Traduzioni di Dharma

 

L'orrore del concreto
che ci viene dall'oriente

Questa è la versione del file contenuto in I testi del Convivio 

 http://www.convivium-roma.it/italiano/testi_doc/txtconvivio/orrore_del_concreto.doc.

 
 
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”Confesso di nutrire una grande passione per il fenomeno umano, per la storia e per la stessa cronaca. Devo dire che non solo mi interessano i grandi personaggi e, diciamo, gli eventi a grandi linee più importanti, ma anche i fatti minori e minuti di cui è intessuta la cronaca di ogni giorno della gente comune. Ad un certo punto mi rendo conto che quel che attira di più la mia attenzione, e anche il mio gusto di occuparmene, è proprio la persona singola col singolo episodio colto nei suoi caratteri peculiari  inconfondibili, irripetibili”.                  
(L’anonimo estensore di questo articolo)

 

Mi piace assai leggere le biografie ed ascoltare le persone quando mi raccontano i fatti loro. A dire il vero, però, vorrei che si interessassero anch’esse un poco ai fatti miei, per trasformare in dialogo e scambio di confidenze quel che invece vien fuori, quasi tutto d’un fiato, per lo più come un monologo fitto, che non lascia spazi di vero colloquio. Ma non importa, quel che le persone mi confidano appare pur sempre, dal punto di vista psicologico e umano, di vero grande interesse. La storia, la cronaca, le biografie, le confessioni sono tutte imperniate sul fatto singolo, sul carattere di unicità che distingue ciascuna situazione da tutte le altre pur simili. Il canale attraverso cui tutto questo, anziché svanire, si trasmette e rimane è la memoria.

  Quanto ho detto fin qui in premessa, prima ancora che il mio paziente lettore, aiuta me stesso a comprendere meglio quello che una volta dichiarai nell’occasione di un dibattito con gli amici del Convivio. Dissi precisamente: Quando trapasserò all’altra dimensione non penso certo di portarmi di là tutte le sicurezze e comodità terrene, i pochi beni al sole, il conto in banca e simili; ma, pur se dovrò lasciare sulla terra tutto quel che ho, vorrei almeno portarmi dietro tutto quel che sono, quel che ho fatto di me anche in senso culturale, il mio mondo interiore e i miei affetti, non solo, ma anche i miei ricordi, comprese le memorie storiche. La memoria storica, poi, non è mai solo personale mia, tua, di qualcun’altro: è memoria comune. Perciò, come non vorrei che si andassero a dissolvere i ricordi miei e di quel che ho studiato con tanto amore ed impegno, neanche vorrei che si annullassero le memorie storiche dell’umanità.

  A questo punto posso chiedermi,: Che risposta danno i messaggi medianici a un tale interrogativo? Essi ci dicono che, in linea generale, in una prima fase della vita ultraterrena le anime si trovano in un ambiente mentale non tanto dissimile da quello terreno, in ragione del fatto che la creatività del pensiero pone in essere forme corrispondenti alle abitudini mentali da gran tempo ormai consolidate. È quel che si verifica pure qui ogni notte nei nostri sogni, che appaiono condizionati proprio da quelle stesse abitudini. Le tante anime che trapassano gravate da particolari scorie, a quanto pare, sono destinate a periodi più o meno lunghi di espiazione e purificazione. Ma quelle che entrano, prima o poi, in una condizione di “luce”, vi soggiornano felicemente anche perché gli è possibile riprendere le attività più congeniali e fare tutto quel che le circostanze terrene gli avevano impedito o inibito. È un periodo come di lieta vacanza. Ma ad un certo punto le anime vengono sollecitate, dalle loro guide spirituali, a intraprendere il cammino di elevazione a Dio: quel cammino che si può altresì chiamare di santificazione o deificazione.

