Articoli di Dharma

 

L'albero dell'Illuminazione

(Cap. I - V)

di Peter Della Santina

 

 
 

CAPITOLO I

BUDDHISMO: UNA PROSPETTIVA MODERNA

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani

La diffusione dei testi tradotti è consentita in qualsiasi modo tranne che a fini di lucro

Nella prima parte di questo libro vorrei occuparmi di quelle che vengono chiamati i fondamenti del buddhismo, cioè l’insegnamento di base del buddhismo. Includerà la vita del Buddha, le Quattro Nobili Verità, il Nobile Ottuplice Sentiero, il karma, la rinascita, l’Origine interdipendente, le tre caratteristiche universali e l’insegnamento dei cinque aggregati. Prima di cominciare a trattare questi argomenti basilari, vorrei analizzare la nozione di buddhismo in una prospettiva moderna. Ci sono stati vari modi in cui la gente in epoche e culture diverse si è avvicinata al buddhismo, ma penso che sia particolarmente utile qui mettere a confronto l’atteggiamento moderno verso il buddhismo con quello tradizionale. Questo tipo di paragone può rivelarsi utile perché capire come persone di diverse epoche e culture abbiano visto un particolare fenomeno può mostrarci le limitazioni della nostra prospettiva particolare.

Il buddhismo ha suscitato un considerevole interesse in Occidente e ci sono molte personalità di rilievo nella società occidentale che sono buddhiste o simpatizzanti del buddhismo. L’esempio più chiaro di questa tendenza è l’affermazione attribuita al grande scienziato del ventesimo secolo, Albert Einstein, che se fosse stato un uomo religioso, cosa che non era, sarebbe stato buddhista. A prima vista può sembrare sorprendente che una tale affermazione sia stata fatta da uno che è considerato il padre della moderna scienza occidentale. Tuttavia se guardiamo più da vicino la società occidentale contemporanea, troviamo un astrofisico buddhista in Francia, uno psicologo buddhista in Italia e un famoso giudice in Inghilterra, anche lui buddhista. Anzi, non è azzardato dire che il buddhismo stia velocemente diventando la scelta favorita di molti occidentali appartenenti all’élite scientifica e artistica. Prima di passare ad analizzare le ragioni di ciò vorrei confrontare questa situazione con quella dei paesi e delle comunità tradizionalmente buddhiste, come ad esempio, quelle dell’Asia sud-orientale ed orientale.

In Europa e in America si ritiene che il pensiero buddhista sia particolarmente avanzato, rigorosamente razionale e raffinato. Quando per la prima volta andai nei paesi dell’Asia sud-orientale, devo ammettere che fu uno shock per me scoprire che molti in quei paesi considerano il buddhismo superato, irrazionale e vincolato ad antiquate superstizioni. Questo è uno dei due atteggiamenti che impedisce la giusta comprensione del buddhismo in tali comunità di tradizione buddhista. L’altro fraintendimento che affligge il buddhismo in queste comunità è il considerarlo un pensiero così profondo e astratto che nessuno lo può veramente capire. Forse è proprio l’arroganza intellettuale degli Occidentali che li ha salvati da una tale aberrazione. Insomma si può dire che l’atteggiamento mentale con cui l’Occidente e l’Oriente considerano il buddhismo sia diametralmente opposto. Per questo voglio cominciare il nostro studio del buddhismo considerandolo da due diverse prospettive.

In generale in Occidente, a livello superficiale, il buddhismo si presenta con un’immagine molto diversa da quella che prevale nelle comunità tradizionalmente buddhiste. Prima che esse possano veramente apprezzare gli insegnamenti del Buddha, queste comunità devono superare il loro atteggiamento sprezzante, in modo che dappertutto la gente acquisisca quella prospettiva equilibrata necessaria per avvicinarsi al buddhismo senza pregiudizi e malintesi. Perciò, questa mia introduzione al buddhismo è scritta non solo per gli Occidentali, ma anche per quelle persone dei paesi buddhisti, che si sono allontanate dalla loro religione per una serie di ragioni sociali e culturali. Naturalmente va detto che anche l’immagine che si ha del buddhismo in Occidente va in qualche modo ridimensionata. Spero perciò che dai capitoli che seguono, emerga una presentazione chiara e obiettiva delle varie tradizioni buddhiste.

Ora, per tornare all’atteggiamento occidentale verso il buddhismo, una delle prime caratteristiche che ce lo fa apprezzare è quella di non essere legato ad una cultura, cioè di non essere limitato ad una particolare società, razza o gruppo etnico. Ci sono delle religioni che sono legate a una specifica cultura: il giudaismo ne è un esempio, l’induismo un altro esempio. Il buddhismo non ha simili costrizioni. E questa è la ragione storica dello sviluppo di un buddhismo indiano, un buddhismo dello Sri Lanka, un buddhismo thailandese, un buddhismo birmano, un buddhismo cinese, un buddhismo giapponese, un buddhismo tibetano e così via. Non ho dubbi che in futuro vedremo emergere un buddhismo inglese, un buddhismo francese, un buddhismo italiano, un buddhismo americano e così via. Ciò è possibile proprio perché il buddhismo non è legato a una specifica cultura. Si muove facilmente da un contesto culturale ad un altro, perché pone più l’accento sulla pratica interiore che sulle forme e i comportamenti religiosi esterni. Si dà importanza a come il praticante sviluppa la propria mente piuttosto che a come si veste, a come mangia, al taglio dei capelli e così via.

L’altro punto che vorrei sottolineare è il pragmatismo del buddhismo, cioè il suo orientamento pratico. Il buddhismo si occupa di problemi pratici. Non è interessato a discussioni accademiche o a teorie metafisiche. L’approccio buddhista consiste nell’identificare un problema reale e risolverlo nel modo più pratico. Possiamo notare che questo atteggiamento è molto simile alla concezione occidentale utilitaristica e scientifica di risolvere i problemi. In breve, potremmo dire che l’approccio buddhista è contenuto nella massima: “Se funziona, usalo”. Questo atteggiamento è parte integrante della prassi moderna occidentale sia in campo politico che economico e scientifico.

Il pragmatismo buddhista è espresso molto bene nel Chulamalunkya Sutta, in cui il Buddha usa la parabola dell’uomo ferito da una freccia che, prima di lasciarsi estrarre la freccia, vuole sapere chi l’ha lanciata e da che direzione, se la punta è d’osso o di ferro e di che legno è fatta. Il Buddha paragona questo atteggiamento a quello di colui che vuol sapere, prima di iniziare a praticare una religione, l’origine dell’universo: se è eterno o no, se lo spazio è infinito o no, e così via. Gente così morirà certamente prima di aver potuto dare una risposta a queste domande inutili, così come morirà l’uomo della parabola prima di avere tutte le risposte che vuole sull’origine e la natura della freccia.

Questa storia illustra bene l’orientamento pratico del Buddha e del buddhismo. Ha molto da dirci su tutta l’intera questione delle priorità e sulle soluzioni scientifiche ai problemi. Non faremo molta strada sulla via della saggezza se porremo le domande sbagliate. E’ essenzialmente una questione di priorità. La priorità assoluta per tutti noi è la riduzione e infine l’eliminazione della sofferenza. Il Buddha riconobbe l’importanza di questo punto e quindi sottolineò la futilità di voler speculare sull’origine e la natura dell’universo, proprio perché tutti noi, come l’uomo della parabola, siamo stati colpiti da una freccia, la freccia della sofferenza.

Dobbiamo quindi fare domande che riguardino direttamente la rimozione della freccia della sofferenza e non perdere tempo prezioso in vane speculazioni. Possiamo esprimere questa idea molto semplicemente. Chiunque può rendersi conto che nella vita quotidiana si fanno continue scelte basate su delle priorità. Per esempio, supponiamo che stiate cucinando e che decidiate, mentre i fagioli bollono, di spolverare i mobili o scopare il pavimento. Mentre siete così occupati, sentite odore di bruciato: dovete quindi scegliere se continuare a spolverare o spazzare, oppure se andare a spegnere il fornello in modo da salvare la cena. Allo stesso modo, se vogliamo progredire nella saggezza, dobbiamo riconoscere chiaramente quali sono le nostre priorità. E’ un punto illustrato molto garbatamente nella parabola dell’uomo ferito.

Il terzo punto che vorrei discutere è l’insegnamento riguardo all’importanza di verificare la verità facendo ricorso alla propria esperienza personale. E’ un punto che il Buddha chiarisce in modo inequivocabile nel consiglio che dà ai kalama, riportato nel Kesaputtiya Sutta. I kalama erano una comunità di cittadini molto simile alla gente di oggi, esposta a varie, diverse e spesso opposte versioni della verità. I Kalama andarono dal Buddha e gli chiesero come dovevano giudicare la verità delle affermazioni, spesso in conflitto tra loro, esposte dai vari maestri spirituali. Il Buddha li consigliò di non accettare nulla solo sulla base di una presunta autorità, di non accettare nulla solo perché scritto nei testi sacri, né di accettare alcunché sulla base della pubblica opinione, né perché sembra ragionevole e neanche per rispetto verso il maestro. Arrivò fino al punto di consigliarli di non accettare neppure i suoi stessi insegnamenti, senza prima verificarne la verità attraverso la loro esperienza personale.

Il Buddha chiese ai Kalama di comprovare qualsiasi insegnamento alla luce della loro esperienza personale. Solo quando avessero capito da soli che certe cose erano dannose, avrebbero dovuto cercare di eliminarle. Viceversa, solo quando avessero capito da soli che certe cose erano benefiche, che portavano alla pace e alla tranquillità, avrebbero dovuto coltivarle. Anche noi dobbiamo giudicare la verità di ciò che ci viene insegnato alla luce della nostra esperienza personale.

Nel suo consiglio ai Kalama penso che si possa vedere chiaramente la dottrina del Buddha che insegna a basarsi su se stessi per giungere alla conoscenza. Dobbiamo usare la nostra mente come una specie di provetta personale. Tutti possono vedere da soli che quando c’è bramosia e rabbia nella mente, queste portano agitazione e sofferenza. Alla stessa stregua quando bramosia e rabbia non sono presenti nella mente, ne risulta calma e felicità. E’ un esperimento personale molto semplice che tutti noi possiamo fare. E’ molto importante verificare la validità degli insegnamenti alla luce della propria esperienza personale, perché l’insegnamento del Buddha sarà efficace e porterà un vero cambiamento nella nostra vita, solo se faremo noi personalmente questo esperimento, in modo che gli insegnamenti diventino parte di noi. Solo quando potremo verificare la verità degli insegnamenti del Buddha sulla base della nostra esperienza personale, saremo certi di progredire sulla via che porta all’eliminazione della sofferenza.

Anche qui possiamo vedere un’impressionante somiglianza tra gli insegnamenti del Buddha e l’approccio scientifico, nella ricerca della conoscenza. Il Buddha pose in rilievo l’importanza dell’osservazione obiettiva che, in un certo senso, è la chiave del metodo buddhista per giungere alla conoscenza. E’ l’osservazione obiettiva che rivela la prima delle Quattro Nobili Verità, la verità della sofferenza; è l’osservazione che dà la misura del progresso sul percorso della conoscenza; ed è sempre l’osservazione che conferma la realizzazione della completa cessazione della sofferenza. Quindi si può dire che il ruolo dell’osservazione è essenziale sia all’inizio e nel mezzo che alla fine della via buddhista verso la liberazione.

Ciò non è molto diverso dal ruolo che ha l’osservazione obiettiva nella tradizione scientifica occidentale. La tradizione scientifica insegna che quando osserviamo un fenomeno, dobbiamo prima formulare una teoria generale e poi una ipotesi specifica. La stessa procedura si applica nel caso delle Quattro Nobili Verità. Qui la teoria generale è che tutte le cose devono avere una causa, e l’ipotesi specifica è che la causa della sofferenza è la cupidigia e l’ignoranza (la seconda Nobile Verità). Tale ipotesi può essere verificata dal metodo sperimentale incorporato nei vari gradini dell’Ottuplice Nobile Sentiero. Attraverso questi gradini si può stabilire la veridicità della seconda Nobile Verità. Inoltre può essere verificata la realtà della terza Nobile Verità – la cessazione della sofferenza – perché coltivando il Nobile Sentiero la cupidigia e l’ignoranza vengono eliminate ed è raggiunta la suprema felicità del Nirvana. E, come per la pratica scientifica, così anche qui l’intero processo è ripetibile; infatti, non solo il Buddha ottenne la fine della sofferenza, ma vediamo che, storicamente, la ottennero anche tutti coloro che percorsero la sua via fino alla fine.

