Tutte le nostre conoscenze ci aiutano soltanto a morire in modo più doloroso degi animali che non sanno nulla. (Maeterlinck) -La morte è più facile da sopportare se non ci pensiamo, o se pensiamo alla morte senza rischi. (Pascal) -Colui che più assomiglia ai morti è il più riluttante a morire. (La Fontaine) -“Dovrei morire, per salvarmi dalla morte". (Un comune modo di dire schizoide) -Per evitare la morte, gli uomini la sfidano e la inseguono (Democrito) -L'uomo ha dimenticato come morire perché non sa come vivere. (Rousseau) -E' proprio vero: noi amiamo la vita non perché siamo abituati a vivere, ma perché siamo abituati ad amare.(Nietzsche) -La storia è ciò che l'uomo fa con la morte. (Hegel) -La follia è qualcosa di raro nelle persone - ma è la regola nei gruppi, nei partiti, nella gente, nella vecchiaia. (Nietzsche) -Gli uomini sono necessariamente così pazzi che il non essere pazzi porterebbe ad un'altra forma di pazzia. (Pascal) -La 'lotta per il successo' diventa una forza così potente perché è l'equivalente dell’autostima e dell’auto-conservazione. (Kardiner) -Nel momento presente, per la vita non vi è alcuna morte. La morte non è un evento nella vita. Non è un fatto di (questo) mondo. (Wittgenstein) -L'artista porta con sé la morte come un buon sacerdote il suo breviario. (Boll) -Vivere faccia a faccia con la morte è morire nella morte. (Kierkegaard) -L’Arte ha due costanti, due continui intenti: essa medita sempre sulla morte e, quindi, crea sempre la vita. (Pasternak) -Solo l'uomo che non ha più paura della morte ha cessato di essere uno schiavo. (Montaigne) -Finché non sai come morire e venire di nuovo alla vita, tu non sei altro che un povero ospite di questa oscura terra. (Goethe) -Domanda: Le proprie azioni incidono sulla persona nelle nascite successive? Risposta: Sei forse nato ora? Perché pensi alle altre nascite? Il fatto è che non vi è nascita né morte. Se colui che è nato pensa alla morte è solo un palliativo. (Ramana Maharshi) -Bisogna solo capire che nascere è morire è di per sé il nirvana. La nascita e la morte non possono essere evitate; e non vi è nessun nirvana da cercare. Solo quando si diventa consapevoli di questo ci si libera dalla nascita e dalla morte. (Dogen) ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Molto è successo alla psicanalisi nei suoi cent’anni di vita ed oggi Freud avrebbe non poca difficoltà a riconoscere parecchi dei suoi discendenti. Tra questi discendenti che sono di comparativo interesse per i filosofi, ha attirato molta attenzione la psicologia transpersonale[1], ma questo articolo si concentrerà sulla psicoanalisi esistenziale, che ebbe origine abbastanza presto da una fertilizzazione incrociata tra Freudianismo e fenomenologia, tra cui ‘Essere e Tempo’ di Heidegger[2]. Protagonista maggiore è stato il psicanalista Svizzero Ludwig Binswanger, che si distinse anche per il fatto che egli fu capace di essere in disaccordo con Freud, senza che questo portasse ad una rottura tra di loro. Per ragioni che diverranno chiare alla fine, penso che questo originale movimento commise un errore alleandosi con il primitivo Heidegger, e quello che ho da dire è più influenzato dalla seconda e terza generazione della psicologia esistenziale negli Stati Uniti: tra gli analisti, Rollo May e ora Irvin Yalom, e tra gli studiosi, Norman O. Brown, e più di tutti Ernest Becker, i cui ultimi due libri, “Il Rifiuto della Morte” e “Fuga dal Male” non possono essere troppo raccomandati [3]. Queste figure sono le più pragmatiche, perché per essi, "esistenziale" nella psicologia esistenziale significa non così tanto l’esistenzialismo in quanto radicato nei problemi fondamentali di vita e morte, libertà e responsabilità, senza base né significato. Nonostante questo - o forse a causa di questo - le loro conclusioni mostrano un notevole accordo con quello che io penso sia il meglio della tradizione esistenzialista. Becker si riferisce spesso a Kierkegaard e Pascal, ed egli potrebbe aver trovato molto in Nietzsche e Sartre a sostegno delle sue conclusioni. Questa confluenza di idee può essere di grande importanza, perché è uno dei luoghi fertili del nostro tempo, in cui la filosofia e la scienza si incontrano. La ‘psicoanalisi’ è tante cose: una religione (con fondatore, dogma e scismi), una filosofia (Freud e molti altri che non poterono resistere alle estrapolazioni metafisiche), ma è anche scienza, il che significa che non si limita a cambiare, ma impara. Nonostante una problematica base filosofica, essa ha scoperto molte cose su come funziona la mente, che non possiamo ignorare, se non a nostro rischio e pericolo. Il problema, come al solito, è separare il latte dall’acqua. Ernest Becker non fu uno psicologo ma un antropologo culturale, così la sua teoria della negazione della morte riassume assai più che le conclusioni di una scuola psicoanalitica; egli cerca ciò che si potrebbe definire una teoria unificata per le scienze sociali e io credo che egli si avvicini a succederle. Ora, però, voglio aprire una terza parte in questo dialogo: il buddhismo. Se aggiungiamo ciò che il buddhismo ha da dire circa la situazione umana - in particolare, la "vacuità" dell’ego-sé – vi sarebbero veri e propri fuochi d'artificio e potrebbe verificarsi un’altra fecondazione incrociata. Mentre Becker dimostra ciò che realmente significa oggi du.hkha, il buddhismo è in grado di mostrare come Becker non colga del tutto il punto principale e quindi egli è privo di un'alternativa alle sue pessimistiche conclusioni. Confesso di avere forti speranze per questa vasta conversazione: perché se importanti movimenti nella tradizione esistenzialista (filosofia), nella tradizione psicoanalitica (scienza), e nella tradizione buddhista (religione) ci furono per finire con l’accordarsi sugli aspetti essenziali della condizione umana, chi può sapere a che cosa ciò potrebbe portare? Inizierò col riassumere alcune delle ricche esposizioni di Becker, pur apportando alcune critiche generali, poi gradualmente porterò la visione buddhista. Concluderemo applicando ciò che da questa impareremo per giungere alla rivoluzione di Heidegger su “Essere e Tempo”. Freud sottolineava sempre che la repressione è la chiave psicoanalitica scoperta che è alla base di tutto l'edificio. Il concetto è sostanzialmente semplice: qualcosa (può essere pressoché qualsiasi cosa - di solito, un pensiero o una sensazione) mi rende infelice, e poiché io non voglio consapevolmente affrontarlo, scelgo di ignorarlo o "dimenticarlo". Questo mi spiana la strada per potermi concentrare su qualcos'altro, ma ad un prezzo: parte della mia energia psichica deve essere spesa per resistere a quello che è stato represso, per tenerlo fuori dalla coscienza, e (ciò è il vero problema) il fenomeno represso tende comunque a ritornare alla coscienza, ma come un sintomo che è quindi simbolico (perché quel sintomo lo ri-presenta in forma distorta). Freud tracciò le fobie isteriche dei suoi pazienti della classe media Viennese riportandole alla loro sessualità repressa, e concluse che la repressione sessuale è la prima vera repressione dell'uomo - anche se, come molti tra noi, gradualmente la sua attenzione si è spostata dal sesso alla morte. Oggi l'attenzione della psicoanalisi lo ha seguito qui. Becker si basa su un percettiva annotazione di William James: "l’istinto di realtà dell'uomo comune... ha sempre sostenuto che il mondo è essen-zialmente uno scenario per l’eroismo". Il nostro naturale narcisismo e il bisogno di autostima significa che ognuno ha la necessità di sentire che noi tutti siamo di valore speciale, "primi nell'universo". Eroismo è il modo con cui giustificare il fatto che abbiamo bisogno di contare più di chiunque o di qualunque altra cosa. Questo è il denominatore comune alla base della relatività culturale che rivela l'antropologia, che non è altro che la relatività del sistema degli eroi. Ma perché abbiamo bisogno di essere eroi? E' "prima di tutto un riflesso del terrore della morte", perché l’eroismo è ciò che ci può beneficiare di uno speciale destino. E noi abbiamo bisogno di tale speranza per un destino speciale, perché l'alternativa è letteralmente il contemplare troppo[4]. L'ironia della vita unica e simbolica dell’ uomo è che essa serve solo a rivelare il nostro destino senza mezzi termini. "Nell’uomo, la principale repressione è la coscienza della morte, e non la sessualità"[5]. Questa paura della morte è necessaria per mantenere il nostro organismo corrazzato per l’auto-conservazione, ma essa deve anche essere repressa perché noi si possa funzionare con un minimo di conforto psicologico. Il risultato è che noi siamo ‘animali-iperansiosi’ che costantemente inventano le ragioni per l’ansia anche quando non ve ne sarebbe bisogno. Questa è stata anche la conclusione di Otto Rank, Melanie Klein, Norman O. Brown e, più recentemente, Irvin Yalom, il quale sostiene che "durante una considerevole parte della propria vita l'energia è consumata proprio nel rifiuto della morte"[6]. Quasi tutti gli animali hanno le loro paure programmate come istinti, ma l'animale che non ha tali istinti (o la cui coscienza gli per-mette di trascendere questo suo istinto) modella le sue paure nei modi in cui percepisce il mondo – il che sblocca una porta che lo stesso Becker non apre, perché egli suggerisce che, se noi arriviamo a sperimentare il mondo in modo diverso, potremmo essere in grado di modellare anche le nostre paure in modo diverso. Oppure, il contrario: sono proprio le nostre paure a farci percepire il mondo nel modo in cui lo facciamo, e