  Per potersi riempire di Dio, l’anima si deve svuotare di sé, di ogni egotismo, egoismo, egocentrismo. Prima di tutto, occorre distaccarsi dalla terra. A tutto questo giova non la perdita, ma la sospensione degli affetti terreni e degli stessi ricordi. L’anima lascia tutto per essere tutta di Dio, ma alfine in Dio ritrova tutto, s’intende ad un livello superiore. Si rivela, qui, il pieno valore di ciò che disse Gesù: “…Chiunque avrà lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o figlio o campi a causa del mio nome, riceverà il centuplo e avrà in sorte la vita eterna” (Mt. 19, 29). Penso che  le espressioni “fratelli”, “sorelle”, “padre”, “madre”, “figlio” ben si adattino ad esprimere la sospensione degli affetti familiari. Dal canto loro, “case” possono simboleggiare tutto quel che si possiede, tutto il patrimonio anche intellettuale e culturale. Per “campi”, infine, si può intendere, magari anche un po’ più alla lettera, i “campi” di attività e di studio, le cose che interessano e stanno a cuore. Astraendo da un eventuale periodo di espiazione e purificazione, si possono distinguere, fin qui, tre essenziali stadi. Una prima fase è quella che si trascorre in una sfera mentale similterrena, dove ci si gratifica svolgendo le attività più desiderate, e magari quelle che le circostanze terrene avevano fino allora ostacolato. 

  In una seconda fase le anime si distaccano dalla terra sospendendo ogni istanza ad essa legata, sospendendo anche gli affetti, i ricordi, i tratti caratteriali, spersonalizzandosi al massimo fino a ridurre ogni vita mentale all’autotrasparenza del puro Sé. Per quel filone di spiritualità indù che passa attraverso le Upanishad, il Vedanta e lo Yoga, questa seconda fase potrebbe costituire il punto ultimo di arrivo.

  Al contrario, per una spiritualità ebraico-cristiana e anche islamica convenientemente approfondite, lo svuotamento della personalità da ogni nota individuale non rappresenta altro che un punto di passaggio. Il punto d’arrivo è la restituzione di ciascun individuo alla sua piena umanità. Tale mi pare il significato autentico e profondo di quella che viene chiamata la resurrezione universale finale. Le comunicazioni medianiche da noi ricevute ci parlano della resurrezione universale come di un evento che segnerà la fine dei tempi. In quello stadio conclusivo dell’evoluzione, i defunti che nell’aldilà avranno realizzato la santificazione, o deificazione, recupereranno affetti, memorie e caratteristiche personali. Saranno pure in grado di manifestarsi nell’antico aspetto terreno. Si tratterà, beninteso, di “corpi gloriosi” o “di luce”, mentre le note personali non saranno più gravate dalle imperfezioni di un tempo. Il corpo sarà trasformato in veicolo della vita spirituale più alta e la personalità intera sarà elevata a perfezione divina. 

  Se Dio si dona senza limiti alle sue creature, per noi uomini c’è speranza di raggiungere, in Dio, la perfezione assoluta. Ora in Dio la perfezione della conoscenza è l’onniscienza. Nella vita spirituale dell’uomo la conoscenza è momento essenziale. Se la vita spirituale dell’uomo tende in ultimo alla perfezione assoluta, la conoscenza umana tende all’onniscienza. Nell’onniscienza si vengono a recuperare tutte le memorie personali e anche storiche. E tutto si viene a conoscere: ogni realtà con l’intera somma dei fatti e degli eventi di quello che noi qui ora chiamiamo il presente, il passato e il futuro.

  Gli eventi saranno conosciuti nella loro successione e tuttavia in quella dimensione eterna in cui tutti i fatti sono contemporanei, come le righe di una pagina, o le stazioni di un orario ferroviario, o le vignette di una pagina a fumetti, che appaiono successive e pur tutte coesistenti. In altre parole, nel giungere alla perfezione, gli umani potranno vedere tutte le cose come le vede Dio stesso. È un tipo di visione di cui Dante ci dà un barlume d’idea, nel canto XXXIII del Paradiso, ove  cerca di “significar per verba” la visione beatifica conseguita nel cielo empireo: “O abbondante grazia, ond’io presunsi / ficcar lo viso per la Luce eterna / tanto, che la veduta vi consunsi! / Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna; / sustanzie et accidenti, e lor costume, / quasi  conflati insieme per tal modo, / che ciò ch’io dico è un semplice lume” (vv. 82-90).

  È, chiaramente, una visione di singolarità: nel pensiero aristotelico, “sostanza” è l’individuo, e non solo umano, ma qualsiasi realtà singola. Tali singolarità, poi, sono colte anche nel loro divenire: “accidenti” è quanto via via “accade” (accidit)  alla sostanza, nella successione delle contingenze temporali. Si tratta, qui, di una conoscenza di dettagli minuti e di fatti ed eventi colti nelle loro singolarità irripetibili.