Quindi, quando osserviamo da vicino gli insegnamenti del Buddha, scopriamo che il suo approccio è molto simile a quello scientifico. Ciò ha naturalmente suscitato grande interesse verso il buddhismo da parte delle persone con una mentalità moderna. Ora possiamo capire la ragione per cui Einstein fece quell’affermazione che gli si attribuisce. La somiglianza di base tra l’approccio buddhista e quello della scienza diventerà ancora più chiaro quando esamineremo l’atteggiamento buddhista verso i fatti dell’esperienza che, come quello scientifico, è un atteggiamento analitico.

Secondo gli insegnamenti del Buddha, i dati dell’esperienza sono formati da due componenti: la componente obiettiva e la componente soggettiva; in altre parole sono le cose che percepiamo intorno a noi e noi stessi, soggetti della percezione.. Il buddhismo è noto da lungo tempo per il suo approccio analitico nei campi della filosofia e della psicologia. Questo significa che il Buddha analizzò i fatti dell’esperienza nelle sue varie componenti o fattori. Le componenti più basilari sono i cinque aggregati: forma, sensazione, percezione, volizione e coscienza. I cinque aggregati possono essere considerati anche sotto l’aspetto dei 18 elementi o – in una analisi ancora più elaborata – sotto l’aspetto di 72 fattori.

La procedura adottata è analitica in quanto frantuma i dati dell’esperienza nelle sue varie componenti. Il Buddha non si accontentò di un vago concetto di esperienza in generale; volle invece analizzare l’esperienza, investigarne l’essenza e frantumarla nelle sue componenti, come si potrebbe dividere il fenomeno “carro” nelle sue componenti: ruote, asse, struttura, ecc. Lo scopo di ciò è ottenere una più chiara idea di come funziona quel dato fenomeno. Quando per esempio guardiamo un fiore, ascoltiamo un brano musicale o andiamo a trovare un amico, tutte queste esperienze nascono come diretto risultato di una combinazione di elementi composti.

Questo è stato chiamato l’approccio analitico del buddhismo e di nuovo troviamo che non è affatto estraneo alla scienza moderna e alla filosofia. L’approccio analitico è molto usato nel campo scientifico, ma anche negli studi filosofici esso ha caratterizzato il pensiero di molti filosofi europei, e recentemente ad esempio, quello di Bertrand Russell. Sono stati condotti studi comparativi tra la sua filosofia analitica e gli insegnamenti del buddhismo primitivo. Risulta evidente che nella filosofia e scienza occidentali possiamo scoprire un forte parallelismo con il metodo analitico insegnato nella tradizione buddhista. Queste caratteristiche così familiari e riconoscibili hanno attratto verso la filosofia buddhista molti intellettuali e accademici occidentali. Anche i moderni psicologi sono profondamente interessati oggidì all’analisi buddhista dei vari fattori della coscienza: delle sensazioni, percezioni e volizioni. Sono sempre più numerosi quelli che si volgono all’antico insegnamento del Buddha per trarre da esso una maggiore comprensione della propria disciplina.

Questo crescente interesse per gli insegnamenti del Buddha, causato da tanti punti di affinità tra il pensiero buddhista e le maggiori correnti moderne della scienza, della psicologia e della filosofia, ha raggiunto il suo culmine nel XX secolo con le sorprendenti proposte avanzate dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica, che rappresentano il più recente sviluppo della scienza sperimentale e teorica. Di nuovo si può notare che non soltanto il Buddha ha anticipato i principali metodi scientifici (cioè osservazione, sperimentazione e analisi) ma che addirittura il buddhismo e la scienza coincidono pienamente sulle più dettagliate conclusioni riguardanti la natura dell’uomo e dell’universo.

Per esempio in Occidente è stata a lungo ignorata l’importanza della coscienza nel formare l’esperienza e solo ora viene riconosciuta. Poco tempo fa un famoso fisico osservò che l’universo potrebbe essere solo qualcosa come un immenso pensiero. Chiaramente questo coincide con l’insegnamento del Buddha, espresso nel Dhammapada, in cui si dice che la mente è la matrice di ogni cosa. Similmente, i più recenti sviluppi della moderna scienza sperimentale hanno confermato la relatività tra mente e materia, cioè hanno riconosciuto che non c’è una divisione netta tra mente e materia.

Di conseguenza gli scienziati, gli psicologi e i filosofi che operano nel contesto della cultura occidentale contemporanea, hanno trovato nel buddhismo una tradizione in armonia con i più basilari principi del pensiero occidentale. Inoltre essi trovano il buddhismo particolarmente interessante perché indica chiaramente la strada da percorrere per arrivare ad una trasformazione interiore, cosa che la scienza occidentale non ha saputo finora suggerire, sebbene i metodi principali e le conclusioni della tradizione scientifica occidentale siano spesso molto simili a quelle del buddhismo. Anche se la scienza ci ha insegnato a costruire città migliori, autostrade, fabbriche e fattorie, non ci ha però insegnato a costruire gente migliore. Ecco perché nel mondo contemporaneo, molti si volgono al buddhismo, un’antica filosofia che ha molte caratteristiche in comune con la tradizione scientifica occidentale, ma che va oltre il materialismo dell’Occidente, oltre le limitazione della scienza applicata, così come la conosciamo oggi.



CAPITOLO II

LA CULTURA PRE-BUDDHISTA

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


Sebbene i libri sul buddhismo inizino con la vita del Buddha, il fondatore storico di questa fede, io vorrei cominciare questa trattazione esaminando la situazione prevalente in India prima dell’avvento del buddhismo, cioè il suo retroterra culturale. Penso che una tale analisi possa essere particolarmente utile per farci comprendere la vita e gli insegnamenti del Buddha in un contesto storico e culturale più ampio. Questo esame retrospettivo può aiutarci a capire meglio la natura del buddhismo in particolare e forse anche la natura della filosofia e della religione indiana in generale.

Vorrei iniziare questo esame delle origini e dello sviluppo della filosofia e religione indiane con una analogia geografica. Nella parte settentrionale del sub-continente indiano ci sono due grandi fiumi: il Gange e lo Yamuna. Questi due grandi fiumi hanno due sorgenti diverse sulle cime dell’Himalaya e il loro percorso rimane separato per una buona parte della loro lunghezza. Poi gradualmente si avvicinano sempre più uno all’altro fino a riunirsi nelle pianure dell’India settentrionale, vicino alla città oggi chiamata Allahabad. Da questo punto di confluenza essi scorrono insieme fino a riversarsi nella Baia del Bengala.

La geografia di questi due grandi fiumi esemplifica bene le origini e lo sviluppo della filosofia e religione indiane, perché nella cultura indiana, come nella sua geografia, vi sono due grandi correnti di pensiero, dalle caratteristiche originariamente molto diverse. Per molti secoli il corso di queste due correnti rimase separato e diverso, ma infine si avvicinarono, si amalgamarono e continuarono a scorrere insieme, quasi irriconoscibili una dall’altra, fino ad oggi. Mentre procediamo nell’esame della cultura indiana pre-buddhista, è bene tenere in mente l’immagine di questi due fiumi dalle sorgenti separate, che a un certo punto si riunirono e continuarono insieme il loro percorso verso il mare.

Quando guardiamo agli albori della storia indiana, troviamo che nel terzo millennio a.C. vi era nel sub-continente una civiltà altamente sviluppata. Questa civiltà è probabilmente altrettanto antica di quelle che sono chiamate la culla della cultura umana, come le civiltà egiziana e babilonese. Fiorì tra il 2800 e il 1800 a.C. ed è chiamata la civiltà della Valle dell’Indo o di Harappa. Si estendeva dall’odierno Pakistan occidentale verso sud fin nei pressi dell’odierna Bombay e verso est fino a Shimla ai piedi dell’Himalaya.

Guardando una mappa dell’Asia ci si rende conto di quanto immensa fosse l’estensione geografica della civiltà della Valle dell’Indo. Ed era una civiltà che non solo rimase stabile per mille anni, ma era anche molto avanzata, sia materialmente che spiritualmente. Materialmente la civiltà dell’Indo era agricola, con un alto grado di sviluppo nell’irrigazione e nella pianificazione urbana. Si sa che la gente di questa civiltà aveva prodotto un sistema matematico basato sul modello binario, quello usato oggi dai computers. La civiltà dell’Indo conosceva la scrittura, che però è ancora ad oggi rimasta indecifrata. (Il significato della scrittura della civiltà dell’Indo è a tuttoggi un grande mistero irrisolto dell’archeologia linguistica). Inoltre ci sono prove evidenti che mostrano come questa civiltà godesse di un altissimo livello di cultura spirituale. Ne fanno testimonianza le scoperte archeologiche di Mohenjo-daro e Harappa.

La pacifica vita di questa antica civiltà fu improvvisamente interrotta tra il 1800 e il 1500 a.C. o per qualche disastro naturale o per un’invasione. Ciò che è certo è che contemporaneamente, o appena dopo, la sparizione della civiltà dell’Indo, il subcontinente fu invaso da nord-ovest (la stessa direzione da cui secoli dopo sarebbero arrivati gli invasori musulmani). Gli invasori sono gli Arii. E’ un termine che designava un popolo originario da qualche zona dell’Europa orientale, forse dalle steppe dell’odierna Polonia e Ucraina. Gli arii erano molto diversi dalla gente della civiltà dell’Indo. Mentre questi ultimi erano agricoltori e sedentari, gli arii erano nomadi e pastori. Non erano abituati alla vita urbana. Era un popolo espansionista e guerriero, che viveva soprattutto delle spoglie dei popoli vinti, soggiogati nel corso delle loro migrazioni.. Quando gli arii arrivarono in India ne divennero ben presto i dominatori e dopo la metà del secondo millennio a.C. la società indiana era prevalentemente dominata dai valori degli arii.

Diamo ora un’occhiata al comportamento religioso della gente della civiltà dell’Indo e della civiltà ariana.. E’ una cosa di grande interesse per noi. Come detto sopra, la civiltà dell’Indo aveva un linguaggio scritto che non siamo però ancora riusciti a decifrare. Tuttavia la nostra conoscenza di tale civiltà deriva da due fonti attendibili: le scoperte archeologiche di Mohenjo-daro e Harappa e la documentazione scritta degli arii, che descrivono il comportamento religioso e le credenze del popolo che avevano sottomesso.

Gli scavi archeologici hanno portato alla luce alcuni simboli importanti della gente della civiltà dell’Indo. Sono simboli religiosi, sacri anche al buddhismo. Comprendono l’albero pipal (più tardi conosciuto come l’albero della bodhi o ficus religiosa), e animali come l’elefante e il cervo. Significativa è stata la scoperta di una figura umana seduta a gambe incrociate, con le mani sulle ginocchia e gli occhi socchiusi, cosa che chiaramente suggerisce un atteggiamento di meditazione. Con l’aiuto di queste scoperte archeologiche e di altre prove, eminenti studiosi sono arrivati alla conclusione che l’origine delle pratiche dello yoga e della meditazione si può far risalire alla civiltà dell’Indo. Inoltre, quando leggiamo la descrizione delle pratiche religiose della gente della civiltà dell’Indo, riportata nei Veda, i testi dei primi arii, troviamo spesso menzionata la figura dell’asceta errante. Si sa che questi asceti praticavano metodi di sviluppo mentale, erano celibi, nudi o vestiti di un semplice pezzo di stoffa, non avevano fissa dimora e insegnavano la via per andare al di là della nascita e della morte.

Mettendo insieme quanto scoperto negli scavi archeologici dei luoghi principali della civiltà dell’Indo con ciò che si trova negli antichi documenti degli arii, ne emerge un quadro del comportamento religioso e delle pratiche di quel popolo che, sebbene sommario, è abbastanza chiaro nelle sue linee essenziali. E’ evidente che la religione della civiltà dell’Indo conteneva molti elementi importanti. Il primo – e molto evidente – è la meditazione o la pratica dell’addestramento mentale. Era comune anche il secondo elemento, la pratica della rinuncia, cioè l’abbandono della vita famigliare per condurre una vita da asceta errante o mendicante. In terzo luogo, sembra chiaro che avessero una qualche idea di rinascita o reincarnazione che avvenivano nel corso di un infinito numero di vite; e quarto, avevano un senso di responsabilità morale che si estendeva oltre questa vita, cioè una qualche forma di idea del karma. Infine, vi era lo scopo supremo della vita religiosa, cioè la liberazione o l’emancipazione dall’infinito ciclo di nascita e morte. Queste erano le caratteristiche principali della religione della più antica civiltà indiana.

