Traduzioni di Dharma

TRILOGIA del SAMADHI

Presentato da: il Wanderling

(Trad. Italiana di Aliberth)

 

 

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PARTE I° - Cosa Significa Esattamente ‘Samadhi’? http://sped2work.tripod.com/samadhi.html

Tratto in parte da un articolo più lungo di MICHAEL COMANS

Il termine Samadhi appare regolarmente nelle cose relative allo Zen ed al buddhismo; tuttavia, che cosa realmente significa, quale maggior o minore ruolo esso gioca in entrambi? Prima di approfondire troppo tale discussione, andrebbe prima un po’ chiarito 'Ciò che il Samadhi realmente è’, da dove è venuto, e come è diventato, o è, parte integrante del "Sentiero". Il Buddhismo Zen, o Ch'an, è un movimento all'interno della religione buddhista, che sottolinea la pratica della meditazione come mezzo o strumento per l'Illuminazione. Zen e Ch'an sono, rispettivamente, termini Giapponese e Cinese che tentano di tradurre come ‘meditazione’ il termine Sanscrito dhyana: (vedi Nota).

Le radici dello Zen possono essere rintracciate in India, ma è in Asia Orientale, cioè, in Cina e, infine, in Giappone, che il movimento fiorì e divenne distinto. Il Ch'an, come per gli altri ordini del buddhismo Cinese, si affermò prima come un Lignaggio di Maestri che enfatizzava gli insegnamenti di un testo ben preciso, vale a dire il Lankavatara Sutra. Bodhidharma, il primo Patriarca Ch'an, che si dice sia venuto dall’India in Cina circa nel 470 d.C., fu un maestro di questo testo. Egli inoltre sottolineò la pratica della seduta contemplativa (cioè, Samadhi), e leggenda vuole che egli stesso abbia trascorso 9 anni in meditazione di fronte ad un muro. (Fonte)

La parola Samadhi è entrata a far parte del vocabolario di un certo numero di intellettuali occidentali verso la fine del 1930, e dopodiché filtrò nel lessico generale. Due famosi scrittori, Aldous Huxley e Christopher Isherwood, restarono fortemente impressionati dal pensiero Orientale ed in particolare da quello Indiano. Essi non incontrarono la spiritualità Indiana facendo un viaggio in India, quanto piuttosto fu l'India che trovò essi e la varietà della spiritualità Indiana con cui questi Inglesi entrarono in contatto in California alla fine del 1930 fu quella del Vedanta Society, fondata dallo Swami Vivekananda e i suoi seguaci, che erano monaci del Ramakrishna Paramahamsa Order of India.

Nel 1920, una donna di nome Carrie Mead Wyckoff che viveva in South Pasadena, si incontrò un giovane monaco inviato in America dall'Ordine. Questo monaco, nel 1929, istituì il Vedanta Society of Southern California, in una casa sulla collina di Hollywood offerta all'Ordine come dono dalla signora Wyckoff. Dal 1940 la Società attrasse un certo numero di noti scrittori e intellettuali che a quel tempo stavano generalmente mettendosi in mostra nella zona di Hollywood, tra cui sia Huxley e Isherwood appunto (2). Va osservato che il drammaturgo Britannico W. Somerset Maugham, che poi scrisse il romanzo ‘The Razor's Edge’ su un giovane uomo alla ricerca del Risveglio Spirituale, fu anch’egli in contatto con il gruppo, anche se egli aveva effettivamente viaggiato in India ed aveva personalmente incontrato il saggio Illuminato di Arunachala, Bhagavan Sri Ramana Maharshi.

Una donna di nome Mercedes de Acosta, connessa con Maugham e in relazione con Sri Ramana, fece visita al Bhagavan nel 1938. Tale incontro le fece avere la sua prima esperienza con il Samadhi. Un Americano di nome Guy Hague che in quel periodo stava visitando l'ashram, e che in passato spesso era stato proposto come modello per il ruolo di Larry Darrell nel romanzo di Maugham, fu il primo a dare un nome a ciò che essa stava sperimentando. Nel 1960 lei scrisse un libro intitolato ‘Qui si trova il Cuore’ in cui scrive di quella esperienza e del suo tentativo di trovare un termine per descrivere il Samadhi:
”Appena si sedette giù, Egli (cioè, Sri Ramana) ci sembrò una statua, eppure un ché di straordinario emanava da lui. Ebbi la sensazione che, su un qualche invisibile livello, io stavo ricevendo da lui una sorta di ‘shock’ spirituale, anche se il suo sguardo non era diretto verso di me. Egli sembrava non star guardando da nessuna parte, ma io sentivo che egli poteva vedere ed era consapevole di tutto il mondo. "Bhagavan è in Samadhi", disse Guy Hague.

“Samadhi è uno stato molto difficile da spiegare. In realtà, credo che nessuno lo abbia mai spiegato. I medici hanno cercato di analizzarlo dal punto di vista medico e fisico, ed hanno fallito. L’ho sentito variamente descritto come "uno stato di estasi spirituale, in cui la coscienza lascia il corpo". Ma questo non è l'intero fenomeno, quando il respiro ed anche il battito del cuore si fermano. Ma non è neppure una forma di trance, poiché nello stato di trance entrambi questi continuano. Si sostiene che il Samadhi sia uno stato ottenuto solo da persone altamente Illuminate - quelle persone che hanno raggiunto l'illuminazione spirituale. E’ uno stato in cui lo spirito lascia temporaneamente il corpo e va in uno stato di beatitudine. Tutti gli Illuminati che hanno raggiunto il Samadhi lo descrivono come un vero e proprio ‘stato di beatitudine’. Nel secolo scorso il grande santo Sri Ramakrishna Paramahamsa andava spesso in Samadhi. Anche il Maharshi andava a volte in Samadhi per ore, e spesso per giorni. Quando io sono arrivata all’Ashram, egli ci era già stato per sette ore.”

Anche se nel buddhismo, e specialmente buddhismo Zen, si ha una lunga storia di conoscenza ed uso del Samadhi, dalle sue origini nella tradizione Indiana, nessuno ne aveva sentito parlare molto o aveva avuto necessità di usarlo prima di Huxley o Isherwood. Questo non significa che non esisteva, solo che esso non aveva svolto un ruolo importante o di alto profilo. Va ricordato che per la maggior parte il buddhismo e lo Zen non erano così ben noti come concetto generale, prima della seconda guerra mondiale. Perché questi moderni Vedantini dettero al Samadhi una tale enfasi? E' certamente importante per il moderno Vedanta, ma ci si può legittimamente chiedere quale importanza esso abbia nelle Upanishad, la fonte stessa del Vedanta, e nella classica scuola Advaita del Vedanta, come nelle opere di Shankara, il più famoso di tutti gli insegnanti Vedanta.

