del nostro meglio per respingere ed eliminare questa idea del sé, piuttosto che cercare di difenderla, proteggerla e conservarla? Perché non riconoscere che l’esperienza personale è come un albero di banano o una cipolla: se ad essi si toglie uno strato dopo l’altro, se li si esamina criticamente e analizza, scopriremo infine che sono privi di un centro essenziale e sostanziale, che sono privi di un sé?
Quando si comprende, attraverso lo studio, la riflessione e la meditazione, che tutto è impermanente, pieno di sofferenza e primo di un sé e quando la comprensione di queste verità non è più solo intellettuale o accademica, ma diventa parte della nostra immediata esperienza, allora la comprensione di queste tre universali caratteristiche ci libererà da quegli errori fondamentali che ci tengono imprigionati al ciclo di nascita e morte, gli errori cioè di vedere le cose durevoli, soddisfacenti e che hanno a che fare con un sé. Quando si tolgono queste illusioni sorge la saggezza, così come quando si toglie il buio sorge la luce. E quando sorge la saggezza sperimentiamo la pace e la libertà del Nirvana.
In questo capitolo, ci siamo limitati a guardare l’esperienza personale in termini di corpo e mente. Ora passiamo a guardare più approfonditamente l’analisi buddhista dell’esperienza personale alla luce degli elementi del nostro universo fisico e mentale.
CAPITOLO XII
I CINQUE AGGREGATI
Tradotto in italiano da Silvana Ziviani
Cominciamo ora a parlare dell’insegnamento dei cinque aggregati: forma, sensazione, percezione, volizione e coscienza. In altre parole, parleremo dell’analisi buddhista dell’esperienza personale o della personalità.
In precedenza ho avuto spesso occasione di far notare come gli insegnamenti buddhisti siano importanti nella vita e nel pensiero moderni in rapporto alla scienza, alla psicologia, ecc. Questo riguarda anche l’analisi dell’esperienza personale in rapporto ai cinque aggregati. I moderni psichiatri e psicologi hanno mostrato molto interesse per questa analisi. Si è persino pensato che questo tipo di analisi potrebbe essere l’equivalente della tavola degli elementi elaborata dalla scienza moderna, cioè un accurato inventario e valutazione degli elementi della nostra esperienza.
Ciò di cui parleremo ora è fondamentalmente un approfondimento e un ampliamento dell’analisi fatta nel capitolo undicesimo. Lì abbiamo parlato degli insegnamenti del non sé e abbiamo esplorato brevemente il modo in cui l’analisi dell’esperienza personale può essere portata avanti in due direzioni: riguardo al corpo e riguardo alla mente. Ricorderete che abbiamo esaminato il corpo e la mente per vedere se vi si poteva trovare il sé, e che abbiamo scoperto che non si può trovare in nessuno dei due. Abbiamo perciò concluso che il termine “sé” è un termine convenzionale che designa un insieme di fattori fisici e mentali, così come il nome “foresta” non è che un termine convenzionale per un insieme di alberi. Ora portiamo ancora oltre l’analisi considerando l’esperienza personale non semplicemente in termini di corpo e mente, ma in termini dei cinque aggregati.
Per primo consideriamo l’aggregato di materia o forma. L’aggregato della forma corrisponde a ciò che chiameremo i fattori materiali o fisici dell’esperienza. Include non solo i nostri corpi ma anche gli oggetti materiali che ci circondano, come la terra, gli alberi, gli edifici e gli oggetti della vita quotidiana. In particolare, l’aggregato della forma include i cinque organi fisici dei sensi e i loro corrispondenti oggetti materiali: gli occhi e le cose visibili, le orecchie e gli oggetti udibili, il naso e gli oggetti olfattivi, la lingua e gli oggetti del gusto e infine la pelle e gli oggetti tangibili.
Ma gli elementi fisici da soli non bastano a produrre un’esperienza. Il semplice contatto degli occhi con gli oggetti visibili, delle orecchie con gli oggetti udibili non possono portare a un’esperienza. Gli occhi possono rimanere indefinitivamente in contatto con un oggetto visibile senza produrre alcuna esperienza; le orecchie possono stare indefinitamente esposte a un suono con lo stesso risultato. Solo quando c’è l’unione degli occhi, di un oggetto visibile e della coscienza si produce l’esperienza di un oggetto visibile. La coscienza è perciò un elemento indispensabile per produrre un’esperienza.
Prima di andare avanti a considerare i fattori mentali dell’esperienza personale, vorrei parlare brevemente dell’esistenza di un altro organo e dei suoi oggetti: mi riferisco al sesto senso, la mente. Si aggiunge ai cinque organi fisici (occhi, orecchie, naso, lingua, pelle). Come i cinque organi fisici hanno i loro relativi oggetti materiali, così la mente ha come oggetto idee o qualità (dharma). E come nel caso dei cinque sensi fisici, anche qui la coscienza deve essere presente per unire la mente al suo oggetto in modo da produrre un’esperienza.