Ora passiamo a considerare la religione dei primi arii, che è in completo contrasto con quella della civiltà dell’Indo. Si può persino dire che è difficile trovare due culture religiose così radicalmente diverse. Ricostruire un quadro completo del comportamento e delle pratiche religiose dei primi arii è molto più semplice che farlo per il popolo della Valle dell’Indo. Quando gli arii arrivarono in India, portarono con sé una religione di natura prettamente terrena. La loro era una società espansionistica, o se vogliamo, pionieristica. Venivano dall’Europa orientale e la loro religione assomigliava, sotto molti aspetti, a quella dell’antica Grecia. Se guardiamo le descrizioni degli dei che componevano il pantheon greco, non mancherete di notare impressionanti somiglianze tra i due. Gli arii adoravano un certo numero di dei che personificavano fenomeni naturali, incluso Indra (non dissimile da Zeus) il dio del tuono e della folgore; Agni il dio del fuoco e Varuna il dio dell’acqua, solo per nominarne alcuni.

Mentre nella religione della valle dell’Indo la figura preminente è quella dell’asceta, nella tradizione religiosa ariana il sacerdote è la figura più importante. Mentre nel sistema di valori della civiltà dell’Indo, la rinuncia aveva un posto importante, in quella degli antichi arii lo stato più meritevole era quello di capo-famiglia. Mentre nella cultura religiosa della valle dell’Indo non veniva attribuito alcun valore alla progenie, per gli ariani la progenie, soprattutto maschile, aveva la priorità assoluta.

Mentre la gente della valle dell’Indo metteva in risalto la pratica della meditazione, la religione degli arii si basava sul sacrificio, considerato il mezzo principale di comunicazione con gli dei, che assicurava la vittoria in battaglia, che faceva ottenere ricchezza e figli maschi e che infine conduceva al paradiso. La religione dell’Indo comprendeva i concetti di rinascita e karma, mentre quella ariana ignorava questi concetti. La nozione di una responsabilità morale che si estendeva oltre la vita presente, sembra sia stata sconosciuta agli arii, per i quali il massimo valore sociale era la lealtà di gruppo, una virtù esaltata perché contribuiva al potere e alla coesione della tribù. Infine, lo scopo ultimo della religione della civiltà della valle dell’Indo era la liberazione, uno stato che trascendeva nascita e morte, mentre per i primi arii il traguardo era semplicemente il paradiso, e un paradiso che sembrava la versione perfezionata di questo mondo.

Per riassumere, mentre la religione della Valle dell’Indo poneva l’accento sulla rinuncia, la meditazione, la rinascita, il karma e aveva come traguardo finale la liberazione, la religione degli arii sottolineava il valore di questa vita, del sacrificio rituale, della lealtà, ricchezza, progenie, potere e paradiso. Da quanto detto, si deduce che la religiosità, le pratiche e i valori professati da queste due antiche civiltà indiane erano diametralmente opposti. Eppure, nel corso di secoli di coabitazione, queste due tradizioni religiose riuscirono a fondersi e a divenire, sotto molti aspetti, praticamente inscindibili una dall’altra.

Prima di concludere il nostro esame delle caratteristiche più salienti delle religioni della valle dell’Indo e degli arii, va menzionato il fatto che la cultura religiosa degli arii era caratterizzata da due ulteriori elementi completamente estranei e ignoti alla gente della valle dell’Indo. I due elementi a cui mi riferisco sono le caste, cioè la divisione della società in strati sociali e la fede nell’autorità e infallibilità della rivelazione, cioè degli antichi testi conosciuti come i Veda. La cultura religiosa della valle dell’Indo non condivideva queste idee, che rimasero sempre un punto di contesa e di divisione tra le due maggiori tradizioni religiose indiane.

La storia della religione indiana, a partire dal 1500 A.C. fino al VI secolo A.C. (cioè fino al tempo del Buddha) è la storia dell’interazione di queste due tradizioni, originariamente opposte. Man mano che gli arii si espandevano e si stanziavano a est e a sud, diffondendo la loro influenza sulla maggior parte del subcontinente indiano, adottavano un modo di vivere più sedentario. Poco alla volta le due opposte culture religiose cominciarono ad interagire, a influenzarsi a vicenda e infine a fondersi. A questo mi riferivo quando ho preso come esempio il confluire dei due grandi fiumi indiani, il Gange e lo Yamuna.

Al tempo del Buddha in India fioriva una cultura religiosa eterogenea. E questo risulta chiaro anche da uno sguardo superficiale sui fatti salienti della vita del Buddha stesso. Per esempio, alla sua nascita due tipi di persone fecero pronostici sul suo futuro grandioso. La prima profezia fu quella di Asita, un eremita asceta che viveva sui monti, sebbene le biografie del Buddha dicano che Asita era un bramino, un membro della casta sacerdotale della società ariana. Questa è già di per sé una chiara evidenza dell’interazione delle due antiche tradizioni religiose, in quanto indica che già nel VI secolo A.C., anche i bramini avevano cominciato ad abbandonare la vita di famiglia e adottare lo stile di vita degli eremiti erranti, qualcosa di inaudito mille anni prima. Si racconta poi che più tardi furono invitati 108 bramini alla cerimonia in cui veniva dato un nome al giovane principe. Anch’essi profetizzarono la futura grandezza del bimbo. Chiaramente erano sacerdoti che non avevano rinunciato alla vita di famiglia e che quindi rappresentavano la pratica ortodossa originale accettata dagli arii.

Come hanno potuto fondersi due tradizioni inizialmente così diverse? Credo che la risposta vada trovata nei profondi cambiamenti che avvennero nella vita dei popoli indiani tra la metà del secondo millennio e il tempo del Buddha. L’espansione aria si fermò quando gli arii si sparsero nelle pianure indiane. La fine di questo movimento portò a molti cambiamenti sociali, economici e politici. Prima di tutto la vita tribale, nomade e pastorale dei primi arii si trasformò gradualmente in un modo di vivere più sedentario, agrario e infine urbano. Dopo un po’ la maggior parte della popolazione viveva in aree urbane, lontana, per così dire, dalle forze naturali personificate dalle divinità dei primi arii.

In secondo luogo, il commercio divenne sempre più importante. Mentre nella primitiva società aria i preti e i guerrieri erano stati le figure dominanti – i preti perché comunicavano con gli dei e i guerrieri perché guerreggiavano contro i nemici della tribù e portavano a casa le spoglie dei vinti – ora i commercianti cominciarono a prevalere Questa tendenza è evidente nel famoso discepolo Anathapindika che apparteneva alla classe dei mercanti, e questo è solo un esempio.

Infine l’organizzazione della società su base tribale divenne obsoleta e cominciò a svilupparsi lo stato territoriale. La società non era più organizzata su base tribale, in cui vi erano stati clan a cui si doveva essere personalmente fedeli. Il sistema sociale tribale venne sostituito dallo stato territoriale in cui convivevano persone di diverse tribù. Un esempio di ciò è il regno di Magadha, il cui re Bimbisara era un famoso protettore e amico del Buddha.

Questi cambiamenti sociali, economici e politici contribuirono a far sorgere tra gli arii una sempre crescente disponibilità ad accettare e adottare le idee religiose della civiltà della valle dell’Indo. Sebbene gli arii avessero materialmente dominato l’antica civiltà indigena del subcontinente, i seguenti mille o duemila anni li videro subire sempre più l’influenza del comportamento religioso, delle pratiche e dei valori adottati dalla religione della civiltà della valle dell’Indo. Di conseguenza all’inizio dell’era cristiana sarebbe stato difficile tirare una linea di separazione tra le due culture. Fu questa realtà storica che portò all’errata concezione che il buddhismo fosse una protesta o una derivazione dell’induismo.

Il buddhismo è una religione che trae gran parte della sua ispirazione dalla cultura religiosa della valle dell’Indo. Gli elementi di rinuncia, meditazione, rinascita, karma e liberazione, componenti così importanti della cultura religiosa della popolazione della alle dell’Indo, sono altrettanto importanti nel buddhismo. Forse il Buddha stesso volle indicare che le origini della dottrina da lui proclamata risalivano alla civiltà dell’Indo, quando disse che la via da lui insegnata era un’antica via e che il traguardo da lui indicato era un antico traguardo. La tradizione buddhista sostiene che prima del Buddha Shakyamuni ci furono altri sei Buddha preistorici. Credo che ciò stia ad indicare una certa continuità tra la cultura e le tradizioni religiose della valle dell’Indo e gli insegnamenti del Buddha.

Quando analizziamo i due fenomeni religiosi chiamati buddhismo e induismo, vi troviamo elementi ereditati dalle due grandi tradizioni religiose dell’antica India in proporzioni e prevalenza più o meno significative. Nel buddhismo possiamo riconoscere il peso preponderante dell’eredità religiosa trasmessa dalla civiltà dell’Indo, mentre solo una piccola parte può essere fatta risalire alla religione degli antichi arii. Nel buddhismo ci sono indubbiamente elementi ereditati dalla religione degli arii, come la presenza degli dei vedici, ma il loro ruolo rimane secondario.

Viceversa, molte scuole dell’induismo conservano una gran parte di elementi ereditati dalla tradizione degli arii e solo una piccola proporzione può essere fatta risalire alla religione della valle dell’Indo. Molte sette dell’induismo si basano infatti sulle caste, sull’autorità della rivelazione esposta nei Veda e sull’efficacia delle pratiche del sacrificio. Malgrado questi evidenti elementi arii, nell’induismo troviamo anche elementi importanti della cultura dell’Indo, come la rinuncia, la meditazione, la rinascita, il karma e la liberazione.




CAPITOLO III

LA VITA DEL BUDDHA

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


Vorrei ora parlare della vita del Buddha Shakyamuni. Non tento di trattare questo argomento in modo esauriente, né coprire tutte le fasi della biografia di Shakyamuni. La vita del Buddha è stata descritta spesso sotto forma di narrazione sia da autori antichi che moderni. Io cercherò invece di usare queste brevi considerazioni sulla vita del Buddha per portare l’attenzione su alcuni importanti valori buddhisti, che sono straordinariamente delineati nei racconti della vita di Shakyamuni.

Nel capitolo secondo, abbiamo discusso dell’origine e della natura delle due antiche tradizioni dell’India: una che trae la sua sorgente dalla cultura dell’Indo e l’altra dalla civiltà degli arii. Ho anche parlato di come queste due tradizioni, originariamente molto diverse, cominciarono col tempo a interagire e ad influenzarsi reciprocamente, fino a che verso il primo millennio dell’era cristiana divennero praticamente inscindibili una dall’altra. Forse non è solo una pura coincidenza che l’area centro-settentrionale della pianura del Gange e del Tarai nepalese, conosciuta come “regione centrale” o Madhyadesha sia stata una delle regioni in cui le due tradizioni sono entrate attivamente in contatto e anche in conflitto. I sacerdoti, custodi della tradizione aria, videro nel movimento verso oriente della civiltà ariana una minaccia di disintegrazione della cultura ariana pura e di sviluppo di pratiche e di comportamenti non ortodossi.

La storia delle religioni ci insegna che quando due tradizioni molto diverse, quali quella ariana e quella della valle dell’Indo, vengono in contatto e in conflitto, si crea un campo di forti potenzialità per lo sviluppo di nuovi comportamenti culturali e religiosi. E’ utile vedere la vita e gli insegnamenti del Buddha nel contesto di questo fenomeno storico. Inoltre, come detto nel capitolo secondo, nel VI secolo avvennero grandi cambiamenti sociali, economici e politici che ebbero ripercussioni sulla vita di quelle popolazioni e contribuirono a sviluppare un’alta coscienza religiosa. Capita regolarmente che in tempi di grandi sconvolgimenti sociali, economici e politici, la gente tenda a cercare in se stessa salvezza e sicurezza, sentendo che il mondo esterno è sempre più incerto. Si volgono istintivamente verso la religione – che appare depositaria di valori sicuri espressi nella fede e nella pratica – per cercarvi stabilità in mezzo all’incertezza. Sono periodi che quasi sempre hanno prodotto grandi rivoluzioni e rinascite spirituali. Questo fu certamente il caso nell’India del VI secolo, nella Cina del VI secolo e all’inizio dell’era cristiana nel mondo mediterraneo.