NOTA: Ci sono tre principali scuole di Vedanta:

Dvaita Vedanta - l'approccio dualistico

Advaita Vedanta – l’approccio non-dualistico

Kevala Advaita Vedanta - la pura scuola non-dualistica.

Il principale esponente del Vedanta fu il grande saggio Adi Shankara, che era un adepto del Sentiero Kevala Advaita Vedanta. Nei circoli occidentali non è insolito che le ultime due scuole vengano riunite insieme, come pure interporre i termini ‘Advaita’ e ‘Vedanta’ come aventi lo stesso significato, così diventando in un certo senso eufemismi di se stessi (spesso è incluso anche "satsang"). In generale, ciò non disturba, ma quando ci si sintonizza alle specificità sottili allora di solito c’è bisogno di un più approfondito processo. Per esplorare le profonde differenze tra il Vedanta e il buddhismo e quindi poi, come entrambi considerino il Samadhi nel loro reame delle cose, vedere sotto la nota 6 in grassetto.
Il primo punto da notare è che la parola ‘Samadhi’ non appare nelle dieci principali Upanishad che furono commentate da Shankara. Questa non è una materia da considerare in modo leggero, poiché se il conseguimento del Samadhi è centrale per la verifica sperimentale del Vedanta, come si crede che sia a giudicare dalle dichiarazioni di alcuni moderni Vedantini, come quelli citati sopra, allora uno deve legittimamente aspettarsi che il termine appaia nelle principali Upanishad, che sono proprio la fonte stessa del Vedanta. Ma la parola non appare. L'approssimazione più vicina alla parola Samadhi nelle primitive Upanishad è il participio passato passivo samahita nel Chandogya e Brhadaranyaka Upanishad. In entrambi i testi, il termine samahita non è usato nel significato tecnico del Samadhi, cioè nel senso di assorbimento meditativo o ‘estasi’, anche se l’approssimazione più vicina a questo significato si trova nel Brhadaranyaka. Nel primo riferimento (BU, 4.2.1), Yajnavalkya dice a Janaka: "Tu hai pienamente attrezzato la tua mente (samahitatma) con così tanti nomi segreti [del Brahman, cioè, Upanishad]". Qui, il termine samahita, riferito alla mente, dovrebbe tradursi come "concentrata, raccolta, unificata, o composta".

Nel secondo evento (BU, 4.4.23), Yajnavalkya dice a Janaka che un conoscitore del Brahman diventa "calmo (shanta), controllato (danta), ritirato dai piaceri sensoriali (uparati), tollerante (titiksu), e con mente raccolta (samahita). Il riferimento a samahita nell’Upanishad è la approssimazione più vicina al termine Samadhi, che è ben noto nella successiva letteratura Yoga. Tuttavia, i due termini non sono sinonimi, nelle Upanishad la parola samahita significa "con mente raccolta", e non vi è riferimento alcuno ad una pratica di meditazione che porti alla sospensione di tutte le facoltà, come si trova nella letteratura che tratta di Yoga. Le cinque qualità mentali menzionate in BU 4.4.3, più tardi formarono, con l'aggiunta della fede (sraddha), un elenco di sei qualifiche richieste ad uno studente del Vedanta, e spesso esse si trovano all'inizio dei testi Vedantici. In questi testi, i participi passati utilizzati nelle Upanishad sono regolarmente trasformati in forme nominali: Shanta diventa sama, Danta diventa dama, e samahita diventa samadhana, ma non l’affine sostantivo Samadhi. Quindi, sembrerebbe che mentre gli autori Vedantini intesero samahita e samadhana come termini equivalenti, essi non vollero equipararli con la parola Samadhi, altrimenti non ci sarebbe stato alcun motivo per cui quel termine non avrebbe potuto essere usato al posto di samadhana. Ma sembra essere stato deliberatamente evitato, tranne nel caso di un successivo testo Vedanta, il Vedantasara, a cui avremo poi occasione di riferirci. Perciò noi suggeriamo che, nei testi Vedanta, samadhana non ha lo stesso significato che la parola Samadhi ha nei testi dello yoga. Ciò è confermato quando si guarda a come gli autori Vedanta descrivono i termini samahita e samadhana. Shankara, nel BU,4.2.1, descrive samahitatma come samyukatma, "mente attrezzata o ben collegata". Nel BU,4.4.23, spiega che samahita è "il diventare uni-direzionato (aikagrya), tramite la dissociazione dai movimenti degli organi-di-senso-e-la-mente". Il termine riappare poi nel Katha Upanishad, 1,2,24, nella forma negativa asamahita, che Shankara spiega come "uno la cui mente non è uni-direzionata (anekagra), ma è dispersiva". Negli introduttivi manuali del Vedanta, samadhana è anche spiegato con il termine "uni-direzionato" (ekagra).

Quindi, samadhana può essere intesa come avente il significato di "uni-direzionato" (ekagra). Nello Yogasutra, "uni-direzionato" (ekagra) è usato per definire la Concentrazione (dharana), che è il sesto degli ‘Otto Rami dello Yoga’, e una disciplina preliminare al Dhyana e Samadhi. Possiamo vedere, così, che il Vedantico samadhana significa "uni-direzionalità" e sarebbe equivalente alla dharana dello yoga, ma non è equivalente al Samadhi dello stesso yoga.

La parola Samadhi appare per la prima volta in scritture Indù nel Maitrayni Upanishad (6,18, 34), un testo che non appartiene alla linea dei primi Upanishad e che menziona cinque degli ‘Otto Classici Rami dello Yoga’. Il termine ‘Samadhi’ appare anche nell’Atharvaveda in alcuni ‘Upanishad di Yoga e Sannyasa’. Samadhi sembrerebbe dunque essere una parte della pratica yogica, che fu inserito nella successiva letteratura Upanishadica attraverso i testi di tali Yoga-Upanishad come risultato di ciò che Mircea Eliade chiama "la costante osmosi tra gli ambienti Upanishadici e Yogici".