Ora passiamo ad esaminare i fattori mentali dell’esperienza e a cercare di capire come la coscienza trasforma i fattori fisici dell’esistenza in una esperienza conscia personale. Prima di tutto bisogna ricordare che la coscienza è solo pura consapevolezza o pura sensibilità verso un oggetto. Quando i fattori fisici dell’esperienza entrano in contatto, per esempio gli occhi con gli oggetti visibili, e quando anche la coscienza si accompagna ai fattori materiali dell’esperienza, sorge la coscienza visiva. E’ la semplice consapevolezza dell’oggetto visivo, niente a che vedere quindi con ciò che chiameremmo un’esperienza personale. L’esperienza personale comune avviene attraverso il funzionamento degli altri tre fattori mentali principali: gli aggregati delle sensazioni, percezioni e volizioni o formazioni mentali. Questi aggregati funzionano in modo da trasformare questa semplice consapevolezza dell’oggetto in un’esperienza personale.
L’aggregato delle sensazioni o impressioni è di tre tipi: piacevole, spiacevole e indifferente. Quando si sperimenta un oggetto, l’esperienza si colora di uno di questi toni emotivi, il tono del piacere, del dispiacere o quello neutro.
Osserviamo ora l’aggregato della percezione. E’ un aggregato che molti trovano difficile da capire. Quando parliamo di percezione ci riferiamo all’azione di riconoscimento o di identificazione. In un certo senso significa attribuire un nome all’oggetto dell’esperienza. La funzione della percezione è convertire un’esperienza indefinita in un’esperienza identificabile e riconoscibile, formulando un concetto o un’idea riguardo ad un oggetto specifico. Come con le sensazioni, in cui c’è un elemento emotivo sotto forma di piacere, dispiacere o indifferenza, così con la percezione abbiamo un elemento concettuale sotto forma di una idea determinata e definita circa l’oggetto dell’esperienza.
Infine vi è l’aggregato della volizione o delle formazioni mentali, che può essere descritto come una risposta condizionata all’oggetto di esperienza. In questo senso ha anche il significato di abitudine. Abbiamo già parlato della volizione nel capitolo decimo quando abbiamo trattato le dodici componenti dell’Origine interdipendente. Ricorderete che abbiamo definito la volizione come l’impressione creata da azioni precedenti, l’energia dell’abitudine immagazzinata nel corso di innumerevoli vite precedenti. Qui, anche come aggregato ha lo stesso ruolo. Ma la volizione non ha soltanto una connotazione statica ma anche dinamica, perché, proprio come le azioni attuali sono condizionate da azioni passate, così le risposte attuali sono motivate e dirette verso una specifica direzione dalla volizione. La volizione perciò ha una dimensione morale, mentre la percezione ha una dimensione concettuale e la sensazione una dimensione emotiva.
Noterete che ho usato sia il termine “volizione” anziché “formazione mentale”. Questo perché i due termini rappresentano ognuno una parte del significato originale: formazione mentale rappresenta la metà che viene dal passato e volizione rappresenta la metà che è in funzione qui e ora. La volizione e le formazioni mentali lavorano insieme per determinare le risposte che diamo agli oggetti dell’esperienza e queste risposte hanno conseguenze morali, sotto forma di effetti positivi, negativi o neutri.
Vediamo quindi come i fattori dell’esperienza fisici e mentali lavorano insieme per produrre l’esperienza personale. Per chiarire ulteriormente: mettiamo che abbiate deciso di fare una passeggiata in giardino. Mentre camminate gli occhi entrano in contatto con un oggetto visibile. Mentre l’attenzione si fissa sull’oggetto, la coscienza diventa consapevole dell’oggetto che è ancora indeterminato. L’aggregato della percezione ora identifica l’oggetto visibile definendolo, ad esempio, un serpente. A questo punto risponderete all’oggetto con l’aggregato della sensazione, in questo caso con una sensazione spiacevole. Infine reagite all’oggetto con l’aggregato della volizione, che vi conduce a un’azione intenzionale che può essere quella di scappare o di raccogliere un sasso.
In tutte le attività quotidiane possiamo vedere che i cinque aggregati lavorano insieme per produrre l’esperienza personale. Proprio in questo momento, per esempio, c’è contatto tra due elementi dell’aggregato forma, le lettere sulla pagina e gli occhi. La coscienza diventa consapevole delle lettere sulla pagina, l’aggregato della percezione identifica le parole che vi sono scritte, l’aggregato della sensazione produce una risposta emotiva (piacere, dispiacere o indifferenza) e l’aggregato della volizione risponde con una reazione condizionata, stabilizzando l’attenzione, sognando, o forse sbadigliando. Possiamo analizzare tutte le nostre esperienze personali nei termini dei cinque aggregati. C’è un punto però che va tenuto presente sulla natura dei cinque aggregati ed è che ognuno di essi è in cambiamento continuo. Gli elementi che costituiscono l’aggregato della forma sono impermanenti e sono in stato di cambiamento continuo. Abbiamo parlato di ciò nel capitolo undicesimo, quando abbiamo notato che il corpo invecchia, si indebolisce, si ammala e che anche le cose intorno a noi sono impermanenti e cambiano costantemente. Oggi possiamo rispondere ad una certa situazione con una sensazione di piacere, domani con dispiacere. Oggi possiamo percepire un oggetto in un certo modo e più tardi, in altre circostanze, la percezione potrà cambiare. Nella penombra percepiamo una corda e la prendiamo per un serpente; il momento che l’oggetto viene illuminato percepiamo che è una corda.