Tre valori di grande importanza emergono dalla vita del Buddha: 1) rinuncia, 2) amore e compassione e 3) saggezza. Sono valori che risaltano evidenti in molti episodi della sua vita. Non è una coincidenza che questi tre valori, presi insieme, formino i requisiti essenziali per il raggiungimento del Nirvana o illuminazione. Secondo gli insegnamenti buddhisti, ci sono tre afflizioni che causano una rinascita dopo l’altra nel ciclo di continue esistenze: attaccamento avversione e ignoranza. Queste afflizioni vengono eliminate con gli antidoti rispettivamente della rinuncia, dell’amore e compassione e della saggezza. Coltivando queste tre qualità il praticante è in grado di eliminare le afflizioni e raggiungere l’illuminazione. Non è quindi un caso che queste qualità siano un’importante caratteristica della vita del Buddha Shakyamuni.

Diamo un’occhiata ad ognuna di queste qualità separatamente, cominciando con la rinuncia. Come avvenne per l’amore e la compassione, i primi segni di rinuncia si manifestarono molto presto nella vita del Buddha. La rinuncia è essenzialmente il riconoscimento che ogni tipo di esistenza è permeata dalla sofferenza. Quando lo si capisce, si arriva a ciò che potremmo chiamare un’inversione di tendenza: la realizzazione che tutta la vita normale è permeata di sofferenza ci porta a desiderare qualcosa di più o di diverso. E’ precisamente per questa ragione che la sofferenza ha il primo posto nell’elencazione delle Quattro Nobili Verità ed è sempre per questo che il chiaro riconoscimento della sua realtà e universalità è l’essenza della rinuncia.

Si narra che a 7 anni il principe Siddhartha abbia partecipato alla cerimonia annuale dell’aratura. Mentre osservava lo svolgimento della cerimonia, il giovane vide che un verme, dissotterrato dall’aratro, veniva divorato da un uccello. Questo incidente indusse Siddhartha a contemplare la realtà della vita, a riconoscere il fatto inevitabile che tutti gli esseri viventi si uccidono a vicenda per sopravvivere e tutto ciò è una grande fonte di sofferenza. Troviamo che fin da bambino il Buddha aveva già cominciato a riconoscere che la vita, come la conosciamo noi, è permeata di sofferenza.

Continuando a scorrere la narrazione della vita di Siddhartha, ci imbattiamo nel famoso episodio in cui le quattro cose che vide lo spinsero a rinunciare alla vita di famiglia per intraprendere quella ascetica, alla ricerca della verità. La vista di un vecchio, di un malato e di un cadavere lo portò a chiedersi come mai si sentisse così sconvolto da quella vista. Evidentemente anche lui non era immune da quello ed era quindi soggetto all’inevitabile successione di vecchiaia, malattia e morte. Questo riconoscimento sviluppò nel principe un senso di distacco per gli effimeri piaceri del mondo e lo stimolò a ricercare la verità ultima sull’esistenza attraverso la rinuncia.

E’ importante ricordare a questo punto che la rinuncia del principe non fu provocata da quel tipo di disperazione che si può sentire nella vita normale. Egli godeva per quei tempi dei massimi privilegi e della più grande felicità; eppure riconobbe la sofferenza inerente in ogni essere senziente e capì che, per quanto uno indulgesse a ogni tipo di piacere sensuale, alla fine avrebbe dovuto comunque affrontare la realtà della vecchiaia, della malattia e della morte. Una volta capito ciò e spinto dalla quarta visione, quella di un asceta, Siddhartha si decise a rinunciare alla vita famigliare e a cercare la verità ultima per il beneficio di tutti gli esseri viventi.

Ora guardiamo alle sue qualità di amore e compassione, che si manifestarono anch’esse molto presto nella vita del Buddha. L’esempio più bello è l’episodio del cigno ferito. Le biografie ci dicono che il principe e suo cugino Devadatta stavano passeggiando nel parco che circondava il palazzo reale, quando Devadatta colpì e abbatté con l’arco e le frecce un cigno. Entrambi i ragazzi corsero verso il luogo in cui era caduto il cigno, ma fu Siddhartha che, correndo più veloce, raggiunse per primo il luogo. Il giovane principe raccolse in grembo l’uccello ferito e cercò di alleviarne la sofferenza. Devadatta reagì con rabbia, insistendo che il cigno apparteneva a lui in quanto era stato lui ad abbatterlo. I ragazzi portarono la questione davanti al saggio di corte, che decise di assegnare l’uccello a Siddhartha, poiché la vita appartiene a colui che la difende e non a chi la distrugge.

In questa semplice storia abbiamo un eccellente esempio della precoce manifestazione di un atteggiamento di amore e compassione da parte del Buddha, atteggiamento che si preoccupa di incrementare il più possibile la felicità altrui e alleviarne le sofferenze. Anche in seguito, dopo la sua illuminazione, il Buddha continuò a manifestare in modo straordinario queste sue qualità, come ad esempio, nell’episodio in cui il Buddha si assunse la cura del monaco Tissa che soffriva di un male talmente disgustoso che gli altri monaci lo sfuggivano. Il Buddha volle ammonirli con il suo esempio e curava e puliva personalmente il corpo malato e imputridito di Tissa, alleviandogli in tal modo la sofferenza.

Infine soffermiamoci sulla qualità della saggezza, la più importante delle tre, essendo commensurata all’illuminazione stessa. E’ la saggezza che alla fine apre la porta verso la libertà ed è la saggezza che elimina l’ignoranza, la causa principale della sofferenza. Si sa che anche se uno taglia tutti i rami di un albero e perfino il suo tronco, ma non toglie le radici, l’albero ricrescerà di nuovo. Allo stesso modo, anche se uno abbandona l’attaccamento per mezzo della rinuncia e l’avversione per mezzo dell’amore e compassione, questi è probabile che sorgano di nuovo finché non si elimina l’ignoranza attraverso la saggezza.

Il modo principale per ottenere la saggezza è la meditazione. Di nuovo, c’è un episodio nella vita del futuro Buddha che mostra la sua precoce abilità nel concentrare la mente. Secondo quanto si narra nei racconti della sua vita, subito dopo l’incidente del verme e dell’uccello durante la cerimonia dell’aratura, il principe sedette sotto un melo e lì spontaneamente cominciò a meditare, raggiungendo il primo livello di assorbimento, concentrando la mente sul processo del respiro. E’ questa la prova di una precoce esperienza meditativa nella vita del Buddha.

In seguito, quando lasciò la famiglia e andò alla ricerca della verità ultima, una delle prime discipline che sviluppò fu la meditazione. Si racconta che l’asceta Gotama (così veniva chiamato in quei sei anni in cui si sforzò di raggiungere l’illuminazione), studiò con due famosi maestri di meditazione, Alara Kalama e Uddaka Ramaputta. Sotto la loro guida imparò e divenne esperto in varie tecniche di concentrazione della mente. Nel capitolo secondo ho già menzionato che vi sono prove che suggeriscono che l’inizio della meditazione può essere fatta risalire agli albori della civiltà indiana, all’età aurea della cultura della valle dell’Indo. E’ molto probabile che i due maestri di cui si parla nelle sue biografie fossero esponenti di un’antica tradizione di meditazione e di concentrazione mentale.

Eppure l’asceta Gotama lasciò i due maestri perché scoprì che la sola meditazione non poteva porre fine in modo permanente alla sofferenza, anche se poteva temporaneamente alleviarla. Questo è un fatto importante perché, sebbene gli insegnamenti del Buddha attribuiscano molta importanza alla pratica dello sviluppo mentale, chiaramente in linea con la tradizione della civiltà della valle dell’Indo, egli trascese gli angusti traguardi della sola meditazione e introdusse una nuova dimensione nell’esperienza religiosa. E’ questo che distingue gli insegnamenti del Buddha da quelli di molte altre scuole indiane, particolarmente di quelle che, in un modo o nell’altro, comprendono pratiche di yoga e di meditazione.

In poche parole, ciò che differenzia il buddhismo dalla tradizione contemplativa dell’induismo e di altre religioni, è il fatto che per il buddhismo la sola meditazione non è sufficiente. Potremmo dire che per il buddhismo la meditazione è come fare la punta a una matita. Lo facciamo per uno scopo, diciamo per scrivere. Allo stesso modo con la meditazione rendiamo acuta la mente per uno scopo preciso e in questo caso lo scopo è la saggezza. Il rapporto tra meditazione e saggezza è stato spiegato con l’aiuto dell’esempio della torcia. Supponiamo di voler vedere un quadro appeso alla parete di una stanza buia con l’aiuto di una torcia. Se la luce della torcia è troppo tenue, se la fiamma è mossa da una corrente d’aria o se la mano che tiene la torcia è instabile, è impossibile vedere bene il quadro. Similmente, se vogliamo penetrare il buio dell’ignoranza e vedere la vera natura dell’esistenza, non lo possiamo fare con una mente debole, distratta, instabile, preda di una continua indolenza o di irrequietezza emotiva e intellettuale. Il Buddha mise in pratica questa scoperta la notte della sua illuminazione. Poi, è scritto, concentrò la mente, la unificò, la rese flessibile con la meditazione, la diresse verso la comprensione della vera natura della realtà e comprese la verità. Quindi si può dire che l’illuminazione del Buddha sia stata la conseguenza dell’unione di meditazione e saggezza.

Ci sono anche altre dimensioni di saggezza, esemplificate nella vita del Buddha. Una di queste è la comprensione della Via di Mezzo. Il concetto di Via di Mezzo è centrale nel buddhismo e ha vari livelli di significato; non possiamo analizzarli qui tutti, ma una cosa va detta subito: il più importante significato della Via di Mezzo è l’evitare gli estremi di compiacimento nei piaceri sensuali da una parte, e la tortura del corpo dall’altra. Questo aspetto fondamentale della Via di Mezzo è illustrato nella vita del Buddha, da quanto fece e sperimentò lui stesso. Prima di rinunciare alla vita di famiglia, Siddhartha godette di una gran quantità di lussi e piaceri sensuali. In seguito, quando divenne un asceta alla ricerca della verità, passò sei anni a praticare ogni sorta di privazioni fisiche e di auto-mortificazione. Infine comprese l’inutilità di queste pratiche come anche la vanità della sua vita precedente. In tal modo scoprì la Via di Mezzo che evita i due estremi.

Ci sono naturalmente molti altri importanti episodi nella vita del Buddha che varrebbe la pena riportare e discutere, ma ho scelto di concentrare l’attenzione solo su questi pochi elementi, semplicemente perché dobbiamo cominciare a guardare alla vita del Buddha come ad una lezione di condotta e pensiero e non solo come ad una biografia contenente un certo numero di nomi e luoghi. Così possiamo apprezzare gli atteggiamenti espressi nella carriera di Shakyamuni. In questo modo, diventa possibile avere una maggiore e più genuina intuizione sul vero significato della vita del Buddha.




CAPITOLO IV

LE QUATTRO NOBILI VERITA’

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


In questo capitolo entriamo nel cuore dell’insegnamento del Buddha. Le Quattro Nobili Verità sono una delle strutture portanti delineate dal Buddha. Sotto molti importanti aspetti, virtualmente coincidono con la totalità della dottrina di Shakyamuni. La comprensione delle Quattro Nobili Verità è sinonimo di realizzazione del fine della pratica buddhista. Lo indicò il Buddha stesso quando disse che proprio l’incapacità a comprendere le Quattro Nobili Verità è la causa che ci fa correre così a lungo nel ciclo della nascita e della morte. La loro importanza è evidenziata dal fatto che il primo discorso del Buddha pronunciato per i cinque asceti nel Parco delle Gazzelle presso Benares, è il Dhammacakkapavattana sutta, che tratta delle Quattro Nobili Verità e della Via di Mezzo. Nella formulazione delle Quattro Nobili Verità abbiamo un estratto degli insegnamenti del Buddha, sia a livello teorico che pratico. Esse sono: la verità della sofferenza, la verità della causa della sofferenza, la verità della cessazione della sofferenza e la verità della Via.