Lo stesso ‘Samadhi’ è suddiviso in due fasi, samprajnata-samadhi, o una forma di estasi in cui vi è ancora coscienza dell’oggetto, e asamprajnata-samadhi o nirbija-samadhi, dove non vi è più alcuna coscienza dell’oggetto (asamprajnata-samadhi divenne nei circoli del Vedanta noto in seguito come nirvikalpa-samadhi). Il punto da notare è che lo yoga in tutta la sua soteriologia si basa proprio sulla soppressione delle fluttuazioni mentali in modo da passare prima nel samprajnata-samadhi e da lì, attraverso la completa soppressione di tutte le fluttuazioni mentali, in asamprajnata-samadhi, stato in cui il Sé rimane solo ed in se stesso, senza essere nascosto dai fattori di condizionamento esterni, imposti dalla mente (citta).

La Dualità, cioè la fondamentale distinzione tra soggetto ed oggetto, è annullata nel sonno profondo e nel Samadhi, e in altre condizioni, come il coma e lo svenimento, ma la dualità viene cancellata solo temporaneamente, perché riappare quando ci si risveglia dal sonno o si riacquista la coscienza dopo coma e svenimento, e riappare anche quando dal Samadhi sorge lo Yoga. Il motivo per cui la dualità persiste è perché la falsa conoscenza (mithyajana) non è stata rimossa. Il conseguimento di Samadhi non è una causa sufficiente per sradicare la falsa conoscenza, e poiché la falsa conoscenza (cioè, avidyà – ignoranza) è la causa della schiavitù, il Samadhi non può quindi essere la causa della liberazione.

Vi è una certa ambivalenza verso lo yoga da parte dei seguaci del Vedanta. Può essere ben vista nel Brahmasutra, 2.1.3, "Quindi, viene rifiutato lo Yoga", che mostra un rifiuto dello yoga in seguito al rifiuto della filosofia Sankhya. Il problema, come lo vede Shankara, è che le pratiche dello yoga si trovano nelle stesse Upanishad, così la questione sorge su cos’è che deve essere respinto dello yoga. Shankara dice che il rifiuto dello yoga si genera a causa della sua pretesa di essere un metodo di liberazione indipendente dalla rivelazione Vedica (Sruti). Egli dice: "...La Sruti respinge l'opinione che vi sia altro mezzo per la liberazione aldifuori della conoscenza dell’unicità del Sé, che è rivelata nei Veda". Egli poi puntualizza che "i seguaci di Sankhya e Yoga sono dualisti, e non vedono l'unicità del Sé". Il punto che "i seguaci dello Yoga sono dualisti" è interessante, perché se gli yogin sono dualisti perfino mentre essi sono esponenti dell’asamprajnata-samadhi (nirvikalpa-samadhi), di per sé un tale Samadhi non darà luogo alla conoscenza dell’unicità del Sé come vorrebbero farci credere i moderni esponenti del Vedanta. Perché se fosse così, allora non sarebbe possibile considerare gli yogin come dualisti. Chiaramente i moderni Vedantini, nel loro aspettarsi che il Samadhi sia la chiave per liberare l'unicità, hanno rivalutato la parola e le hanno dato un significato che non è trovato nei testi di Yoga. E, suggeriamo noi, essi hanno dato al termine un importanza che non possiede, nei classici Vedanta, dato che noi siamo in grado di discernere ciò negli scritti di Shankara.

(Vedi: I PERICOLI DEL PSEUDO-ADVAITA)

Dagli elementi di cui sopra si suggerisce che il ruolo del Samadhi è di supporto - o di purificazione – ed è preliminare, ma non necessariamente coincidente, al sorgere della conoscenza che è liberatoria. Com’è noto, Shankara ritiene che solo la conoscenza, la conoscenza profonda relativa alla vera realtà delle cose, è ciò che rende liberi. A tal fine, egli dà grande importanza alle parole, in particolare alle parole delle Upanishad, in quanto esse forniscono ciò che è necessario e anche i mezzi sufficienti per generare questa conoscenza liberatrice. Shankara sottolinea più volte l'importanza del ruolo del maestro (guru/Acharya) e dei testi sacri (Shastra) in materia di liberazione. Ad esempio, il composto sastracaryopadesa, cioè "istruzioni date dal maestro e dalle Scritture", appare ben sette volte nel suo commento al Bagavad-Gita, solo o insieme ad altre varianti come vedantacaryopadesa, ed appare regolarmente anche in altri suoi lavori. Il moderno Vedantino, d'altro canto, forse inconsapevolmente ha trascurato l'importanza che hanno l'istruzione e il linguaggio sacro nei classici del Vedanta come mezzi della conoscenza (pramana) e ha dovuti compensarli dando maggior importanza al Samadhi di tipo yogico che quindi presentato come la necessaria e sufficiente condizione per la liberazione.

Anche se l'importanza della concentrazione è evidente sin dalle prime Upanishad (BU 4.4.23), una forma di pratica yoga che porti allo stato di assorbimento del Samadhi viene messo in evidenza solo negli successivi testi. Abbiamo visto che Shankara non parla di un tipo di concentrazione sul ‘Sé’, che sia simile allo yoga, in cui vi sia il ritiro della mente dagli oggetti di senso, ma egli non lo sostiene più di tanto e non ci dà l’opinione che invece troviamo nei classici Yoga circa la necessità di soppressione totale del pensiero. Abbiamo visto che egli ha utilizzato la parola Samadhi con molta parsimonia, e quando l'ha usata, inequivocabilmente non fu sempre in un contesto favorevole. Dovrebbe essere chiaro che Shankara non stabilisce il nirvikalpa-samadhi come una mèta spirituale. Perché se avesse pensato che esso fosse un requisito indispensabile per la liberazione, allora egli lo avrebbe detto. Ma egli non lo ha detto. La contemplazione sul Sé è di certo una parte dell'insegnamento di Shankara, ma la sua contemplazione è diretta verso il ‘vedere l’onnipresente Sé’ come essendo libero da tutti i condizionamenti, piuttosto che verso il conseguimento del nirvikalpa-samadhi. Tutto ciò è in notevole contrasto con molti moderni Advaitini per i quali tutto il Vedanta equivale a "teoria", che ha la sua sperimentale controparte nelle "pratiche" dello yoga. Penso proprio che la loro ‘visione’ del Vedanta sia un allontanarsi dalla posizione stessa di Shankara. I moderni Advaitini, comunque, non sono certo senza precursori, ed io ho cercato di indicare che nei secoli dopo Shankara vi è stato un graduale incremento della pratica orientata verso il Samadhi, come è possibile poter giudicare dai successivi testi Advaita.