Le percezioni, come le sensazioni e gli oggetti materiali della nostra esperienza sono impermanenti e sempre mutevoli. Così anche le risposte volitive. Possiamo cambiare le abitudini, possiamo imparare a essere gentili e comprensivi. Possiamo acquisire la capacità della rinuncia, dell’equanimità, ecc. Anche la coscienza è impermanente e in cambiamento continuo. La coscienza sorge in dipendenza di un oggetto e di un organo sensoriale. Non può esistere di per sé. Come abbiamo visto, tutti i fattori fisici e mentali dell’esperienza, come il nostro corpo, gli oggetti fisici che ci circondano, la mente, le nostre idee, sono impermanenti e sempre in mutamento. Tutti gli aggregati sono impermanenti e costantemente mutevoli. Sono processi, non cose. Sono dinamici, non statici.
Qual è lo scopo di questa analisi dell’esperienza personale sotto il profilo dei cinque aggregati? Qual è lo scopo di scomporre l’unità apparente dell’esperienza personale negli elementi di forma, sensazione, percezione, volizione o formazioni mentali e coscienza? Lo scopo è di suscitare la saggezza del non sé. Ciò che vogliamo conseguire è un modo di sperimentare il mondo che non sia costruito su e intorno all’idea di un sé. Vogliamo poter vedere l’esperienza personale come un processo, come funzioni impersonali piuttosto che come un sé e ciò che è attribuibile al sé. Questo porterà ad un atteggiamento di equanimità, che ci aiuterà a superare i turbamenti emotivi di speranza e paura verso le cose del mondo.
Speriamo nella felicità, temiamo il dolore. Speriamo di ricevere lodi, temiamo il rimprovero. Speriamo di ottenere, temiamo di perdere. Speriamo di essere famosi, temiamo l’anonimato. Viviamo sempre tra speranza e timore. Sperimentiamo queste speranze e queste paure perché comprendiamo la felicità e il dolore e tutto il resto come riferiti a un sé: crediamo che felicità e dolore, lode e rimprovero, ecc. siano personali. Ma una volta che comprendiamo che sono processi impersonali, e una volta che, attraverso questa comprensione, ci liberiamo dell’idea di un sé, possiamo superare la speranza e la paura. Possiamo guardare alla felicità e al dolore, alla lode e al rimprovero, e a tutto il resto con equanimità e con mente serena. Solo allora non saremo più soggetti agli squilibri provocati dall’alternanza tra speranza e paura.
CAPITOLO XIII
LE BASI DELLA PRATICA
Tradotto in italiano da Silvana Ziviani
Per concludere, vorrei fare qualche riflessione su ciò che abbiamo discusso nei capitoli precedenti e riferirlo a ciò che possiamo farne nella nostra vita personale, sia ora che in futuro.
Gli insegnamenti del Buddha sono vastissimi e molto profondi. Fino ad ora abbiamo trattato solo alcuni degli insegnamenti fondamentali del Buddha e solo superficialmente. Forse a voi sembrerà invece che abbiamo toccato molti punti e che è impossibile praticare tutto ciò di cui si è discusso. In effetti, si dice che praticare tutti gli insegnamenti fondamentali del Buddha sia difficile persino per un monaco che vive da eremita. Non c’è quindi da meravigliarsi che sia difficile per dei laici come noi, che abbiamo molte responsabilità mondane da affrontare. Tuttavia se riusciamo a coltivare e praticare sinceramente anche solo alcuni degli insegnamenti del Buddha, avremo dato un significato più profondo a questa vita. Inoltre è certo che ci ritroveremo in circostanze favorevoli per poter praticare il Dharma e realizzare infine la liberazione.
Tutti possono raggiungere il traguardo supremo del buddhismo, sia i laici che i religiosi. Tutto ciò che bisogna fare è sforzarsi onestamente di seguire l’Ottuplice Nobile Sentiero. Si dice che coloro che hanno realizzato la verità, come il Buddha Shakyamuni e i suoi principali discepoli, non ci arrivarono per caso. Non cadde dal cielo come la pioggia né spuntò dalla terra come dei cereali. Il Buddha e i suoi discepoli erano state persone normali come voi e me. Erano afflitti da impurità mentali, quali attaccamento, avversione e ignoranza. Fu solo venendo in contatto col Dharma, purificando le loro parole e azioni, sviluppando la mente e acquistando saggezza, che essi divennero liberi, esseri eccelsi, capaci di insegnare e aiutare gli altri a realizzare la verità. Non c’è quindi alcun dubbio che se seguiamo gli insegnamenti del Buddha, anche noi potremo raggiungere la meta finale. Anche noi potremo diventare come il Buddha e i suoi principali discepoli. Non è di alcuna utilità ascoltare o leggere il Dharma solo per scrivere articoli sul Dharma o tenere conferenze, se poi non lo mettiamo in pratica. Coloro che si chiamano buddhisti ogni tanto dovrebbero fare il punto della situazione e vedere se con i mesi o gli anni, la pratica degli insegnamenti del Buddha ha portato cambiamenti nella qualità della loro esperienza (anche se solo un piccolo cambiamento), e sapranno allora che gli insegnamenti stanno avendo effetto.