Prima di passare a considerare le Quattro Nobili Verità singolarmente, vorrei portare l’attenzione su alcuni fatti che riguardano la loro formulazione generale. A questo proposito va ricordato che l’antica scienza della medicina godeva di un certo grado di sviluppo ai tempi del Buddha. Una delle formule fondamentali usate dai praticanti della scienza della medicina nell’India antica era basata su quattro aspetti: malattia, diagnosi, cura e medicina. Se considerate attentamente queste quattro fasi applicabili alla scienza della medicina, vi sarà chiaro che sono molto simili alla formula delle Quattro Nobili Verità: 1) la verità della sofferenza corrisponde chiaramente al primo elemento della malattia; 2) la verità della causa corrisponde altrettanto chiaramente all’elemento della diagnosi; 3) la verità della cessazione corrisponde al risultato della cura; 4) e la verità della Via corrisponde evidentemente al corso della terapia.

Quanto sopra per ciò che riguarda la natura terapeutica della formula delle Quattro Nobili Verità e la sua somiglianza con le formule usate dagli antichi medici indiani. Ora vorrei toccare un argomento che, sebbene concettuale, è molto importante per una corretta comprensione delle Quattro Nobili Verità. Quando Sariputta, che sarebbe diventato in seguito uno dei principali discepoli del Buddha, incontrò Assaji, uno dei cinque primi asceti che abbracciarono l’insegnamento del Buddha, gli chiese che tipo di dottrina praticava. Si dice che Assaji abbia risposto che non poteva dire molto su questi insegnamenti perché era da poco che li conosceva. Comunque Assaji cercò di riassumere brevemente quanto poteva degli insegnamenti del Buddha, dicendo: “Delle cose che provengono da una causa, il Tathagata ha parlato e anche della loro cessazione; così insegna il grande asceta”. Si dice che Sariputta sia stato talmente impressionato da questa parole di Assaji, che andò a cercare il suo amico Mogallana, anch’egli alla ricerca della verità, e i due andarono dal Buddha e diventarono suoi discepoli.

Il brevissimo sunto di Assaji sugli insegnamenti del Buddha ci dice molto sul concetto centrale che sta alla base della formula delle Quattro Nobili Verità. Indica l’importanza del rapporto tra causa ed effetto. Il concetto di causa ed effetto è l’essenza degli insegnamenti del Buddha ed è anche l’essenza della formula delle Quattro Nobili Verità. In che modo? La formula delle Quattro Nobili Verità comincia con un problema, cioè con la prima verità, quella della sofferenza. Il problema della sofferenza sorge da cause, cause espresse nella seconda nobile verità, la verità della causa della sofferenza. Esiste poi una fine della sofferenza espressa nella terza nobile verità, la verità della cessazione, e una causa che porta alla fine della sofferenza, cioè la Via che è l’ultima delle quattro nobili Verità. Nella quarta nobile Verità la causa è assenza o in altre parole, quando si eliminano le cause della sofferenza, l’assenza di tali cause è la causa della cessazione della sofferenza.

Se osservate più attentamente le Quattro Nobili Verità vedrete che si dividono piuttosto naturalmente in due gruppi. Le prime due verità, quella della sofferenza e della sua causa, appartengono alla sfera della nascita e della morte. Simbolicamente possono essere rappresentate da un cerchio, perché operano in modo circolare. Le cause della sofferenza producono sofferenza e la sofferenza, a sua volta, produce le cause della sofferenza, che di nuovo a loro volta producono sofferenza. Questo è il ciclo della nascita e della morte o samsara.

Le ultime due verità, la verità della cessazione della sofferenza e la verità della Via non appartengono alla sfera della nascita e della morte. Possono essere rappresentate dall’immagine di una spirale, in cui il movimento non è più solo circolare, ma è anche diretto verso l’alto, per così dire, verso un altro piano di esperienza.

Tornando per un momento al concetto di causa ed effetto nel contesto delle Quattro Nobili Verità, è chiaro che queste quattro verità hanno tra di loro un rapporto causale, all’interno dei due gruppi sopra menzionati: la prima delle quattro (la verità della sofferenza) è il risultato della seconda (la verità della causa), mentre la terza (la verità della cessazione) è il risultato dell’ultima verità (la verità della Via).

Se abbiamo presente l’importanza del rapporto tra causa ed effetto, a proposito delle Quattro Nobili Verità, credo che ci sarà più facile capirle. Similmente, rammentarci l’importanza del principio di causa ed effetto ci sarà di grande aiuto man mano che procediamo nello studio degli insegnamenti di base del Buddha, sia nel contesto di karma e rinascita che in quello dell’Origine interdipendente. In breve, troveremo che il principio di causa ed effetto è come il filo conduttore di tutti gli insegnamenti del Buddha.

Prendiamo ora in considerazione la prima nobile verità, la verità della sofferenza. Molti non buddhisti, ma anche qualche buddhista, trovano che la scelta della sofferenza come prima nobile verità sia allarmante, e indichi pessimismo. Dicono che una tale scelta indica pessimismo. Molte volte mi è stata rivolta la domanda del perché il buddhismo sia così pessimista. Perché sceglie di cominciare con la verità della sofferenza? Ci sono vari modi con cui rispondere a questa domanda. Cominciamo col considerare cosa vuol dire essere pessimisti, ottimisti o realistici. Supponiamo che qualcuno soffra di una grave malattia, ma rifiuta di riconoscere la verità della sua condizione. Il suo atteggiamento sarà ottimista, ma certamente è anche sciocco, in quanto preclude la possibilità di cercare una cura per la malattia. E’ un comportamento da struzzo, è un nascondere la testa sotto la sabbia per convincersi che non vi è pericolo. Se c’è un problema l’unica azione sensata da fare è quella di riconoscere il problema e prendere le misure necessarie per eliminarlo.

L’insistenza del Buddha sulla necessità di riconoscere la verità della sofferenza non è perciò né pessimista né ottimista: è semplicemente realistica. Inoltre, se il Buddha avesse insegnato solo la verità della sofferenza e si fosse fermato lì, allora forse ci sarebbe una qualche ragione di considerare pessimistico il suo insegnamento. Il Buddha cominciò con la verità della sofferenza e poi insegnò la verità sulla causa della sofferenza e, cosa ancora più importante, insegnò la verità della cessazione e il modo per giungere alla cessazione.

Sono certo che, se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo ammettere che c’è qualche problema nella nostra vita. Le cose non vanno come dovrebbero andare. Per quanto cerchiamo di sfuggire a questa evidenza può capitare che da un momento all’altro – forse nel mezzo della notte, tra la folla o semplicemente durante un qualsiasi giorno di lavoro - ci troviamo faccia a faccia con la realtà della nostra situazione. Capiamo che dopo tutto c’è qualcosa che non va. Questo riconoscimento spinge la gente a cercare qualche soluzione al problema fondamentale dell’infelicità e della frustrazione. Certe volte sono soluzioni solo superficiali, come il cercare di eliminare l’infelicità accumulando sempre più beni. Oppure la gente può cercare una soluzione ai problemi fondamentali della vita in varie forme di terapia.

Nel buddhismo, la verità della sofferenza può essere divisa in due categorie, che a grandi linee sono quella fisica e quella mentale. La sofferenza fisica include il dolore della nascita, della vecchiaia, della malattia e della morte. Forse ricorderete che nel capitolo terzo abbiamo detto che il principe Siddhartha entrò in contatto con la vecchiaia, la malattia e la morte, quando si era imbattuto in un vecchio, in un malato e in un cadavere. C’è una quarta forma di sofferenza, la sofferenza della nascita. La nascita è sofferenza, sia per il dolore fisico che il neonato sperimenta, sia perché è a causa della nascita che si sviluppano naturalmente tutte le altre forme di sofferenza, come la vecchiaia e il resto. La nascita è come la porta principale attraverso la quale passano tutte le sofferenze. Credo che non ci sia bisogno di dilungarsi sulla sofferenza della vecchiaia, della malattia e della morte. Tutti abbiamo visto la sofferenza della vecchiaia, l’incapacità di muoversi bene e di pensare coerentemente. Molti di noi hanno sperimentato personalmente la sofferenza della malattia e anche se siamo così fortunati da aver goduto di buona salute, abbiamo certamente visto la sofferenza di qualcun altro malato. E ancora, tutti abbiamo visto la sofferenza della morte, il dolore e la paura che la persona morente prova. Queste sofferenze sono parte integrante della vita. Per quanto felice e contento uno possa sentirsi in un certo momento, non potrà mai evitare per sempre di imbattersi nella sofferenza della nascita, vecchiaia, malattia e morte.

Oltre alle sofferenze fisiche ci sono poi quelle mentali: la sofferenza della separazione da chi ci è caro, la sofferenza di dover stare con chi non ci piace e la sofferenza dei desideri frustrati. Spesso, nel corso della vita, veniamo separati da persone o luoghi che amiamo. Problemi di lavoro o problemi nazionali a volte ci costringono a lasciare la nostra casa e coloro che amiamo. I cambiamenti e la morte ci possono separare da persone e luoghi che amiamo. Inoltre, nel corso della vita, spesso entriamo in contatto con persone e situazioni che avremmo voluto evitare, come ad esempio un collega o un nostro superiore sul posto di lavoro che ci sta antipatico. Una tale situazione può renderci la vita e il lavoro decisamente insopportabili. La sofferenza di dover subire ciò che non ci piace può prendere forme più evidenti, quali esperienze di inondazioni, incendi, carestia, persecuzione, guerra e altri disastri, naturali o provocati dall’uomo. Infine molti, o prima o dopo, sperimentano la frustrazione di desideri non realizzati, quando non riescono ad ottenere ciò che vogliono, sia esso un lavoro, una macchina, una casa o anche un partner.

Queste sofferenze fisiche e mentali fanno parte della trama stessa dell’esistenza umana. E la felicità? Non c’è alcuna felicità nella vita? Certo che c’è. Però la felicità che proviamo nel corso della vita è impermanente. Finché siamo giovani e sani possiamo trovare felicità in situazioni privilegiate o in compagnia della persona amata; eppure tutte queste esperienze felici sono condizionate e perciò stesso impermanenti. O prima o dopo proveremo sofferenza.

Ora, se vogliamo veramente risolvere il problema della sofferenza, se vogliamo ridurla e infine eliminarla, dobbiamo identificarne la causa. Se va via la luce e vogliamo eliminare il buio, dobbiamo identificare la causa del problema. E’ un corto circuito, una valvola saltata o è mancata l’elettricità generale? Allo stesso modo, una volta identificato il problema della sofferenza, dobbiamo risalire alle cause. Possiamo fare qualcosa per risolvere il problema solo se ne capiamo la causa.

Qual è, secondo il Buddha, la causa della sofferenza? Il Buddha ha insegnato che la vera causa della sofferenza è la bramosia. Ci sono vari tipi di bramosia: bramosia per esperienze piacevoli, cupidigia per cose materiali, bramosia per la vita eterna e bramosia per la morte eterna. A tutti piace il buon cibo, la propria musica preferita, una piacevole compagnia e così via. Quando abbiamo queste cose ne vogliamo sempre di più. Cerchiamo di prolungare queste piacevoli esperienze e di goderne sempre più spesso. Eppure, ci sembra di non essere mai veramente soddisfatti. Per esempio vediamo che, quando ci piace molto un certo cibo e ne mangiamo ripetutamente, presto ce ne stanchiamo. Proviamo a cambiare gusto; il nuovo cibo ci piace, ne godiamo, eppure dopo un po’ ce ne stanchiamo. Così continuiamo a cercare qualcos’altro. Ci stanchiamo anche della nostra musica preferita. Ci stanchiamo degli amici. Cerchiamo sempre qualcosa in più. Talvolta questa caccia alle esperienze piacevoli porta a forme di comportamento distruttivo, come con l’alcool e la droga. Tutto ciò rientra nella bramosia di esperienze piacevoli. Si dice che cercare di soddisfare la cupidigia di esperienze piacevoli è come bere acqua salata per smorzare la sete; in effetti non fa che aumentarla.

Non solo desideriamo piacevoli esperienze, ma anche oggetti materiali. Lo si può riscontrare chiaramente nei bambini, anche se tutti noi ne soffriamo. Portate un bimbo in un negozio di giocattoli e vedrete che vuole tutto quello che c’è nel negozio. Infine, convinto dai genitori, ne sceglie uno, ma appena ce l’ha, comincia subito a perdere interesse per esso. Dopo qualche giorno il giocattolo è abbandonato in un angolo e il bambino ne vuole un altro. Ma noi siamo veramente diversi dai bambini? Appena comprata una nuova macchina, non cominciamo forse a desiderarne subito un’altra migliore? Quando ci trasferiamo in una nuova casa spesso ci viene da pensare: “Questa casa va bene ma sarebbe meglio se ne trovassi una più grande, forse con il giardino, o con la piscina”. E così avviene per ogni cosa, che si tratti di una bicicletta, di un video-registratore o di una Mercedes.