potrebbe qualcuno arrivare a sperimentare il mondo diversamente, così da avere il coraggio di affrontare la cosa di cui abbiamo più paura? L’essenza della ragione nell'uomo non è mai stata trovata, e Becker dice, "sarà che non c’è alcuna essenza, che l'essenza dell'uomo è in realtà la sua natura paradossale, fatto sta che egli è per metà animale e per metà simbolico"[7]. Ma poi egli facilmente si allontana da questa esistenzialista visione comune che l'uomo non ha essenza all’affermazione che la sua essenza è dualistica: uno spirito che è dotato di un ano, e di tutte le altre componenti della mortalità. Questa dualità è situata nel nucleo dell’argomento di Becker. La mente guarda il corpo, realizza ciò che la carne implica, e viene presa dal panico. Di conseguenza, "tutto ciò che l'uomo fa nel suo mondo simbolico è il tentativo di negare e superare il suo grottesco destino. Egli letteralmente dirige se stesso in una cieca ‘ignoranza’ tramite giochi sociali, trucchi psicologici, occupazioni personali per rimuovere la realtà della sua situazione, che sono vere e proprie forme di nevrosi e follia". Un classico esempio sono i tratti del nostro carattere - psicosi segrete, come disse Ferenczi, una meccanicizzazione di un particolare modo di reagire, non molto diversa da una compulsiva e costrittiva ripetizione. Queste abitudini sedimentate sono una protezione necessaria, perché senza di esse vi sarebbe solo una "totale e piena psicosi": in quanto vedere il mondo come realmente è, sarebbe "devastante e terrificante"; "l’uomo reagisce con routine, in modo automatico, sicuro, con impossibile attività auto-referenziale... Egli pone un animale tremebondo alla mercé di tutto il cosmo e il problema del significato di ciò". Così l’aforisma di Pascal: "Gli uomini devono necessariamente essere così folli, che il non essere pazzi significherebbe un'altra forma di pazzia". Per Becker, questo è letteralmente vero: la normalità è la nostra protettiva follia collettiva, in cui noi reprimiamo la terribile verità della condizione umana, e quelli che hanno difficoltà a giocare questo gioco sono quelli che chiamiamo malati di mente. Gli ‘schizofrenici’ sono affetti dalla malattia della verità. La psicoanalisi rivela il prezzo elevato del voler negare questa verità circa la condizione dell'uomo, "ciò che potremmo chiamare i costi del far finta di non essere pazzi"[8]. Tutto ciò dà un più esistenziale slancio a quei Freudiani concetti-chiave, come la colpa e i così detti complessi Edipici. Le prime esperienze del bambino sono davvero i suoi tentativi di annullare l'ansia della sua nascita, la sua paura di perdere i suoi sostegni, di dover stare da solo, indifeso e pieno di paura. Questa sorta di disperazione egli la evita costruendosi le difese, e queste difese gli permettono di sentire un fondamentale senso di auto-stima, di rilevanza, di potere. Esse gli consentono di sentire che egli può controllare la sua vita e la sua morte, che può realmente vivere ed agire come un individuo libero e volitivo, che ha un unica identità auto-determinata, che egli, in definitiva, è qualcuno... [9]. Eppure tutto ciò, che Becker chiama la "grande semplificazione scientifica della psicoanalisi", può essere basato su altre visioni della natura umana che non il dualistico ‘dio-che-defeca’ di Becker. In altri punti Becker si riferisce alla "sindrome di Giona" di Maslow nel presentare una spiegazione per la repressione un po’ diversa: perché noi non siamo abbastanza forti da sopportare la piena intensità della vita. "Il tutto si riduce a una semplice mancanza di forza per sopportare il superlativo, di aprirsi pienamente alla totalità dell’esperienza"[10]. In questo senso, anche, la vita è davvero troppo per il bambino, e così si finisce con le due grandi paure che altri animali non hanno: cioè, paura della vita, per l’incapacità di sopportare l'intensità della piena apertura, e paura della morte, per l’incapacità di accettare il proprio inevitabile destino – le quali, come vedremo, non sono due distinte paure ma due diversi aspetti della stessa identica paura. Ma la causa del nostro panico è il dualismo mente-corpo, o il suo effetto? Veniamo presi dal panico perché siamo ‘coscienze con un corpo’, o è il nostro panico che ci spinge a dualizzare l’ego-coscienza dal corpo? Il più dettagliato studio storico della morte nella cultura Occidentale è “L'ora della nostra morte” di Philippe Aries, una monumentale - anzi, interminabile - indagine dello scorso millennio. Benché l’approccio di Aries non sia psicoanalitico, le sue conclusioni sono quindi ancora più rilevanti, dal momento che la sua testimonianza ci viene da una prospettiva diversa. Al momento, per noi le più interessanti sono le prime due fasi della consapevolezza di morte che egli distingue. In stridente contrasto rispetto a ciò che verrà dopo, nel Medio Evo la morte veniva "addomesticata". Anche se riconosciuta come un male, pure essa era accettata come inseparabile dalla vita. Contrariamente alle implicazioni universali della tesi di Becker, non sembrano essere stati questi gli estremi di terrore e di negazione che ora noi associamo alla morte, ma al contrario, essa era come una sorta di riposo, un tranquillo sonno dal quale uno può, o non può, risvegliarsi, nella eventuale risurrezione del corpo. Ma questo poi cambiò. "Il forte individuo del tardo Medio Evo non poteva essere soddisfatto con la pacifica ma passiva concezione di una Requiem…. Egli la divise in due parti: un corpo che poteva sperimentare piacere o dolore, e un'anima immortale che era libera da morte" [11]. Evidentemente, fu questo dualismo che raggiunse la razionalizzazione filosofica nelle ‘Meditazioni’ di Cartesio, la cui eredità noi abbiamo ancora e con la quale ancora dobbiamo lottare. È un caso che questa nuova concezione della morte si diffonda proprio prima dell'accelerazione – anzi, l'esplosione - della civiltà Occidentale che iniziò come ‘Rinascimento’? Se, come disse Hegel, la Storia è ciò che l'uomo produce a causa della morte, allora una società maggiormente consapevole della morte creerà più storia. Fromm sottolineò che il Rinascimento produsse un crescente senti-mento di forza e libertà, ma anche di isolamento, dubbio, scetticismo, ed ansia. Burckhardt notò che il sintomo più evidente, ora così diffuso tanto che lo prendiamo per scontato, era una morbosa voglia di fama. Il desiderio di essere famosi è un buon esempio di come qualcosa di repressivo (in questo caso, il terrore della morte) si manifesti nella coscienza in una forma distorta (la passione per una simbolica immortalità), che quindi diventa un sintomo del nostro problema (cioè, se ciò che io voglio veramente è l’immortalità personale, nessuna fama sarà mai sufficiente - ma questo è generalmente vissuto come "Io non sono ancora abbastanza famoso") [12]. Questo desiderio, e tutti gli altri tratti del carattere che cita Fromm sono associati ad una maggiore auto-coscienza: l’aumentata coscienza è aumento di consapevolezza della propria fine, e la necessità di risolvere la maggiore ansia che tale consapevolezza porta con sé, sia di diventare uno spirito immateriale o raggiungendo una simbolica immortalità attraverso la propria reputazione o notorietà. Ciò implica che il "comune-senso" Platonico, Cartesiano, ed ora quello del dualismo mente-corpo che, un po’ troppo, presuppone Becker (in una versione più sofisticata: la psiche immateriale di Platone ed il 'cogito-ergo-sum’ di Descartes diventano con lui le funzioni simboliche analizzate dalla moderna scienza sociale), non è la costante essenza della natura umana, ma un altro esempio di come nutrire l’essere adottato per natura: una concezione dell'uomo storicamente determinata ed ora così profondamente radicata che la sua natura metafisica è stata dimenticata - che, ricordiamo, è la definizione della repressione, qualcosa che può affliggere l'intera civiltà come pure gli individui. Ma se questa comprensione è condizionata, come può essere in-condizionata? Dal punto di vista del buddhismo, non è questo il solo discutibile dualismo che Becker assume. Come la maggior parte di noi fa sempre (e forse come tutti noi per la maggior parte del tempo), egli dà per scontato l'apparente natura oggettiva del mondo, che la filosofia Occidentale (e la psicologia cognitiva), ha realizzato sin da Kant essere mentalmente costituita. Non solo ognuno di noi costruisce presumibilmente il mondo in modo oggettivo, ma (proprio come psicologicamente importante) noi costituiamo il mondo in una maniera che nasconde il fatto che lo abbiamo costituito così – il che può essere visto anche come una forma di repressione. Forse la più potente difesa di tutto [contro l’ansia per la morte] è semplicemente la realtà proprio come essa è sperimentata - cioè, l'apparenza normale delle cose... Le apparenze vengono al servizio della negazione: noi costituiamo il mondo in modo tale da apparire indipendente dalla nostra stessa costituzione. Costituire il mondo come un mondo empirico significa costituirlo come un qualcosa di indipendente da noi stessi [13]. Yalom fa riferimento a questa repressiva paura della ‘mancanza di una base solida’, che fa sì che noi si cerchi di garantirci una stabilizzazione del mondo in cui siamo. Questo si adatta alla visione buddhista del problema, se comprendiamo questa paura della mancanza di una base solida come la paura dell’ego-sé della sua stessa ‘vacuità’. Ma non è solo il senso di sé che è vuoto. La negazione del dualismo soggetto-oggetto che è così fondamentale nel Mahāyāna (e nell’Advaita-Vedānta) implica