Se tutti noi mettessimo in pratica gli insegnamenti del Buddha, non c’è dubbio che ne trarremo grandi benefici. Se cerchiamo di non fare del male a nessuno, se facciamo del nostro meglio per aiutare gli altri in ogni possibile occasione, se impariamo ad essere consapevoli e a sviluppare la capacità di concentrare la mente, se coltiviamo la saggezza con lo studio, con un’attenta riflessione e con la meditazione, non c’è dubbio che otterremo un gran beneficio dal Dharma. Prima ci porterà alla prosperità e felicità in questa vita e nella prossima. Infine ci porterà allo scopo finale della liberazione, alla suprema beatitudine del Nirvana.
CAPITOLO XIV
INTRODUZIONE ALL’ABHIDHARMA
Tradotto in italiano da Silvana Ziviani
Nei prossimi due capitoli discuteremo gli aspetti filosofici e psicologici del buddhismo, come sono esposti nei sette libri dell’Abhidharma Pitaka del canone pali. Non mi soffermerò dettagliatamente sulla lista dei fattori, o dharma, che troverete in molti competenti libri sull’Abhidharma. I miei obiettivi invece sono tre: 1) delineare e descrivere i metodi e le caratteristiche principali dell’Abhidharma; 2) mettere in rapporto l’Abhidharma con ciò che generalmente sappiamo degli insegnamenti del Buddha 3) collegare la filosofia dell’Abhidharma con la nostra situazione di buddhisti laici.
Durante tutta la storia del buddhismo, l’Abhidharma è stato tenuto in gran conto. Per esempio nel canone pali si parla dell’Abhidharma con parole di lode e di rispetto particolari, e si considera che solo i monaci anziani ne siano degni; ai novizi viene addirittura proibito di interrompere gli anziani quando stanno discutendo dell’Abhidharma. E’ stato scritto anche che l’Abhidharma è raccomandato solo a quelli che si sforzano sinceramente di realizzare lo scopo della pratica buddhista e la sua conoscenza è essenziale per i maestri del Dharma. Questo rispetto per l’Abhidharma si trova non solo nella tradizione Theravada ma anche nelle altre grandi tradizioni buddhiste. Per esempio Kumarajiva, il grande traduttore centro-asiatico famoso per la traduzione degli scritti Madhyamaka in cinese, affermava che se voleva insegnare la filosofia buddhista ai cinesi, avrebbe dovuto cominciare con l’Abhidharma. Anche nella tradizione tibetana l’Abhidharma è una parte importante della pratica monastica.
Come mai l’Abhidharma è tenuto in così alta considerazione? La ragione principale è che la conoscenza dell’Abhidharma, nel senso generale di comprendere l’insegnamento ultimo, è assolutamente necessaria per realizzare la saggezza, che a sua volta è necessaria per ottenere la liberazione. Per quanto uno mediti e conduca una vita virtuosa, non può raggiungere la liberazione senza l’intuizione profonda della vera natura delle cose.
La conoscenza dell’Abhidharma è necessaria per applicare ad ogni esperienza della vita quotidiana l’intuizione sull’impermanenza, impersonalità e insostanzialità, acquisita dalla lettura del Sutra Pitaka. Tutti possono avere un’idea dell’impermanenza, impersonalità e insostanzialità leggendo il Sutra Pitaka, ma quante volte applichiamo alla nostra vita quotidiana questa momentanea verità intellettuale? Il sistema di insegnamento dell’Abhidharma ci fornisce il meccanismo per farlo. Quindi lo studio dell’Abhidharma è estremamente utile anche per la pratica.
Consideriamo ora l’origine e l’autenticità dell’Abhidharma. La scuola Theravada sostiene che la fonte della filosofia dell’Abhidharma è il Buddha e fu lui il primo maestro di Abhidharma perché la notte della sua illuminazione penetrò l’essenza dell’Abhidharma. Secondo la tradizione, il Buddha passò le quattro settimane dopo la sua illuminazione a meditare sull’Abhidharma. E’ la settimana chiamata la “Casa delle Gemme”. Più tardi si dice che il Buddha sia andato nel paradiso dei Trentatré, dove stava sua madre e insegnò l’Abhidharma a lei e agli dei. Si dice ancora che quando tornò in terra trasmise a Sariputta le basi dell’insegnamento, e questo non per caso, dato che Sariputta era il suo discepolo principale, famoso per la sua saggezza.
Perciò in generale si sostiene che si deve far risalire al Buddha l’ispirazione per l’insegnamento dell’Abhidharma. Questa ispirazione passò ai suoi discepoli che avevano propensione per la filosofia, come Sariputta, e fu attraverso gli sforzi di questi discepoli intelligenti che furono definite le linee generali e il contenuto della filosofia dell’Abhidharma.