SAMADHI E ZEN (3)

Il Maestro Zen Seung Sahn (4) parla di due storie che illuminano i pericoli di attaccarsi al Samadhi:
“Molto tempo fa in Cina, al tempo del maestro Ch’an Lin-Chi, c’era un monaco che era molto famoso per la sua pratica di Samadhi. Questo monaco, come nelle tradizioni ‘digambara’, non indossava mai abiti e quindi era noto come il 'monaco nudo'. Egli aveva imparato molti tipi di Samadhi, possedeva molta energia, e non aveva bisogno di indossare i vestiti neanche in inverno.

Un giorno Lin Chi decise di mettere alla prova questo monaco. Egli chiamò un suo discepolo, gli dette una serie di bei vestiti, e gli chiese di presentarli al monaco. Lo studente si recò dal monaco e disse: 'Ah, sei meraviglioso. La tua pratica è molto forte. Perciò, il mio insegnante vuole darti questi bei vestiti in regalo '. Il monaco gettò via i vestiti e disse: 'Non ho bisogno di questi abiti. Ho la mia veste originale datami dai miei genitori! I vestiti possono essere indossati soltanto per un breve periodo di tempo, poi si esauriscono. Ma i miei abiti originali non si rompono mai. Inoltre, se si sporcano, basta che io faccia una doccia e sono di nuovo puliti. Non ho bisogno dei vostri vestiti!'

Lo studente, tornato da Lin Chi, gli raccontò ciò che era accaduto. Lin Chi disse: 'Devi andare ancora da questo monaco e fare a lui una certa domanda'. Quindi, lo studente andò di nuovo dal monaco e gli disse: 'Grande monaco! Ho una domanda per te. Hai detto di avere gli abiti originali dei genitori'. 'Naturalmente!' ribatté il monaco. 'Allora io ti chiedo, prima che i tuoi genitori ti dessero questi vestiti originali, che tipo di vestiti avevi?' Avendo udito ciò, il monaco nudo entrò in un profondo Samadhi, poi in Nirvana e, alla fine, morì.

Tutti erano molto sorpresi e tristi. Ma quando il corpo del monaco fu cremato, apparvero molti Sarira (reliquie), così che tutti pensarono, 'Oh, questo era un grande monaco'. Seduto in un alto podio, Lin-Chi colpì la sedia con il suo bastone Zen e disse: 'La forma è vuoto, il vuoto è forma!' Poi lo colpì di nuovo e disse, 'Nessuna forma, nessun vuoto!' Infine, lo colpì una terza volta, dicendo 'La forma è forma, il vuoto è vuoto. Quale di queste è corretta?' Nessuno capì. Allora il Maestro Zen gridò 'KATZ!' e disse ancora, 'Il cielo è blu, l'albero è verde'. Se non si riesce a rispondere in una sola parola circa la questione dei vestiti originali, allora, anche se può essere possibile ottenere Samadhi e Nirvana, non è possibile ottenere la libertà da vita e morte…'.

Poi il Maestro fissò gli Sarira – e poof! – essi si trasformarono in acqua. Questa è magia! Si mutarono tutti in acqua e scomparvero. Tutti rimasero sorpresi. Il significato di questo è: Se si pratica Samadhi profondamente, poi quando si muore appariranno molti Sarira. Ma, questi Sarira, non dureranno mai a lungo perché rappresentano 'una mente', non una 'chiara mente' che è la nostra natura originaria. La nostra natura originaria non ha vita, non ha morte, non viene da nessun luogo, né va in nessun luogo. Quando appare il vero Dharma, il che significa che la forma è forma, il vuoto è vuoto, o il cielo è blu, e l’albero è verde, quella energia…– BOOM! - apparirà, tutti i Sarira si trasmuteranno in acqua e scompariranno. Il nostro insegnamento è sostanza, verità, e corretta vita. La nostra pratica Zen significa raggiungere il proprio vero Sé, trovare la giusta Via, Verità e Vita. Qualsiasi tipo di pratica è OK - anche utilizzare un Mantra. Ma, non siate attaccati al Samadhi - dovete 'passar-oltre' il Samadhi. Zen significa 'mente-quotidiana' e non speciali stati di mente. Momento per momento, mantenendo una chiara mente è tutto ciò che è importante'.

“Eccovi un altro esempio. Una volta, uno dei miei studenti decise di praticare con un guru Indiano. Questo guru insegnava la pratica del Samadhi. Così, il mio studente prese un Mantra, lo provò tutto il tempo in cui egli non stava lavorando, e poi entrò in un profondo Samadhi. Tutto il tempo egli ebbe un sentimento molto buono. Poi un giorno, mentre faceva questo Mantra, egli stava attraversando la strada. La prossima cosa che conobbe, una macchina che stridendo ad uno stop, quasi colpendolo, suonò con forza il suo clackson. Il conducente gli gridò, 'Stai attento! Mantieni una mente chiara!' Allora questo mio studente si spaventò molto. Il giorno dopo venne da me e mi disse, 'Dae Soen Sa Nim, ho un problema. Ieri sera quasi morivo. Stavo praticando il Samadhi, non prestavo attenzione e così fui quasi investito da un automobile. Ti prego di spiegare qual’é il mio errore…'

Allora gliel’ho spiegato. Praticare il Samadhi porta via la propria coscienza. Ma lo Zen significa che di momento in momento si deve mantenere chiara la mente. Cosa state facendo ora? Quando voi state facendo qualcosa, fatela. Così quel tipo di incidente non può accadere. Quindi, non fate il Samadhi. Non fate nulla! Fate solo quello che è O.K.!”


