Articoli di Dharma

 

L'albero dell'Illuminazione

(Cap. VI - X)

di Peter Della Santina

 

 
 

CAPITOLO VI

SVILUPPO MENTALE

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


In questo capitolo tratteremo i vari stadi dell’Ottuplice Nobile Sentiero che fanno parte del gruppo dello sviluppo mentale. Abbiamo visto come i vari gradini della Via siano interdipendenti e in questo contesto è importante capire la posizione che occupa lo sviluppo mentale. Posto tra buona condotta e saggezza, lo sviluppo mentale è importante e attinente ad entrambe. Vi chiederete come. Certe volte la gente pensa che basta seguire i precetti morali per avere una buona vita. A ciò si può rispondere in vari modi. Prima di tutto va detto che nel buddhismo ci sono vari traguardi della vita religiosa. Oltre a volere ottenere felicità e buona fortuna, si tende anche alla liberazione. Se si vuole ottenere la liberazione l’unico modo è attraverso la saggezza, e la saggezza la si ottiene con la purificazione mentale per mezzo della meditazione.


Ma lo sviluppo mentale è utile, o addirittura necessario, se si vuole ottenere un buon livello di pratica morale.

Perché? Perché è relativamente facile seguire le norme di buona condotta quando tutto va bene. Se avete un buon lavoro, una posizione nella società e guadagnate abbastanza da mantenere voi e la vostra famiglia, è relativamente facile osservare i precetti morali. Ma quando vi trovate in situazioni di tensione, instabilità e incertezza, quando per esempio perdete il lavoro o vi trovate in situazioni in cui sembra che ci sia solo anarchia e confusione, allora il mantenimento delle norme di buona condotta è a rischio.


In tal caso solo lo sviluppo mentale può salvaguardare la pratica di buona condotta. Rinforzando la capacità della mente e tenendola sotto controllo, lo sviluppo mentale serve a garantire l’osservazione dei precetti e allo stesso tempo aiutare a vedere le cose così come sono. Lo sviluppo mentale prepara la mente alla saggezza, la quale a sua volta apre la porta alla liberazione e all’illuminazione.

E’ per tutto questo che lo sviluppo mentale gioca un ruolo importante e speciale nella pratica dell’Ottuplice Nobile Sentiero. Non ci deve sorprendere la rilevanza attribuita dal buddhismo allo sviluppo mentale se si pensa all’importanza della mente nella concezione buddhista dell’esperienza. La mente è il fattore più importante della pratica dell’Ottuplice Sentiero. Il Buddha lo sostenne chiaramente quando disse che la mente è all’origine di tutto e che tutto è creato dalla mente. Allo stesso modo è detto che la mente è la sorgente di tutte le virtù e di tutte le qualità benefiche. Ma per ottenerle dobbiamo disciplinare la mente. La mente è la chiave per cambiare la natura dell’esperienza. Sarebbe senz’altro un’impresa molto difficile coprire tutta la superficie della terra con una sostanza morbida ma resistente per proteggere i piedi dai sassi e legnetti. Ma coprendo semplicemente le piante dei piedi con le scarpe è come se si fosse ricoperta tutta la terra. Allo stesso modo, se volessimo purificare l’intero universo dall’attaccamento, avversione e ignoranza sarebbe un’impresa impossibile; ma purificando semplicemente la nostra mente da queste tre afflizioni per noi è come se l’intero mondo ne fosse purificato.

Per questo il buddhismo punta sulla mente come unica chiave per cambiare il modo in cui sperimentiamo le cose e il modo di rapportarci con gli altri. L’importanza della mente è stata anche riconosciuta dalla scienza, dalla psicologia e perfino dalla fisica. Ormai molti psicoterapeuti occidentali usano varie tecniche di visualizzazione. Psichiatri e medici si avvalgono con successo di metodi molto simili a ben note tecniche di meditazione per aiutare i pazienti a superare disordini mentali, dolori cronici e malattie. E’ un approccio questo, ormai generalmente accettato dalla comunità medica.

Tutti noi sappiamo per esperienza quanto la mente influenzi il nostro stato d’animo. Abbiamo tutti sperimentato momenti di felicità e abbiamo visto come influenzino positivamente la nostra attività. In un tale stato d’animo siamo efficienti, rispondiamo in maniera appropriata e facciamo tutto nel modo migliore. Altre volte, quando la mente è disturbata, depressa o pervasa da emozioni negative ci accorgiamo di non riuscire a fare neanche le cose più elementari. In questi casi vediamo quanto la mente sia importante, qualunque sia la sfera della nostra vita che osserviamo.

Tre stadi dell’Ottuplice Nobile Sentiero riguardano lo sviluppo mentale: 1)Retto Sforzo, 2) Retta Consapevolezza e 3) Retta Concentrazione. Presi insieme, questi tre elementi ci spronano, ci rendono fiduciosi, attenti e calmi.

In senso generale Retto Sforzo significa coltivare un atteggiamento fiducioso verso ciò che abbiamo intrapreso. Il Retto Sforzo può anche essere chiamato entusiasmo. Vuol dire iniziare e portare avanti il proprio impegno con energia e con la determinazione di compierlo fino in fondo. Tradizionalmente si dice che dobbiamo affrontare il nostro dovere con lo stesso entusiasmo con cui un elefante entra in un fresco laghetto quando è accaldato dal sole bruciante di mezzogiorno. Con questo tipo di sforzo riusciremo in tutto ciò che intraprendiamo, sia negli studi che nella carriera, che nella pratica del Dhamma.

In questo senso potremmo dire che il Retto Sforzo è l’applicazione pratica della fiducia. Se non mettiamo sforzo nei progetti che vogliamo portare avanti, non ci saranno molte probabilità di riuscita.

Ma lo sforzo va controllato, va equilibrato e qui è bene ricordare la natura basilare della Via di Mezzo e l’esempio delle corde del liuto, di cui abbiamo già parlato. Lo sforzo non deve mai diventare troppo teso, troppo spinto, ma neanche troppo debole. E’ questo ciò che significa Retto Sforzo: una determinazione controllata, continua ed entusiasta. Tradizionalmente il Retto Sforzo viene diviso in quattro sezioni: 1) lo sforzo per prevenire il sorgere di negatività; 2) lo sforzo di respingere le negatività che sono sorte; 3) lo sforzo di coltivare pensieri positivi e 4) lo sforzo di mantenere i pensieri positivi che sono sorti. Quest’ultimo è importante perché molto spesso non riusciamo a mantenere a lungo i pensieri positivi che abbiamo coltivato. Questi quattro aspetti del Retto Sforzo concentrano l’energia della mente sugli stati mentali. Lo scopo è di ridurre, e infine eliminare, i pensieri negativi che occupano la mente, e aumentare e stabilizzare i pensieri positivi in modo che diventino parte integrante e naturale dei nostri stati mentali.

La Retta Consapevolezza è il secondo gradino dell’Ottuplice Nobile Sentiero e fa parte del gruppo dello sviluppo mentale. E’ una qualità essenziale anche nella vita quotidiana. Come per gli altri insegnamenti del Buddha, anche questo lo si può illustrare con esempi tratti dalla vita quotidiana. Infatti se guardate gli insegnamenti del Buddha vedrete che spesso egli usa esempi riguardanti cose famigliari ai suoi ascoltatori. Sarebbe quindi bene considerare quale importanza abbia la consapevolezza anche nelle nostre attività mondane.

Consapevolezza è presenza mentale o attenzione e come tale significa evitare gli stati mentali distratti o nebulosi. Se la gente fosse più consapevole ci sarebbero molto meno incidenti a casa o sulla strada. Sia guidando la macchina o attraversando la strada, sia cucinando che facendo i conti, tutto sarebbe più sicuro ed efficiente se si fosse sempre attenti e consapevoli. La consapevolezza accresce l’efficienza e capacità e allo stesso tempo riduce il numero degli incidenti dovuti alla disattenzione e alla mancanza di consapevolezza.

Nella pratica del Dhamma la consapevolezza agisce come delle redini sulla mente. Se ci soffermiamo un attimo a considerare come si comporta normalmente la nostra mente, vedremo che c’è veramente bisogno di qualche freno o controllo. Supponete che mentre state leggendo, un colpo di vento faccia sbattere una finestra in qualche parte della casa. Quasi sicuramente volgerete l’attenzione al rumore e, almeno per un istante, la mente sarà completamente focalizzata su di esso. E almeno per quell’istante la mente sarà distratta da quanto stavate leggendo. Allo stesso modo, quasi in ogni attimo della nostra vita cosciente la mente corre dietro a qualche oggetto dei sensi. La nostra mente non è quasi mai concentrata o ferma. Gli oggetti dei sensi che attirano la nostra attenzione possono essere suoni, cose visibili o anche pensieri. Mentre state guardando, gli occhi e la mente possono venir attirati da una pubblicità interessante; mentre passeggiate il profumo di una donna può attirare la vostra attenzione su di esso o sulla donna. Sono tutti oggetti dei sensi e sono distrazioni.

Per parare gli effetti di queste distrazioni abbiamo bisogno di una guardia che eviti alla mente di invischiarsi con gli oggetti dei sensi e con gli stati mentali negativi che tali oggetti possono suscitare. Questa guardia è la consapevolezza. Il Buddha, a questo proposito, raccontò la storia di due acrobati: il maestro e l’apprendista. Una volta il maestro disse all’apprendista: “Tu proteggi me e io proteggerò te. In tal modo faremo bene il nostro spettacolo, ne usciremo sani e salvi e guadagneremo soldi”. Ma l’apprendista replicò: “No maestro, così non va bene. Io proteggo me stesso e tu te stesso”. Allo stesso modo tutti noi dobbiamo sorvegliare la nostra mente. Ad alcuni potrebbe sembrare un comportamento egoista. E il lavoro di gruppo dove va a finire? Ma credo che questa obiezione nasca da un malinteso. La forza di un’intera catena è corrispondente a quella del suo anello più debole. Un gruppo funziona quanto funzionano i suoi membri. Un gruppo di gente distratta, irresponsabile e inefficiente, è una squadra che non funziona. Ugualmente, affinché i nostri rapporti con gli altri vadano bene dobbiamo controllare le nostre menti.

Mettiamo che abbiate una bella macchina. Starete attenti a parcheggiarla bene in modo che non venga urtata da un altro conducente. Sia sul posto di lavoro che a casa le darete un’occhiata dalla finestra di tanto in tanto per controllare che sia a posto. La laverete spesso e la porterete regolarmente in officina per i controlli periodici. Probabilmente la assicurerete per una considerevole somma. Allo stesso modo, ognuno di noi possiede un bene che vale più di qualsiasi altra cosa: la mente.