Esaminiamo ora il significato del termine Abhidharma. Analizzando attentamente il Sutra Pitaka troviamo che questo termine ricorre spesso, di solito nel senso generale di “meditazione sul Dharma”, “Istruzioni sul Dharma” o “Discussione sul Dharma”. In senso più specifico, Abhidharma significa “Dharma speciale”, “Dharma superiore” o “Dharma avanzato”. Naturalmente usiamo qui la parola Dharma nel senso di dottrina o insegnamento e non nel senso di fenomeno o fattore di esperienza (nel qual caso la D sarebbe minuscola).
C’è anche un senso più tecnico in cui Abhidharma è usato nel Sutra Pitaka e in questo contesto dharma non ha più il significato di dottrina in generale, ma di fenomeno. Questo uso tecnico è legato alla funzione di distinguere. L’uso tecnico del termine Abhidharma ha cinque aspetti o significati: a) definire i dharma; b) stabilire i rapporti tra i dharma; c) analizzare i dharma; d) classificare i dharma e e) sistemare i dharma in ordine numerico.
Il canone buddhista è diviso in tre raccolte (letteralmente “cesti”): il Sutra Pitaka, Vinaya Pitaka e Abhidharma Pitaka. Ci si riferisce generalmente al Sutra Pitaka come al Cesto dei Discorsi, mentre il Vinaya Pitaka contiene le regole della comunità monastica e l’Abhidharma Pitaka è ritenuto la raccolta della filosofia e psicologia buddhiste.
Vorrei ora esaminare il rapporto tra l’Abhidharma Pitaka e il Sutra Pitaka. In quest’ultimo vi è molto materiale abhidharmico. Tenendo presente la definizione tecnica di Abhidharma data precedentemente, troviamo che il Sutra Pitaka contiene molti discorsi di carattere abhidharmico: per esempio, l’Anguttara Nikaya presenta un’esposizione degli insegnamenti sistemati per ordine numerico; il Sangiti Sutta e il Dasuttara Sutta contiene l’esposizione di Sariputta degli insegnamenti messi in ordine numerico, e l’Anupada Sutta è un discorso in cui Sariputta analizza la sua esperienza meditativa usando termini abhidharmici.
Come distinguiamo allora l’Abhidharma dai Sutra? Per far ciò dobbiamo considerare il secondo significato del termine Abhidharma, cioè “dottrina superiore”. Nei sutra il Buddha parla da due punti di vista. Nel primo parla di esseri, oggetti, qualità e proprietà degli esseri, del mondo, spesso con affermazioni quali “Io stesso andrò a Uruvela”. Nel secondo, il Buddha proclama in chiari termini che non esiste un “io” e che tutte le cose sono prive di individualità, di sostanza, ecc.
Ovviamente le due prospettive d’osservazione sono quella convenzionale (vohara) e quella ultima (paramattha). Nel linguaggio quotidiano usiamo “tu”, “io” e poi abbiamo il linguaggio tecnico-filosofico che non prevede un’individualità, degli oggetti, ecc. Questa è la differenza tra i contenuti dei sutra e i contenuti dell’Abhidharma degli insegnamenti del Buddha. Generalmente i sutra usano la prospettiva convenzionale mentre l’Abhidarma usa quella ultima. Tuttavia nei sutra ci sono dei passaggi che descrivono l’impermanenza, l’impersonalità e l’insostanzialità, gli elementi e gli aggregati, e quindi riflettono la visuale ultima.
In questo contesto vi è anche un’ulteriore divisione dei testi: quelli il cui significato è esplicito e diretto e quelli il cui significato è implicito e indiretto. Perché il Buddha ricorse a queste due prospettive, la convenzionale e l’ultima? Per avere una risposta, teniamo conto della sua eccellenza come maestro e della sua abilità a scegliere i giusti metodi di insegnamento. Se il Buddha avesse sempre parlato ai suoi ascoltatori in termini di impermanenza e insostanzialità, di elementi ed aggregati, non credo che la comunità buddhista sarebbe cresciuta con la velocità che ebbe nel VI secolo a.C.. Allo stesso tempo il Buddha sapeva che il punto di vista ultimo era indispensabile per comprendere pienamente il Dharma e perciò il suo insegnamento contiene anche un linguaggio specifico per esprimere la prospettiva ultima.
CAPITOLO XV
FILOSOFIA E PSICOLOGIA NELL’ABHIDHARMA
Tradotto in italiano da Silvana Ziviani
Una delle funzioni dell’Abhidharma è quella di definire. La definizione è importante perché, per riuscire a comunicare un soggetto tecnico, dobbiamo sapere esattamente il significato dei termini che usiamo. Perciò vorrei dare un’occhiata a un certo numero di termini ampiamente e sovente usati per parlare del pensiero buddhista. Vorrei arrivare ad una comprensione delle definizioni di questi termini e rapportarli poi alla natura dell’insegnamento del Buddha.