che il nostro abituale senso di separazione (tra me e il mondo in cui sono) è illusorio; la presunta soggettività dell’ego-coscienza ottiene una realtà spuria solo essendo in contrapposizione con la presunta oggettività del mondo empirico (e viceversa)[14]. Quindi, reprimere il fatto che io ho costituito il mio mondo "oggettivo" è anche reprimere il fatto che io ho costituito me-stesso. Ma prima di andare troppo avanti con noi stessi, dobbiamo tornare alla esposizione di Becker. Freud tracciò i sensi di colpa per tornare indietro alle prime sensazioni ambivalenti del bambino, in particolare l'odio e il desiderio di morte verso i genitori, che portano alle paure di perdere l’oggetto. La ‘Negazione della Morte’ vede l'origine del senso di colpa nella reazione del bambino ai processi del corpo ed ai suoi bisogni: "colpa come inibizione, come determinismo, come piccolezza e limitatezza" è implicato dai vincoli che la condizione di base degli animali impone nell’usare il simbolo ‘dio’, e che deve controllare la sua condizione e vorrebbe sfuggirla. ‘Fuga dal Male’ amplia questo concetto: Il senso di colpa, come lo pongono gli esistenzialisti, è la colpa com’è in se stessa. Essa riflette l'auto-coscienza dell’animale confuso all’essere emerso dalla natura, a cui attenersi troppo senza sapere il perché, a non essere in grado di mettersi al sicuro in un significativo sistema eterno [15]. Questo "puro" senso-di-colpa non ha nulla a che vedere con le infrazioni o le punizioni dei desideri segreti; il peccato maggiore è il peccato di essere nati, come ha detto Samuel Beckett. E’ il tarlo nel cuore della condizione umana, apparentemente come inevitabile conseguenza dell’auto-coscienza stessa - e non solo la condizione umana, ma il tessuto sociale, perché Becker come Brown vede l’organizzazione sociale come una "struttura di colpa condivisa". Il peso è talmente pesante che l'uomo non può subirlo da solo, ma deve essere condiviso in modo da essere espiato collettivamente, come vediamo più chiaramente (perché più oggettivamente) nei rituali dell’uomo arcaico, la cui vita "fu apertamente immersa nel debito karmico" [16]. Questo illumina la visione esistenziale del complesso Edipico, che Norman O. Brown in maniera più accurata chiama "progetto Edipico". Brown è d'accordo con Freud sul fatto che questo progetto è il tentativo di diventare padre di se stessi, senza bisogno di andare a letto con la madre. Diventare il proprio padre significa diventare ciò che Nāgārjuna descrisse (e confutò) come auto-esistente - nella formula Spinoziana, causa sui, auto-causato; e in Sartre, etre-en-soi-pour-soi, "essere sia in sé che per-sé", che, nella sua ontologia, è una contraddizione. Becker lo riassume dicendo che il progetto Edipico è la fuga dalla obliterazione e contingenza. Il bambino vuole vincere la morte, diventando il creatore e sostenitore della propria vita. In termini buddhisti, il progetto Edipico è il tentativo di auto-sviluppo dell’ego per il raggiungimento di una chiusura in se stesso, precludendo la sua dipendenza dagli altri nel diventare autonomo. Essere il proprio padre è essere la propria origine. Piuttosto che solo un modo per vincere la morte, questo dà ancor più senso come ricerca di negare la mancanza di una propria base solida diventando la propria base: la base (socialmente sanzionata, ma nondimeno illusoria) di poter essere una persona indipendente. Ciò che è chiamato il complesso Edipico è dovuto alla scoperta da parte del figlio che egli non è una parte della madre, dopo tutto. Il problema non è tanto che il papà ha la prima pretesa sulla mamma, quanto quello che contribuisce al sorgere della realizzazione nel bambino della sua separazione: "ma se non sono una parte della mamma, io di che cosa sono parte?" - Che, più in generale, diventa: "Che cosa sono io? Chi sono io?" Questo genera la necessità di scoprire la propria origine, o meglio la necessità di crearla - un progetto inutile, che non sarà soddisfatto, se non identificandosi illusoriamente con un qualcosa ("Se io non sono la mamma, perciò io sono questo!"), il che deve includere, come sua controparte, la paura di perderlo. Se questo è ciò che accade, il progetto Edipico dà origine alla nostra intuizione che l’auto-coscienza ovviamente non è qualcosa "auto-esistente", ma una finzione, una costruzione mentale. Anziché essere autosufficiente, la coscienza è più come la superficie del mare: dipendente dalle profondità, che essa non è in grado di cogliere perché è una loro manifestazione. Il problema sorge quando la coscienza vuole radicare se stessa, rendersi reale. Ma realizzare se stessi è come oggettivare se stessi. L’ego-sé è questo tentativo della consapevolezza di oggettivare se stessa cercando di afferrare se stessa– e che non può fare, così come una mano non può afferrare se stessa. Il Vedānta dimostra l'inutilità di ciò sottolineando che di qualsiasi cosa l’ "Io" diventi consapevole, non può essere l’ "Io", poiché l’ "Io" sarà sempre diverso da qualunque cosa egli conosca come "me". La conseguenza di ciò è che il senso di sé ha sempre, come sua inevitabile ombra, un senso di assenza, che (ahimè!) cerca sempre di scappare. Ed è qui che arriva il concetto psicoanalitico di repressione, perché l'idea di "ritorno del represso" in una forma distorta ci mostra come collegarsi a questo fondamentale eppure speranzoso progetto con i simbolici modi in cui cerchiamo di rendere noi stessi reali nel mondo. Questo profondo senso di mancanza è sperimentato come la sensazione che "c'è qualcosa di sbagliato in me". Nella misura in cui abbiamo un senso di sé autonomo, abbiamo pure questo senso di mancanza, che si manifesta in molte diverse forme. Ne abbiamo già citato uno: il desiderio di essere famosi, che è un buon esempio del modo in cui di solito cerchiamo di rendere noi stessi reali - attraverso gli occhi degli altri. Nelle sue forme più "pure" la mancanza appare come una colpa ontologica, o ancor più fondamentale, un’ontologica ansia al centro del proprio essere, che è quasi insopportabile perché tende a corrodere tale nucleo. Per questo motivo, ogni tipo di ansia tende a diventare oggettivata nella paura di qualcosa (come potrebbe dire Spinoza, la paura è l'ansia associata ad un oggetto), perché allora sappiamo che cosa fare: noi abbiamo i modi per difenderci contro la cosa temuta. La tragedia di queste oggettivizzazioni, tuttavia, è che nessuna somma di denaro può essere abbastanza se non è realmente il denaro ciò che vogliamo. Quando noi non comprendiamo cosa ci sta effettivamente motivando - poiché ciò che noi pensiamo di volere è solo un sintomo di una cosa diversa - finiamo per diventare "compulsivi". Tale analisi buddhista implica che non si avrà nessuna vera "salute mentale" se non una illuminazione che metta fine a quel senso di mancanza, che è l'ombra del senso di sé, proprio mettendo fine al senso-di-sé. Forse che la psicoanalisi sta arrivando a realizzare la stessa cosa? In senso stretto, il ‘transfert’ è la nostra tendenza inconscia ad avere emozioni e il comportamento sentiti verso una persona (per esempio, un genitore) e proiettarle su di un'altra persona (ad esempio, l'analista). Ma se, in un senso più ampio, il transfert è una "distorsione di incontro" (Rollo May), noi tutti allora la facciamo per la maggior parte del tempo, e questo è proprio ciò che Freud ha concluso: "esso è un fenomeno universale della mente umana" che "domina tutte le relazioni della persona al suo ambiente umano". Il transfert rivela che non uno non cresce mai, e così rimane "un bambino che distorce il mondo per alleviare la sua paura e il bisogno di aiuto, che vede le cose come egli vuole che siano proprio per la sua sicurezza". La necessità di trovare sicurezza sottoponendo noi stessi agli altri rimane, pur trasferiti dai genitori agli insegnanti, superiori, e governanti. Questo non è fare "un errore emozionale", ma il fatto di sperimentare l'altro allo stesso modo di tutto il proprio mondo - così come per il bambino è la famiglia. In questo modo noi dominiamo il terrore della vita, concentrando il potere e l’orrore dell'universo in un solo luogo. "Meraviglia! L'oggetto del transfert, essendo dotato dei poteri trascendenti dell'universo, ha ora in se stesso il potere di controllarli, metterli in ordine, e combatterli". Questo feticismo naturale per le più alte aspirazioni e gli sforzi dell'uomo spiega il nostro bisogno di deificare gli altri: "più essi hanno, più ciò ci purifica. Così, noi creiamo gli Immortali e poi condividiamo la loro immortalità". Rank disse che noi abbiamo bisogno di erigere un dio-ideale al di fuori di noi stessi per vivere per sempre, e l’oggetto del transfert si addice allo scopo [17]. Il problema è che questo processo è inconscio e, di conseguenza, acritico, una regressione di pii desideri pensati che non sono sotto il nostro pieno controllo. Noi, bambini del ventesimo secolo, non abbiamo bisogno di pensare troppo per arrivare a veri esempi - ma gli esempi non sono mai mancati. L'uomo è sempre stato ipnotizzato da coloro che gli rappresentano la vita, e bramoso di sottomettersi a personalità carismatiche che legittimano il loro potere con un pò di mistificazione simbolica. "Ogni società eleva e ricompensa i leaders di talento che portano le masse alla vittoria eroica, all’espiazione delle loro colpe, ed alla soluzione dei conflitti personali". Purtroppo, in genere questi leaders sono i più grandi patrioti, per la maggior parte incuranti, "che abbracciano l'attuale sistema di rifiutare la morte con il più caloroso abbraccio, le