Avendo riconosciuto il valore e l’importanza della mente, dobbiamo sorvegliarla bene. E questa è la consapevolezza. E’ un aspetto dello sviluppo mentale che può essere praticato sempre e ovunque. Alcuni pensano che sia troppo difficile praticare la meditazione e anzi sono spaventati persino all’idea di provarla. Generalmente queste persone si riferiscono alla meditazione formale, cioè alla concentrazione della mente da seduti. Ma anche se non ve la sentite ancora di praticare le tecniche di concentrazione mentale, il Retto Sforzo e la Retta Consapevolezza possono e dovrebbero essere praticate da tutti. I primi due gradini dello sviluppo mentale sono semplicemente 1) la coltivazione di un atteggiamento fiducioso della mente attenta e consapevole e 2) l’osservazione del corpo e della mente per sapere sempre cosa state facendo.

Mentre scrivo, proprio in questo momento, con una parte della mente osservo la mente. Cosa sto pensando? Sono concentrato su quello che cerco di trasmettere scrivendo o sto pensando a cosa è successo questa mattina, la settimana passata o a cosa farò questa sera? Ho sentito una volta un maestro dire che se state preparando il té, buddhismo vuol dire prepararlo bene. L’essenza dello sviluppo mentale è concentrare la mente esattamente su ciò che uno sta facendo in quel momento: andare a scuola, pulire la casa o conversare con un amico. Potete praticare la consapevolezza di qualsiasi cosa stiate facendo. La consapevolezza può essere praticata sempre e ovunque. E’ una pratica che ha avuto un ruolo importante nel buddhismo. Il Buddha la chiamò l’unica via per por fine alla sofferenza. E’ stata elaborata anche una pratica per applicare la consapevolezza in quattro modalità: 1) consapevolezza del corpo, 2) consapevolezza delle sensazioni, 3) consapevolezza della coscienza e 4) consapevolezza degli oggetti mentali. Queste quattro applicazioni della consapevolezza (satipatthana) continuano ad avere ancora oggi un ruolo molto importante nella pratica della meditazione buddhista.

Ora passiamo a considerare il terzo elemento dello sviluppo mentale: la concentrazione, chiamata talvolta “tranquillità” o semplicemente meditazione. Forse ricorderete che in precedenza siamo risaliti all’origine della meditazione attribuendola alla civiltà della valle dell’Indo. La meditazione, o concentrazione, non vuol dire entrare in uno stato di torpore e ancora meno in uno stato comatoso o di semi-coscienza. La concentrazione è semplicemente la pratica di focalizzare e unificare la mente su un solo oggetto, che può essere sia fisico che mentale. Quando si arriva a concentrare la mente esclusivamente su un solo oggetto, essa ne viene completamente assorbita, per cui viene esclusa ogni altra attività mentale, quale distrazione, torpore, agitazione o confusione. Lo scopo della Retta Concentrazione è questo: concentrare e unificare la mente su un solo oggetto. Molti di noi hanno avuto momenti così nella vita quotidiana. Certe volte ascoltando la musica o guardando il mare o il cielo, la mente si è concentrata spontaneamente. In quei momenti possiamo sperimentare un attimo in cui la mente rimane assorbita esclusivamente in un oggetto, in un suono o in una forma.

Si può praticare la concentrazione in molti modi, e l’oggetto può essere visivo (una fiamma, un’immagine, un fiore) o un’idea (amore, compassione). Quando si pratica la concentrazione si porta la mente ripetutamente sull’oggetto prescelto, in modo che poco a poco la mente vi rimanga fissa senza distrarsi. Quando questo stato può essere mantenuto per un certo tempo, diciamo che si è ottenuta l’unificazione della mente. E’ importante tenere presente che per questa pratica è bene avere la guida di un maestro qualificato, perché il successo, o l’insuccesso, dipendono da un certo numero di fattori tecnici, come ad esempio l’atteggiamento, la postura, la durata, il tempo di pratica, ecc. E’ difficile mettere insieme nel modo giusto tutti questi fattori, solo leggendoli in un libro. Comunque non c’è bisogno di diventare monaci per praticare questa meditazione. Non dovete vivere in una foresta e abbandonare ogni normale attività. Potete cominciare con periodi brevi di 10 o 15 minuti. Questo tipo di meditazione porta a due benefici principali: 1) procura benessere, agio, gioia, calma, tranquillità sia sul piano fisico che mentale; 2) fa della mente uno strumento capace di vedere le cose così come sono. In tal modo prepara la mente al sorgere della saggezza.

Il graduale sviluppo della capacità di vedere le cose così come sono per mezzo della meditazione è stato assimilato alla scoperta di strumenti speciali, per mezzo dei quali possiamo vedere la realtà subatomica. Quindi, se non sviluppiamo il potenziale della mente attraverso il Retto Sforzo, la Retta Consapevolezza e la Retta Concentrazione, la comprensione della realtà così com’è rimarrà tutt’al più una conoscenza intellettuale.

Affinché la comprensione delle Quattro Nobili Verità non sia solo una nozione ma un’esperienza diretta dobbiamo riuscire a unificare la mente.

E solo allora lo sviluppo mentale può diventare saggezza. Ora possiamo vedere bene il ruolo speciale che ha la meditazione nel buddhismo. Vi ho già accennato brevemente quando ho parlato della decisione del Buddha di lasciare i suoi due maestri di meditazione, Alara Kalama e Uddaka Ramaputta, e di come riuscì a combinare insieme concentrazione e saggezza la notte della sua illuminazione. La sola unificazione della mente, infatti, non basta. E’ come far la punta alla matita prima di cominciare a scrivere o affilare l’ascia che si userà per tagliare il tronco dell’attaccamento, avversione e ignoranza. Dopo aver unificato la mente siamo pronti a mettere insieme concentrazione e saggezza per giungere all’illuminazione.





CAPITOLO VII

SAGGEZZA

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


Con questo capitolo terminiamo il nostro studio sui vari gradini dell’Ottuplice Nobile Sentiero. Nei capitoli quinto e sesto abbiamo visto i primi due gruppi, o modi, di pratica, quelli di buona condotta e di sviluppo mentale. Qui considereremo la terza via di pratica, che è la saggezza. A questo punto ci troviamo di fronte a un paradosso apparente: nella lista degli otto gradini della Via, la Retta Visione e il Retto Pensiero vengono per primi, ma nel contesto della pratica il gruppo della saggezza viene per ultimo. Come mai? Prima abbiamo usato l’analogia di scalare una montagna per spiegare la relazione tra i vari gradini della Via. Quando cominciate la scalata dovete avere in vista la vetta. E’ la vista della cima che dà la direzione da seguire. Perciò, fin dall’inizio della scalata dovete tenere gli occhi rivolti alla vetta. E’ per questo che la Retta Visione è messa all’inizio della Via; ma in pratica dovete superare i primi pendii e scalare i tratti a metà costa prima di raggiungere la cima, rappresentata dalla saggezza. In realtà quindi la saggezza è alla fine della Via. La saggezza è la comprensione delle Quattro Nobili Verità, dell’Origine Interdipendente e degli altri insegnamenti.

Ciò che voglio spiegare dicendo questo, è che ottenere la saggezza significa trasformare questi insegnamenti da mera conoscenza intellettuale a reale esperienza. In altre parole, trasformiamo la conoscenza della dottrina da pura nozione libresca in reale verità vivente. Questo scopo lo si ottiene prima con la pratica di buona condotta e poi in particolare coltivando lo sviluppo mentale.

Tutti possono leggere in un libro il significato delle Quattro Nobili Verità, dell’Origine Interdipendente e il resto, ma ciò non significa ottenere la saggezza. Il Buddha stesso ha detto che proprio perché non abbiamo capito le Quattro Nobili Verità e l’Origine Interdipendente siamo passati da un ciclo all’altro di nascita e morte da tempo immemorabile. Naturalmente, dicendo questo voleva intendere qualcosa di più profondo che l’incapacità di comprendere o ‘vedere’ la dottrina a livello intellettuale. Bisogna quindi dare alla parola comprensione il significato di Retta Visione cioè di una comprensione o visione diretta e immediata, un atto di pura percezione, come vedere una macchia blu. Forse è per questo che la parola “vedere” è usata così spesso per descrivere la realizzazione della saggezza. Parliamo infatti di “vedere la verità” o di “vedere le cose così come sono” perché la saggezza non è un esercizio intellettuale o accademico, ma è comprensione, il “vedere” direttamente la verità. Questa diretta comprensione della natura della realtà può essere assimilata al raggiungimento dell’illuminazione. Apre la porta alla liberazione dalla sofferenza e al Nirvana. Nel buddhismo la saggezza è la chiave per realizzare lo scopo della religione. In alcune religioni troviamo che prevale la fede; in altre tradizioni la cosa più eccelsa è la meditazione; nel buddhismo invece la fede è preliminare e la meditazione strumentale. La vera essenza del buddhismo è la saggezza.

Due gradini dell’Ottuplice Nobile Sentiero fanno parte del gruppo della saggezza: Retta Visione e Retto Pensiero. Retta Visione significa vedere le cose come realmente sono, comprenderne la verità inerente, piuttosto che vederle solo come ci appaiono esteriormente. Quindi vederle intuitivamente, in profondità, oltre alla superficie e alle apparenze.

In termini dottrinali, questo vuol dire avere la retta visione delle Quattro Nobili Verità, dell’Origine Interdipendente, dell’impermanenza, impersonalità e così via. Per il momento parliamo solo dei mezzi per ottenere la Retta Visione, lasciando da parte momentaneamente il suo contenuto. Ancora una volta è evidente l’atteggiamento scientifico del Buddha perché, quando analizziamo i mezzi per ottenere la Retta Visione, troviamo che all’inizio si pratica l’osservazione obiettiva di noi stessi e del mondo che ci circonda. Inoltre all’osservazione obiettiva bisogna accompagnare l’indagine, l’analisi e la riflessione. Trattando la Retta Visione vediamo che ce ne sono di due tipi: quella acquisita personalmente e quella che ci viene da altri, cioè le verità che altri ci presentano. Alla fine questi due modi di comprensione si fondono perché, in ultima analisi, la vera comprensione (o meglio la Retta Comprensione) deve venire da noi stessi. All’inizio però possiamo distinguere tra la comprensione che ci viene dalla pura osservazione dei dati dell’esperienza quotidiana e la comprensione che ricaviamo dallo studio degli insegnamenti.

Come in situazioni normali ci viene insegnato di osservare prima i fatti che obiettivamente ci si presentano e poi valutarli, così nell’insegnamento del Buddha ci vien detto prima di studiarlo e poi valutarlo e analizzarlo. Ma, sia che osserviamo e indaghiamo la realtà con la nostra esperienza personale, sia che studiamo i testi, il passo finale in questo processo di conoscenza, è la meditazione ed è a questo stadio che i due tipi di comprensione a cui alludevo prima diventano indivisibili.