SAMADHI PROFONDO E NIRODHA

In sanscrito c’è una parola ‘NIRODHA’, tradotta come “cessazione”, che di solito porta con sé un più profondo significato. Nell’indice del Visuddi-Magga, per esempio, ci sono più di venticinque riferimenti che devono essere letti nel loro contesto, al fine di coglierne un significato più ampio e più conciso. In breve, come il Samadhi Profondo, esso è un livello molto, molto elevato di stato meditativo non-meditativo. Durante Nirodha, non c'è consapevolezza di una sequenza di tempo, sia che passino due ore o sette giorni, in cui il momento immediatamente precedente e l’immediatamente successivo sembrano come se fossero in rapida successione, con l’inizio e la fine compressi in strisce sottili. Durante, il battito cardiaco ed il metabolismo continuano a rallentare fino a praticamente cessare, ed a volte continuano al di sotto della soglia di percezione ad un livello residuo. L’energia precedente-mente memorizzata nel corpo, che di solito verrebbe consumata in un paio di ore, se non alimentata, può durare giorni, con poco bisogno di rinnovamento. Il Visuddhi-Magga cita numerosi casi in cui gli abitanti dei villaggi si imbattevano in un bhikkhu in tale stato e costruirono una pira funebre per lui, fino quasi al punto di bruciarlo vivo. Durante gli stati di basso livello residuo la temperatura corporea scende ben al di sotto del punto di 98,6 gradi(fahrenheit). Se improvvisamente viene richiamato alla coscienza il metabolismo del corpo è più lento a ritrovare la temperatura normale, e a sua volta, ciò viene registrato dal più veloce ritorno dei sensi alla condizione di "sentire freddo". Lo stato meditativo non-meditativo di Samadhi Profondo e Nirodha spesso sono, ma non sempre, precursori di quello che nello Zen è noto come “La morte dell’Ego”.


MEMORIA DI QUANTO DETTO SOPRA:

L’ottenimento del Samadhi, non è una causa sufficiente per sradicare la falsa conoscenza, e poiché la falsa conoscenza è la causa della schiavitù, il Samadhi, non può quindi essere causa della liberazione. Tale dichiarazione considerava e non sosteneva il Samadhi Profondo simile al Nirodha, ma una Via al di là di esso, e sopra, vi è un poco noto 'stato di risveglio' "metodo di profonda meditazione", basato in parte dal Shikantaza di Dogen, "interconnesso" con entrambi di quelli sopra, senza entrare e senza uscire dallo stato vivente del continuum di coscienza, non essendo una “Consapevolezza che Porta all’Insight” né una “Non-Consapevolezza che Porta all’Insight”, e non è neanche una Concentrazione che Porta all’Assorbimento, né una Non-Concentrazione che porta all’Assorbimento, benché senza-nome, talvolta riferito come Jishu Zammi, dove Ji significa ""né", Shu significa "padronanza", e Zammi significa "Samadhi",... Cioè, il Samadhi della Padronanza di Sé.

Il Maestro Zen Tai-yung, passando per il ritiro di un altro maestro Zen di nome Chih-huang, si fermò e, durante la sua visita rispettosamente chiese, "Mi è stato detto che tu spesso entri in Samadhi. In occasione di tali entrate, la tua coscienza continua oppure sei in uno stato di incoscienza? Se la tua coscienza continua, tutti gli esseri viventi sono dotati di coscienza e possono entrare in Samadhi come te. Se, d'altro canto, tu ti trovi in uno stato di incoscienza, allora anche piante e rocce possono entrare in Samadhi". Huang rispose, "Quando io entro in Samadhi, non sono consapevole di una o l’altra condizione". Yung replicò, "Se non sei consapevole né di una né dell’altra condizione, questo è dimorare nell’Eterno Samadhi, e non vi può essere né entrare e né uscire fuori dal Samadhi".

DEFINIZIONE DI DHYANA:

La parola Sanscrita dhyana, derivata dalla radice verbale dhyai ("contemplare, meditare, pensare"), è la più comune designazione sia per lo stato di coscienza meditativo che per le tecniche yogiche con cui è indotta. La tradizione Vedanta impiega anche i termini nididhyasana, che deriva dalla stessa radice verbale, upasana (letteralmente "dimorare-in"), e bhavana (letteralmente "coltivare").

Il termine dhyana è ampiamente usato per riferirsi al processo contemplativo che prepara il terreno per lo stato estatico di Samadhi, anche se talvolta il termine viene impiegato anche per significare QUEL TIPO di stato superlativo di coscienza. (fonte)

Nel buddhismo, gli stadi meditativi di samatha (o shamatha: tranquillità), Samadhi (in particolare, Accesso-di-Concentrazione: upacara-samadhi), e jhana [Pali] o dhyana [Sanscrito] corrispondono più o meno a dharana, Samadhi e dhyana, di Patanjali, rispettivamente.

Nel Buddhismo, 'jhana' o 'dhyana', ma a volte anche 'Samadhi', vengono utilizzati col significato di assorbimento. Samadhi, inteso come mezzo di accesso all’assorbimento, è di solito considerato come una pre-condizione dell’assorbimento (jhana/dhyana). Vedi: Shikantaza


NIRVIKALPA SAMADHI

Noto anche come asamprajata-samadhi.

Nirvikalpa Samadhi: (sanscrito) "Instasi senza forma o semi". La realizzazione del Sé, Parashiva, stato di unità al di là di ogni cambiamento o diversità; al di là di tempo, forma e spazio. Nir significa "senza". Vi significa "cambiamento, rendere diverso". Kalpa significa "ordine, disposizione, un periodo di tempo".

Instasi: un termine difficile che abbraccia sia l'estasi che la profonda realizzazione della saggezza; lo stato di ‘instasi’ è infatti, quello stato di Nirvana, quando si riconosce la Vacuità, l’assoluta realtà in cui tutte le cose sono vuote. Vedi anche Sunyata.

Kalpa: (lungo periodo di tempo) Un Maha Yuga è 4,32 milioni di anni, dieci volte più lungo come Kali Yuga. Ventisette Maha-Yuga sono un Pralaya. Sette Pralaya sono un Manvantara. E sei Manvantara sono un Kalpa. Cioè, un Kalpa è 27x7x6 = 1.134 Maha Yuga. Questo funziona in 1134 x 4,3 = 4,876 milioni di miliardi di anni.

NOTE:

(1)The Question of the Importance of Samadhi In Modern and Classical Advaita Vedanta

(2)THE RAZOR'S EDGE: W. Somerset Maugham, Sri Ramana Maharshi, Guy Hauge, and Zen

(3)Copyright © The Kwan Um School of Zen

(4)(BACK): Samadhi and Zen

Vedi anche:

1. ENLIGHTENMENT AND KARMA: Their Role in the Awakening Experience

2. IN THE WAY OF ENLIGHTENMENT: The Ten Fetters

3. RESOLVING THE MIND: Buddha's Enlightenment

4. ALL IS ILLUSION? A Chinese-Indian Dichotomy In Advaita and Zen

5. SUDDEN OR GRADUAL ENLIGHTENMENT

6. VEDANTA AND BUDDHISM: A Comparative Study


PARTE II° - TUTTO (O QUASI) SUL SAMADHI http://www.angelfire.com/indie/anna_jones1/samadhi.html

Presentato da: il Wanderling – trad. di Aliberth

Passare dalla 'concentrazione' alla 'meditazione' non richiede l'applicazione di una qualche nuova tecnica. Allo stesso modo, per realizzare Samadhi, non sono necessari esercizi supplementari, una volta che l'asceta riesca a 'concentrarsi' ed a 'meditare'. L’'instasi' del Samadhi è il risultato finale degli sforzi ascetici e degli esercizi spirituali.
I tanti significati del termine Samadhi sono ‘unione, totalità, assorbimento, completa concentrazione della mente; congiungimento. La traduzione abituale è 'concentrazione', ma ciò crea il rischio di una confusione con dharana. Di conseguenza, la traduzione preferita è 'instasi', stasi, e congiungimento.