  Si può proporre ora un altro esempio, attingendolo alla tradizione del Buddhismo Mahayana, e precisamente a quel sutra che è intitolato Gandavyuha. Qui la dimora delle tante guide spirituali che sono assurte al ruolo di buddha  e di bodhisattva viene localizzata in una favolosa Torre grande come il cielo. “Qui”, recita il Gandavyuha, “dimorano i figli del Buddha, che ben conoscono il numero di tutte le terre del passato, del presente e del futuro, e che pensano istantaneamente alla loro nascita e alla loro scomparsa.

  “Qui dimorano coloro che, disciplinandosi nella vita di Bodhisattva, conoscono perfettamente  la vita e i voti di tutti i Buddha, e le varie disposizioni di tutti gli esseri. 

  “In una sola particella di polvere si scorge l’intero oceano delle terre, degli esseri e dei kalpa (grandi epoche del mondo), numerosi quanto tutte le particelle di polvere che esistono, e questa fusione avviene senza alcun ostacolo.

  “E ciò è vero anche di tutte le particelle  di polvere, di tutte le terre, di tutti gli esseri, di tutti i kalpa, che qui si scorgono fusi con tutta la loro moltitudine di apparenze.

  “Qui, in questa dimora, i Bodhisattva riflettono, in armonia con la verità della non-nascita, sulla natura di sé di tutte le cose,  su tutte le terre, sulle divisioni del tempo, sui kalpa e sugli illuminati, che sono distaccati dall’idea della natura in sé.

  “Pur dimorando qui, essi percepiscono che il principio dell’identità  prevale in tutti gli esseri, in tutte le cose, in tutti i Buddha, in tutte le terre e in tutti i voti” (Gandavyuha).

  In questo sutra, l’attenzione non è più distratta dall’esistenza e dalla vita in genere, come da un disvalore da cui ci si debba ritrarre con disgusto;  l’attenzione si volge, invece, alla vita empirica e a tutta la sua varietà e ricchezza con grande interesse ed amore. Questo di uno stato divino o di una umana aspirazione ad un’onniscienza estesa a tutti i dettagli, a tutte le singolarità è un motivo che ricorre in altre scuole del Mahayana (come presso i Lokottaravadin, o “Assertori del Trascendente”, e i Vijnanavadin, “Assertori del Pensiero”), nel Buddhismo della Terra Pura (o Amidismo), nella scuola buddhista cinese T’ien T’ai, nelle scuole giapponesi Hosso, Nichiren Shoshu e Kegon.

  Contraddittoria con quanto detto e citato appare, invece, un’osservazione che Daisetz T. Suzuki formula in altro luogo del saggio in cui cita il Gandavyuha“L’onniscienza non significa che il Buddha conosca ogni singola cosa individuale, ma che egli ha afferrato il principio fondamentale dell’esistenza e che è penetrato profondamente al centro del proprio essere” (D.D.S., Il Gandavyuha, l'ideale del Bodhisattva e il Buddha).

  Malgrado il testo del Gandavyuha si esprima in maniera più che chiara, Suzuki parla come se gli fosse ben difficile e ostico concepire una conoscenza divina abbracciante tutte le singolarità e non escludente alcuna di esse. Questa incapacità, o almeno difficoltà o inibizione, a considerare i singoli fatti nella loro concretezza ha una storia lunga, che penso si possa fare iniziare addirittura dalla spiritualità induistica  delle Upanishad. Sono motivi che, poi, percorrono il Vedanta (specialmente non dualistico), lo Yoga, e lo stesso Buddhismo. Tutte queste varie spiritualità considerano le singolarità dei fatti e degli eventi in stretta connessione con la materialità e con la temporalità. Infatti il tempo consuma e vanifica ogni cosa. La considerazione della vacuità di tutto (shunyatà) provoca dolore, genera il sentimento del “dukkha”, che appunto invalida le stesse gioie avvertendole come effimere e fugaci.

  Al divenire ed all’effimero si sottrae lo spirito, che l’asceta yogi scopre nella propria interiorità. Ma lo spirito è come vincolato e impastoiato nella materia, da cui anela a liberarsi. Lo spirito è uno e il medesimo in tutti i soggetti umani. Le caratteristiche individuali fanno parte della materia, che è in ciascuno di noi. Tale materia appare, in ogni caso, effimera e generatrice di sofferenza, in quanto è soprattutto sentita come  carcere dello spirito. Ogni creatività è, qui, concepita come qualcosa che ci coinvolge e quindi ci imprigiona nella materia sempre più. Realizzare lo spirito è mortificare quelle istanze creative individuali che sono avvertite, di per sé,  come egotistiche e perciò negative.