Spesso il buddhismo viene considerato una religione, una filosofia e in tempi recenti una psicologia. “Religione” si riferisce alla credenza o al riconoscimento di un potere superiore invisibile che controlla il corso dell’universo. Inoltre il termine religione ha una componente emotiva e morale e ha a che fare con riti e culti. Siccome il buddhismo non riconosce l’esistenza di un tale potere e non pone l’accento su riti e culti, è difficile classificare il buddhismo in generale, e l’Abhidharma in particolare, come una religione.
Il significato etimologico di filosofia è “amore per la saggezza e la conoscenza”. In senso lato significa indagine sulla natura delle leggi o cause di ogni essere. Questa è una definizione applicabile al buddhismo, ma è un po’ vaga dato i vari significati delle parole “natura” e “essere”. Ciò ha portato a due sistemi di pensiero filosofico, chiamati metafisica e fenomenologia.
La metafisica è lo studio del principio assoluto o primo. E’ detta anche ontologia, cioè lo studio delle essenze o, semplicemente, lo studio delle cose in se stesse. Invece fenomenologia è la descrizione delle cose così come vengono percepite dagli individui; è detta anche epistemologia lo studio delle cose così come vengono conosciute o appaiono a noi.
In quanto filosofia, il buddhismo si occupa soprattutto di fenomenologia. “Psicologia” è lo studio della mente e degli stati mentali e, come la filosofia, ha due aspetti: psicologia pura che è lo studio generale dei fenomeni mentali e psicoterapia o psicologia applicata, che è l’applicazione dello studio dei fenomeni mentali ai problemi della malattia e della cura, dei disturbi e dell’adattamento. Possiamo spiegare la differenza tra psicologia pura e applicata per mezzo di un’analogia. Immaginiamo che un uomo salga in cima a una collina e osservi il paesaggio senza nessuno scopo particolare. La sua osservazione cadrà su ogni cosa: colline, boschi, fiumi, torrenti, senza discriminazione. Ma se ha uno scopo, per esempio quello di raggiungere un’altra vetta più lontana, il suo esame si soffermerà su quelle caratteristiche che possono aiutarlo o impedirgli di raggiungere il suo scopo. Quando parliamo di psicologia applicata o psicoterapia, ci riferiamo allo studio della mente e degli stati mentali che analizza quei fenomeni che possono aiutare o impedire l’ottenimento del benessere mentale.
Avendo analizzato brevemente le definizioni di religione, filosofia e psicologia, possiamo ora vedere che l’aspetto fenomenologico della filosofia e quello terapeutico della psicologia sono quelli che più ci aiutano a comprendere l’insegnamento del Buddha.
L’Abhidharma, come tutto il pensiero buddhista in generale, è molto razionale e logico. Se osserviamo attentamente il metodo di esposizione e argomentazione dell’Abhidharma, scopriamo l’inizio della dialettica che è la scienza del dibattito e anche l’inizio di argomentazioni e analisi logiche. Questo è particolarmente evidente nella classificazione in quattro gruppi della natura delle domande.
Si ritiene che la familiarità e l’abilità ad usare questa classificazione sia indispensabile per chiunque voglia impegnarsi efficacemente in discussioni e dibattiti sul Dharma perché, per rispondere correttamente a una domanda, bisogna capire la natura della domanda stessa.
Il primo gruppo di domande riguarda quelle a cui si può rispondere direttamente e categoricamente, come per esempio “Tutti gli esseri viventi muoiono?”. La risposta è “Sì, tutti gli esseri viventi muoiono”.
Il secondo gruppo riguarda quelle domande che richiedono una risposta qualificativa, come per esempio: “Tutti gli esseri viventi rinasceranno?” Non si può rispondere direttamente e categoricamente perché vi possono essere due interpretazioni. Perciò la domanda va analizzata e la risposta deve tener conto di ognuno dei significati possibili. ”Gli esseri viventi che non si sono liberati dalle afflizioni rinasceranno, mentre quelli liberi dalle afflizioni, come gli arahats non rinasceranno”.
Al terzo gruppo di domande si deve rispondere con una contro-domanda. Per esempio alla domanda “L’uomo è potente?”, prima di rispondere, si deve stabilire quale è il punto di riferimento della domanda, cioè l’uomo è potente in riferimento agli dei o agli uomini? Se è il primo, allora l’uomo non è potente, se invece è il secondo, allora l’uomo è potente. Lo scopo della contro-domanda è determinare il punto di riferimento che l’interrogante ha in mente.
Il quarto gruppo di domande è quello che ci interessa particolarmente in questo studio. Sono domande che non meritano una risposta: fanno parte di questo gruppo le famose proposizioni inesprimibili, di fronte alle quali il Buddha rimase in silenzio. Tradizionalmente ci sono 14 domande senza risposta e si trovano, per esempio, nel Chulamalunkya Sutta. Sono divise in tre categorie: la prima categoria contiene otto domande che concernono la natura assoluta o ultima del mondo: il mondo è eterno o non eterno, o entrambi o nessuno dei due? finito o non finito, o entrambi o nessuno? Questa categoria comprende due tipi di domande e tutti e due i tipi si riferiscono al mondo. Il primo tipo si riferisce all’esistenza del mondo nel tempo e il secondo all’esistenza del mondo nello spazio.