Patanjali e i suoi commentatori distinguono vari tipi o stadi di concentrazione suprema. Quando il Samadhi è ottenuto con l'aiuto di un oggetto o di una idea (cioè, fissando il proprio pensiero su un punto nello spazio o su un'idea), la stasi è chiamata samprajnata samadhi ('instasi con supporto', - o 'instasi differenziata'). Quando il Samadhi si ottiene separatamente da ogni 'relazione' (sia esterna che mentale), cioè quando uno ottiene una 'congiunzione' in cui non entra nessuna alterità, ma che è meramente una piena comprensione del proprio essere, allora ha realizzato asamprajnata-samadhi -('instasi senza supporto', o 'stasi indifferenziata'). Si osservi che nei circoli Vendanta l’asamprajnata-samadhi è denominato talvolta nirvikalpa-samadhi. Vijnanabhikshu aggiunge in più che samprajnata samadhi è un mezzo di liberazione, nella misura in cui rende possibile la comprensione della verità e fa finire ogni tipo di sofferenza. Ma asamprajnata samadhi distrugge le 'impressioni [samskara] di tutte le funzioni mentali antecedenti', e riesce perfino ad arrestare le forze karmiche già messe in moto dall’attività passata dello yogin. Durante la 'stasi differenziata', continua Vijnanabhikshu, tutte le funzioni mentali sono 'arrestate' ('inibite'), salvo 'meditazione sull'oggetto'; mentre in asamprajnata samadhi ogni tipo di 'coscienza' svanisce, e tutta la serie di funzioni mentali viene bloccata. Durante questa stasi, non c'è altra traccia di mente [citta] salvo le impressioni [samskara] lasciate indietro (a causa del suo funzionamento passato). E se queste impressioni non fossero presenti, non vi sarebbe alcuna possibilità di ritornare alla normale coscienza'.

Noi siamo, quindi, di fronte a due nettamente differenziati classi di stati. 'La prima classe è acquisita attraverso la tecnica yogica di concentrazione (dharana) e meditazione (dhyana); la seconda classe comprende soltanto un unico 'stato'- cioè, 'instasi', o rapimento non-provocato. Senza dubbio, anche questo asamprajnata samadhi c’è sempre a causa di sforzi prolungati da parte dello yogin. Non è un ‘dono’ o uno stato di grazia. Difficilmente si può raggiungerlo, se prima uno non ha sufficientemente sperimentato i tipi di Samadhi della prima classe. Esso piuttosto è il coronamento delle innumerevoli concentrazioni e meditazioni che l'hanno preceduto. Esso arriva, senza essere ricercato, senza essere provocato, senza una particolare preparazione per esso. Questo è il motivo per cui esso può essere definito un 'Raptus', o rapimento.

Ovviamente, l'‘instasi’ differenziata', samprajnata-samadhi, comprende diverse fasi. Ecco perché è perfettibile e non realizza uno 'stato' assoluto e irriducibile. Quattro fasi, o stadi, sono generalmente distinti: 'argomentativo' (savitarka), 'non-argomentativo' (nirvitarka), 'riflessivo'(savicara)', e 'super-riflessivo' (nirvicara). Patanjali si avvale anche di un altro insieme di termini: vitarka, Vicara, Ananda, Asmita che corrispondono grosso modo ai primi quattro stati di Jhana, (Y-S-, I, 17). Ma, come ci dice Vijnanabhikshu, che riproduce l'elenco, 'i quattro termini sono puramente tecnici, essi sono applicati convenzionalmente alle diverse forme di realizzazione'. 'Queste quattro forme o stadi di samprajnata samadhi', egli continua, 'rappresentano un’ascesi - in alcuni casi, la grazia di Dio (Ishvara) permette il diretto raggiungimento degli stati più alti, ed in queste situazioni lo yogin non deve tornare indietro a realizzare gli stati preliminari. Ma, quando questa grazia divina non interviene, egli dovrà realizzare quei quattro stati gradualmente, sempre aderendo allo stesso oggetto di meditazione (per esempio, Vishnu). Questi quattro gradi o fasi sono noti anche come samapatti, 'coalescenze'. (Y.S., I, 41 -)
Tutte queste quattro fasi del samprajnata-samadhi sono chiamate bija-samadhi ('samadhi con seme') o salambana-samadhi ('samadhi con supporto'): perché, ci dice Vijnanabhikshu, sono in relazione con un 'substrato' (supporto) e producono tendenze, che sono 'semi' per le future funzioni di coscienza. Asamprajnata-samadhi, al contrario, è nirbija-samadhi, 'senza seme,' senza sostegno. Realizzando le quattro fasi di samprajnata, uno ottiene la 'facoltà della conoscenza assoluta' (YS, 1, 48). Questa è già un’apertura verso il samadhi 'senza seme', perché la conoscenza assoluta scopre la completezza ontologica in cui ‘essere e conoscere’ non sono più separati. Fissata nel samadhi, la coscienza (citta) può ora avere diretta rivelazione del Sé (purusha). Attraverso il fatto che questa contemplazione (che in realtà è una 'partecipazione'), è realizzata, il dolore dell’esistenza è abolito.

Vyasa (ad. YS, III, 55) riassume il passaggio dal samprajnata samadhi a asamprajnata samadhi come segue: Attraverso l'illuminazione (prajna, 'saggezza') ottenuta spontaneamente quando raggiunge lo stadio di dharma-megha-samadhi, l’asceta realizza l’'isolamento assoluto' (kaivalya) - cioè, liberazione del Purusha dal dominio di Prakriti. Da parte sua, Vachaspatimishra afferma pure che il 'frutto' di samprajnata-samadhi è asamprajnata samadhi, e il 'frutto' di questi ultimi è kaivalya, la Liberazione. Sarebbe sbagliato considerare questo modo di essere dello Spirito come una semplice "trance" in cui la coscienza è stata svuotata di tutti i contenuti. La ‘instasi’ non-differenziata non è il vuoto assoluto'. Lo 'stato' e la 'conoscenza' simultaneamente espressi con questo termine si riferiscono ad una totale assenza di oggetti nella coscienza, non ad una coscienza assolutamente vuota. Perché, al contrario, in quel momento la coscienza è saturata con una diretta e totale intuizione dell’essere.