Si dice che la bramosia di ricchezze e di cose materiali comporti tre tipi di problemi che causano sofferenza. Il primo è quello di ottenere quanto si desidera: bisogna lavorare parecchio, fare economie e rinunce per comprare una nuova macchina. Poi bisogna averne cura e proteggerla. Vi preoccupate che qualcuno possa danneggiare la macchina o che la nuova casa venga rovinata da un incendio, dal vento o dalla pioggia. Infine c’è il problema del rischio di perdere ciò che si possiede perché, o prima o dopo, tutto si rovina e noi stessi moriremo.

La cupidigia di esistere o di una vita eterna è anche causa di sofferenza. Tutti desideriamo esistere, vivere. Malgrado la sofferenza e le frustrazioni che proviamo, noi tutti vogliamo vivere ed è proprio questa bramosia che ci porta a continuamente rinascere.

Poi c’è il desiderio per la non esistenza, cioè il desiderio di annullamento, che potremmo chiamare il desiderio di una eterna morte. Questa cupidigia si esprime nel nichilismo, nel suicidio e altro. La bramosia di esistere è l’estremo opposto della bramosia di non esistere.

A questo punto, forse vi chiederete: “Basta il solo desiderio a provocare la sofferenza? Basta il solo desiderio a spiegare la sofferenza? La risposta è così semplice?” La risposta è no. C’è qualcosa di più profondo della bramosia, qualcosa che in un certo senso è la base stessa della bramosia, cioè l’ignoranza.

Ignoranza significa non vedere le cose così come sono, non riuscire a capire la verità della vita. Coloro che si considerano molto istruiti, possono offendersi al sentirsi dire che sono ignoranti. In che modo siamo ignoranti? Si sa che senza le giuste condizioni, senza il giusto addestramento e senza i giusti strumenti, non siamo in grado di vedere le cose come sono in realtà. Nessuno di noi si renderebbe conto delle onde radio se non ci fosse il ricevitore radio; né ci renderemmo conto dei batteri in una goccia d’acqua se non ci fosse il microscopio, o della realtà subatomica se non fosse per gli ultimi sviluppi tecnici del microscopio elettronico. Questi fatti del mondo in cui viviamo li possiamo osservare e conoscere solo perché ci sono particolari condizioni, addestramento e strumenti.

Quando diciamo che l’ignoranza non riesce a vedere le cose così come sono realmente vuol dire che, finché non sviluppiamo la mente e attraverso di essa la saggezza, rimaniamo ignoranti della vera natura delle cose. Conosciamo tutti la paura che si prova al vedere qualcosa di informe nel buio al lato della strada mentre si torna a casa la sera tardi. La cosa indistinta potrebbe benissimo essere solo il ceppo di un albero tagliato, ma l’ignoranza ci fa accelerare il passo. Forse i palmi delle mani cominciano a sudare e arriviamo a casa in preda al panico. Se la strada fosse stata illuminata non ci sarebbe stata paura né sofferenza, perché non ci sarebbe stata ignoranza circa la forma intravista nel buio. Avremmo visto il ceppo per ciò che è.

Nel buddhismo si parla di ignoranza circa la natura del sé, dell’anima o personalità. E’ l’ignoranza che porta a vedere il sé come qualcosa di reale. Ed è essa la causa principale della sofferenza. Crediamo che il corpo, i sentimenti e le idee siano un sé, un’anima, una persona. Crediamo che ci sia un ego reale, indipendente, così come prendiamo il ceppo per un potenziale assalitore. Una volta ammessa l’idea di un sé, sorge naturale l’idea di qualcosa separato e diverso da sé. E quando sorge il concetto di qualcosa di diverso da sé, automaticamente si guarda a questo qualcosa solo in funzione della sua utilità verso l’ego o della sua ostilità ad esso. Questi elementi della realtà concepiti diversi da sé sono quindi o piacevoli o spiacevoli, desiderabili o indesiderabili.

Dal concetto di un sé e di qualcosa al di fuori da sé, sorgono naturalmente cupidigia e avversione. Una volta che crediamo nella vera esistenza di un sé, nella reale esistenza indipendente di un’anima o persona divisa dagli oggetti che sperimentiamo come appartenenti al mondo esterno, vogliamo quegli oggetti che riteniamo utili e benefici ed evitiamo quelle cose che non riteniamo benefiche o che addirittura crediamo dannose. Siccome non siamo in grado di vedere che in questo corpo e in questa mente non c’è un permanente sé indipendente, non facciamo che alimentare l’attaccamento e l’avversione. Dalla radice dell’ignoranza cresce l’albero del desiderio, attaccamento, avidità, avversione, odio, invidia, gelosia e tutto il resto. Questo grande albero delle afflizioni emotive cresce dalla radice dell’ignoranza e porta i frutti della sofferenza. L’ignoranza è la prima causa della sofferenza mentre l’avidità, l’attaccamento, l’avversione e tutto il resto sono le cause secondarie o immediate della sofferenza.

Avendo identificato le cause della sofferenza siamo ora in grado di indebolirle e infine eliminarle. Come il fatto di identificare la causa di un dolore fisico ci mette in grado di eliminarlo, risalendo ed eliminando la causa, così quando identifichiamo la causa della sofferenza mentale, siamo in grado di diminuirla ed infine porre fine alla sofferenza stessa eliminandone tutte le cause, cioè ignoranza, attaccamento, avversione e così via. Questo ci porta alla terza delle Quattro Nobili Verità, la verità della cessazione della sofferenza.

Quando cominciamo a parlare della fine della sofferenza, il primo ostacolo da superare è il dubbio che sorge in alcune menti sulla reale possibilità di arrivare alla cessazione della sofferenza. Si può veramente porre fine alla sofferenza? C’è veramente una terapia? E’ in questo contesto che la fede o fiducia gioca un ruolo importante. Quando parliamo di fede o fiducia nel buddhismo non si intende una cieca accettazione di una certa dottrina o credenza. Piuttosto, fede significa ammettere la possibilità di realizzare lo scopo della cessazione della sofferenza.

A meno che non ci sia fiducia che il dottore possa curare un dolore fisico, non andremmo mai da lui, non cominceremmo a fare una terapia e potremmo quindi morire di una malattia che avremmo potuto curare, solo che avessimo avuto abbastanza fiducia da chiedere aiuto. Allo stesso modo, la fiducia è la possibilità di venire curati da una sofferenza mentale ed è un pre-requisito essenziale per intraprendere la pratica. Però potremmo obiettare: “Come posso credere alla possibilità del Nirvana (la completa cessazione della sofferenza e la suprema felicità) se non l’ho mai sperimentata?” Ma, come ho detto prima, nessuno potrebbe udire le onde radio se non fosse per l’invenzione del ricevitore radio e ugualmente nessuno potrebbe vedere la vita microscopica se non fosse per l’invenzione del microscopio. Anche ora molti di noi non hanno mai visto la realtà subatomica direttamente, eppure ne accettiamo l’esistenza perché ci sono alcuni di noi che l’hanno studiata e osservata con gli strumenti appropriati.

Allo stesso modo non dobbiamo respingere la possibilità di raggiungere la completa cessazione della sofferenza o Nirvana, solo perché non l’abbiamo sperimentata noi personalmente. Forse conoscete la vecchia storia della tartaruga e del pesce. Un giorno la tartaruga lasciò il laghetto per passare qualche ora sulla riva. Quando ritornò in acqua parlò al pesce della sua esperienza sulla terraferma, ma il pesce non le credette. Il pesce non poteva credere che esistesse la terraferma perché era una realtà completamente diversa da quella in cui lui viveva e che gli era famigliare. Come poteva esserci un posto in cui gli esseri camminano invece che nuotare, che respirano aria e non acqua? Ci sono molti esempi nella storia, di questa tendenza a rifiutare ciò che non si adatta a quanto crediamo o ci è famigliare. Quando Marco Polo tornò in Italia dall’Oriente fu imprigionato, perché i suoi racconti di viaggio non corrispondevano a quello che allora si credeva fosse la natura del mondo. E quando Copernico avanzò la teoria che il sole non gira intorno alla terra ma viceversa, nessuno gli credette e fu preso in giro.

Dobbiamo perciò stare attenti a non rifiutare la possibilità di porre definitivamente fine alla sofferenza (la realizzazione del Nirvana), solo perché non lo abbiamo sperimentato personalmente. Una volta accettata la possibilità che si può por fine alla sofferenza, che esiste una cura per il nostro male, possiamo cominciare a intraprendere i vari passi per realizzarla. Ma a meno e fino a che non crediamo alla possibilità di una cura, non vi è alcuna possibilità di portare a termine con successo la terapia necessaria. Quindi, per progredire nella Via e infine realizzare la completa cessazione della sofferenza, dobbiamo avere perlomeno la fiducia iniziale di poter raggiungere questo scopo.

Quando parliamo della terza nobile verità, la verità della cessazione della sofferenza, ci riferiamo allo scopo stesso della pratica buddhista.

Una volta il Buddha disse che, per quanto vasto fosse l’oceano, aveva un solo sapore, il sapore del sale, e così anche i suoi insegnamenti, sebbene multiformi e vasti come l’oceano, hanno un unico gusto, quello del Nirvana. Come vedrete, ci sono molti aspetti negli insegnamenti del Buddha (le Quattro Nobili Verità, le tre vie di pratica, l’origine interdipendente, le tre caratteristiche, ecc.) ma tutte hanno un solo scopo in vista, la cessazione della sofferenza. E’ questo traguardo che dà significato e direzione ai vari aspetti dell’insegnamento buddhista.

La fine della sofferenza è lo scopo della pratica buddhista, eppure la cessazione della sofferenza non è esclusivamente trascendente o ultramondana. E’ un punto, questo, piuttosto interessante. Se consideriamo, per esempio, il traguardo finale delle religioni semitiche, cioè il cristianesimo, il giudaismo e l’islam, vediamo che ci sono due traguardi. Uno si ottiene in questa vita e in questo mondo, costruendo un regno d’amore, di prosperità e di giustizia qui e ora; l’altro, più eccelso, consiste nell’entrare in paradiso alla fine di questa vita. Nel buddhismo lo scopo della pratica ha una maggiore ampiezza. La cessazione della sofferenza di cui parlò il Buddha ha uno scopo molto ampio. Quando parliamo infatti della fine della sofferenza nel buddhismo possiamo vederla come: 1) fine della sofferenza qui e ora, sia temporaneamente che in modo permanente; 2) felicità e fortuna nella prossima vita; e/o 3) l’esperienza stessa del Nirvana.

Vediamo di spiegarci più dettagliatamente. Supponiamo di essere nella miseria più nera, con insufficienti cibo, alloggio, vestiario, medicine, cultura, ecc. Queste condizioni costituiscono già di per sé sofferenza, come lo sono la nascita, la vecchia, la malattia, la morte, la separazione da ciò che si ama, ecc. Quando si migliora la situazione qui e ora, aumentando gli standard di vita, la sofferenza diminuisce. Il buddhismo insegna che la felicità o sofferenza che sperimentiamo individualmente in questa vita non sono che la conseguenza delle azioni che abbiamo compiuto nelle vite passate. In altre parole, se ora godiamo di buone condizioni, questa fortuna è il risultato di buone azioni compiute in passato. Al contrario, chi si trova in situazioni difficili, sta scontando le conseguenze di azioni negative fatte nel passato.

Che cosa offre il buddhismo sulla via che porta alla fine della sofferenza? Praticando il buddhismo, a breve termine si ottiene una certa felicità in questa vita, felicità che può essere di natura materiale, nel senso che migliora le condizioni fisiche, materiali; oppure può essere di natura interiore, nel senso di procurare pace mentale o può essere entrambe. Tutto ciò lo si può ottenere già in questa vita qui e ora. Questa è una dimensione della fine della sofferenza. Facendo parte di questa vita, può essere paragonata all’incirca a quello che i cristiani chiamano il “regno di Dio in terra”.