La seconda categoria contiene quattro domande: il Tathagata esiste dopo la morte o no, o sì in entrambi i casi o no in entrambi? Queste domande si riferiscono alla natura del Nirvana o realtà ultima.
La terza categoria contiene due domande: il sé è identico al corpo o diverso? Mentre la prima categoria di domande si riferisce al mondo e la seconda a ciò che sta oltre il mondo, quest’ultima si riferisce all’esperienza personale. Moriamo insieme al corpo o la nostra individualità è del tutto diversa e indipendente dal corpo?
Quando gli posero queste quattordici domande il Buddha rimase in silenzio. Le paragonò a una rete e si rifiutò di cadere in una tale rete di teorie, speculazioni e dogmi. Disse che aveva raggiunto la liberazione proprio perché si era sciolto dai legami di ogni teoria e dogma, e che tali speculazioni sono accompagnate da febbre, disagio, confusione e sofferenza, per cui bisogna eliminarle per ottenere la liberazione.
Diamo un’occhiata generale alle quattordici domande per vedere come mai il Buddha prese tale posizione. In generale le 14 domande implicano due atteggiamenti diversi nei confronti del mondo. Il Buddha parlò di questo nel dialogo con Maha Kacciayana quando disse che vi sono due visuali fondamentali, quella dell’esistenza e quella della non esistenza. Disse che la gente è abituata a pensare in questi termini e che fino a che rimane intrappolata in queste due visuali, non può ottenere la liberazione. La proposizione che il mondo è eterno, che il mondo è infinito, che il Tathagata esiste dopo la morte e che il sé è indipendente dal corpo riflette la visuale dell’esistenza. La proposizione che il mondo non è eterno, che il mondo è finito, che il Tathagata non esiste dopo la morte e che il sé è identico al corpo, riflette la visuale della non esistenza.
Queste due visuali erano sostenute da maestri di altre scuole al tempo del Buddha. Quella dell’esistenza in generale era professata dai bramini; quella della non esistenza dai materialisti ed edonisti. Nel rifiutare di farsi intrappolare in questa rete di opinioni dogmatiche sull’esistenza e non esistenza, credo che il Buddha avesse due scopi: (Da una recente traduzione pali-inglese di Ajhan Munindo: 1. Tutto ciò che siamo è generato dalla mente. / E’ la mente che traccia la strada. / Come la ruota del carro segue / l’impronta del bue che lo traina / così la sofferenza ci accompagna / quando sventatamente parliamo o agiamo / con mente impura.) le conseguenze etiche di queste visuali e, cosa più importante [ Tutto ciò che siamo è generato dalla mente / E’ la mente che traccia la strada. / Come la nostra ombra incessante ci segue / così ci segue il benessere / quando parliamo o agiamo / con purezza di mente.] il fatto che le visuali di un’esistenza assoluta e di una non esistenza non corrispondono alla realtà delle cose. Per esempio, gli eternalisti sostengono che il sé è permanente e non soggetto a cambiamento, perciò alla morte del corpo il sé non perisce perché la sua natura è immutabile. Se così fosse non è importante ciò che fa il corpo: le azioni fisiche non influenzano il destino del sé. Questa visuale è incompatibile con la responsabilità morale perché se il sé è eterno e immutabile, non viene influenzato da azioni positive o negative. Ugualmente, se il sé è identico al corpo, e muore insieme ad esso, non è importante ciò che fa il corpo. Se si crede che l’esistenza finisca con la morte, non ci sarà controllo sulle proprie azioni. Ma quando invece le cose esistono a causa dell’ Origine interdipendente, non esiste la possibilità né di esistenza eterna né di non esistenza.
Un altro esempio riguardante le 14 domande senza risposta dimostra che le proposizioni non corrispondono alla realtà delle cose. Prendiamo l’esempio del mondo: il mondo né esiste in senso assoluto né non esiste in senso assoluto nel tempo. Il mondo dipende da cause e condizioni: ignoranza, bramosia e attaccamento. Quando sono presenti ignoranza, bramosia e attaccamento, il mondo esiste; quando non sono presenti, il mondo cessa di esistere. Per questo la domanda sull’esistenza o non esistenza del mondo non può avere risposta.
La stessa cosa si può dire per le altre categorie di domande che formano le 14 domande a cui non si può rispondere. Esistenza e non esistenza, considerate come idee assolute, non sono applicabili alle cose così come sono. E’ per questo che il Buddha si rifiutò di fare dichiarazioni assolute sulla natura delle cose. Vide che le categorie assolute della metafisica non si applicano alle cose così come sono.
Per quanto riguarda l’atteggiamento del Buddha verso la psicologia, non vi è dubbio che egli sottolineò a più riprese il ruolo della mente. Ci sono familiari i primi due versi del Dhammapada[1] in cui il Buddha parla della mente come del precursore di tutti gli stati mentali. Il testo dice che la felicità e la sofferenza derivano dall’agire rispettivamente con una mente pura o impura. Basta leggere i testi canonici per riconoscere l’importanza della mente nell’insegnamento buddhista. Vi troviamo i cinque aggregati di cui quattro mentali, e i 37 fattori d’illuminazione, la maggior parte dei quali è mentale. Ovunque guardiamo rimaniamo colpiti dall’importanza che l’insegnamento buddhista attribuisce alla mente.