Per riassumere, i mezzi per ottenere la retta comprensione sono: in un primo momento l’osservazione e lo studio; poi dovete esaminare intellettualmente ciò che avete osservato e studiato e infine dovete meditare su ciò che avete esaminato intellettualmente prima. Per fare un esempio, supponiamo che dovete recarvi in un certo posto. Per prepararvi al viaggio comprate una mappa che segni la strada che vi deve portare a destinazione. Prima di tutto guardate la mappa per avere indicazioni sulla direzione da prendere; poi riesaminate ciò che avete osservato nella mappa per essere sicuri di averne capito bene le indicazioni. Solo allora cominciate il viaggio verso la destinazione voluta. L’ultimo gradino di questo processo, cioè cominciare praticamente il viaggio, può essere paragonato alla meditazione.

Oppure supponete di aver comprato un nuovo apparecchio per la casa o l’ufficio. Non basta, per metterlo in funzione leggere una sola volta le istruzioni. Bisogna rileggerle varie volte per essere sicuri del loro significato. Solo quando siete certi di averle capite bene, cominciate a mettere in funzione e a usare l’apparecchio. L’atto di usare in modo appropriato l’apparecchio è analogo alla meditazione. Allo stesso modo, per ottenere la saggezza, dovete meditare sulla conoscenza acquisita attraverso l’osservazione o lo studio e verificata poi intellettualmente con l’analisi. Al terzo stadio del processo di Retta Comprensione, la conoscenza ottenuta in precedenza diventa parte della nostra esperienza di vita.

Vorrei fare ora qualche considerazione sull’atteggiamento da coltivare quando si entra in contatto con gli insegnamenti del Buddha. Per farlo, dobbiamo evitare tre difetti che vengono spiegati con l’esempio di un vaso. In questo contesto noi siamo il vaso, mentre gli insegnamenti sono il contenuto che va versato nel vaso. Supponiamo per prima cosa che il vaso sia chiuso da un coperchio: ovviamente non potremo versarvi dentro nulla. E’ la situazione analoga a colui che ascolta gli insegnamenti con la mente chiusa, cioè con una mente preconcetta. Il Dharma non può entrare e riempire la mente.

Di nuovo, supponiamo di avere un vaso con un buco in fondo: se cerchiamo di riempirlo di latte, il liquido semplicemente esce dal buco. Corrisponde a quello che non trattiene ciò che ascolta, per cui gli insegnamenti sono per lui inutili. Infine supponiamo di riempire un vaso di latte fresco senza prima aver controllato che fosse pulito e infatti nel vaso c’era del latte andato a male dal giorno precedente. Anche il latte fresco che vi versiamo andrà perciò a male. Analogamente, se uno ascolta gli insegnamenti con mente impura, gli insegnamenti non saranno di alcun beneficio. Per esempio, uno che ascolta il Dharma con l’idea di utilizzarlo egoisticamente per acquisire onori e riconoscimenti, è come un vaso contaminato da impurità.

Dobbiamo cercare di evitare questi tre atteggiamenti quando ci accostiamo agli insegnamenti del Buddha. Il modo corretto per ascoltare il Dharma è quello di un malato che ascolta attentamente il consiglio del medico. Il Buddha è come un medico, gli insegnamenti sono come le medicine, noi siamo il malato e la pratica è il mezzo con cui possiamo curare la malattia delle afflizioni (attaccamento, avversione e ignoranza) che sono la causa del nostro soffrire. Sicuramente otterremo un certo grado di Retta Comprensione se ci accosteremo allo studio del Dharma con questa forma mentale.

La Retta Comprensione è spesso divisa in due aspetti o livelli: un livello normale e uno superiore. Ho già parlato degli scopi del buddhismo che anche essi appartengono a due livelli: lo scopo della felicità e prosperità appartiene a questa e all’altra vita, mentre lo scopo della liberazione o nirvana è il fine ultimo della pratica. La normale Retta Comprensione riguarda lo scopo mondano, mentre il livello superiore corrisponde al fine ultimo della pratica buddhista.

Il primo comune aspetto della Retta Comprensione riguarda la corretta valutazione del rapporto di causa e effetto, e riguarda la responsabilità morale del nostro comportamento. In altre parole significa che, o prima o dopo, sperimenteremo gli effetti delle nostre azioni. Se agiamo bene, rispettando cioè la vita, la proprietà, la verità, ecc. sperimenteremo i felici effetti delle nostre buone azioni; in altre parole vivremo felicemente in questa vita e in quelle future. E viceversa, se agiamo male sperimenteremo infelicità e situazioni penose in questa e nelle vite future.

Il secondo aspetto, l’aspetto superiore della Retta Comprensione, vuol dire vedere le cose così come sono e riguarda il fine ultimo degli insegnamenti del Buddha. Che vuol dire “vedere le cose così come sono”? Da un punto di vista dottrinale significa vedere che le cose sono impermanenti, interdipendenti, impersonali e così via. Sono tutte risposte corrette; tutte parlano del vedere le cose così come sono. Ma per arrivare alla vera comprensione di questo primo gradino (e in un certo senso anche dell’ultimo) dell’Ottuplice Nobile Sentiero dobbiamo guardare cosa hanno in comune tutte queste espressioni dottrinali della Retta Comprensione. E troviamo che tutte le descrizioni del significato della Retta Comprensione sono l’opposto di ignoranza, schiavitù e prigionia nel ciclo di nascita e morte.

L’illuminazione del Buddha fu essenzialmente l’esperienza della distruzione dell’ignoranza. Il Buddha la descrive spesso come l’esperienza della comprensione delle Quattro Nobili Verità e dell’Origine interdipendente, entrambe riguardanti la distruzione dell’ignoranza. In questo senso l’ignoranza è il problema centrale del buddhismo. L’idea che sta alla base sia delle Quattro Nobili Verità che dell’Origine interdipendente è l’ignoranza, le sue conseguenze e la sua eliminazione. Rivediamo un attimo la formula delle Quattro Nobili Verità. La chiave per trasformare la nostra esperienza da un’esperienza di sofferenza a quella di fine della sofferenza è comprendere la Seconda Nobile Verità, la verità della causa della sofferenza. Come già detto precedentemente, le Quattro Nobili Verità si possono dividere in due gruppi: il primo che include la verità della sofferenza e la verità della causa della sofferenza, deve essere abbandonato. Il secondo, che include la verità della fine della sofferenza e la verità della Via, deve essere realizzato.

Capire la causa della sofferenza ci permette di compiere ciò. Lo si può vedere chiaramente nella descrizione della sua esperienza che il Buddha stesso fece della notte della sua Illuminazione. Quando vide le cause della sofferenza, cioè quando capì che attaccamento, avversione e ignoranza ne sono le cause, questo aprì la porta alla libertà e all’illuminazione. L’ignoranza, l’avversione e l’attaccamento sono le cause della sofferenza, ma se vogliamo restringere il nostro esame alla componente più essenziale dobbiamo focalizzarci sull’ignoranza, perché l’avversione e l’attaccamento nascono a causa dell’ignoranza.

Ignoranza è l’idea di una personalità indipendente e duratura, cioè un Io. E’ questo concetto di un io separato e opposto a tutto e a tutti che è la causa principale di sofferenza. Quando abbiamo l’idea di un tale io, viene naturale volgersi a quelle cose che sostengono e alimentano questo io, e allontanarsi invece da ciò che può sembrare una minaccia per l’io. Il concetto di un sé indipendente è la causa principale della sofferenza, la radice delle emozioni più dannose: attaccamento, avversione, bramosia, rabbia, invidia, gelosia. Vuol dire ignorare che il cosiddetto “io” è solo il nome convenzionale per un insieme di fattori mutevoli, interdipendenti e contingenti che stanno alla base di questi coinvolgimenti emotivi.

Ma esiste forse la foresta se non ci sono gli alberi? Io o sé è solo un nome comune per un insieme di processi. Quando lo si crede reale e indipendente è causa di sofferenza e paura. In questo contesto, credere a un sé indipendente assomiglia a scambiare una corda per un serpente nella semi-oscurità. Se vediamo una corda in una stanza buia potremmo crederla un serpente e questo malinteso è causa di paura. Allo stesso modo, a causa del buio dell’ignoranza, scambiamo i processi impermanenti e impersonali delle sensazioni, delle percezioni, ecc. per un vero io indipendente. Di conseguenza reagiamo alle varie situazioni con speranza o paura, con desiderio verso qualcosa e avversione verso altre, con simpatia per alcuni e antipatia per altri.

Ricapitolando: ignoranza è credere erroneamente che esiste un ego permanente, un sé reale. Questo insegnamento sull’impersonalità non contraddice però la dottrina della responsabilità morale, della legge del karma. Ricorderete che abbiamo appena parlato di due aspetti della Retta Comprensione: la comprensione della legge del karma e vedere le cose così come sono. Una volta che l’erroneo concetto di un sé – che è egocentrismo – è eliminato dalla Retta Comprensione, allora l’attaccamento, l’avversione e tutte le altre afflizioni emotive vengono anche eliminate. Quando esse cessano di manifestarsi si raggiunge la fine della sofferenza. Non mi aspetto che tutto ciò possa esservi subito chiaro. Per questo dedicherò vari capitoli alla nozione di ignoranza e dei suoi correttivi nel buddhismo.

Per ora andiamo verso l’altro gradino della via che appartiene al gruppo della saggezza, cioè il Retto Pensiero. A questo punto possiamo vedere la reintegrazione e l’applicazione dell’aspetto della saggezza della via alla moralità, perché il pensiero ha una grandissima influenza sul nostro comportamento. Il Buddha ha detto che se agiamo e parliamo con una mente pura la felicità ci seguirà, come un’ombra; mentre se parliamo o agiamo con una mente impura la sofferenza ci seguirà come le ruote di un carro seguono gli zoccoli del bue che lo tira.

Retto Pensiero significa evitare attaccamento e avversione. Ricordiamo che le cause della sofferenza sono ignoranza, attaccamento e avversione. Mentre la Retta Comprensione elimina l’ignoranza, il Retto Pensiero toglie l’attaccamento e l’avversione. Quindi Retta Comprensione e Retto Pensiero eliminano tutte le cause della sofferenza.

Per rimuovere l’attaccamento e la bramosia dobbiamo coltivare la rinuncia, mentre per rimuovere l’avversione e la rabbia dobbiamo coltivare amore e compassione. E come possiamo coltivare l’amore e la compassione e il senso di rinuncia che agiscono da correttivi all’avversione e all’attaccamento? La rinuncia si sviluppa contemplando la natura insoddisfacente dell’esistenza, e particolarmente la natura insoddisfacente del piacere dei sensi. Il piacere dei sensi è paragonato all’acqua salata. Un uomo assetato che beve acqua salata nella speranza di placare la sete, in effetti scopre che l’aumenta soltanto. Il Buddha ha paragonato il piacere dei sensi anche a un frutto bello, profumato e gustoso, ma velenoso. Anche i piaceri sono attraenti e ci danno gioia, ma ci portano poi al disastro. Quindi per coltivare la rinuncia bisogna considerare le conseguenze indesiderabili dei piaceri dei sensi.