più calde lacrime, e una minor critica distanza" [18]. Però, Freud e Ferenczi videro anche un lato più positivo, perché il transfert indica un tentativo naturale di guarire se stessi attraverso la creazione di una realtà più grande in cui uno ha la necessità di scoprire se stesso, "il tentativo autodidatta da parte del paziente di curare se stesso". Perciò Rank concluse che "la proiezione è un necessario alleggerirsi dell’individuo; l'uomo non può sempre vivere chiuso in se stesso e per se stesso". Così, per Becker, la questione alla fine diventa: "Che cos'è la proiezione creativa? Che cos’è l’illusione di migliorare la vita?" [19]. A dirla come Jung: Quale tipo di mito si vive?. Se il transfert è ampliato per includervi modelli di ‘ego’, noi possiamo farlo con qualcuno che non abbiamo mai incontrato. Siamo onesti: non è forse che filosofi come Wittgenstein tendono ad essere modelli per noi, così come le star del cinema lo sono per molti altri? La persona che non è affascinata da un certo modello, ne è affascinata da un altro, perché questo è il modo in cui noi scegliamo la cosmologia per i nostri propri eroi, anche se questi eroi devono essere vicari, a meno che si possa identificare il nostro universo con quello in cui il nostro eroe visse, pensò, ed agì. E questo ci spinge al cuore della questione, perché il transfert non vale solo per le persone: noi ammiriamo non solo gli sportivi famosi, ma anche le loro squadre; noi ci identifichiamo non solo con i vari leader nazionali, ma pure con i paesi, non solo con Nietzsche, Freud, e Buddha, ma anche con l’esistenzialismo, la psicanalisi, e il buddhismo. Il termine buddhista per tutto ciò è ‘attaccamento’, ma poiché questo non è che un vago termine, il buddhismo qui può imparare dalla psicoanalisi, che riesce con più metodo a scoprire come funziona l’illusione. Ciò che lega insieme tutte queste manifestazioni, come uno stesso "fenomeno universale della mente umana", è assai più che una nostra necessità di dominare il terrore della morte: ma è il bisogno di organizzare il caos della vita trovando una significativo sistema unificante che ci offra la conoscenza riguardo al mondo, e un programma di vita, dicendoci sia ciò che essa è, e sia ciò che dovremmo fare. Il bambino tende ad assorbire questo dai suoi genitori come parte di ciò che significa essere una persona; noi poniamo noi stessi nell'universo accettando il sistema di qualcuno con cui ci identifichiamo. "Tutti noi siamo spinti ad essere supportati in un modo auto-dimenticante, ignoranti di quali energie abbiamo realmente da attingere, del tipo di falsità che abbiamo modellato per vivere in sicurezza e in serenità" [20]. Ma però non c’è abbastanza sicurezza o serenità. Dopo un secolo di teoria e pratica, la psicoanalisi è giunta a dover concordare con la grande intuizione dell’esistenzialismo: l’ansia non è accidentale, ma fondamentale al sé, non è qualcosa che abbiamo, ma qualcosa che noi siamo. Per questo, molti (per esempio, Tillich) hanno deciso che non è possibile porre fine all’ansia. Ma tale conclusione non deve necessariamente essere seguita. Ciò che è implicito, è che una tale fine richiederebbe la fine del ‘ego-sé’ come è sperimentato di solito. Anche Brown è d’accordo con tale possibilità: "poiché l'ansia è l'incapacità dell’ego di accettare la morte, le attività sessuali sono state forse costruite dall’ego nel suo voler sfuggire la morte, e potrebbero essere abolite da un ego abbastanza forte da saper morire" [21]. Ma per Rank e Becker, l'ansia non può essere superata tutta terapeuticamente, dato che senza ansia è impossibile resistere alla terribile verità della propria condizione, e quindi la nostra scelta è tra l'ansia e la repressione. Se non siamo in grado di affrontare la verità della nostra condizione, che è la mortalità, allora siamo costretti a reprimere quella verità, cioè dimenticarla. La differenza tra nevrosi e normalità - quella comune psicopatologia trascurata e non-drammatica (Maslow) – è così facile che è la repressione. Il nevrotico ha una memoria migliore rispetto alla maggioranza delle persone, così la sua ansia si mantiene irrompendo nella coscienza e quindi deve essere trattata più duramente, al fine di preservare una certa libertà d'azione. Tutti noi reagiamo alla nostra ansietà "parzializzando" il nostro mondo, limitando la nostra coscienza entro limiti ristretti, a zone che noi possiamo più o meno controllare e che ci danno un senso di auto-fiducia. Il nevrotico ha più difficoltà a sostenere l’illuso senso di auto-fiducia, e può rinchiudersi in un più ristretto ambito. Il psicotico lo può fare in un modo ancor più duro e, come forma di auto-protezione, si de-anima facendo spesso riferimento a se stesso come ad una sorta di pupazzo, un fantoccio, o una macchina; la letteratura sulla schizofrenia è piena di espressioni come "ho dovuto morire per salvarmi dalla morte" [22]. La differenza tra queste tre forme è una questione di gradazione. Quando uno cresce, e non è capace di immergersi liberamente nei ruoli culturali a sua disposizione, allora la propria vita diventa un problema. Tillich chiamò ‘nevrosi’ il modo di evitare il ‘non-essere’ evitando di essere. Rank disse che la costante restrizione della vita del nevrotico è perché "egli rifiuta il prestito (cioè, la vita), al fine di evitare così di pagare il debito (la morte)". L'angoscia e disperazione di cui si lamenta il nevrotico non sono l’effetto dei suoi sintomi, ma la loro causa; quei sintomi sono ciò che lo difende dalle tragiche contraddizioni che sono al cuore della situazione umana: la morte, il senso di colpa, il significato. "L’ironia della condizione umana è che il suo bisogno più profondo è di essere esente dall'ansia della morte e dell’annientamento, ma è la vita stessa che lo risveglia, e così noi dobbiamo ridurci ad essere pienamente vivi". [23] Quindi il senso di colpa che sembra tormentare diabolicamente l’uomo, non è la causa della nostra infelicità, ma il suo effetto? "Il problema ultimo non è la colpa, ma l'incapacità di vivere. L'illusione di una colpa è necessaria per un animale che non può godersi la vita, per organizzare una vita fatta di non-divertimento"(Brown) [24]. In termini buddhisti, se l'autonomia dell’auto-coscienza è una illusione che non può mai scrollarsi abbastanza di dosso la sensazione della sua ombra, quel "qualcosa che è sbagliato in me", avrà bisogno di razionalizzare in qualche modo quel vago senso di inadeguatezza. La restrizione della sfera di vita nevrotica semplicemente aggrava questo universale senso di assenza in una sorta di paralisi della coscienza, una morte in vita. Ma se la paura della morte rimbalza come paura della vita, esse diventano due facce della stessa medaglia. Allora, la vita vera e propria non può essere contraria alla morte, ma deve abbracciarle entrambe: "Chi giustamente comprende e celebra la morte, allo stesso tempo esalta la vita." (Rilke) L'ironia è che, fintanto che noi desideriamo l’immortalità, siamo morti. Come osservò La Fontaine, colui che assomiglia ai morti è il più riluttante a morire. Aries fu colpito dal fatto che, come abbiamo già accennato, durante il tardo Medio Evo l'idea della morte fu sostituita dall'idea della mortalità in generale: "il senso della morte da allora in poi venne diluito e distribuito lungo l’intera vita e, quindi, perse la sua intensità". Sì, ma solo perché anche la vita perse la sua intensità, come egli notifica altrove: "E’ un fatto curioso e apparentemente paradossale che la vita abbia cessato di essere così desiderabile, contemporaneamente al fatto che la morte cessò di apparire così puntuale e terribile" [25]. Nel XVII e XVIII secolo, il "cadavere vivente" diventò un argomento comune: quale immagine migliore si poteva chiedere? Per di più, lo studio di Aries implica che le pessimistiche conclusioni di Becker sulla natura umana non riflettono l’immutabile natura dell'uomo, ma solo una particolare natura, storicamente condizionata: la nostra. Ma una natura condizionata, può o non può essere ricondizionata - o de-condizionata? Rank e Becker sostituiscono il riduzionismo sessuale di Freud con la paura della morte e – poiché ogni paura ha una correlativa speranza – con il desiderio di immortalità. Essendo queste monologie così diverse, esse implicano ugualmente tragiche conclusioni sulla condizione umana. Il meglio che il primo Freud poteva offrire fu una sublimazione o il razionale controllo della libido da parte dell’ego, che egli vedeva come il meglio di una cosa negativa, anche se la sua successiva opinione fu più pessimistica, postulando una lotta vita-contro-morte tra due istinti, Eros e Thanatos, in cui la morte deve sempre vincere. Becker un po’ a stento è più ottimista: se la nostra paura più profonda e più repressa è la morte, noi sembriamo essere bloccati tra proiezioni transfert in una forma o in un altra, o riconoscendo psicoticamente il terrore della nostra situazione, perché ciascuno di noi realmente sta andando verso la morte. Inoltre, la morte vince sempre - in questo caso perfino prima di morire, nella paralisi psichica della morte in vita. La differenza tra Freud e Becker è che Eros e Thanatos sono istinti, mentre la paura della morte non lo è: si tratta di una reazione dell'animale che è abbastanza consapevole di arrivare a conoscere se stesso e il suo inevitabile destino; quindi, è qualcosa che abbiamo imparato. Ma, esattamente, che cos’è che abbiamo imparato? È, il dilemma della vita-opposta-alla-morte, un fatto oggettivo che noi proprio vediamo, o anche questo, è qualcosa di costruito