Molte religioni e filosofie hanno un loro specifico punto di partenza. Le religioni teistiche cominciano con Dio. Gli insegnamenti morali come il confucianesimo cominciano con l’uomo quale entità sociale. Il buddhismo comincia con la mente. Non è perciò sorprendente che spesso descriviamo gli insegnamenti del Buddha come psicologici e anche come terapeutici, poiché è preminente in essi il simbolismo della malattia e cura. Le Quattro Nobili Verità riflettono il tradizionale schema di malattia, diagnosi, rimedio e cura usato nell’antica scienza medica e va ricordato che il Buddha era chiamato il re dei medici.
Il Buddha era interessato al rimedio, non alle categorie metafisiche. In diversi discorsi del Sutra Pitaka egli usa varie tecniche di cura. Per esempio, prendiamo gli insegnamenti del Buddha sul “sé”. Nel Dhammapada egli insegna che il saggio ottiene la felicità disciplinando se stesso,mentre in altri discorsi troviamo che il Buddha espone la dottrina del non sé, dell’idea che in nessuna delle componenti psico-fisiche dell’esperienza si può trovare un sé permanente. Per spiegare questa apparente contraddizione, dobbiamo vedere il dialogo del Buddha con Vacchagotta che gli aveva chiesto se esistesse un sé oppure no. Il Buddha rimase in silenzio e dopo un po’ Vacchagotta se ne andò. Ananda che era presente chiese al Buddha perché non avesse risposto. Il Buddha spiegò che se avesse detto che il sé esiste, significava che era d’accordo con quei bramini che credevano nell’esistenza assoluta del sé, ma se avesse detto a Vacchagotta che il sé non esiste lo avrebbe confuso e portato a pensare “Prima avevo un sé, ma ora non ce l’ho più”. Il Buddha scelse di rimanere in silenzio perché conosceva la posizione di Vacchagotta. Allo stesso modo quando veniva affrontato da chi non credeva nella rinascita, egli insegnava l’esistenza di un sé, mentre a chi credeva nella realtà del karma, nel frutto delle azioni buone e cattive, egli insegnava la dottrina del non sé.
Questa era l’abilità del Buddha nel dare le istruzioni adatte. Vediamo ora come questo si collega al rifiuto del Buddha di categorie assolute, come quando usa il simbolo del serpente d’acqua. Egli disse che i fattori dell’esperienza sono come un serpente d’acqua. Quando uno che è capace di maneggiare un serpente d’acqua e conosce il metodo per catturarlo, prova a prenderlo ci riuscirà. Ma quando cerca di farlo uno che non sa come maneggiare un serpente e ignora come catturarlo, il suo tentativo finirà in dolore e recriminazioni. Ugualmente i fenomeni, cioè i fattori dell’esperienza, non sono nulla di per sé. Non sono né assolutamente esistenti né assolutamente non esistenti, né assolutamente buoni né assolutamente cattivi; sono piuttosto relativi. Che risultino in felicità o dolore, che ci facciano progredire o regredire sulla via, non dipende dai fenomeni stessi ma da come li usiamo. Se le cose sono usate nel modo giusto, adattandovi la mente in modo consapevole e deliberato, i fenomeni possono essere utili per progredire lungo la via. Un coltello, ad esempio, non è né vero né falso, ma sicuramente sbaglia chi lo afferra per la lama. Quando ci rapportiamo ai fenomeni in termini di bramosia, ostilità e ignoranza, ne risulta sofferenza. Quando li prendiamo diversamente, ne risulta felicità.
Riassumendo: possiamo usare i termini “filosofia” e “psicologia” in rapporto alla tradizione buddhista, ma bisogna tener presente che i buddhisti sono interessati alla filosofia non per ciò che riguarda le essenze e le categorie assolute, ma in quanto descrizione dei fenomeni e che sono interessati alla psicologia sotto il suo aspetto di psicoterapia.
La filosofia e la psicologia dell’Abhidharma hanno perciò caratteristiche uniche nella storia del pensiero umano. In nessun altro luogo, sia in tempi antichi che moderni, sia in Occidente che in Oriente, si sono sviluppate una fenomenologia e una psicoterapia simili. Ciò che è unico nella fenomenologia e psicoterapia buddhiste è il rigetto dell’idea di un sé permanente e l’affermazione di una possibilità di liberazione. In tutti gli altri sistemi, come anche nella fenomenologia e psicoterapia della filosofia occidentale, vediamo l’incapacità di rifiutare l’idea di un sé permanente, cosa invece questa tipica degli insegnamenti del Buddha e dell’Abhidharma. E ancora nella moderna psicologia non si trova mai la possibilità di una libertà ultima e assoluta, come invece è alla base degli insegnamenti buddhisti. | |