Inoltre dovremmo tener presente che la natura stessa del samsara, il ciclo di nascita e morte, è sofferenza. Non importa a che livello del ciclo siamo rinati, la nostra situazione è comunque satura di sofferenza. La natura del samsara è sofferenza, proprio come la natura del fuoco è calore. Solo comprendendo la natura insoddisfacente dell’esistenza e riconoscendo le conseguenze indesiderabili dei piaceri sensuali, possiamo coltivare la rinuncia e il distacco.

Allo stesso modo possiamo sviluppare amore e compassione, riconoscendo che tutti gli esseri viventi sono essenzialmente uguali. Come noi, essi hanno paura della morte e tremano all’idea di una punizione. Se lo capiamo, non uccideremo gli altri esseri e ci asterremo dal causarne la morte. Come noi, tutti gli esseri vogliono vivere ed essere felici. Comprendendo ciò non ci crederemo superiori agli altri e valuteremo noi stessi come valutiamo gli altri.

Il riconoscimento della fondamentale uguaglianza di tutti gli esseri è essenziale per coltivare amore e compassione. Tutti gli esseri viventi desiderano la felicità e temono il dolore esattamente come noi. Riconoscendo ciò dovremmo trattare tutti con amore e compassione. Inoltre dobbiamo coltivare attivamente il desiderio che tutti siano felici e liberi dalla sofferenza. E’ così che possiamo coltivare le benefiche qualità della rinuncia e dell’amore e compassione, che correggono e infine eliminano attaccamento e avversione. Infine, per mezzo della pratica dell’aspetto della saggezza dell’Ottuplice Nobile Sentiero, che comprende non solo Retto Pensiero ma anche Retta Comprensione, possiamo eliminare ignoranza, attaccamento e avversione, raggiungere la libertà e la suprema felicità del Nirvana, che è il fine ultimo dell’Ottuplice Nobile Sentiero.




CAPITOLO VIII

KARMA

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


Passiamo ora a considerare due comuni concetti del buddhismo: karma e rinascita. Sono due concetti strettamente correlati tra di loro, ma siccome l’argomento è molto vasto, dedicherò a loro due interi capitoli, questo e il prossimo.

Sappiamo che i fattori che ci tengono prigionieri del samsara sono le afflizioni; esse sono ignoranza, attaccamento e avversione. Ne abbiamo parlato a proposito della Seconda Nobile Verità, la verità della causa della sofferenza. Le afflizioni sono qualcosa che abbiamo in comune con tutti gli esseri viventi, senza eccezione, sia umani che animali, o che vivano in dimensioni che non possiamo percepire.

Tutti gli esseri viventi sono simili per quanto riguarda le afflizioni, ma per il resto siamo tutti abituati a vedere che ci sono molte differenze tra gli esseri viventi. Per esempio, alcuni sono ricchi e altri poveri, alcuni sono forti e altri deboli e malati e così via. Vi sono grandi differenze tra i vari esseri umani, ma ci sono differenze ancora maggiori tra esseri umani e animali. Queste differenze sono il risultato del karma. Ignoranza, attaccamento e avversione sono comuni a tutti gli esseri, ma le particolari circostanze in cui ognuno vive sono gli effetti del suo karma personale, che condiziona la sua situazione individuale. Il karma spiega il perché alcuni sono fortunati mentre altri lo sono meno, alcuni felici e altri infelici. Il Buddha affermò chiaramente che le differenze tra gli esseri viventi sono dovute al karma. Ricorderete forse che una parte dell’esperienza del Buddha nella notte della sua Illuminazione riguardava la comprensione di come il karma determini la rinascita degli esseri, come questi migrino da felici a infelici stati e viceversa, in conseguenza del loro karma personale. Per cui è il karma che spiega le diverse situazioni in cui gli individui si trovano.

Abbiamo parlato di come funziona il karma, ora passiamo a vedere cosa esso è praticamente, cioè cerchiamo di definirlo. Forse è meglio cominciare col dire cosa il karma non è. Spesso la gente ha idee sbagliate sul karma, e soprattutto oggi in cui si usa questo termine piuttosto superficialmente. Troviamo delle persone che parlano in modo rassegnato di una particolare situazione usando l’idea di karma per poterla accettare. Quando si parla in questo modo del karma, esso diventa un mezzo di fuga e assume una forte somiglianza con la credenza nella predestinazione o fato. Ma questo non è affatto il significato corretto di karma. Può darsi che sia un malinteso sorto dall’idea di destino, comune a molte culture. Forse è a causa di questa diffusa credenza, che il concetto di karma è spesso confuso e offuscato da quello di predestinazione. Ma certamente il karma non è né fato né predestinazione.

E allora cos’è, se non è fato né predestinazione? Esaminiamo il significato della parola stessa: karma vuol dire “azione”, cioè l’atto di fare qualcosa. Da ciò deduciamo subito che karma non significa fato, ma piuttosto azione e, come tale il karma è dinamico. Il karma però non è solo azione, perché non è un’azione meccanica, né un’azione inconscia o involontaria. Anzi, il karma è un’azione intenzionale, conscia, deliberata, motivata da una volontà.

Come può questa azione intenzionale condizionare in bene o in male la nostra situazione? E’ possibile perché ogni azione deve avere una reazione o effetto. Nel campo dell’universo fisico questa verità fu enunciata dal grande fisico Newton, che formulò la legge scientifica che ogni azione deve avere una reazione uguale e contraria. Nella sfera dell’azione volontaria e della responsabilità morale, vi è una controparte a questa legge di azione e reazione che governa l’universo fisico, ed è la legge che ogni azione intenzionale deve avere il suo effetto. Per questo i buddhisti parlano spesso di azione intenzionale e della maturazione delle sue conseguenze o di azione volontaria e dei suoi effetti. Perciò, quando parliamo di azione intenzionale e della maturazione delle sue conseguenze o effetti, usiamo la frase “legge del karma”.

Essenzialmente la legge del karma ci insegna che un certo tipo di azioni inevitabilmente portano risultati simili o corrispondenti. Prendiamo un semplice esempio per illustrare questo punto: se piantiamo un seme di mango, l’albero che ne risulterà sarà un mango, che poi darà frutti di mango. Se invece piantiamo un seme di melograno, l’albero che crescerà sarà un melograno e i suoi frutti saranno dei melograni. “Ciò che semini, raccogli”, cioè otterrai un risultato corrispondente alla natura delle tue azioni.

Allo stesso modo, secondo la legge del karma, se facciamo un’azione salutare, prima o poi otterremo risultati o frutti salutari, e se compiamo un’azione non salutare otterremo inevitabilmente un risultato non salutare o non voluto. E’ questo che si intende quando nel Buddhismo si dice che certe cause hanno certi effetti di natura simile alle cause. Ciò è molto chiaro in alcuni esempi di azioni salutari o non salutari e dei loro effetti corrispondenti.

Si capisce perciò, da questa breve introduzione generale, che il karma può essere di due tipi: buono o salutare e cattivo o non salutare. Per evitare malintesi su questi termini è utile considerare le parole pali originali per esprimere il cosiddetto karma buono o cattivo, cioè kusala e akusala rispettivamente. Per capire in che modo vengono usate queste parole, bisogna saperne il significato: kusala vuol dire “intelligente”, “idoneo”, “salutare”, mentre akusala significa “non intelligente”, “non salutare”, “non idoneo”. Da ciò deduciamo che nel buddhismo questi termini non sono usati nel senso di buono o cattivo, ma nel senso di intelligente e non intelligente, di idoneo e non idoneo, di salutare e non salutare.

In che modo le azioni sono salutari o non salutari? Sono salutari quando sono benefiche a se stessi e agli altri e quindi non motivate da ignoranza, attaccamento e avversione, ma da saggezza, rinuncia o distacco, o da amore e compassione.

Come sappiamo che un’azione salutare dà felicità e che una non salutare dà infelicità? Il Buddha spiegò che finché un’azione non salutare non produce sofferenza, lo sciocco la considera buona, ma quando dà il suo frutto di sofferenza allora capisce che la sua azione era non salutare. Allo stesso modo finché un’azione salutare non dà felicità, lo sciocco può pensare che sia non salutare; solo quando dà felicità capisce che l’azione era buona.

Dobbiamo giudicare se un’azione è salutare o non salutare dai suoi effetti a lungo termine. Per semplificare: o prima o poi le azioni salutari daranno felicità a sé e agli altri, mentre quelle non salutari risulteranno in sofferenza per sé e per gli altri. In particolare, le azioni non salutari da evitare sono quelle connesse con le cosiddette tre porte attraverso cui si agisce: il corpo, la voce e la mente. Ci sono tre azioni non salutari con il corpo, quattro con la parola e tre con la mente. Le tre azioni non salutari del corpo sono: uccidere, rubare, avere un comportamento sessuale scorretto. Le quattro azioni non salutari con le parole sono: mentire, parlare duramente, calunniare e fare maligni pettegolezzi; infine le tre azioni non salutari della mente sono: bramosia, rabbia e ignoranza o illusione. Evitando queste dieci azioni negative, ne eviteremo anche le conseguenze.

In generale, il frutto di queste azioni non salutari è la sofferenza che però può prendere varie forme. Il risultato ultimo è la rinascita in regni inferiori o regni di dolore: regno infernale, regno degli spiriti affamati e regno animale. Se il peso delle azioni negative non è così pesante da risultare in rinascite in regni inferiori, tuttavia il risultato sarà sempre sofferenza anche rinascendo come uomini.

Qui vediamo bene il funzionamento del principio cui alludevamo prima. Cioè di una causa che risulta in un effetto simile e corrispondente. Per esempio se abitualmente ci comportiamo con malevolenza e odio, uccidendo esseri viventi, ne risulterà una rinascita nell’inferno dove saremo continuamente torturati e uccisi. Se l’azione di uccidere non è abituale e continuata il risultato sarà una vita più breve anche se rinasciamo come esseri umani. Oppure questo genere di azioni può portare alla separazione da chi si ama, alla paura e perfino alla paranoia. Anche in questi casi vediamo che l’effetto è simile alla natura della causa. Uccidere accorcia la vita di chi si uccide, privandoli dei loro cari e cose simili e quindi se si uccide saremo esposti a subire la stessa esperienza in noi.

Allo stesso modo, chi ruba spinto da bramosia e attaccamento può rinascere come uno spirito affamato, privato di tutto ciò che vuole e perfino del necessario come cibo e riparo. E anche se il furto non risulta in una rinascita come spiriti affamati, risulterà in povertà, dipendenza da altri per il proprio sostentamento, e così via. Similmente, una condotta sessuale scorretta sfocerà in problemi matrimoniali.