  La nostra mentalità di uomini dell’Occidente si è venuta a formare in gran parte per influsso della concezione creazionistica ebraica. Per noi, per la nostra sensibilità spirituale, in ogni opera creativa e quindi in ogni forma d’arte, la materia, foggiata dallo spirito, trasfigurata dallo spirito, diviene spirito pur rimanendo materia. Qui, una materia foggiata dallo spirito, assunta nello spirito, diviene spirito, pur rimanendo la polarità opposta dello spirito parimenti essenziale, insopprimibile e positiva: pur rimanendo in tutto materia. Si tratterà, chiaramente, di una materia non più degradata, ma affinata e, appunto, spiritualizzata: resa “gloriosa”.

  Invece, nella spiritualità indiana del menzionato filone, che va dalle Upanishad al Buddhismo, la materia è avvertita come qualcosa che inevitabilmente mortifica lo spirito. Sicché lo spirito si può realizzare solo in antitesi con la materia, emancipandosi da essa. Mi viene in mente l’immagine di una mongolfiera, che, librandosi in alto nell’aria, è tuttavia trattenuta in basso dal fatto di portare un carico di tanti sacchetti di sabbia. Ed è solo col liberarsi, via via, di quel peso di materia, che il pallone ascende nel cielo dello spirito. Qui la spiritualità è concepita come fuga dalla materia, liberazione dalla materia.

  La materia, che s’individua e diversifica nello spazio e muta attraverso il tempo, è sempre avvertita come qualcosa di negativo, e, se non proprio e sempre e necessariamente di negativo, almeno di inferiore, di irrilevante, di poco importante. Si consideri quanto poco importante sia il tempo, per gli Indiani. Questi collocano gli stessi fatti e personaggi della storia in epoche imprecisate, la cui datazione può comportare incertezze e imprecisioni di secoli: sono, appunto, inesattezze del tutto irrilevanti per loro. Lanza del Vasto osserva che “l’attitudine degli Indiani per le scienze esatte sparisce appena si tratti di specificare una data. Si direbbe che la natura sfuggente del Tempo si comunichi allora ai numeri i quali si ammorbidiscono, fluiscono gli uni negli altri e finiscono con lo svaporare.

  “La inesattezza degli Indiani in proposito non è dovuta alla confusione mentale o sentimentale, ma alla volontà deliberata di eludere ciò che ritengono vano. Le ombre delle nubi che passano sulle onde del mare, vi è forse qualche pazzo che ne voglia fare collezione? Perderemo il nostro tempo, o per meglio dire la nostra eternità, serbando nella memoria ciò che accade nel tempo?

  “Ricordiamoci piuttosto dell’Essere. L’Essere non passa, ciò che passa non è: non fa che apparire. Come il sogno al dormiente. Ed è proprio del dormiente ignorare che egli dorme e credere ai suoi sogni. Tutto ciò che succede in questo vasto mondo (è la nostra vita che passa) è una immensa illusione inspiegabile.

  “Questa illusione non ha altra ragione che la nostra ignoranza. Si spiega per quelli che si svegliano. Fare oggetto di studio ciò che è frutto di ignoranza e appartiene all’illusione, significa basarsi sull’errore e aggravare le illusioni. Ma creare una scienza dei ricordi di ciò che è successo una volta nel tempo, significa sprofondare nell’assurdo.

  “Tale assurdo è la Storia: un sapere che non sa niente di vero, per cui gl’Indiani non ne vogliono sapere. E della loro storia non sappiamo niente, almeno da loro” (Lanza del Vasto, Ritorno alle sorgenti).

  In una con la materia e col tempo, quegli asceti dell’India svalutano ogni forma di conoscenza che si possa avere per il tramite di organi di senso corporei. Si tratta, per loro, in ogni caso, di falsa conoscenza, di nescienza, di illusione (maya). Una decisa svalutazione  della materia, e con essa di ogni forma di singolarità, di temporalità e di conoscenza sensoriale passa dalla spiritualità induista e buddhista alla filosofia greca. Qui all’esperienza interiore subentra, come organo di conoscenza delle realtà essenziali, la ragione.