e proiettato, più come un gioco inconscio che ciascuno di noi sta giocando con se stesso? Secondo il buddhismo, la vita-contro-la-morte è un illusorio modo di pensare ed è dualistico: la negazione di essere morti è il modo come l'Io afferma se stesso come essendo vivo; ed è il medesimo atto con cui l'Io costituisce se stesso. Essere auto- consapevoli significa essere consapevoli di sé, aggrapparsi a se stessi, come vivi. (E malgrado tutti i loro sforzi per evitare di morire, gli altri animali non temono la morte, perché non sono consapevoli di se stessi come vivi). Quindi il terrore della morte non è qualcosa che l'ego ha, ma quello che l'ego è. Questo si accorda con la tesi buddhista che l’ego-sé non è una cosa, non è ciò che io sono veramente, ma è una costruzione mentale. L’ansia è generata identificandosi con questa finzione, per il semplice motivo che io non conosco e non posso sapere che cos’è questa cosa che presumibilmente sono io. Questo è il motivo per cui l’"ombra" del senso di sé sarà inevitabilmente un senso di mancanza. Ora vediamo da che cosa l'Io è composto: terrore e morte. L'ironia è che il terrore della morte, che è ciò che è l'ego, difende solo se stesso. Tutto è ciò che al di fuori è ciò di cui l'Io è terrorizzato, ma cosa c’è dentro? Dentro c’è la paura, e ciò rende tutto il resto il fuori. La tragicommedia è che l'auto-protezione che questo genera è auto-distruttiva, perché le barriere da noi erette per difendere l’ego rafforzano anche il nostro sospetto che vi sia effettivamente qualcosa di mancante nel nostro intimo sanctum che ha bisogno di protezione. E se si scopre che ciò che è intimo è così debole perché è. .. il nulla, quindi non necessita di protezione, e mai sarà ritenuto sufficiente, così finirà che cerchiamo di estendere il nostro controllo agli estremi limiti dell'universo. Qualcosa di questo tipo, credo, è ciò che motiva il compulsivo progetto tecnologico dell'uomo, e suggerisce ciò che in esso è sbagliato, ma non c'è spazio ora per andare in questa direzione. Se, tuttavia, l'ego è costituito da un siffatto modo di pensare dualistico, significa che l’ego può morire anche senza morte fisica e senza che la coscienza cessi. Ciò che rende questo fatto più di una mera speculazione è che vi è ampia testimonianza della possibilità di una tale morte dell’ego: >Nessuno ha così tanto da Dio come l'uomo che è completamente morto. (San Gregorio); >Il Regno di Dio non è che per coloro che sono completamente morti. (Eckhart); >La vostra gloria si trova là dove vi sarete estinti. (Ramana Maharshi); >Noi siamo in un mondo di generazione e morte, e questo mondo dobbiamo gettarlo via. (William Blake); Un commovente esempio di morte e risurrezione è ovviamente una delle fonti della nostra cultura Occidentale, ma esempi sono presenti in molte tradizioni religiose. Il problema è di demitizzare questi miti, di estrarre il nucleo della verità psicologica e spirituale dalle concrescenze di dogmi e superstizioni che troppo spesso oscurano il loro significato, per far sì che la verità sgorghi di nuovo alla vita all'interno del nostro mito - il linguaggio tecnico, oggettivizzante della scienza moderna (in questo caso, la psicologia). La citazione di Blake (da: La Visione del Giudizio Universale) indica la strada, perché ciò implica che noi non stiamo vedendo chiaramente, ma stiamo proiettando, quando percepiamo il mondo in termini di categorie dualistiche di nascita e morte. Proprio tale questione è fondamentale per la tradizione buddhista. "Perché sono nato, se non è per sempre?" si lamenta Ionesco; la risposta è nella dottrina del ‘Non-sé’ (anātman), secondo cui non si può morire perché non si é mai nati. Anātman è la "via di mezzo" tra gli estremi di ‘eternalismo’ (il ‘sé’ sopravvive alla morte) e ‘nichilismo’ (il ‘sé’ è distrutto alla morte). Il buddhismo risolve il problema di vita e morte destrutturandole. L'evaporazione di questo modo di pensare dualistico rivela ciò che è precedente ad esso. Ci sono molti nomi per questo "precedente", ma è sicuramente significativo che uno dei più comune è "il Non-nato". Nel Canone Pali, vi sono forse le due più famose descrizioni del nirvāṇa, entrambe riferentesi a questo "Non-nato", in cui: "né questo mondo né l'altro, né venire, né andare, e né stare, né nascita, né morte, e né vi si trovano oggetti sensoriali". "Vi è, o monaci, un non-nato, un non-venuto, un non-creato, un non-condizionato; Se, o monaci, qui non ci fosse questo non-nato, non-venuto, non-creato, non-condizionato, qui non vi sarebbe scampo dalla nascita, dal divenire, dal creare, e dal condizionato. Ma, poiché c'è un non-nato, (ecc.),. .. quindi vi è scampo dal nascere, (ecc.). .. [26]. Simili dichiarazioni sono comuni in scritture e commenti Mahāyāna. Il termine più importante nel Mahāyāna è śūnyatā, "vacuità", e gli aggettivi più usati per spiegare cos’è śūnyatā sono: "non-nato", "increato" e "non-prodotto". La più nota scrittura Mahāyāna, il laconico ‘Sutra del Cuore’, spiega che tutte le cose sono śūnya (vuote) perché sono "non create, non annientate, non impure, e non pure, non aumentano e non diminuiscono". Ad esso fa eco Nāgārjuna nella prefazione al suo testo sacro Mūlamadhyamikakārikā, il quale fa uso di otto negazioni per descrivere la vera natura delle cose: "esse non muoiono e non nascono, non cessano di essere e non sono eterne, non sono uguali e non sono diverse, non vengono e non vanno". Andando dall’India alla Cina, nel "Canto dell’Illuminazione" di Yung-Chia, un discepolo di Hui-Neng, il sesto patriarca Ch'an, si legge: "Da quando ho realizzato all’improvviso il ‘Non-nato’, non ho avuto più alcun motivo di gioia o di dolore, né onori e né vergogna". "Che tutte le cose sono perfettamente risolte nel ‘Non-nato’" è stata la grande realizzazione e successivamente l’insegnamento centrale del maestro Zen giapponese del XVII secolo Bankei: "Quando si dimora nel proprio ‘Non-nato’, si dimora nella stessa testa del Buddha e dei patriarchi". Il ‘Non-nato’ è la mente-Buddha, e questa mente-di- Buddha è al di là di vita e morte [27].- Questi passaggi (e molti altri potrebbero essere aggiunti) sono importanti perché, anche se può non essere chiaro a che cosa il "Non-nato" si riferisca, è in ogni caso una esperienza immediata che viene descritta (o almeno dichiarata), anziché una congettura filosofica circa la natura della realtà. Per un caso che combina esperienza personale con intuizione filosofica, ci rivolgiamo al Giappone, soprattutto al maestro e filosofo Zen, Dogen. Per il buddhismo, il dualismo tra la vita e la morte è solo un esempio di un problema più generale, il pensiero dualistico. Perché il pensiero dualistico è un problema? Noi tendiamo sempre a distinguere tra il bene e il male, il successo e il fallimento, la vita e la morte, e così via, e ciò è perché vogliamo mantenere i primi e respingere gli altri. Ma non si può avere l'uno senza l'altro, perché essi sono interdipendenti: affermando il primo si mantiene vivo anche l’altro. Vivendo una vita "pura", bisogna quindi preoccuparsi dell’impurità, e la nostra speranza per il successo sarà proporzionale alla nostra paura di fallire. Noi discriminiamo tra vita e morte, al fine di affermare l'una e negare l'altra, e, come abbiamo visto, la nostra tragedia sta nel paradosso che questi due opposti sono così interdipendenti: non c'è vita senza morte, e - ciò a cui siamo più probabilmente di fronte - non c'è morte senza vita. Questo significa che il nostro problema non è la morte, ma la vita-e-morte. Il problema sono i limiti del ‘sé’ come entità simbolizzata, ed è per questo che la fine e l’inizio sono uniti. Vi è un chiaro senso del rapporto tra la consapevolezza della morte ed un sé ben delineato. Quest’ultimo è impossibile senza la prima. Perfino prima dell’inquietante sillogismo: "Se la morte esiste, allora Io morirò", ce n'è uno precedente: "Dal momento che 'Io' sono nato e moriro, 'Io' devo esistere" (Lifton)[28]. Ma qui vi è un’implicazione che Lifton non considera: Se possiamo realizzare che non c’è nessun delineato ego-sé che è vivo ora, il problema della vita e morte è risolto. E tale è l'obiettivo buddhista: l'esperienza di ciò che non può morire, perché non è mai nato!. Se le nostre menti hanno creato questo dualismo, esse dovrebbero essere in grado di destrutturare e non-creare. Questo non è un deviante trucco intellettuale che pretende di risolvere il problema in modo logico, lasciando la nostra angoscia profonda tanto come prima. Gli esempi di cui sopra chiariscono che noi ci riferiamo ad una esperienza, non certo ad una comprensione concettuale. E non può essere una coincidenza che il ‘prajñāpāramitāa-sutra’ del Mahāyāna enfatizzi anche ripetutamente che, in realtà, non ci sono esseri senzienti. Il Buddha dice: "Subhūti, che cosa ne pensi? Non si dovrebbe dire che il Tathāgata ha questo pensiero: 'Io dovrei liberare gli esseri viventi'. Subhūti, non dovresti pensare così. Perché? Perché, in realtà, non ci sono esseri viventi che il Tathāgata possa liberare. Se vi fossero, il Tathāgata starebbe sostenendo (il concetto di) un ego, una personalità, un essere, e una vita. Perciò, o Subhūti, (quando) il Tathāgata parla di un ego, in realtà non vi è nessun ‘ego’, anche se gli uomini comuni così credono. Subhūti, il Tathāgata dice che non ci sono gli uomini comuni, ma essi sono (come espediente) chiamati uomini comuni [29]. Questo ci dà il contesto di cui abbiamo bisogno per comprendere il criptico commento di Dogen. Le sue più importanti osservazioni su nascita e morte si trovano in tre fascicoli del Shobogenzo. Il primo, è tratto da Shoji, ‘Nascita e Morte’. "Bisogna solo capire che nascita e morte è di per sé il nirvana. Non vi è nessuna ‘nascita e morte’ da dover evitare; non vi è nessun nirvana da ricercare. Soltanto quando avrete realizzato questo, sarete liberi da nascita e morte.... E’ un errore supporre che la nascita si trasformi in morte. La nascita è una fase che è un intero periodo in se stesso, con il suo passato e futuro. Per questa ragione, nel buddha-dharma la nascita è intesa come non-nascita. Anche la morte è una fase che è un intero periodo in se stesso, con il suo passato e futuro. Per questo motivo, la morte è intesa come non-morte.