Quindi, azioni non salutari producono risultati negativi sotto forma di vari tipi di sofferenza, mentre le azioni salutari portano risultati positivi o felicità. Possiamo interpretare le azioni salutari in due modi: positivamente o negativamente: si possono vedere come azioni che semplicemente evitano le azioni non salutari (uccidere, rubare, comportarsi male sessualmente, e il resto) o possiamo pensarle in termini di generosità, rinuncia, meditazione, rispetto, servizio, meriti, gioia per i meriti altrui, ascolto e insegnamento del Dharma e correzione dei nostri punti di vista sbagliati. Anche in questi casi, gli effetti dell’azione saranno simili alle cause. Per esempio la generosità avrà come risultato la ricchezza, ascoltare il Dharma risulterà in saggezza e così via. Le azioni salutari hanno risultati della stessa natura delle cause, e in questo caso salutari e benefici, come d’altronde le azioni non salutari hanno effetti non salutari, cioè della stessa natura delle azioni.

Il karma, però, sia negativo che positivo viene modificato dalle condizioni che portano al suo accumularsi. In altre parole, un’azione positiva o negativa ha più o meno peso a seconda delle condizioni in cui uno si trova. Le condizioni che determinano la forza o il peso del karma si dividono tra quelle che si riferiscono al soggetto, o esecutore dell’azione, e quelle che si riferiscono all’oggetto, cioè l’essere a cui le azioni sono dirette. Quindi le condizioni che determinano la forza del karma riguardano sia il soggetto che l’oggetto delle azioni.

Se prendiamo l’esempio di uccidere, l’azione ha una forza completa e senza attenuanti quando sono presenti cinque condizioni: 1. Un essere vivente; 2. La coscienza dell’esistenza di un essere vivente; 3. L’intenzione di uccidere un essere vivente; 4. Lo sforzo o azione di uccidere un essere vivente 5. La conseguente morte dell’essere. In questo esempio le condizioni si applicano sia al soggetto che all’oggetto dell’azione di uccidere: le condizioni soggettive sono la coscienza dell’esistenza di un essere vivente, l’intenzione di ucciderlo e l’atto di ucciderlo, mentre le condizioni obiettive sono la presenza di un essere vivente e la conseguente sua morte.

Ci sono anche cinque condizioni che modificano la forza del karma: 1. Continuità o ripetizione; 2. Intenzione volontaria; 3. Assenza di pentimento; 4. Qualità 5. Obbligo morale. Anche queste cinque condizioni si possono dividere in soggettive e obiettive. Le prime sono le azioni fatte ripetutamente, quelle con intenzione volontaria e determinazione e le azioni fatte senza pentimento e rimorso. Se compite una cattiva azione ripetutamente, intenzionalmente e senza rimorso il peso di tale azione aumenterà.

Le condizioni obiettive sono la qualità dell’oggetto, cioè dell’essere vivente a cui l’azione è diretta e l’obbligo morale, cioè la natura del rapporto tra soggetto e oggetto. In altre parole, se facciamo un’azione positiva o negativa verso qualcuno che ha qualità straordinarie, come un arahant o un Buddha, tale azione avrà un peso molto maggiore. Infine la forza di azioni positive o negative ha maggior peso quando sono rivolte verso quelli con cui abbiamo un obbligo morale, come parenti, maestri e amici che ci hanno fatto del bene.

Le condizioni soggettive e obiettive, prese insieme, formano il peso del karma. E’ un punto, questo, da tener presente perché ci aiuta a ricordare che il karma non è semplicemente una questione di bianco e nero, o buono e cattivo. Il karma è un’azione intenzionale e una responsabilità morale, ma la legge del karma si esprime in modo molto sottile ed equilibrato, così da far corrispondere, in modo giusto e naturale, l’effetto con la causa. Tiene conto di tutte le condizioni soggettive e obiettive che influenzano la natura di un’azione. Ciò assicura che gli effetti di un’azione siano corrispondenti e simili alla causa. Gli effetti del karma si possono avere a breve o a lungo termine. Tradizionalmente si divide il karma in tre categoria a seconda del tempo che ci vuole perché gli effetti si manifestino: in questa vita, nella prossima vita o solo dopo molte vite.

Quando gli effetti si manifestano in questa vita è possibile vederli in un tempo breve. Tutti noi li abbiamo visti e sperimentati. Per esempio, se una persona rifiuta di studiare, si dà all’alcool, alle droghe o comincia a rubare per comprarsi alcool o droghe, gli effetti si faranno sentire in breve tempo, con la perdita del lavoro, degli amici, della salute, ecc.

Noi non possiamo vedere l’effetto del karma a medio e a lungo termine, ma lo potevano il Buddha e i suoi discepoli principali che avevano sviluppato la mente con la meditazione. Per esempio, quando Moggallana fu aggredito dai banditi e andò dal Buddha grondante sangue, il Buddha poté vedere che quello era l’effetto del karma di Moggallana accumulato in una vita precedente. Sembra che avesse portato i suoi anziani genitori in una foresta e li avesse uccisi a bastonate e che poi avesse riferito che erano stati uccisi dai banditi. L’effetto di quella azione delittuosa, fatta molte vite prima, si era manifestata solo nella sua esistenza come Moggallana.

Al momento della morte dobbiamo lasciare tutto, sia i nostri cari che ogni bene; solo il karma ci seguirà come un’ombra. Il Buddha ha detto che né in cielo né in terra possiamo sfuggire al karma. Quando le condizioni, dipendenti da corpo e mente, sono presenti, gli effetti del karma si manifesteranno, così come, al momento opportuno, appariranno i frutti sull’albero di mango. Possiamo notare che anche nel mondo naturale ci sono effetti che si presentano più tardi di altri. Se piantiamo semi di melone raccoglieremo i frutti in tempi più brevi che piantando i semi di un albero di noce. Ugualmente gli effetti del karma si manifestano a breve, medio o lungo termine a seconda della natura dell’azione.

Oltre alle due varietà di karma, salutare e non salutare, va ricordato anche il karma inefficace o neutro. E’ un karma che non ha conseguenze morali, o perché la natura dell’azione è tale da non avere peso morale o perché l’azione è stata fatta involontariamente o senza intenzione. Esempi di questo tipo di karma sono camminare, mangiare, dormire, respirare, ecc. Anche le azioni involontarie hanno un karma inefficace, perché manca l’elemento basilare della volizione. Per esempio, se pestate un insetto della cui presenza siete completamente ignari, fate un atto dal karma neutro o inefficace.

Si può ben capire quali siano i benefici di una buona comprensione della legge del karma. Prima di tutto essa ci dissuade dal compiere azioni non salutari che hanno come risultato una sofferenza certa. Quando comprendiamo che durante tutta la vita ogni atto intenzionale produce un’azione corrispondente e simile, e una volta capito che prima o dopo sperimenteremo gli effetti delle nostre azioni, ci asterremo da un comportamento negativo perché non ne vogliamo sperimentare gli effetti di tali azioni. Ugualmente sapendo che azioni salutari hanno come risultato la felicità, faremo del nostro meglio per coltivare tali azioni salutari.

Riflettere sulla legge del karma, dell’azione e della reazione nella sfera dell’attività cosciente, ci spinge ad abbandonare le azioni negative e a coltivare quelle positive. In un altro discorso tratteremo specificamente degli effetti del karma sulle vite future e su come esso condiziona e determina il tipo di rinascita.




CAPITOLO IX

RINASCITA

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


In questo capitolo vorrei illustrare gli effetti del karma sulla prossima vita o, in altre parole, voglio sviluppare il concetto di rinascita. Ma prima di cominciare a parlare dell’insegnamento buddhista su questo argomento, è bene parlare del concetto di rinascita in generale.

La rinascita è un concetto che molti trovano difficile da capire. E questo è vero specialmente nell’ultimo secolo, quando siamo diventati sempre più condizionati a pensare in quelli che vengono considerati termini scientifici, in termini cioè che molta gente crede, ingenuamente, scientifici. Questo atteggiamento ha indotto molti a scartare l’idea di una rinascita perché sa di superstizione e appartiene a un modo di vedere il mondo antiquato e fuori moda. Sarebbe bene perciò ristabilire l’equilibrio creando un certo grado di apertura mentale verso il concetto di rinascita in generale, prima di considerare l’insegnamento buddhista su di esso, in particolare.


La realtà della rinascita può essere sostenuta da molte considerazioni. Uno degli argomenti più consistenti è quello che in quasi tutte le maggiori culture della storia umana, ad un certo punto c’è stata una credenza molto diffusa nella rinascita. Questo è particolarmente vero per l’India, dove questa idea può essere fatta risalire ai primi albori della civiltà indiana. In India, tutte le maggiori religioni, siano esse teiste o ateiste, induiste o dottrine non ortodosse come il jainismo, accettano la verità della rinascita. Anche in altre culture era una credenza molto diffusa, come, per fare un solo esempio, nel mondo mediterraneo, sia prima che qualche secolo dopo l’era cristiana. Ancora oggi persiste tra i drusi – una setta medio-orientale dell’Islam. Si può dire che la fede nella rinascita sia stata una parte importante del modo di pensare dell’umanità riguardo al mondo e al nostro ruolo in esso.

Vi è poi la testimonianza di autorità riconosciute appartenenti a varie tradizioni religiose. Nel buddhismo fu il Buddha stesso ad insegnare la verità della rinascita. Si dice che la notte della sua illuminazione, il Buddha acquisì tre tipi di conoscenza, il primo dei quali era la conoscenza dettagliata delle sue vite precedenti. Ricordò le condizioni che lo avevano portato a quelle rinascite, il nome e l’occupazione che aveva avuto in molte vite passate. Oltre a quella del Buddha abbiamo la testimonianza dei suoi principali discepoli che furono in grado di ricordare le loro vite passate. Per esempio Ananda acquistò l’abilità a ricordare le proprie vite precedenti subito dopo essere stato ordinato monaco. Durante tutta la storia del buddhismo ci sono stati praticanti realizzati in grado di ricordare le proprie vite passate.

Tuttavia nessuno di questi due argomenti può considerarsi pienamente convincente nell’ambiente razionale e scientifico in cui viviamo, per cui diamo un’occhiata a qualcosa di più vicino a noi, a una fonte inaspettata. Probabilmente alcuni di voi sono a conoscenza che negli ultimi trent’anni si sono fatte molte ricerche scientifiche sulla questione della rinascita. Tali ricerche sono state portate avanti da psicologi e parapsicologi, e dai loro lavori ne è risultato un convincente sostegno a favore della realtà della rinascita, studiata su basi prettamente scientifiche. Sono stati pubblicati molti libri con dettagliate descrizioni e discussioni di tali scoperte.