  Ma la ragione da che è convalidata? Direi: dal sentimento che essa coglie le essenze come per una forma di contatto diretto infallibile. Ebbene, è proprio con la ragione che Parmenide conosce l’Essere, definendolo come Uno-Tutto assolutamente semplice e immutabile, mentre per lui la molteplicità degli esistenti singoli è illusoria, così come sono illusione la temporalità, il divenire. Una svalutazione della conoscenza sensoriale si affaccia anche nella filosofia di Platone. C’è, per lui, un “occhio dell’anima”, uno “sguardo dell’anima”, occhio da purificare, sguardo da convertire dalle realtà sensibili alle realtà intelligibili (Repubblica, 528b, 533d; 520c; 539e-540b) che vede direttamente le idee, cioè le essenze universali eterne, non percepibili con i sensi ma puramente intelligibili, delle cose (Timeo, 51d; 52a), mentre la conoscenza attingibile attraverso i sensi fisici è ingannevole” (Fedone, 65b-c).

  Questa conoscenza sensoriale può, tutt’al più, fondare l’“opinione”, e magari un’“opinione vera” valida per orientare l’agire, non mai la vera scienza nel senso più stretto. Vera scienza si può solo avere di realtà che sono e non divengono, mentre l’opinione è delle cose che, divenendo, sono e non sono ad un tempo (Repubblica, 477a-d; Menone, 96e-98b). La conoscenza sensoriale nondimeno può sollecitare in noi il ricordo di Idee già contemplate nel mondo spirituale prima di nascere a questa vita (Fedone, 66e-67d; 72e-77b; Fedro, 247c-e; 245c-251b; vedi anche l’allegoria della caverna in Repubblica, 514a-517a).

  Possiamo così riassumere: secondo Platone, la visione, per esempio, di un particolare cavallo risveglia in noi il ricordo dell’Idea universale ed eterna dell’essere cavallo, già contemplata in intervalli ultraterreni tra un’esistenza terrena e l’altra; per Aristotele, invece, la cavallinità – se vogliamo così chiamarla – è insita nella realtà fisica dei cavalli di cui abbiamo concreta esperienza su questa terra. Aristotele definisce ciascuna realtà una “sostanza”, sintesi (sinolo, in greco) di “materia” e “forma” (Metafisica, V, 8; VII, 1, 1028 a, 10). C’è qui, beninteso, maggiore attenzione alle singolarità, però l’essenza delle cose singole è la forma, che di per sé  è universale e immutabile.

  Immutabile, d’altra parte, è la stessa sostanza. Ogni mutamento si riduce al mero passaggio dalla potenza all’atto di una sostanza che, di per sé, mai diviene. E l’agente del mutamento è l’immutabile forma, che è sempre già in atto, per così dire, incarnata nella sostanza (Metafisica, III, 4; VIII-IX; XI, 9). I sensi offrono al soggetto una bene individuata immagine sensibile: l’immagine, per esempio, di un singolo cavallo. Ma è la pura e semplice “forma” o “specie” cavallina, indivisibile, universale e immutabile, pur attraverso il mutare dei singoli cavalli, che viene colta in modo immediato e diretto dall’intelletto umano. E il vero oggetto della conoscenza rimane pur sempre questa forma, mentre la materia è di per sé inconoscibile (Sull’anima, II, 2, 413 a, 13; III, 7, 432a; Metafisica, VII, 6, 1031b, 6; VII, 8, 1033 b, 20; IX, 10, 1051 b, 7-8). Vera scienza si ha non delle realtà sensibili particolari, fornite di materia e divenienti, ma dell’universale e dell’immutabile (Metafisica, III, 5, 9-12; VII, 15).

  Che cos’è, allora, che distingue un cavallo singolo da un altro? Aristotele suggerisce che, in ogni individuo, quel che lo distingue da qualsiasi altro individuo è la materia (Metafisica, XII, 8, 1074a, 35). Tanti secoli dopo, San Tommaso d’Aquino proporrà una distinzione ancor più specifica: il principium individuationis è, certo, la materia, ma non la materia comune, di per sé indifferente, bensì la materia signata quantitate, cioè “la materia considerata sotto determinate dimensioni”, la materia situata nello spazio e nel tempo (De ente et essentia, 2; Summa theologiae, III, q. 77, a. 2).