Oltre a ciò, la fine della sofferenza nel buddhismo significa felicità, prosperità, salute, benessere e successo, sia come esseri umani su questa terra, che come esseri celesti in paradiso. Potremmo paragonare questa dimensione con il paradiso di cui parlano le religioni monoteistiche. La sola differenza è che, in queste religioni, il paradiso, una volta raggiunto, è permanente, mentre nel buddhismo il diritto a godere della propria felicità va coltivato e rinnovato.

Il traguardo del buddhismo inizialmente è felicità e prosperità in questa vita e in quelle future. Ma c’è anche molto di più, e in ciò differisce da tutte le altre religioni monoteistiche. Il buddhismo non solo promette felicità e prosperità in questa e nelle prossime vite, ma offre anche la liberazione, cioè il Nirvana o illuminazione. E questa è la completa cessazione della sofferenza. E’ il fine ultimo del buddhismo. E anche questo lo si può ottenere qui e ora.

Quando si parla di Nirvana nasce qualche difficoltà di espressione, perché le sole parole non possono comunicare l’esatta natura di un’esperienza; bisogna farne direttamente l’esperienza. E questo vale per ogni tipo di esperienza, che sia l’esperienza del gusto del sale, dello zucchero o del cioccolato o del primo tuffo in mare. Sono esperienze che non possono essere descritte con precisione. Mettiamo che sono appena arrivato in Asia e qualcuno mi parla di un frutto locale molto apprezzato, il durian. Posso chiedere che sapore ha alla gente locale che lo mangia abitualmente, ma come possono spiegarmi esattamente il gusto che si ha nel mangiarlo realmente? E’ semplicemente impossibile descrivere l’esatto sapore del durian a qualcuno che non l’ha mai assaggiato. Possiamo fare confronti o dire come non è. Per esempio potremmo dire che il durian è cremoso o che è dolce o acidulo e aggiungere che ha qualcosa del frutto dell’albero del pane o somiglia a una mela, ma comunque rimane impossibile comunicare l’esatta natura dell’esperienza che si ha mangiando un durian. Ci troviamo nella stessa situazione quando cerchiamo di descrivere il Nirvana. Il Buddha e gli insegnanti buddhisti attraverso i secoli hanno usato degli espedienti per descrivere il Nirvana, con paragoni e negazioni. Il Buddha ha detto che il Nirvana è pace e felicità supreme. Ha detto che il Nirvana è immortale, increato, senza forma; al di là di acqua, terra, aria, fuoco, sole e luna; che è insondabile e incommensurabile. Vediamo qui i vari metodi che il buddhismo ha usato per descrivere il Nirvana, come quello di paragonarlo a qualche esperienza mondana. Per esempio, certe volte siamo così fortunati da provare una grande felicità accompagnata da una profonda pace della mente e potremmo immaginarci che questo stato sia come una fugace pallida esperienza del Nirvana. Ma come il frutto del pane non è identico a un durian così il Nirvana non è come un’esperienza mondana. Non ha nulla a che fare con nessun tipo di esperienza quotidiana; va oltre alle stesse forme e concetti che usiamo e attraverso cui sperimentiamo il mondo.

Insomma, per sapere cosa è il Nirvana bisogna sperimentarlo personalmente, alla stessa maniera che bisogna assaggiare il durian per sapere esattamente com’è. Nessuno studio o descrizione poetica del durian può avvicinarsi all’esperienza che si ha mangiandolo realmente. Similmente, dobbiamo noi stessi sperimentare la fine della sofferenza e il solo modo per farlo è quello di eliminare le cause della sofferenza, cioè le afflizioni di attaccamento, avversione e ignoranza. Quando abbiamo eliminato le cause della sofferenza, sperimenteremo personalmente il Nirvana.

E allora come possiamo eliminare le cause della sofferenza? Che mezzi ci sono per sbarazzarci delle afflizioni, causa di sofferenza? Per mezzo della via insegnata dal Buddha, la Via di Mezzo, la Via della moderazione. Ricorderete che la vita del Buddha, prima della sua illuminazione, può essere divisa in due distinti periodi: la parte precedente la rinuncia è quella in cui godette ogni possibile lusso; le storie dicono, ad esempio, che aveva tre palazzi, uno per ogni stagione, pieni di talmente tante amenità che è difficile anche immaginarle. Questo periodo di godimenti fu seguito da sei anni di estremo ascetismo e auto-mortificazione, in cui si privò perfino delle necessità più basilari, in cui visse all’aria aperta, indossò solo stracci e digiunò per lunghi periodi di tempo. Oltre a queste privazioni tormentò il corpo in vari modi, come ad esempio dormendo su letti di spine e sedendo accanto al fuoco sotto il sole cocente di mezzogiorno. Avendo provato gli estremi del lusso e delle privazioni fino al limite massimo possibile, il Buddha alla fine ne vide la futilità e scoprì la Via di Mezzo, in cui vanno evitati gli estremi di indulgere completamente ai piaceri sensuali o quello di auto-mortificarsi. Solo avendo sperimentato nella propria vita la natura di questi due estremi, il Buddha fu in grado di scoprire la Via di Mezzo, la via che evita ogni esagerazione.

Come vedremo in seguito, la Via di Mezzo si presta a molte profonde interpretazioni, ma fondamentalmente significa moderazione nel proprio rapporto con la vita e nel comportamento con ogni oggetto. Per comprendere meglio questo atteggiamento possiamo usare l’esempio delle tre corde di un liuto. Il Buddha aveva un discepolo di nome Sona, che praticava la meditazione con un tale impeto che non faceva altro che procurargli ostacoli. Sona stava ormai pensando di lasciar perdere e abbandonare la vita monastica. Il Buddha capì il suo problema e gli disse: “Sona, prima di diventare monaco eri un musicista”. Sona lo ammise: “Sì, è vero”. Il Buddha proseguì: “Come musicista sai senz’altro come deve essere la corda per produrre un suono piacevole e armonioso. Deve essere molto tirata?”. “No, replicò Sona, la corda troppo tesa produce un brutto suono e corre il rischio di rompersi da un momento all’altro”. “E allora, continuò il Buddha, deve essere allentata?” “No, ribatté Sona, la corda troppo lenta non produce un bel suono armonioso. La corda che dà un bel suono armonioso è quella che non è né troppo tesa né troppo lenta”. In questo caso una vita troppo dedita ai piaceri e al lusso la si può definire troppo allentata, senza disciplina e determinazione, mentre una vita di auto-mortificazione è troppo tirata, troppo dura e repressa, col rischio di un improvviso collasso del corpo o della mente, così come la corda eccessivamente tesa può rompersi da un momento all’altro.

Più appropriatamente la via che porta alla cessazione della sofferenza è come una ricetta medica. Quando un bravo medico cura un malato grave, la ricetta non è solo fisica ma anche psicologica. Per esempio, se soffrite di cuore non solo il dottore vi prescrivere di prendere delle medicine, ma vi dice anche di sorvegliare la dieta ed evitare situazioni stressanti. Allo stesso modo, se guardiamo le istruzioni date per seguire la via che porta verso la cessazione della sofferenza, troviamo che non si riferiscono solo al corpo (azioni e parole), ma anche alla mente, cioè ai pensieri. In altre parole, l’Ottuplice Nobile Sentiero, la via che porta alla cessazione della sofferenza, è una via globale, una terapia completa. E’ concepita per curare la malattia della sofferenza, attraverso l’eliminazione delle sue cause e lo fa con un trattamento che non solo riguarda il corpo ma anche la mente.

La Retta Visione è il primo passo dell’Ottuplice Nobile Sentiero a cui segue Retto Pensiero, Retta Parola, Retta Azione, Retto Sostentamento, Retto Sforzo, Retta Consapevolezza e Retta Concentrazione. Perché inizia con la Retta Visione? Per raggiungere la cima di una montagna la vetta deve essere bene in vista. In questo senso il primo passo del nostro cammino dipende dall’ultimo. Il traguardo deve essere chiaro in vista se vogliamo percorrere un cammino che ci porti sani e salvi alla meta. In questo modo la Retta Visione dà la direzione e l’orientamento agli altri passi sulla via.

Vediamo anche che i primi due passi sulla via, Retta Visione e Retto Pensiero riguardano la mente. E’ attraverso questi due gradini che possono essere eliminate ignoranza, attaccamento e avversione. Ma non basta fermarsi lì perché per ottenere la Retta Visione e il Retto Pensiero dobbiamo sviluppare e purificare la mente e il corpo, e per far ciò dobbiamo seguire gli altri sei passi della via. Purifichiamo il corpo in modo che sia più facile purificare la mente, e purifichiamo e sviluppiamo la mente affinché sia più facile ottenere la Retta Visione. Per comodità della pratica l’Ottuplice Nobile Sentiero è stato diviso in tre parti: 1) moralità o buona condotta; 2) sviluppo mentale; 3) saggezza. Gli otto passi della via sono divisi nei seguenti modi di pratica: 1) Retta Parola, Retta Azione e Retto Sostentamento riguardano la pratica della moralità; 2) Retto Sforzo, Retta Consapevolezza e Retta Concentrazione riguardano lo sviluppo mentale e 3) Retta Visione e Retto Pensiero formano la pratica della saggezza.

Siccome è necessario purificare le parole e le azioni prima di purificare la mente, cominciamo il cammino lungo la via con la moralità o buona condotta. E siccome l’Ottuplice Nobile Sentiero è il mezzo per realizzare lo scopo del buddhismo, dedichiamo i seguenti tre capitoli a questi tre modi di pratica.


 

CAPITOLO V

MORALITA’

Tradotto in italiano da Silvana Ziviani


Nel capitolo quarto abbiamo discusso delle Quattro Nobili Verità, concludendolo con la quarta verità, l’Ottuplice Nobile Sentiero che porta alla cessazione della sofferenza. Abbiamo usato l’analogia di salire su una montagna, in cui i primi passi dipendono dal fatto di mantenere in vista la cima, e l’ultimo passo dipende dall’attenzione che mettiamo a non inciampare all’inizio. In altre parole, ogni parte della via dipende dalle altre parti, e se non si completa una parte della via, non si arriverà alla vetta. Allo stesso modo, nel caso dell’Ottuplice Nobile Sentiero, tutti i passi sono in relazione e dipendenza uno dall’altro. Non possiamo fare a nemmeno di uno solo di essi.

Tuttavia, come detto alla fine del quarto capitolo, gli otto passi della via sono stati divisi in tre modi di pratica: 1) moralità; 2) sviluppo mentale e 3) saggezza. Anche se strutturalmente e concettualmente parlando, durante una scalata, il primo gradino dipende dall’ultimo e l’ultimo dipende dal primo, a livello pratico dobbiamo comunque partire dal più basso, anche se siamo attratti dalla cima. E’ per questa ragione che l’Ottuplice Nobile Sentiero è stato diviso in tre parti.

La prima parte riguarda la moralità. Essa pone le fondamenta per il progresso nella pratica cioè per lo sviluppo personale. Si dice che proprio come la terra è la base di tutte le cose animate e inanimate, così la moralità è la base di ogni qualità positiva. Quando ci guardiamo intorno, vediamo che tutto posa sulla terra, dalle case ai ponti, dagli animali agli esseri umani. La terra sostiene tutto e allo stesso modo possiamo dire che la moralità è alla base di tutte le qualità, virtù, realizzazioni sia mondane che ultramondane, dal successo alla fortuna, dall’abilità nella meditazione fino alla saggezza e all’illuminazione. Con l’aiuto di questa analogia possiamo capire quanto sia importante una buona condotta quale base e requisito essenziale per seguire la Via e ottenerne risultati.

Perché sottolineiamo tanto la buona condotta quale elemento basilare di progresso spirituale? La ragione è che c’è un po’ la tendenza a considerare la buona condotta come qualcosa di ottuso e noioso. La meditazione dà l’idea di qualcosa di più emozionante e interessante e anche la filosofia e la saggezza esercitano un certo fascino. C’è la pericolosa tentazione di lasciar perdere la moralità e andare direttamente avanti verso la parte più interessante della pratica. Ma se non si creano le basi di una buona condotta, non riusciremo a progredire nel cammino.