Uno studioso particolarmente attivo in questo campo negli ultimi anni è il professor Jan Stevenson dell’Università della Virginia negli Stati Uniti. Ha pubblicato le sue ricerche su circa 20 casi di rinascite. Uno di questi casi, che attirò una vasta attenzione, è quello di una donna che fu in grado di ricordare una vita di più di cento anni prima in un paese straniero, con il nome di Bridey Murphy, un paese che non aveva mai visto nella sua vita attuale. Non entro nei dettagli di questi casi, perché chi è interessato alla testimonianza scientifica sulla rinascita può leggere i libri pubblicati sull’argomento. Tuttavia possiamo dire che siamo a un punto in cui anche una persona particolarmente scettica, può ammettere che ci sono prove circostanziate in favore della realtà della rinascita.

Nel portare le prove della realtà della rinascita, possiamo guardare ancora più vicino a noi, alla nostra stessa esperienza. Ma dobbiamo ricordare ed esaminare questa esperienza in un modo prettamente buddhista per vedere che conclusioni possiamo trarne. Tutti noi abbiamo abilità, inclinazioni e incapacità personali e penso sia giusto chiedersi se veramente esse sono solo il risultato del caso e del condizionamento sociale da bambini. Per esempio alcuni di noi sono più portati all’attività sportiva di altri. Alcuni hanno un vero talento per la matematica, mentre altri ce l’hanno per la musica. A qualcuno piace nuotare mentre altri hanno paura dell’acqua. Queste differenze di capacità e comportamenti sono solo dovute al caso e al condizionamento?

All’improvviso nella vita di una persona avvengono capovolgimenti profondi e inaspettati. Prendiamo il mio caso: sono nato in una famiglia cattolica negli Stati Uniti. Nell’educazione che ricevetti non c’era nulla che facesse prevedere che a vent’anni sarei andato in India, che sarei rimasto in Asia quasi 25 anni e che avrei approfondito i miei studi e il mio interesse per il buddhismo.

Ci sono poi dei casi in cui abbiamo un profondo presentimento di essere già stati in un certo posto, anche se non lo avevamo mai visto prima. Altre volte abbiamo la sensazione di aver già conosciuto una persona: la incontriamo per la prima volta e subito sentiamo di averla conosciuta da sempre. Viceversa conosciamo qualcuno da anni, ma abbiamo sempre la sensazione di non conoscerlo affatto. Queste sensazioni di essere già stati in un posto che si vede per la prima volta, sono così comuni e generali che perfino nella Francia di oggi, che non ne sa quasi nulla della rinascita, c’è una ben nota espressione “déja vu” che significa “già visto”.

Se cerchiamo di non essere dogmatici, quando assommiamo tutte queste indicazioni e casi, quali la credenza nella rinascita in molte culture ed epoche attraverso la storia della civiltà umana, la testimonianza del Buddha e dei suoi discepoli principali, i risultati della ricerca scientifica e quei nostri momenti in cui “sappiamo” di essere già stati in un certo posto prima, dovremmo ammettere che c’è per lo meno una forte probabilità che la rinascita sia una cosa reale.

Nel buddhismo la rinascita fa parte integrante del continuo processo di cambiamento. In effetti, non rinasciamo solo dopo la morte fisica, ma in ogni momento. Come tutti i maggiori insegnamenti buddhisti, anche questo può essere verificato attraverso la nostra esperienza personale e le scoperte scientifiche. Per esempio, la maggioranza delle cellule che compongono il corpo umano, muoiono e vengono sostituite molte volte durante l’arco di una vita. Anche quelle cellule che durano tutta la vita sono sottoposte a un continuo cambiamento interno. Questo fa parte del processo di nascita, morte e rinascita. Se guardiamo la mente ci accorgiamo che gli stati mentali (come preoccupazioni, felicità, ecc.) appaiono e scompaiono ogni momento. Finiscono e vengono rimpiazzati da altri stati mentali. Quindi, sia che guardiamo il corpo o la mente, ogni nostra esperienza è caratterizzata costantemente da nascita, morte e rinascita.

Il buddhismo ci dice che ci sono vari regni, sfere o dimensioni di esistenza. Alcuni testi ne riportano 31, ma in questo contesto farò riferimento a solo sei di essi. Queste sei sfere possono essere suddivise in due gruppi, uno relativamente fortunato e l’altro sfortunato. Il primo gruppo include la sfera degli dei, dei semidei e degli esseri umani. La rinascita in queste sfere è il risultato di un karma salutare. Il secondo gruppo comprende la sfera degli animali, degli spiriti affamati e dell’inferno. La rinascita in queste sfere di dolore è il risultato di un karma non salutare.

Analizziamole una per una cominciando dalla sfera più bassa. Nel buddhismo ci sono molti regni infernali, tra cui 8 inferni caldi e 8 inferni freddi. In questi inferni gli esseri viventi soffrono dolori inimmaginabili e indescrivibili. Si dice che il dolore provato da un essere umano trafitto in un giorno da 300 lance corrisponda ad una minima parte della sofferenza degli abitanti dell’inferno. La causa della rinascita all’inferno è una violenza continuata, quali ripetute uccisioni, crudeltà, ecc. Sono azioni che nascono dall’avversione e gli esseri viventi che le commettono soffrono le pene dell’inferno fino a che il karma che hanno prodotto con tali azioni sia esaurito. Quest’ultimo punto è molto importante perché ci fa capire che nel buddhismo non vi è dannazione eterna per nessuno. Quando il karma negativo è esaurito, i condannati all’inferno rinasceranno in sfere di esistenza più fortunate.

L’altra sfera è quella degli spiriti affamati. Gli esseri in questa sfera soffrono soprattutto la fame e la sete, il caldo e il freddo. Sono completamente privi di ciò che desiderano. Si dice che quando uno spirito affamato vede una montagna di riso o un torrente d’acqua fresca e corre verso di essi, scopre che la montagna di riso è un cumulo di sassi e il torrente una lastra d’ardesia. Inoltre, anche in estate la luna sembra calda per loro, mentre in inverno il sole è freddo.

La causa principale della rinascita come spirito affamato è la cupidigia e l’avarizia che nascono dall’attaccamento e dall’avidità. Come gli abitanti dell’inferno così anche quelli in questa sfera non sono condannati in eterno ad essere spiriti affamati, perché quando il loro karma negativo è esaurito, rinasceranno in una sfera migliore.

Nell’altra sfera, quella degli animali, gli esseri soffrono per varie circostanze sfortunate. Soffrono per la paura e il dolore, che risultano dal continuare a uccidersi e mangiarsi a vicenda. Soffrono anche a causa degli esseri umani che li uccidono per cibarsene, per la loro pelliccia, perle o denti. Anche se non vengono uccisi, molti animali domestici vengono costretti a lavorare per gente che li trascina con uncini e li frusta. Tutto ciò è una gran fonte di sofferenza.

La causa principale che fa rinascere nel mondo animale è l’ignoranza, la cieca, noncurante ricerca dei propri desideri animali. L’ossessione per il mangiare, dormire e gratificazione sessuale accompagnata da sprezzo per lo sviluppo mentale e la pratica della virtù, tutto ciò porta a rinascere nel mondo animale.

Ora quando diciamo, ad esempio, che l’avversione è la causa della rinascita all’inferno, che l’attaccamento è la causa della rinascita tra gli spiriti affamati e che l’ignoranza porta a rinascere nel mondo animale, non significa che un solo atto basato sull’avversione, attaccamento o ignoranza porti alla rinascita nelle rispettive sfere. Piuttosto significa che c’è un preciso e comprovato rapporto tra avversione o odio e la rinascita all’inferno, come c’è tra attaccamento o bramosia e la rinascita come spirito affamato, e tra ignoranza e rinascita come animale. Se queste azioni abituali motivate da atteggiamenti non salutari non vengono impedite e ostacolate da azioni virtuose che le bilancino, esse portano alla rinascita in queste tre sfere di dolore.

Tralascio per il momento il mondo umano per andare in quello dei semidei. I semidei sono fisicamente più forti e mentalmente più acuti degli esseri umani, ma soffrono di gelosie e conflitti. Secondo l’antica mitologia indiana, i semidei e gli dei coabitano in un albero celeste. Mentre gli dei godono i frutti dell’albero, i semidei sono solo i custodi delle radici e perciò invidiosi degli dei. Continuano a cercare di sottrarre i frutti; sfidano gli dei ma sono sempre sconfitti e il risultato è una grande sofferenza. A causa di questa dilagante gelosia e conflitto, la rinascita tra i semidei è infelice e sfortunata.

Come negli altri mondi, così anche in quello dei semidei, c’è una causa per questa rinascita. Dal lato positivo la causa è la generosità, da quello negativo è la gelosia e l’invidia.

Il mondo degli dei è il più felice delle sei sfere. Come conseguenza di azioni salutari fatte in passato, dell’osservanza dei precetti morali e della pratica della meditazione, ci sono esseri che rinascono tra gli dei, dove godono piaceri sensuali, felicità spirituale o tranquillità suprema, a seconda del livello della sfera in cui rinascono. Tuttavia neanche questo mondo è desiderabile, perché la felicità degli dei è impermanente. Per quanto lunga sia la loro esistenza, quando la forza del loro karma positivo è esaurita, quando gli effetti della loro condotta morale e del tempo passato in meditazione sono compiuti, gli dei cadono dal paradiso e rinascono in un’altra sfera. In quel momento si dice che gli dei provino una sofferenza mentale molto superiore al dolore fisico provato dagli esseri di altri mondi.

Gli dei rinascono in paradiso in conseguenza della pratica della virtù e della meditazione, ma c’è anche una controparte negativa in questa rinascita, ed è l’orgoglio.

Come si vede, ognuno di questi cinque regni (infernale, degli spiriti affamati, animale, dei semidei e degli dei) è accompagnato da afflizioni o contaminazioni, che sono rispettivamente avversione, attaccamento, ignoranza, gelosia e orgoglio. La rinascita in uno qualsiasi di questi regni è indesiderabile. I tre regni inferiori sono indesiderabili per ovvie ragioni: sia per l’intensa sofferenza che c’è in essi, sia per l’ignoranza degli esseri che li abitano. Anche la rinascita tra i semidei e dei è indesiderabile perché, sebbene essi godano di una certa felicità e potenza, la loro esistenza è impermanente. Inoltre le distrazioni e i piaceri che vi godono lì, li rendono poco interessati a cercare una via d’uscita dal ciclo di nascita e morte. Per questo si dice che, dei sei regni d’esistenza, il più fortunato, auspicabile e vantaggioso è il regno umano. Ed è per questo che ho lasciato per ultimo l’esame di questo mondo.