  Da notare, per inciso, come anche qui materia, individuazione, singolarità, localizzazione, limite ed estensione, quantità, molteplicità e divenire, vengano considerati sul medesimo piano. Per quanto ci si possa sforzare di concedere qualche spazio alla dimensione della materia, per la filosofia medievale e antica la vera conoscenza, la conoscenza importante, pur sempre esclude quella delle constatazioni individuate e altresì quel che, in ciascuna singola realtà, muta attraverso il tempo. Una rivalutazione filosofica dell’individualità irripetibile del singolo fatto ed evento la si ha, invece, proprio alla fine del medioevo, con la filosofia di indirizzo agostiniano-francescano.

  San Bonaventura volge la massima attenzione alla creatura individuata. E per Duns Scoto il principio di individuazione, che determina e restringe la natura comune ad essere quel determinato individuo, consiste in quella “realtà positiva” che è anche definita un’“ultima realtà dell’ente” (Opus Oxoniense, II, d. 3, q. 2). È da notare come, qui, l’individuazione scaturisca da un ambito metafisico ancor più essenziale e profondo. Dirà, per ultimo, Ockam: “…Qualsiasi cosa esistente immaginabile, di per sé, senza che nulla le venga aggiunto, è cosa singolare ed unica… La  singolarità è una proprietà che appartiene immediatamente a ogni cosa…” (Expositio aurea, Liber Predicabilium, Proemium).

  E una sempre maggiore attenzione alla materia, in tutta la multiforme varietà dei suoi aspetti, la si ha, ovviamente, nella scienza della natura. Qui, comunque, e soprattutto in certi ambiti, i fenomeni si ripetono nelle medesime forme e risultano inquadrabili in leggi, assoggettabili al calcolo, e suscettibili di previsione esatta. In tale prospettiva, tutti i fenomeni della natura appaiono riducibili a fenomeni meccanici, regolati da leggi rigorosamente matematiche.

  Dice Galileo Galilei che di ciascuna realtà non giova “tentar l’essenza”, ossia ricercare una natura metafisica che è di continuo destinata a sfuggirci. È assai meglio, piuttosto, notare talune “affezioni”, che sono rilevabili in maniera più oggettiva  “come il luogo, il moto, la figura, la grandezza, l’opacità, la mutabilità, la produzione ed il dissolvimento” (Galilei, Delle macchie del sole). Invero, scriverà Galilei altrove, “la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, a conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umana-mente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto” (Il Saggiatore).

  Come si vede, quella che per Galilei vuol essere una netta presa di posizione antimetafisica si risolve in una metafisica diversa, ma non meno tale. Ogni metafisica almeno presume di dire qualcosa delle realtà essenziali, e la cripto-metafisica galileiana si fonda sul  presupposto che alle formule della fisica e, prima ancora, della meccanica corrispondano precise realtà: e, anzi, che quelle formule definiscano la struttura dei fenomeni con esattezza piena, costante, inalterabile. È vero che le scienze fisiche, relative ai fenomeni del regno  minerale e del cosmo astronomico, muovono da un accurato esame del fatto singolo; però lo fanno per trarne la legge e la stessa formula matematica di applicazione generale. La loro attenzione è, quindi, concentrata sulla legge, anche se non più universale ma solo generale. Ed è concentrata sulla formula, per quanto questa non intenda più proporsi come rivelatrice di alcuna essenza metafisica.

  È lo sviluppo ulteriore delle scienze che le indurrà a volgere sempre più l’attenzione al fenomeno singolo. Via via che si sale per la scala evolutiva e si passa dalla fisica alla biologia di specie vegetali e animali sempre più complesse, viene sempre più ad attenuarsi la ripetibilità e ad accentuarsi la spontaneità e novità di ciascun fenomeno rispetto  a quelli pur simili che lo precedono. Il fattore novità acquista un risalto particolarissimo nei fenomeni umani. Da qui prende forma l’idea della storia come svolgimento, come serie di fattori sempre nuovi, nessuno dei quali si riduce ai precedenti o semplicemente li ripete: è una storia che tende ad una mèta ultima di perfezione irreversibile e definitiva. Tutta questa revisione di concetti ci aiuta a porre in giusto risalto il valore, oltre che della materia, delle sue espressioni singolari, della molteplicità, del divenire, di ogni fatto ed evento o fase di attuazione, di ogni dettaglio anche particolarissimo e minuto all’estremo.