… Nella nascita non vi è nient’altro che il nascere, e nella morte non c'è nient’altro che il morire. Di conseguenza, quando arriva la nascita, affrontate e attualizzate la nascita, e quando arriva la morte, affrontate e attualizzate la morte. Non dovete evitarle o desiderarle". E dal Shinjin-gakudo, "Body-and-Mind: Study of the Way" (Corpo-e-Mente: Studio della Via): "Non rifiutare la nascita, vi si vede la morte. Non rifiutare la morte, vi si vede la nascita. La nascita non ostacola la morte. La morte non ostacola la nascita. La morte non è l'opposto della nascita; la nascita non è l'opposto della morte". Il seguente passaggio è dal Genjo-koan, "Attualizzare il punto fondamentale," e collega la nascita-e- morte con il tempo: "La legna da ardere diventa cenere, e non diventa ancora legna da ardere. Però, non devi supporre che la cenere sia il futuro e la legna da ardere il passato. Dovresti capire che nella legna da ardere dimora l’espressione fenomenica della legna da ardere, che include pienamente il passato e il futuro ed è indipendente dal passato e dal futuro. E la cenere dimora nell’espressione fenomenica della cenere, che anch’essa include pienamente passato e futuro. Così come la legna da ardere non diventa di nuovo legna da ardere dopo che è diventata cenere, nessuno ritornerà alla nascita dopo la morte". Stando così le cose, questo è un modo del dharma buddhista di negare che la nascita si trasformi in morte. Ecco perché la nascita è intesa come non-nascita. Il fatto che la morte poi non si trasforma in nascita è un incrollabile insegnamento nei discorsi del Buddha. Ed ecco perché la morte è intesa come non-morte. La nascita è la piena espressione di quel momento. La morte è la piena espressione di quest’altro momento. Essi sono come l'inverno e la primavera. Voi non chiamereste l’inverno l'inizio della primavera, né l’estate la fine della primavera [30]. Che cosa sta dicendo Dogen in questi passaggi? (1) Che l’Illuminazione non è altro che la nascita-e-morte. Dogen non offre la consolazione di un paradiso o di qualsiasi altro posto "trascendentale" - e nemmeno la solita speranza buddhista della rinascita (anche se egli non nega tale possibilità). Non si può sfuggire alla nascita e morte, ma vi è la Liberazione in, o piuttosto come nascita e morte, se noi siamo capaci di realizzare qualcosa riguardo ad esse. (2) Che nascita e morte non sono opposti. La nascita non è altro che la nascita, la morte non è altro che la morte: affrontale e attualizzale, dice Dogen. "Non evitarle, né desiderarle". Non aggrapparti ad una e cercare di respingere l'altra. E la sua soluzione non è un rifiuto della vita e della morte, ma la completa affermazione di esse, assai diversa dal nostro solito modo di rassegnarci ad esse. (Tutto ciò, è forse negare ciò che è stato detto prima circa l'interdipendenza della vita e della morte? Criticare il fatto che la vita e la morte sono per noi degli opposti è un altro modo di segnalare il problema del pensiero dualistico. L'interpenetrazione di tali opposti significa che Io vivo la mia vita paralizzato dalla paura della morte, e Io sperimento la mia morte aggrappandomi ai residui di vita che sono stati strappati dalla mia presa. Quando vita e morte non sono sperimentate come opposti, esse non si "ostacolano" l'un l'altra in questo modo. (3) Allora, la nascita è non nascita, e la morte è non-morte. Quando non vi è nient’altro che la morte, - senza repulsione per essa, né una ricerca di un ‘dopo’ - allora la morte è sperimentata come non-morte. Dogen correla questo con un modo alternativo di sperimentare il tempo, cioè un dono "che include pienamente passato e futuro". La nostra fuga dalla morte assume la forma di voler cercare di essere noi stessi in tempo reale, come qualcosa che persista nel tempo; devo accettare la mia morte, al fine di sperimentare la vera natura del ora che è al di fuori del tempo. In che ora non è nascita-nascita, perché io non-sé è mai nato: se l’"io" non è mai nato allora vi è solo l'atto di nascere, ma, se vi è solo l'atto di nascere allora realmente c’è la non-nascita. Invece, l'atto di nascere in sé e l'atto di morire in sé, non mancando niente (esattamente nello stesso modo) diventano manifestazioni di... di che? Già è stato fatto riferimento al "Non-nato"; un altro comune termine è "Buddha-natura" - ma però qui si rischia di dover postulare un qualcosa come un anima. Così, forse, è meglio non chiamarli come una manifestazione di un qualcosa, dato che il punto è che ogni atto è realizzato per essere completo e intero in sé-stesso quando non è sperimentato in relazione a qualcos'altro. Ma ogni cosa deve arrivare allo scopo: il tentativo di auto-riflessività che costituisce l'ego. Se l'ego-sé è un atto con il quale la coscienza cerca di afferrare e oggettivare se stessa - illusoriamente, dato che la coscienza non può mai farlo, e quindi finisce solo per essere un’esperienza auto-paralizzata e non-mediata "del Non-nato", è il naufragio finale di tale progetto. Il problema è risolto alla radice. Il "palo-ritto" dell’ego-sé che sta cercando di farsi reale identificandosi con una cosa o l’altra nel mondo oggettivo, crolla. In termini di ‘vita-e-morte’, l’ego-"né esclude la sua più grande ansietà di lasciarsi andare e morire proprio qui ed ora. "Morire prima di morire, così che quando arrivi a morire non sei costretto a morire», come dice il detto Sufi. Ovviamente, se in realtà l'ego è una costruzione – che è composta da modi di pensare, di sentire, e di agire automatizzati e che si rafforzano reciprocamente, - non può realmente morire, però può evaporare, nel senso che questi modi cessano di ripetersi. Ma poiché essi costituiscono la nostra base psicologica di difesa contro il mondo, questo lasciarsi andare non potrà essere facile. Significa rinunciare ai miei prediletti modi di pensare a me stesso (notare la riflessività), che sono ‘ciò che io penso di essere, e rimanere nudo ed esposto. Non c'è da stupirsi che questa sia chiamata ‘La Grande Morte’. In precedenza, ho suggerito che il senso di mancanza è l'inevitabile ombra del senso di sé, e che la forma "più pura" di questa mancanza è un’ansia non-proiettata che, poiché non ha alcun oggetto da cui difendersi, corrode il senso di sé. A questo troviamo sostegno nella conclusione a ‘Il Concetto di Ansia’, in cui Kierkegaard definisce il paradosso che, se deve esserci uno scopo per l’ansia, esso può essere trovato solo nell’ansia. Compresa e sperimentata nel modo giusto, l'ansia è una scuola che in noi sradica tutto ciò che è limitato e insignificante, e poi ci porta dovunque vogliamo andare. Il modo per risolvere il problema dell’ansia è di diventare totalmente ansiosi: lasciare che la base dell'ansia divori tutti quegli "scopi-limitati", con cui avevo cercato di rassicurare me stesso; finché, non avendo più attaccamenti a cui attaccarmi, questo mi riporta al nulla. Il curriculum di questa scuola è la possibilità, "la più pesante di ogni categoria". Non importa quali tragedie effettivamente possano accaderci, sono sempre di gran lunga più leggere di tutto ciò che potrebbe accadere. Quando una persona "si diploma alla scuola della possibilità,. .. conosce meglio di quanto un bambino sappia del suo ABC, che non può esigere assolutamente nulla dalla vita e che il terribile, la perdizione, e l’annientamento vivono tutti accanto ad ogni uomo..."[31]. Ciò è un vero e proprio esercizio di consapevolezza: dragando tutte le grandi e piccoli sicurezze che abbiamo piazzato attorno a noi e poi "dimenticato", fino a quando non ci siamo trovati in un sicuro, ma ristretto piccolo mondo. La coscienza di tutto ciò che potrebbe accadere in qualsiasi momento distrugge questo confortevole bozzolo facendoci ricordare, in ogni momento, della nostra mortalità; ed in termini psicoanalitici questo demolisce il nostro inconscio potere sugli attaccamenti o supporti [32]. "Colui che è immerso nella possibilità... è totalmente immerso, ma poi, a sua volta, egli emerge dalla profondità dell’abisso, più libero di tutte le fastidiose e terribili cose nella vita". Una tale persona non teme più il destino, "poiché l'ansia al suo interno ha già modellato il destino ed ha allontanato da lui assolutamente tutto ciò che qualsiasi destino potrebbe allontanare". Di solito, una gran parte della nostra attività mentale è strutturata per la necessità di disporre di rassicuranti vie di fuga, dove fuggire quando la nostra autostima è minacciata. Se perdo una partita a scacchi con un punteggio molto più basso del mio avversario, io sono automaticamente compensato: perché io sono realmente il giocatore migliore, come dimostra la mia classifica. Ciascuno di noi trova il suo proprio modo di razionalizzare le carenze più gravi della sua vita. Fissato in ripetizioni, la rete di queste e di altri automatismi costituisce il mio carattere e, pertanto, la mia mancanza di libertà: tutti i modi in