KHANIKA SAMADHI

Khanika Samadhi è chiamato ‘concentrazione momentanea’ (momentanea concentrazione profonda sequenziale), perché si verifica solo quando c’è l’attenzione e, nel caso della Vipassana, non su un oggetto fisso, come la meditazione Samatha-Jhana, ma sugli oggetti mutevoli o sui fenomeni che si verificano nella mente e nel corpo. Ma quando il meditante Vipassana sviluppa la forza e l'abilità nella attenzione, la sua concentrazione Khanika avviene ininterrottamente in una serie senza sosta. Questa concentrazione, quando avviene momento per momento senza pausa, diventa così potente che può superare i Cinque Ostacoli, realizzando in tal modo la purificazione della mente (citta visuddhi) che può consentire così ad un meditatore di ottenere tutte le conoscenze intuitive fino al livello di Arahat. (fonte)

NIRODHA
Come dice Madhava (1), Nirodha [arresto finale di tutte le esperienze psicomentali] non deve essere visto come una non-esistenza, ma piuttosto come il supporto di una particolare condizione dello Spirito. 'E' la ‘instasi’ di totale vacuità, senza contenuti sensoriali o struttura intellettuale, uno stato incondizionato che non è più 'esperienza’ (perché non vi è ulteriore relazione tra coscienza e mondo), ma 'rivelazione'. L’Intelletto (buddhi), avendo compiuto la sua missione, si ritira, distaccandosi dal Sé (purusha) e ritornando in prakriti. Il Sé rimane libero, autonomo, e contempla se stesso. La coscienza 'umana' è soppressa; vale a dire che non funziona più, venendo i suoi elementi costitutivi riassorbiti nella sostanza primordiale. Lo yogin raggiunge la Liberazione, come se fosse morto, non avendo più relazione con la vita; egli è 'morto in vita'. Egli è il jivan-mukta, il 'liberato vivente'. Egli non vive più nel tempo, né sotto il dominio del tempo, ma in un eterno presente, in quel ‘nunc stans’ (qui e ora) con cui Boezio definì l’Eternità.

Nota (1): Madhava: Riferendoci al Sarva-Darsana-Samgraha ("Compendio di Tutte le Filosofie", del 14° secolo) di Madhava Acharya, tradotto da E.B.Cowell e A.E.Gough. Kegan Paul, Trench e Trubner, Londra, 1914. (Anche Sarva-darshana-samgraha e Sarvadarsana Sam Graha). Madhava Acharya (ca. 1380), statista e filosofo Indù, vissuto alla corte di Vijayanagar. Il suo fratello minore Shakyapa († 1387) fu associato con lui nella gestione e fu un famoso commentatore del Rig Veda. I commenti di Shyakyapa furono influenzati da, e dedicati a Madhava, che è meglio conosciuto come l'autore del Sarvadarsana Sam Graha. Madhava scrisse anche commentari sul Mimamsa Sutra. Morì come abate del monastero di Sringer.


 

 

PARTE III° - Il NIRBIJA SAMADHI http://www.angelfire.com/indie/anna_jones1/samadhi2.html

(bija: con semi - nirbija: senza semi) Presentato da: il Wanderling – trad. di Aliberth

NIRBIJA SAMADHI: lo stato di coscienza nonduale, che è incondizionato, poiché tutte le condizioni proiettate sono state penetrate. Il Nirbija-samadhi non ha nessuna causa condizionante, in quanto sono state tutte trascese, e tutte le attività condizionate sono state oggetto di rinuncia. La mente ora è un senza-forma radiante vuota di tutte le proiezioni specifiche e generalizzate, e sia del visto come pure del vedente.

Lo stato non-duale del Nirbija-samadhi è spesso valutato come lo Stato Ultimo. Però, la nondualità è la polarità opposta della dualità. E quindi è anche una funzione della dualità. La liberazione è andare oltre e aldilà della dualità della consapevolezza trascendentale. Qui, sia la nondualità della dualità, e la dualità della non-dualità, sono sperimentate e trascese. Questo richiede il processo purificante del dharma-megha-samadhi, dove questo enigma è drammaticamente evidente. Nirbija-samadhi non è il risultato della pratica compiuta. Essa si verifica nella pratica solo quando vi è la rinuncia spontanea di pratica e praticante, che dipende dal tipo di orientamento della sottostante pratica. Ciò risulta ancora più spesso dall’esaurimento della malriposta fede nelle attività dirette verso la volontà, che rafforza a sua volta l'orientamento alla rinuncia. Nirbija-samadhi è una naturale progressione da sabija-samadhi una volta che il senso di sé ha cominciato a perdere il suo potere. Spesso nella vita questo si verifica spontaneamente come risultato della diretta e aperta spaziosità coltivata nella mente con la pratica.
Quando alla fine si è rinunciato a tutte le impronte karmiche, rimane solo il Nirbija-samadhi. Fino ad allora, Nirbija-samadhi è una temporanea possibilità nello spazio tra la soluzione di un percettore e la distruzione del successivo. Quando tutte le impronte karmiche sono stati risolte, il dharma-megha-samadhi rivela irrevocabilmente la natura dualistica dello spazio infinito, la coscienza infinita, il tempo ed il ‘sé’: questo stabilisce l’incarnazione non-dualistica di kaivalya o l’assenza di alterità(1).


DHARMA-MEGHA-SAMADHI
DHARMAMEGA: "Nuvole del Dharma". Nell’ultima sezione del Yogasutra: all’interno del Kaivalya Pada, viene descritta una condizione immediatamente precedente in cui kaivalya chiama se stesso dharma-mega-samadhi. Di conseguenza, il testo deduce che il dharma-mega-samadhi contiene e comprende tutto quello che può essere conosciuto, come una nuvola che riempie il cielo. E proprio così come la pioggia spegne la sete della terra, così questa "nuvola" riversa giù la pioggia del Dharma ed estingue l’infuriato fuoco di tutti i tipi di instabilità.