Il regno umano è il più vantaggioso dei sei mondi perché come essere umano uno ha la motivazione e l’opportunità di praticare il Dharma e di raggiungere quindi l’illuminazione. Si ha questa motivazione e opportunità perché sono presenti le condizioni giuste per praticare la Via. Nel regno umano si sperimenta sia felicità che sofferenza. Anche se in questa sfera umana la sofferenza è terribile, non è così totale come nelle tre sfere di dolore. Il piacere e la felicità sperimentate nel mondo umano non sono così grandi e intensi come il piacere e la felicità sperimentate dagli esseri celesti e allo stesso tempo gli umani non sono sopraffatti dall’insostenibile sofferenza che gli esseri infernali provano. Inoltre, a differenza degli animali, gli esseri umani hanno abbastanza intelligenza da riconoscere la necessità di trovare un mezzo per por fine definitivamente alla sofferenza.

Ma la nascita umana è difficile da molti punti di vista. Per primo, è difficile dal punto di vista della causa. La buona condotta è la causa principale della rinascita come essere umano, ma una condotta veramente buona è estremamente rara. In secondo luogo, la rinascita umana è difficile dal punto di vista del numero, poiché gli esseri umani sono una frazione minima degli esseri viventi che abitano i sei regni. Terzo, non basta semplicemente essere nati come umani, perché ci sono moltissimi esseri umani che non hanno l’opportunità di praticare il Dharma, e sviluppare così le qualità morali, la concentrazione mentale e la saggezza.

Il Buddha usò una similitudine per illustrare la rarità e la preziosità dell’opportunità di una rinascita tra gli esseri umani. Supponiamo che tutto il mondo sia solo un vasto oceano, sulla cui superficie galleggia un collare, spinto in giro dal vento. Supponiamo infine che in fondo all’oceano viva una tartaruga cieca che viene a galla ogni cento anni. Il Buddha ha detto che ottenere una rinascita come essere umano è altrettanto raro quanto per la tartaruga mettere il collo esattamente nel collare quando riemerge alla superficie. Altrove è detto che nascere come esseri umani con l’opportunità di praticare il Dharma è raro come è raro che, tirando una manciata di piselli secchi contro un muro di pietra, un pisello rimanga incastrato in una crepa del muro.

Perciò è da pazzi sprecare l’esistenza umana e le fortunate condizioni in cui ci troviamo di vivere in società libere in cui possiamo avere l’opportunità di praticare il Dharma. E’ molto importante che facciamo uso di questa occasione che ci è data. Se non pratichiamo il Dharma in questa vita, non c’è verso di sapere in quale dei sei regni rinasceremo o quando avremo di nuovo una tale opportunità. Dobbiamo sforzarci di liberarci dal ciclo delle rinascite perché, se non lo facciamo ora continueremo a girare in un circolo senza fine tra i sei regni dell’esistenza. Quando il karma, positivo o negativo, che ci costringe a rinascere in uno dei sei mondi è esaurito, rinasciamo di nuovo e ci ritroviamo in un’altra sfera.

Si dice che ognuno di noi sia andato in giro per questi sei regni da tempo immemorabile. Si dice anche che se ammucchiassimo tutti gli scheletri che abbiamo avuto in tutte le varie vite passate, la pila arriverebbe all’altezza del monte Sumeru, e che se raccogliessimo tutto il latte materno che abbiamo bevuto nelle nostre infinite esistenze, avrebbe un volume maggiore dell’acqua di tutti gli oceani. Ora perciò che abbiamo l’occasione di praticare il Dharma, dobbiamo farlo senza por tempo in mezzo.

Negli ultimi anni c’è stata la tendenza ad interpretare i sei regni in termini psicologici. Alcuni maestri avanzano l’ipotesi che l’esperienza dei sei mondi è possibile già in questa vita. In effetti potrebbe essere vero. Le persone in prigione, torturate o uccise, sperimentano indubbiamente situazioni simili a quelle degli esseri infernali; quelli che sono avari e avidi sperimentano uno stato mentale simile a quello degli spiriti affamati. Quelli che vivono a livello animale sperimentano uno stato mentale simile a quello degli animali; i litigiosi, assetati di potere e gelosi si possono paragonare ai semidei e quelli che sono tranquilli, puri, sereni e nobili sperimentano uno stato mentale simile a quello degli dei. Però, sebbene possiamo sperimentare fino a un certo punto i sei regni, credo che sia uno sbaglio ritenere che gli altri cinque regni non abbiano una realtà loro, paragonabile, in termini di realtà, alla nostra esperienza umana. Il mondo infernale, quello degli spiriti affamati, degli animali, dei semidei e degli dei sono reali quanto il mondo umano. Ricorderete che la mente crea ogni cosa. Le azioni fatte con una mente pura (motivate cioè da generosità, amore, ecc.) risultano in felicità, in stati di esistenza come quello umano o divino. Ma le azioni fatte con mente impura (motivate cioè da attaccamento, avversione, ecc.) portano a stati infelici come quelli degli spiriti affamati e degli esseri infernali.

Infine vorrei fare una distinzione tra rinascita e trasmigrazione. Avrete notato che nel buddhismo si parla sempre di rinascita, non di trasmigrazione. E questo perché il buddhismo non crede a un’entità durevole o sostanza che trasmigra. Non crede in un sé che rinasce. E’ per questo che quando si spiega la rinascita, facciamo uso di esempi che non richiedono la trasmigrazione di un’entità o sostanza.

Per esempio quando nasce un germoglio da un seme non vi è una sostanza che trasmigra. Il seme e il germoglio non sono identici. Ugualmente quando accendiamo una candela con un’altra candela, nessuna sostanza passa da una all’altra, pur se la prima è la causa della seconda. Quando una biglia ne colpisce un’altra c’è continuità; l’energia e la direzione della prima biglia si comunica alla seconda. La prima biglia causa il movimento della seconda in una certa direzione e con una certa velocità, ma non è la stessa biglia che si muove. Quando entriamo due volte in un fiume, non è lo stesso fiume, eppure c’è continuità; la continuità di causa ed effetto.

Perciò c’è rinascita ma non trasmigrazione. Esiste la responsabilità morale ma non un sé permanente e indipendente. Esiste la continuità di causa ed effetto ma non la permanenza. Voglio finire qui con questo argomento perché riprenderemo l’esempio del seme e del germoglio e quello della fiamma in una lampada ad olio, quando discuteremo nel capitolo decimo dell’Origine interdipendente. Capiremo allora meglio come l’Origine interdipendente renda compatibile la responsabilità morale con la mancanza di un sé.




CAPITOLO X

ORIGINE INTERDIPENDENTE

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


In questo capitolo tratterò di un argomento molto importante per lo studio del buddhismo: l’insegnamento dell’Origine interdipendente. Mi rendo conto che molti ritengono l’Origine interdipendente un soggetto molto difficile da trattare e credo che non abbiano affatto torto. Quando una volta Ananda notò che, malgrado la sua apparente difficoltà, l’insegnamento dell’Origine interdipendente gli sembrava piuttosto facile, il Buddha lo riprese dicendo che era invece un insegnamento molto profondo.


L’insegnamento dell’Origine interdipendente è certamente uno dei più importanti e profondi insegnamenti del buddhismo. Eppure certe volte penso che il nostro timore di affrontare l’Origine interdipendente sia in un certo senso ingiustificata. Per cominciare non vi è nulla di difficile nel termine stesso: in fondo tutti sappiamo cosa significa “interdipendenza” e cosa significa “nascita”, “origine”, “sorgente”. Solo quando cominciamo ad esaminare la funzione e il contenuto dell’Origine interdipendente capiamo che è veramente un insegnamento molto profondo e significativo. Lo si può dedurre anche da alcune affermazioni del Buddha stesso. Infatti sovente egli si riferisce alla sua esperienza dell’Illuminazione in due modi: o dicendo di aver capito le Quattro Nobili Verità o di aver capito l’Origine interdipendente. E spesso dice anche che per ottenere l’Illuminazione, uno deve capire il significato di queste verità.

Sulla base delle affermazioni del Buddha stesso, possiamo vedere lo stretto rapporto che corre tra le Quattro Nobili Verità e l’Origine interdipendente. Cosa hanno in comune queste due formulazioni?

Il principio che hanno in comune è il principio di causalità, la legge di causa ed effetto, di azione e conseguenza. In precedenza ho detto che le Quattro Nobili Verità si possono dividere in due gruppi: il primo gruppo comprende le prime due (sofferenza e causa della sofferenza) e il secondo le ultime due (cessazione della sofferenza e via che porta alla fine della sofferenza). In entrambi i gruppi è la legge di causa ed effetto che governa il rapporto. In altre parole, la sofferenza è l’effetto della causa della sofferenza e la fine della sofferenza è l’effetto della via che conduce alla fine della sofferenza.

Lo stesso con l’Origine interdipendente: il principio fondamentale è quello di causa ed effetto. Nell’Origine interdipendente la descrizione di ciò che avviene durante il processo causale è più dettagliata. Prendiamo alcuni esempi usati dal Buddha stesso, per illustrare la natura dell’origine interdipendente. Il Buddha dice che la fiamma di una lampada ad olio brucia a causa dell’olio e dello stoppino. Quando olio e stoppino sono presenti la fiamma brucia, ma se sono assenti la fiamma smette di bruciare. Prendiamo anche l’esempio del germoglio: il germoglio nasce a causa del seme, della terra, dell’acqua, dell’aria e della luce del sole.

Si possono fare moltissimi esempi di Origine interdipendente perché non esistono fenomeni che non siano effetti di origine interdipendente. Tutti i fenomeni nascono a seguito di vari fattori causali. E ciò non è altro che l’Origine interdipendente.

Naturalmente qui noi ci interessiamo all’Origine interdipendente in quanto riguarda il problema della sofferenza e della rinascita. Siamo interessati a capire come l’Origine interdipendente spiega la situazione in cui ci troviamo qui e ora. In questo senso è importante tenere presente che l’Origine interdipendente è essenzialmente e principalmente un insegnamento che riguarda il problema della sofferenza e il modo di liberarci dalla sofferenza, e non una descrizione dell’evoluzione dell’universo.

Le dodici componenti o anelli che formano l’Origine interdipendente sono: ignoranza, volizione, coscienza, nome e forma, le sei sfere dei sensi, contatto, sensazione, bramosia, attaccamento, divenire, nascita, vecchiaia e morte.

Ci sono due modi principali in cui possiamo capire queste dodici componenti. Un modo di capirle è in sequenza, attraverso il corso di tre vite: passata, presente e futura. In questo caso ignoranza e volizione appartengono alla vita passata. Rappresentano le condizioni indispensabili per il verificarsi di questa vita. Le otto componenti di: coscienza, nome e forma, sei sfere dei sensi, contatto, sensazione, bramosia, attaccamento e divenire appartengono a questa vita. Costituiscono il processo di evoluzione di questa vita. Le ultime due componenti: nascita, vecchiaia e morte appartengono alla vita futura.

Con l’aiuto di questo primo schema, vediamo che le dodici componenti dell’Origine interdipendente sono distribuite lungo tre vite; che le prime due, ignoranza e volizione, hanno come risultato l’emergere dal passato di questa vita con la sua personalità psico-fisica, e che, a sua volta, le azioni compiute in questa vita avranno i loro risultati nella vita futura. Questo è un modo assai diffuso e autorevole di interpretare le dodici componenti dell’origine interdipendente.