cui io abitualmente rifuggo dall’aprire un incontro verso il mondo. Per il buddhismo come pure per Kierkegaard, dovrei abbandonare di sostenere questi pensieri, che fannno soffrire. Senza queste difese di autostima, morirei per un migliaio di ego-morti – o camminerei sulla lama di un migliaio di spade, per usare la metafora-Zen. Il mio esempio è banale rispetto alla speciale scuola di possibilità che descrive Kierkegaard, ma il processo di destrutturazione dell’ego è lo stesso. Nel linguaggio di Kierkegaard, i nostri pensieri-sostegno, di qualunque tipo, sono i limiti che devono essere sradicati per rivelare l’infinitudine che è la nostra vera natura di base. In un classico passaggio dal testoGenjo-koan succitato, Dogen descrive l’esito di questo processo: Studiare la Via del Buddha è studiare il ‘sé’. Studiare il sé è dimenticare il sé. La dimenticanza del sé deve essere attualizzata tramite una miriade di cose. Quando è attualizzato da una miriade di cose, il tuo corpo-mente, come pure i corpi-mente degli altri, tutto svanisce. Non rimane nessuna traccia di realizzazione, e questa non-traccia continua all'infinito. [33] Meditare è il modo di imparare a "dimenticare" il ‘sé’ lasciando che si venga assorbiti nell’oggetto di meditazione (mantra, visualizzazione, ecc.). Se l’ego-sé è il risultato del tentativo della coscienza di auto-riflettersi, al fine di cogliere se stessa, allora la meditazione è un esercizio di de-riflessione. L'illuminazione o liberazione si verifica proprio nel momento in cui l’abituale riflessività automatizzata della coscienza cessa, il che è sperimentato come un lasciarsi andare, e ricadere giù nel vuoto [34]. All’improvviso la coscienza si ferma, cercando di catturare se stessa, si ferma cercando di realizzarsi. Così divento ‘nulla’, e scopro che sono ‘tutto’ - o, più precisamente, che posso essere qualsiasi cosa. Quando non mi costringo più a diventare ‘reale’ attraverso le cose, mi trovo attualizzato da esse. Inutile dire che non è possibile salvare il corpo dalla vecchiaia e dalla degenerazione; allora come può questa realizzazione risolvere davvero il nostro problema? Lo risolve, perché, contrariamente a quanto afferma Becker, ciò che noi cerchiamo realmente non è l'immortalità. L’analisi buddhista della "vacuità" dell’ego-sé implica che la morte non è in realtà la nostra paura più profonda e il desiderio di diventare immortali non è la nostra speranza più profonda, perché anche questi sono sintomi che rappresentano qualcos’altro. E che cosa simboleggiano? - Il desiderio del ‘senso di sé’ di diventare un sé ‘reale’, di trasformare la sua angosciosa ‘vuotezza di essere’ in un ‘vero-e-proprio-essere’. Perfino il terrore della morte, con tutta la sua angoscia, reprime qualcosa, perché è preferibile quel terrore che non affrontare la mia ‘mancanza di essere’ ora, perché la paura della morte ci permette almeno di proiettare il problema nel futuro. In tal modo, noi evitiamo di affrontare ‘ciò che siamo (o non siamo)’ in questo momento. Un modo di approccio a questo è di riflettere se l’immortalità - l'effettività di un’esistenza che non finisca mai - potrebbe veramente soddisfarci. Quanto più possiamo temere la morte, una vita senza fine è realmente la soluzione? Molti sospettano che, come "l'Immortale" della storia di Borges che ha lo stesso titolo, la nostra esistenza prima o poi - probabilmente prima – diventerebbe un peso, se non si riesce a scoprire un significato valido per collocarla in una cosmologia in cui si possa avere sia casa che ruolo. Poiché l’interminabile successione di secoli mantenuti minerebbe tutti i miei inutili progetti di realtà, quanta angoscia si accumulerebbe! La mera immortalità diventerebbe insopportabile non appena io non avessi più da desiderarla. Come con altri fatti simbolici (in quanto repressi), la vittoria non potrebbe soddisfarmi, se realmente è un'altra cosa ciò che io voglio. Ciò implica che la nostra fame ‘ultima’ è quella spirituale o "ontologica" (Ken Wilber): ‘la quale può essere soddisfatta soltanto diventando reale, che nei nondualistici termini del Mahāyāna (e Advaita Vedānta) significa ‘real-izzare’ che la mia mente è effettivamente nonduale come tutto l'universo, non è nient'altro che l'universo, che è possibile se il nucleo della mia ‘coscienza-ego’ è "vuoto", cioè privo di una base. Questo riduce la nostra lotta per l'immortalità a un sintomo, il più comune modo simbolico che questa non-riconosciuta sete spirituale si affacci sulla nostra coscienza e la morte diventi un "simbolo complesso" (Charles Wahl), rappresentante il temuto fallimento di questo pro-getto di realtà, ma anche un ripostiglio per tutti i brutti, negativi, tragici aspetti dell’esistenza che non siamo in grado di superare e così lo progettiamo come l'Ombra della Vita, in generale. Perché noi abbiamo bisogno di proiettarci nel futuro, se si sente che qualcosa ci manca adesso? La ovvia risposta è che abbiamo paura di perdere in seguito qualcosa che abbiamo adesso, ma molti non ritengono persuasivo questo fatto, replicando che se la vita di fatto non è qualcosa che abbiamo, ma qualcosa che siamo, allora non c'è niente da temere perché non verremo mai a sapere (che cosa) ci manca. Epicuro stoicamente sostiene che "il più orribile di tutti i mali, la morte, non ha nulla a che fare con noi, perché quando noi esistiamo la morte non è presente, ma quando la morte è presente, allora noi non ci siamo". Otto Fenichel seguì l’idea di Freud nel dubitare se esista una cosa tale come la normale paura della morte: l'idea della mia morte è soggettivamente inconcepibile; pertanto essa deve coprire altre idee inconscie. La visione buddhista è che se adesso non c’è nulla che manchi, allora l’immortalità perde la sua compulsione come mezzo per risolvere una carenza, e sia che si sopravviva o no, la morte fisica in una qualche forma diventa, se non irrilevante, almeno non il punto principale. Parmenide disse che il reale è senza tempo; noi possiamo aggiungere che è senza tempo perché non manca di nulla. Finché bramo l’immortalità sto ancora cercando di scappare dal mio senso-ombra che vi sia qualcosa di sbagliato in me ora. Noi siamo portati a considerare il tempo in questo modo. Per fare un punto buddhista in termini psicoanalitici, la nostra scelta è tra una metafisica repressa che si nasconde come comune senso oggettivo, sistema temporale, in cui normalmente poniamo noi stessi all'interno, o un approccio più esplicito che spinga la repressione nella coscienza e ci permetta di vedere come noi stessi abbiamo costruito lo schema-tempo che ora ci costringe. Come hanno già osservato molti filosofi, "il tempo è generato dalla irrequietezza della mente, il suo attirare il futuro, i suoi progetti, e il suo rifiuto dello 'stato presente'."[35] Pascal riportò il motivo per cui noi non siamo mai soddisfatti del presente: "perché il presente è generalmente doloroso per noi". Brown chiama il tempo "uno schema per l'espiazione della colpa",[36] che in termini buddhisti diventa: ‘il tempo è creato dal nostro futile tentativo di riempire il nostro senso di mancanza’. L’intenzionalità significa che noi siamo più interessati con i remoti risultati futuri delle nostre azioni che non con le loro qualità o i loro effetti immediati sul nostro ambiente. L'uomo "ragionevole" cerca sempre di garantire una spuria e illusoria immortalità per i suoi atti, spingendo il suo interesse per essi avanti nel tempo (John Maynard Keynes)[37]. Se perfino la nostra "ragionevole" preoccupazione per il futuro è un riflesso del terrore della morte (e terrore di non-essere), non c’è da meravigliarsi se siamo così ossessivamente preoccupati. Concludo col considerare brevemente le implicazioni di questo, con ‘Essere e Tempo’ di Heidegger. Non può essere una coincidenza che Essere e Tempo presenti essenzialmente le stesse relazioni tra la morte, il sé, il senso di colpa, e il tempo, che abbiamo qui delineato - ma totalmente invertite. Heidegger offre una immagine speculare della visione psicoanalitica appena discussa, e da questa, ovviamente, egli ne trae conclusioni opposte. Forse la metafora-chiave in ‘Essere e Tempo’ è la necessità di "spingersi tutti insieme" fuori dalla dispersiva sconnessione di tutti i giorni, dall’esistenza non-autentica, in cui rischiamo di venir distratti da ciò che offre il momento. Ma questa immagine deve essere integrata da un’altra: la persona così guidata dal suo progetto di vita che non è mai dove è, perché è sempre presa ad andare da qualche altra parte - di solito artigliando la sua strada fino alla scalata del successo. Oggi, almeno, queste persone ci sono così familiari come persone disperse che Heidegger trova inautentiche, e come solu-zione al problema della vita, questo è proprio unilaterale. È qui che Heidegger, anche lui, ha bisogno di essere integrato, se non corretto, da un approccio psicoanalitico di tipo buddhista. Abbiamo visto che la repressione può anche apparire come compulsivo comportamento delle persone che vogliono diventare ricche o famose, o addirittura "eroi storici" della parola - pardon, del pensiero. Come può essere "autentica" questa "risolutezza", se essa coinvolge un tentativo di sfuggire la morte attraverso un inconscio progetto simbolico di immortalità? Abbiamo visto che, pur preoccupandocene, il futuro può essere un riflesso del terrore della morte, un tentativo inconscio, e perciò compulsivo, di trascendere simbolicamente la morte. Il che è proprio la trappola da cui lo stesso Heidegger non riesce a salvaguardarsi, ed in cui egli stesso potrebbe essere