E’ necessario capire come sono state stabilite le regole di buona condotta nel buddhismo, perché ci sono vari modi in cui un codice morale o etico può essere stabilito. Se considerate gli insegnamenti morali delle maggiori religioni del mondo, vi sorprenderete di quanti punti in comune abbiano tra di loro. Se guardate, per esempio, gli insegnamenti morali di Confucio o Lao Tzu, quelli del Buddha e dei maestri indiani, quelli degli ebrei, cristiani e musulmani, troverete che le regole essenziali di buona condotta sono quasi identiche. Però, sebbene le regole nella maggior parte dei casi siano molto simili, l’atteggiamento verso di esse, il modo in cui vengono presentate, capite e interpretate, varia considerevolmente da religione a religione.

In generale ci sono due modi di stabilire un codice morale: un modo che possiamo chiamare autoritario e l’altro democratico. Il primo è ben esemplificato da Dio che dà a Mo"né le Tavole della Legge con i Dieci Comandamenti. Nel buddhismo invece vi è un modo, per così dire, democratico, per stabilire le regole basilari di buona condotta.

Vi chiederete perché dico questo del buddhismo, quando dopo tutto vi sono regole morali chiaramente trasmesse anche nelle Scritture buddhiste. Potreste domandarvi: “E non sono queste simili a quelle che Dio ha dato a Mo"né?”. Io credo di no, perché se osserviamo attentamente il significato delle Scritture buddhiste, possiamo vedere ciò che si cela dietro alle regole di buona condotta: il principio di uguaglianza e reciprocità.

Il principio di uguaglianza sostiene che tutti gli esseri viventi sono fondamentalmente simili per quanto riguarda il loro orientamento e predisposizione. In altre parole, tutti gli esseri vogliono essere felici, godere la vita, evitare la sofferenza e la morte. Questo vale per noi e vale per tutti gli esseri. Il principio di uguaglianza sta al centro della visione universale del Buddha. Capire il principio d’uguaglianza ci porta ad agire alla luce di una maggiore consapevolezza del principio di reciprocità.

Reciprocità significa che, come noi non vogliamo essere offesi, derubati, feriti o uccisi, così tutti gli altri esseri viventi non vogliono subire queste cose. Possiamo esprimere questo principio di reciprocità molto semplicemente: “Non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi”. Una volta ben consapevoli di questi principi di uguaglianza e reciprocità, non è difficile capire perché formino la base delle regole buddhiste di buona condotta.

Diamo ora un’occhiata al contenuto specifico della moralità buddhista. La pratica di buona condotta include tre elementi dell’Ottuplice Nobile Sentiero: 1) Retta Parola; 2) Retta Azione e 3) Retto Sostentamento.

La Retta Parola costituisce un importantissimo aspetto del Sentiero. Spesso sottovalutiamo il potere della parola, e come conseguenza non controlliamo sufficientemente questa facoltà. Ma non bisogna far così. Sicuramente nella vita c’è capitato qualche volta di essere stati profondamente offesi dalle parole di qualcuno e altrettanto siamo stati molto aiutati da ciò che qualcuno ci ha detto. Nella vita pubblica possiamo vedere che chi sa comunicare bene è in grado di influenzare enormemente la gente sia nel bene che nel male. Hitler, Churchill, Kennedy, Martin Luther King erano abili oratori e influenzarono milioni di persone con le loro parole. Si dice che una parola dura può ferire più di una spada, e che una parola gentile può cambiare il cuore e la mente anche del criminale più incallito. Forse la cosa che ci differenzia maggiormente dagli animali è la facoltà della parola; quindi se vogliamo creare una società che abbia lo scopo di comunicare e cooperare armoniosamente per il benessere di tutti, è necessario controllare, coltivare e usare la parola in modo appropriato.

Tutte le regole di buona condotta implicano il rispetto di quei valori che nascono dalla comprensione dei principi di uguaglianza e reciprocità. In questo contesto quindi, Retta Parola significa dire la verità e rispettare il benessere altrui. Se usiamo la parola tenendo presente questi valori, mettiamo in pratica la Retta Parola e ciò facendo beneficeremo di una maggiore armonia nei nostri rapporti con gli altri. Tradizionalmente si parla di quattro aspetti della Retta Parola: 1) astenersi dal mentire, 2) astenersi dal pettegolezzo e dalla calunnia; 3) astenersi da parole offensive e 4) astenersi dal parlare ozioso e vano.

Forse conoscete le istruzioni date dal Buddha a suo figlio Rahula sull’importanza di evitare la menzogna. Usò l’esempio di un vaso. Chiese a Rahula di guardare nel vaso che aveva un po’ d’acqua sul fondo, commentando: “La virtù e la rinuncia di chi non ha scrupoli sono poca cosa come poca è l’acqua nel vaso”. Poi il Buddha gettò via l’acqua e disse: “Coloro che non hanno scrupoli nel mentire, gettano via la virtù come io ho gettato via quest’acqua”. Poi mostrò a Rahula il vaso vuoto e disse: “La virtù e la rinuncia di coloro che sono abituati a mentire sono vuote come questo vaso”. Il Buddha volle in tal modo farci notare come la menzogna può minare l’integrità delle nostre azioni, della buona condotta e del nostro stesso carattere. Se crediamo di poter agire in un modo e parlare in un altro, non esiteremo ad agire male, perché saremo convinti di essere in grado di nascondere le cattive azioni con la menzogna. Il mentire perciò apre la porta a ogni tipo di brutta azione.

La calunnia divide, crea contese tra amici e porta dolore e discordia nella società. Perciò, come non vogliamo che un nostro amico si rivolti contro di noi influenzato dalle calunnie di qualcuno, così noi stessi non dobbiamo calunniare gli altri.

Allo stesso modo non dobbiamo offendere gli altri con parole ingiuriose. Dobbiamo invece usare parole cortesi perché anche noi vorremmo che gli altri ci parlassero gentilmente.

Per quanto riguarda il parlare ozioso, ci si può chiedere che male c’è a fare quattro chiacchiere. Ma questa proibizione non è assoluta e generale e riguarda solo il pettegolezzo malevolo, cioè il divertirsi alle spalle altrui, raccontando i difetti e le mancanze degli altri.

Riassumendo, è bene non usare della facoltà della parola, che abbiamo visto quanto sia potente, per ingannare, creare divisioni, offendere e passare il tempo divertendosi alle spalle altrui. Meglio usarla in modo costruttivo per comunicare profondamente, per unire, incoraggiare, comprendersi meglio e consigliare. Una volta il Buddha disse: “La parola piacevole è come un dolce miele; la parola veritiera è bella come un fiore, mentre la parola non retta è disgustosa”. Cerchiamo perciò, sia per il nostro bene che per quello degli altri, di coltivare la Retta Parola, cioè di avere rispetto sia per la verità che per il benessere degli altri.

L’altro elemento dell’Ottuplice Nobile Sentiero che fa parte della moralità, è Retta Azione. Retta Azione implica: rispetto per la vita, rispetto della proprietà e rispetto dei rapporti personali. Abbiamo detto che la vita è cara a tutti. Nel Dhammapada si dice che tutti tremano all’idea di essere puniti, tutti temono la morte e amano la vita. Quindi, sempre sovvenendoci dei principi di uguaglianza e reciprocità, non dovremmo uccidere alcun essere vivente. E’ facile accettarlo per gli essere umani ma le riserve nascono nei riguardi di altre creature, specie gli insetti. Ma i recenti sviluppi nel campo scientifico e in quello tecnologico possono dare molto da pensare agli scettici. Per esempio quando si distrugge un particolare tipo di insetto, siamo certi di fare una cosa vantaggiosa a lungo termine o non piuttosto di contribuire allo squilibrio dell’ecosistema che creerà grossi problemi nel futuro?

Rispetto della proprietà significa non appropriarsi, non rubare, non imbrogliare. Chi prende ciò che non è dato con la forza, furtivamente o con l’inganno è colpevole di infrangere questo precetto. Il datore di lavoro che non dà la giusta paga commensurata al lavoro svolto è colpevole di prendere ciò che non è dato; l’impiegato che prende la paga ma non compie il suo lavoro è colpevole di mancanza di rispetto verso la proprietà.

Infine il rispetto nei rapporti personali significa evitare un comportamento sessuale scorretto, cioè l’adulterio. Significa anche evitare rapporti sessuali con persone che possono esserne danneggiate. In senso generale, significa evitare l’abuso dei sensi. E’ facile capire che se una comunità osserva questi precetti, la vita sarà migliore.

Retto Sostentamento è il terzo elemento del gruppo della moralità dell’Ottuplice Nobile Sentiero. Retto Sostentamento significa estendere le regole della Retta Azione al modo di guadagnarsi da vivere. Abbiamo visto che i valori alla base della Retta Parola e Retta Azione sono il rispetto per la verità, per il benessere degli altri, per la vita, per le proprietà e per le relazioni personali. Retto Sostentamento significa guadagnarsi da vivere in modo da non violare questi valori morali basilari.

I buddhisti dovrebbero astenersi dal praticare i seguenti cinque modi di sostentarsi: commercio di animali da macello, di schiavi, armi, veleni e intossicanti come droghe e alcool. Sono da evitare perché contribuiscono a rendere malata una società e a violare i valori di rispetto della vita e del benessere altrui. Trattare animali da macello viola il rispetto per la vita. Commerciare gli schiavi viola sia il rispetto per la vita che la Retta Azione nei rapporti personali. Anche commerciare in armi viola il rispetto per la vita, mentre trattare veleni e droghe non rispetta la vita e il benessere degli altri. Sono tutte queste forme di commercio che aumentano l’insicurezza, la discordia e la sofferenza nel mondo.

Come funziona la pratica di buona condotta o moralità? Abbiamo visto che, nel contesto della società in generale, seguire le norme di buona condotta crea un ambiente sociale armonioso e pacifico. Si può raggiungere ogni traguardo sociale, pur mantenendosi all’interno delle regole di buona condotta basate su uguaglianza e reciprocità, e oltre a ciò ognuno trae beneficio da una tale pratica. In uno dei suoi discorsi il Buddha ha detto che chi osserva il rispetto per la vita e le altre norme si sente come un re sul trono dopo aver vinto i nemici. Una persona così si sente a suo agio e in pace. La pratica della moralità crea un senso interiore di tranquillità, stabilità, sicurezza e forza. Una volta raggiunta la pace interiore potete procedere sulla Via, coltivando e perfezionando i vari aspetti dello sviluppo mentale. Potete così ottenere la saggezza, ma solo dopo aver posto le necessarie basi della moralità sia interiormente che all’esterno, sia in se stessi che nei propri rapporti con gli altri. E’ questo, per sommi capi, l’origine, il contenuto e lo scopo della buona condotta per il buddhismo.

Prima di concludere il discorso sulla moralità, vorrei aggiungere ancora una cosa. Quando la gente considera le norme di buona condotta, spesso è portato a pensare: “Ma come è possibile seguirle?” Sembra incredibilmente difficile osservare i precetti.. Per esempio, perfino la proibizione di uccidere che è la più basilare, ci sembra difficile da rispettare completamente. Ogni giorno, pulendo la cucina o lavorando in giardino, è facile che uccidiate qualche insetto. Certe volte sembra anche difficile evitare di mentire. Come dobbiamo comportarci in questi casi?

Il punto non è osservare tutte le regole e sempre, ma abbiamo il dovere di seguirle il più possibile, quando esse sono bene interiorizzate: se i principi di uguaglianza e reciprocità sono ben radicati, troveremo che le norme di condotta sono un modo appropriato per applicarli. Non vuol dire perciò che dobbiamo seguirle in modo assoluto, ma che dobbiamo fare del nostro meglio per seguire le regole di buona condotta che ci sono state indicate. Se vogliamo vivere in pace con noi stessi e con gli altri dobbiamo rispettare la vita e il benessere altrui, le loro proprietà e tutto il resto. Se ci troviamo in una situazione in cui non possiamo seguire una delle regole, non è colpa della regola, ma semplicemente l’indicazione della differenza tra la pratica e l’ideale. Quando nei tempi antichi i naviganti attraversavano i mari con l’aiuto delle stelle, non erano in grado di seguire esattamente la rotta indicata da questi corpi celesti, eppure i marinai, pur seguendola solo in modo approssimativo, erano in grado di giungere a destinazione. Allo stesso modo, cerchiamo di seguire le regole di buona condotta senza pretendere di osservarle tutte e sempre. E’ perciò che vengono chiamati “precetti di pratica” e che vengono rinnovati periodicamente.

Sono come un’intelaiatura che fa da cornice ai due principi fondamentali che illuminano l’insegnamento del Buddha: il principio di uguaglianza di tutti gli esseri viventi e il principio di rispetto reciproco.