  Certamente si danno le differenze di valore: “La gloria di Colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più, e meno altrove”, recita l’inizio del Paradiso dantesco (I, vv. 1-3). Ma c’è anche, a un livello diverso, uno Sguardo divino eterno assoluto che vede “legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna” (XXXIII, vv. 86-87). E a questo livello ciascun fenomeno della divina Coscienza vale ciascun altro.

  È noto come lo Zen concentri la propria attenzione sul “Così è” assoluto di tutte le cose e di tutti i fatti ed eventi, concludendo che da quel punto di vista non ci sono più differenze né gerarchie di valore, ma tutto è uno e tutto è assoluto. Così inizia la più antica poesia zen, quella di Seng Tsan: “La perfetta via (Tao) è priva di difficoltà, / salvo che evita di preferire e di scegliere. / Solo quando siate liberi da odio e da amore / essa si svela in tutta la sua chiarezza. / Una distinzione sottile come un capello / e cielo e terra sono separati! / Se volete raggiungere la perfetta verità, / non preoccupatevi del giusto e dell’ingiusto. / Il dissidio fra giusto e ingiusto / è la malattia della mente”.

  Ed ora, ecco una bella storia zen: “Camminando per un mercato, Banzan colse un dialogo tra un macellaio e un suo cliente. “‘Dammi il miglior pezzo di carne che hai’, stava dicendo il cliente.

  “‘Nella mia bottega tutto è il migliore’, ribatté il macellaio. ‘Qui non trovi un pezzo di carne che non sia il migliore’. -  “A queste parole Banzan fu illuminato”.

  Certo, al livello dell’esistenza, della finitezza, della temporalità, dell’agire umano, i valori sono ben distinguibili e contrapponibili; ma al livello della Coscienza universale, eterna, assoluta, che ogni cosa contempla, tutto è del pari interessante. Su quel piano le distinzioni dei valori non vigono più. Credo che, in questa luce, acquisti un particolare senso il mio vivo desiderio che le memorie storiche non si perdano e che alfine un giorno si possa tutto ricordare e contemplare in una visione assoluta in cui tutto sia importante, in cui l’esistente o il fatto anche minimo abbia la medesima importanza  delle cose ritenute le più essenziali.

  All’istanza di chi desidera sapere tutto e ricordare ogni cosa, ogni fatto anche minimo, ogni attimo del processo evolutivo, qualcuno  potrebbe obiettare: Non è importante sapere tutto, ma solo le cose più essenziali. Ad una tale replica si può, comunque, ribattere: Tutto è importante, tutto è valido, tutto entra nella conoscenza a pari titolo, con piena legittimità. Non ci sono cose più “essenziali” e altre meno. Un’altra replica potrebbe essere: In ciascuno stadio evolutivo è preferibile ricordare, o sapere, le cose che, appunto, a quello stadio si possano rivelare le più utili; mentre poi ci sono tante cose inutili, che non vale davvero la pena di rammentare, che si possono tranquillamente ignorare. Che senso può avere l’aggettivo “utile” applicato al perseguimento dell’onniscienza?

  Una possibile controreplica è: Perseguire l’onniscienza vuol dire imitare Dio. Vuol dire tendere, per volontà di Dio stesso e col suo aiuto, ad una condizione di perfezione ultima e piena e, appunto, divina. Si tratta, qui, di un fine, rispetto a cui altre sono le cose che si possono qualificare più meno utili o inutili. “Utile” o “inutile”, “fruttuoso” o meno, potrà definirsi un metodo, un concetto, un atteggiamento, o la maniera di porre un problema. Non sarà, invece, definibile nei medesimi termini la ricerca stessa. Ricerca è tensione ad un fine. È il correre verso  un traguardo. È qualcosa di valido in sé: diciamo, una sorta di assoluto, di fronte a cui nondimeno qualcos’altro può farsi relativo, può dimostrarsi utile o inutile, può proporsi quale “porta” o “via” o “scala” ovvero, all’opposto, fattore inibente, ostacolante, incatenante.

  Da quanto detto posso trarre una conclusione abbastanza chiara: il nostro desiderio di studiosi, di scienziati, di storici, di ricercare all’infinito, di perseguire al limite la stessa onniscienza, è pienamente giustificato. È perfettamente legittimo. È istanza profondissima della natura umana. È quel nostro più autentico essere, che è tutt’uno col nostro dover essere. È adeguata risposta a quel divino comando di fare, che si rivela tutt’uno col nostro essere più profondo e vero.