L’altra interpretazione del rapporto dei dodici elementi dell’origine interdipendente è anche molto autorevole ed è sostenuta da vari maestri famosi e santi buddhisti. Può essere considerata un’interpretazione ciclica perché non distribuisce le dodici componenti lungo il corso di tre vite, ma le divide in tre categorie: afflizioni, azioni e sofferenze.

In questo secondo schema, le tre componenti di ignoranza, bramosia e attaccamento sono assegnate al gruppo delle afflizioni; la volizione e il divenire al gruppo delle azioni e le altre sette componenti (coscienza, nome e forma, sei sfere dei sensi, contatto, sensazione, nascita, vecchiaia e morte) al gruppo delle sofferenze. Grazie a questa suddivisione vediamo come l’insegnamento delle Quattro Nobili Verità e particolarmente l’insegnamento della seconda verità – la causa della sofferenza – è unito all’insegnamento del karma e della rinascita e come questi due importanti insegnamenti insieme spieghino in modo completo il processo della rinascita e dell’origine della sofferenza.

Ricorderete che, parlando delle Quattro Nobili Verità, abbiamo detto che ignoranza, attaccamento e odio sono le cause della sofferenza. Ora, se guardiamo alle tre componenti dell’Origine interdipendente incluse nel gruppo delle afflizioni, troviamo ignoranza, bramosia, attaccamento. E anche qui l’ignoranza è alla base. E’ a causa dell’ignoranza che desideriamo i piaceri sensuali, l’esistenza e la non esistenza. Ugualmente, è a causa dell’ignoranza che ci attacchiamo ai piaceri dei sensi, alle esperienze piacevoli, alle idee e soprattutto all’idea di un sé indipendente e permanente. L’ignoranza, la bramosia e l’attaccamento sono perciò la causa delle azioni.

Le due componenti dell’Origine interdipendente incluse nel gruppo delle azioni sono volizione e divenire. La volizione si riferisce alle impressioni o abitudini che abbiamo formato nel flusso dei momenti di coscienza, o nel continuum cosciente. Queste impressioni sono formate da azioni ripetute. Possiamo illustrarlo con un esempio preso dalla geologia. Sappiamo che un fiume forma il suo letto attraverso un processo continuo di erosione. Quando cadono le piogge sulle alture, l’acqua si raccoglie in rivoli che gradualmente formano un alveo che poi aumenta in un ruscello. Infine quando il letto del ruscello diventa più profondo e largo attraverso l’apporto continuo di altra acqua, il ruscello diventa un fiume con sponde ben definite e un corso ben tracciato.

Allo stesso modo, le nostre azioni diventano abitudini. Queste abitudini diventano parte della nostra personalità e le portiamo da una vita all’altra sotto forma di ciò che chiamiamo volizioni, formazioni mentali o energie dell’abitudine. Le nostre azioni in questa vita sono condizionate dalle abitudini che abbiamo formato nel corso di innumerevoli vite precedenti.

Per ritornare all’analogia dell’alveo del fiume e dell’acqua, potremmo paragonare le formazioni mentali all’alveo, mentre le azioni che compiamo in questa vita sono l’acqua che scorre nell’alveo scavato e creato da azioni precedenti. Le azioni che compiamo in questa vita sono rappresentate dalla componente indicata come “divenire”. Quindi abbiamo le abitudini sviluppate nel corso di innumerevoli vite combinate con le nuove azioni compiute in questa vita e queste due insieme hanno come risultato rinascita e sofferenza.

Per riassumere, abbiamo le afflizioni che possiamo definire come impurità della mente, cioè ignoranza, bramosia e attaccamento. Queste impurità mentali hanno come risultato delle azioni. Ci sono le azioni fatte in vite precedenti che portano alla formazione dell’energia dell’abitudine o volizione, e quelle fatte nella vita attuale che corrispondono alla componente del “divenire” e che tendono a conformarsi al modello prestabilito nelle vite precedenti.

Queste impurità mentali, insieme alle azioni, portano alla rinascita. In altre parole hanno come risultato: coscienza, nome e forma, sei sfere dei sensi, contatto tra i sensi e i loro oggetti, sensazioni (che nascono dal contatto), nascita, vecchiaia e morte. In questa interpretazione le cinque componenti dell’Origine interdipendente incluse nei gruppi delle afflizioni e delle azioni (ignoranza, bramosia, attaccamento, volizione e divenire) sono le cause della rinascita e della sofferenza. Le altre sette componenti (coscienza, nome e forma, sei sfere sensuali, contatto, sensazione, nascita, vecchiaia e morte) sono gli effetti delle afflizioni e delle azioni.

Le afflizioni e le azioni prese insieme spiegano l’origine della sofferenza e le circostanze particolari in cui si trova ogni individuo, le circostanze cioè in cui nasciamo. Forse ricorderete che ho detto che, mentre le afflizioni sono comuni a tutti gli esseri viventi, il karma differisce da persona a persona. In altre parole, mentre le afflizioni sono responsabili della nostra esistenza nel samsara, le azioni spiegano il fatto che alcuni nascono come esseri umani, altri come dei e altri ancora come animali. Sotto questo profilo, le dodici componenti dell’Origine interdipendente presentano un quadro completo del samsara con le sue cause ed effetti.

Sarebbe però inutile fare un quadro del samsara, se non intendiamo usarlo per cambiare la situazione in cui ci troviamo, per uscire cioè dal ciclo di nascita e morte. Riconoscere la circolarità del samsara, la circolarità dell’Origine interdipendente è l’inizio della liberazione. E perché? Fino a che sono presenti le afflizioni e le azioni, ci saranno nascita e sofferenza. Quando vediamo che ignoranza, bramosia, attaccamento e azioni portano continuamente a rinascita e sofferenza, capiremo che dobbiamo cercare di uscire da questo circolo vizioso.

Prendiamo un esempio pratico: supponiamo che state cercando la casa di un conoscente che non avete mai visitato prima. Supponiamo che avete girato per mezz’ora e non siete riusciti a trovare la casa dell’amico e che all’improvviso riconoscete un punto di riferimento che sapete di aver visto mezz’ora prima. A questo punto vi viene il dubbio di aver girato in tondo; vi fermate, guardate la mappa stradale o chiedete la strada a qualcuno in modo da non girare più in circolo e raggiungere la destinazione.

Per questo il Buddha ha detto che chi vede l’Origine interdipendente vede il Dharma e chi vede il Dharma vede il Buddha. E ha detto anche che la comprensione dell’Origine interdipendente è la chiave per la liberazione. Quando capiamo il funzionamento dell’Origine interdipendente possiamo cominciare a uscire dal suo circolo vizioso. Possiamo farlo eliminando le impurità mentali, cioè ignoranza, bramosia e attaccamento. Una volta eliminate queste impurità, non si compiranno più azioni e non si produrranno più energie di abitudine. Una volta che cessano le azioni, anche la nascita e la sofferenza cessano.

Vorrei ancora parlare un po’ di un significato importante dell’Origine interdipendente, cioè l’Origine interdipendente come espressione della Via di Mezzo. Nei capitoli terzo e quarto abbiamo avuto occasione di parlare della Via di Mezzo, ma ci siamo limitati al significato più basilare del termine. Abbiamo detto che Via di Mezzo vuol dire evitare i due estremi, quello dell’indulgenza ai piaceri dei sensi e quello di auto mortificazione. In questo contesto Via di Mezzo è sinonimo di moderazione.

Ma nel contesto dell’Origine interdipendente la Via di Mezzo ha un altro significato, simile a quello letterale ma più profondo. In questo contesto Via di Mezzo vuol dire evitare i due estremi dell’ eternalismo e del nichilismo. In che senso? La fiamma di una lampada dipende dall’esistenza dell’olio e dello stoppino. Quando essi mancano la fiamma si estingue. Perciò la fiamma non è permanente e neanche indipendente. Allo stesso modo la nostra personalità dipende da una combinazione di condizioni: le afflizioni e il karma. Non è permanente né indipendente. Quando riconosciamo la natura condizionata della nostra personalità, eviteremo l’estremo dell’eternalismo, che ci fa credere nell’esistenza di un sé indipendente e permanente. Similmente, riconoscendo che questa persona, questa vita non sorge fortuitamente o per puro caso ma è condizionata da cause corrispondenti, ci asterremo dall’estremo del nichilismo che nega il rapporto tra un’azione e le sue conseguenze.

Sebbene il nichilismo sia la causa principale per la rinascita in stati di dolore e vada quindi respinto, anche l’eternalismo non conduce alla liberazione. Chi si attacca all’idea estrema dell’eternalismo, compirà buone azioni e rinascerà in stati di felicità, come essere umano o anche come divinità, ma non otterrà mai la liberazione. Evitando questi due estremi, cioè mantenendosi nella Via di Mezzo, possiamo avere felicità in questa vita e in quelle future compiendo azioni buone ed evitando azioni cattive; infine raggiungeremo la liberazione.

Il Buddha mise un’infinita cura nei suoi insegnamenti e viene paragonato al comportamento di una tigre verso i suoi piccoli. Quando una tigre porta in bocca un piccolo, sta attenta che la presa non sia né troppo forte né troppo debole. Se è troppo forte può ferire e anche uccidere il cucciolo; se è troppo lenta il piccolo può cadere e farsi male. Così il Buddha ha fatto attenzione che noi potessimo evitare i due estremi dell’eternalismo e del nichilismo. Poiché vide che afferrarsi all’eternalismo ci avrebbe legato al samsara, il Buddha ci mise in guardia dal credere in un sé indipendente e durevole; vedendo che la possibilità di liberazione poteva essere minacciata dai denti aguzzi della credenza in un sé, egli ci disse di evitare l’estremo dell’eternalismo.

Comprendendo che l’attaccamento al nichilismo ci avrebbe portato alla rovina e alla rinascita in regni di dolore, il Buddha fu attento ad insegnarci la realtà della legge di causa e effetto o responsabilità morale. Avendo visto che saremmo potuti cadere nell’infelicità dei regni di dolore se avessimo negato questa legge, egli ci insegnò ad evitare l’estremo del nichilismo. Questo duplice scopo lo ottenne mirabilmente grazie all’insegnamento dell’Origine interdipendente, che non solo ci permette di capire la natura condizionata e impermanente dell’individuo, ma anche la realtà della legge di causa e effetto.

Nel contesto dell’Origine interdipendente, abbiamo spiegato la natura condizionata e impermanente della personalità o sé, esponendo la sua natura dipendente. In seguito tratteremo dell’impermanenza e impersonalità del sé attraverso l’esame della sua natura composta e l’analisi delle singole parti che la compongono. In questo modo illustreremo la verità del non sé che apre le porte all’illuminazione.