L'unico riferimento al dharma-megha-samadhi nella letteratura classica Indù, oltre ai commenti che si trovano nello Yogasutra, sta nel Vidyaara.nya Pa~ncadasi (I, 60), che menziona il dharma-megha-samadhi come il più alto punto che possa essere raggiunto nello Yoga. Il Samadhi (in seguito riferito come dharma-megha-samadhi nel testo) è descritto come "quella condizione in cui la mente poco a poco abbandona la nozione di meditante e meditazione e si fonde nell’oggetto della meditazione. "In questa condizione, la mente è simile alla fiamma costante di una lampada in un luogo ben riparato. Per conferma, vi è inserito un riferimento alla Bhagavad Gita, VI, 19. L'effetto di questo Samadhi è la distruzione di tutti i Karma accumulati nel corso di innumerevoli vite e lo "sviluppo del puro Dharma". Gli adepti yoga chiamano questo Samadhi ‘dharma-megha’, perché esso riversa innumerevoli gocce del nettare del Dharma. Attraverso questo Samadhi la rete di vasana è distrutta, e ogni tipo di Karma meritorio nonché non-meritorio, sarà sradicato.

La linea di demarcazione tra il dharma-megha-samadhi e il kaivalya dello Yoga (nello Zen Giapponese hen-chu-to e ken-chu-to), o tra Stato di Bodhisattva e Stato di Buddha, al livello del dharma-megha buddhista, è praticamente impercettibile ed è solo questione di compimento di un processo, che da lì in poi ha una sola direzione. E qui possiamo, eventualmente, individuare una significativa differenza tra le dinamiche Yogiche (Indù) e quella buddhista: i testi buddhisti sottolineano gli aspetti altruistici di questa condizione - la possibilità per il Bodhisattva di aiutare il mondo a raggiungere la mèta più alta, gli effetti benefici che "la pioggia del dharma" ha per quanto riguarda lo spegnimento del fuoco dei Klesha, di quelli ancora sotto la loro influenza. Lo Yogasutra sembra essere interessato al beneficio del dharma-megha-samadhi per il bene del solo yogin: il suo Karma e i Klesha sono eliminati, la sua conoscenza è infinitamente espansa, il suo kaivalya è garantito, che significa la realizzazione del suo "essere il vero Sé". Il Bodhisattva rinuncia, per il momento, alla completa felicità ed alla perfezione finale dello Stato di Buddha ed accede ai piani dei deva per reincarnarsi e ripresentarsi in una forma fisica tra gli umani solo per il loro beneficio (2).


KEN-CHU-TO, Il Quinto Livello:

A seconda del contesto, Ken significa "entrambi", e/o "percepire" - significando percepire la profonda realizzazione che ‘entrambi’ sho e hen sono non-separati, ma in realtà aspetti pienamente integrati e interfusi dello stesso unico e non-duale fenomeno – come ad esempio, sia pur in modo semplicistico, riferendosi all’interconnesso dualismo di dire caldo e freddo - apparentemente diversi, ma in realtà, aspetti connessi entrambi ad un unico spettro non-duale della temperatura. Così allora, si può vedere l’uso di sostituire la parola ken in sostituzione della parola hen, dicendo ken-chu-shi piuttosto che hen-chu-shi nel quarto livello, che porta nel suo campo di applicazione un senso molto più profondo di una semplice variante di sintassi o il cambio della prima lettera, con ancora gli attributi di hen che non comprendono l'intero campo di applicazione, l’essere: il relativo, forma-e-colore, differenza, moltitudine, e il sé relativo.


KAIVALYA:
KAIVALYA: (sanscrito) "Unicità assoluta, isolamento; perfetto distacco, libertà". Liberazione. Kaivalya è il termine utilizzato da Patanjali e altri nella tradizione Yoga per identificare obiettivo e realizzazione dello Yoga, lo stato di distacco completo dalla trasmigrazione. E' praticamente sinonimo di moksha. Kaivalya è uno stato perfettamente trascendente, la più alta condizione derivante dalla realizzazione finale. Esso è definito unicamente secondo ciascuna scuola filosofica, in base alle proprie convinzioni circa la natura dell'anima (3).

I filosofi, nel loro particolare modo di logica analitica e riduzionismo hanno tentato di definire kaivalya come un isolamento piuttosto che come una unione. Presi nel loro scopo logico (come è vero in ogni pensiero frammentato), essi si arrotolano con l’assoluta revoca o catatonia. In effetti, spesso questo è il modo come i filosofi occidentali hanno "inteso" il Samadhi. In un certo senso, si può dire che solo questa assurdità abbia un qualche merito. Essi hanno ragione solo nel senso che il Nirbija-samadhi (come ultima integrazione) dipende dal primo separarare il cit-prana dalla separazione stessa - dalla falsa identificazione con un sé separato (asmita) che è chiamato egoismo, ma che piuttosto include l’abbracciare la non-duale Integrità transpersonale e onnicomprensiva. Così, quindi, una solitudine da isolamento (o separazione) porta, in realtà, ad una integrazione (cioè, al Nirbija-samadhi) quando il contesto yogico non è corrotto, ma piuttosto riconosciuto e onorato.

Perciò, nell'ambito dell’autentico yoga, kaivalya, o liberazione finale, non è una fuga da una qualche "cosa"; non è una forma di avversione, odio, paura, dispiacere, e neppure un desiderio, nel comune senso del termine (poiché tutti i Klesha e i Karma alla fine sono bruciati attraverso la pratica yogica). Non è un relativo isolamento, né una forma di controllo, evitamento, repressione, o trascendenza da, superamento di, né la negazione di tutto ciò, in qualsiasi forma. Kaivalya non è raggiunto tramite la lotta, il controllo su qualcosa, il distacco, o la trascendenza. Infatti, la trascendenza viene ottenuta pure con l’abbandono. Basta che uno sappia rimanere senza sforzo nell’Universale Inqualificato. (4)


NOTE:
PER IL DHARMA, si ricerchino tutte o in parte le informazioni di cui sopra, dalle seguenti fonti:

‘Yogasutra’ di Patanjalacharya

Dharma Megha-Samadhi: Commenti sul Yogasutra

Lessico Online sull’Induismo

I Quattro Pada: Kaivalyam: Ultimate Liberation - Libertà senza Negazione o Qualificazione


http://www.angelfire.com/indie/anna_jones1/samadhi2.html



FINE della TRILOGIA DEL SAMADHI



Tradotto nel mese di Aprile 2009 – per conto del Centro Nirvana di Roma – senza scopo di lucro