caduto. Becker e altri hanno sostenuto in maniera convincente che Freud non analizzò mai la sua propria paura della morte, e per questa ragione la psicoanalisi divenne per lui il suo "progetto di immortalità" privato, il che è uno dei motivi per cui egli reagì così duramente contro ogni tentativo di minaccia al suo patriarcato. Non vi sembra che vi sia una bravata filosofica rilevabile nella ricerca di risolutezza in Heidegger e nel suo desiderio di contendere "violentemente" la nostra tendenza a lasciare "coperto" e oscurato il significato di ‘Essere’? Uno sente che egli sperava almeno di riempire il suo stesso senso di mancanza diventando uno "storico-pensatore-mondano" che infine rivela la vera natura dell’Essere ad una gratificata posterità[38]. Per Heidegger, una risolutezza anticipata coltiva la morte come una possibilità che non deve essere dimenticata. Tale risolutezza, attivata dalla richiesta della coscienza che mi rivela la "mancanza" di una mia ‘concreta-base’, mi spinge fuori insieme alla mia dispersività per far accadere le possibilità e illumina il mio essere in forma di attenzione. Tutti questi problemi alla fine riportano alla natura del tempo (la condizione dell’attenzione), che si rivela essere l'Essere che Heidegger cerca, o il più vicino ad esso cui si possa arrivare: in ‘Essere e Tempo’, "essere" significa apparire secondo le temporali "estasi" di passato, presente e soprattutto futuro. Heidegger quindi critica Kant e ‘Il Problema della Metafisica’ per il suo più o meno rifiutare la stessa realizzazione, nella prima edizione della ‘Critica della Ragion Pura’, in cui la temporalità è la fonte non solo della pura intuizione, ma anche delle categorie della comprensione. Però noi possiamo fare una critica simile ad Heidegger, perché lui stesso non si chiede mai che cos’è che genera il tempo. Ebbene, uno deve fermarsi in qualche parte, ma l'ironia è che la stessa analisi di Heidegger fornisce la risposta: semplicemente essa deve essere letta a ritroso, al fine di realizzare che il tempo è "uno schema per l'espiazione della colpa" (Brown). Ne consegue che i due possibili modi di Heidegger di sperimentare il tempo, cioè autentico e non-autentico, esauriscono davvero le possibilità. Con la vita ‘non-autentica’, distolti dalle distrazioni degli affari della nostra vita quotidiana, sperimentiamo e comprendiamo il tempo come una interminabile sequenza di "adesso" che consecutivamente sorgono e passano via. Questi "adesso" vengono ad essere "livellati" ogni volta che si recidono le proprie intrinseche relazioni con gli altri, così che esse semplicemente si susseguono le une con le altre. La nostra attenzione è catturata, ora da questo, ora da quello, poiché in questa dispersività non vi è nulla che tiene insieme questi "adesso" - il che significa che non vi è nulla che possa tenere insieme la nostra vita. Ma questa è vita non-autentica, perché un tale livellamento è causato dalla repressione - in termini di Heidegger, è "una fuga che ci ricopre", "una fuga davanti alla morte". [39] La temporalità ‘autentica’, che "si manifesta principalmente in termini di futuro", è rivelata solo nella risolutezza. La risolutezza spinge il presente fuori dalla sua dispersività sugli oggetti di interesse immediato e lo mantiene saldamente sul futuro e sul passato, e questo ci dà l’autentico presente, che Heidegger chiama Augenblick, "momento". In questo modo Heidegger concepisce il nostro irriducibile e probabile "momento-adesso", come qualcosa che può essere inteso solo in termini di qualcos’altro ancor più fondamentale: il "estendersi in avanti" della temporalità orientata verso il futuro. "Questo 'adesso' non è in possesso del 'non-ancora-adesso', ma il Presente sorge dal futuro, nella primordiale unità ‘estatica’ della temporalizzazione della temporalità". [40] Ma, se vi è un "adesso", cos’è che è gravido di "non-ancora-adesso"? Il ‘nunc stans’, cioè "ciò che c’è ora" della filosofia medievale, è stato tradizionalmente offerto come un’alternativa, ma Heidegger casualmente respinge questa possibilità in una nota a piè di pagina: l'eternità concepita come una sorta di ‘nunc stans’ è stata derivata dall’ordinario (cioè, inautentico) modo di comprendere il tempo e come tale non ha bisogno di essere discussa in dettaglio [41]. Per lui, ciò preclude la possibilità di un terzo modo di concepire il tempo: la nostra scelta è tra l’esperienza non-autentica e "volgare" del presente, come una serie uniforme di serie di livellati ‘adesso’, e un’autentica temporalità che spinge insieme nel futuro noi e quei distinti "adesso" tramite una risoluta proiezione. Con questo, Heidegger credeva che egli stesso avesse risolutamente contrastato la natura autentica del tempo dai veli di una comune "volgare" interpretazione. Ma può la sua autentica temporalità superare un'altra versione del volgare velo? Il problema, con entrambe le alternative di Heidegger, è che entrambe si preoccupano del futuro perché entrambe, in modi diversi, sono reazioni al possibile morire; quindi entrambe sono modi di allontanarsi dal presente. L’esistenza non-autentica disseminata in una serie di ‘adesso’ non collegati fra di essi è "una fuga davanti alla morte"; la vita autentica, distaccata dalla dispersività di un’inevitabile possibilità di morire, è maggiormente consapevole della sua incombente morte, ma è sempre guidata da essa. Ciò significa che nemmeno l’esperienza del presente è per ciò in se stessa, ma solo attraverso l'ombra che l'ineluttabile futuro getta su di essa. Quello che il presente potrebbe essere senza quell’ombra, in ‘Essere e Tempo’ non è considerato. Per questo, dobbiamo tornare al buddhismo. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Appendice
MORTE -> SE’ -> ATTENZIONE -> TEMPO Becker: Malati di mente: il terrore della morte-> danni alla struttura ego-> paralisi, parziale (nevrosi) o totale (psicosi) -> disintegrazione dello schema del tempo oggettivo. Normale: negazione della morte -> repressione della paura con una "sana" ego-struttura -> transfert, progetti simbolici di immortalità -> necessità dello schema del tempo oggettivo per espiare la colpa. Heidegger:[42] Inautenticità: fuga dalla morte-> dispersività del sé-> distrazione dagli affari del quotidiano -> tempo "volgare" come una serie di momenti livellati che passano. Autenticità: consapevolezza della morte-> spingere il sé all'accettazione della colpa-> attenzione autentica: risolutezza anticipata -> attenzione radicata nell’autentica temporalità; passato e presente uniti con riguardo al futuro. buddhismo: Illusorio: intuizione di impermanenza, inconscia paura di non-essere-> senso di assenza di una base manifestato come paura della morte, ansia, e così via-> vari attaccamenti, progetti per rendere reale l’ego-sé -> dualismo soggetto-oggetto: senso di sé costretto a realizzare se stesso proiettato nel mondo spaziotemporale. buddhismo: Illuminato: La Grande Morte (dell’Ego): il "lasciar andare", evaporazione del senso di sé e collasso nella Vacuità-> radicarsi nell’impermanenza: "fin dall'inizio, nulla è mai mancato" -> libertà: nessuna necessità soggettiva di realizzare il proprio sé, quindi, capacità di rispondere adeguatamente ad ogni situazione -> adesso (essere-tempo di Dogen) al di fuori del tempo; nondualità del sé e del mondo. Note 1. Tra le opere che conosco, ‘The Atman Project’ di Ken Wilber (Quest, Wheaten, Illinois: 1980) e ‘Up from Eden’ (Shambhala, Boulder, Colorado:1981) sono le più interessanti. 2. Per le origini del movimento "analitico-esistenziale", tra cui una selezione di influenti documenti, vedere Rollo May et al., Eds., Existence (Basic Books, New York: 1958). 3. Ernest Becker, ‘The Denial of Death’ (New York: Free Press, 1973) e ‘Escape from Evil’ (New York: Free Press, 1975) (la seconda fu incompiuta alla sua morte); Irvin D. Yalom, ‘Existential Psychoterapy’ (New York: Basic Books, 1980); Norman O. Brown, ‘Life against Death: The Psychoanalytic Meaning of History’ (New York: Vintage, 1961). 4. "Noi ammiriamo più il coraggio di affrontare la morte; noi diamo a questo il più alto valore e la più costante adorazione; esso ci spinge profondamente nei nostri cuori perché abbiamo dubbi su come noi stessi saremmo coraggiosi" (Denial of Death, pp. 11-12 ). Becker sottolinea che la guerra è un rituale per la nascita degli eroi (Escape from Evil, pag 109), ma oggi questo ruolo lo svolge lo sport: esso è diventato il principale modo in cui produciamo e ammiriamo gli eroi". 5. Becker, Denial of Death, pag 96. 6. Yalom, Psicoterapia esistenziale, pag 41. Yalom dedica metà del suo libro a discuterne. 7. Becker, Denial of Death, pag 26. 8. Ibid., Pp. 27, 29, 60, 66; Becker, Denial of Death, pag 163; Pascal Pensees no. 414. 9. Becker, Denial of Death, pag 55. 10. Ibidem, pag. 49. 11. Philippe Aries, The Hour of Our Death, L'ora della nostra morte (Harmondsworth: Penguin, 1981), pag 606. 12. Un altro esempio di questo fenomeno è il denaro, ma purtroppo non c'è spazio qui per entrare nella brillante analisi di Brown e Becker. V. Brown, La vita contro la morte, cap. 15 ( "Filthy Lucre"), e Becker, Fuga dal Male, cap. 6 ("Money: The New Universal Immortality Ideology"). 13. Yalom, Existential Psychoterapy, pag 222. Una tale realizzazione - che non solo reprime l'ego, ma reprime il fatto che esso reprime - fu un punto di svolta nella carriera di Freud, deviando le sue indagini dalla natura del represso alla natura della repressione. 14. Per un'analisi del dualismo soggetto-oggetto, vedasi David Loy, Nonduality: A Study in Comparative Philosofy (New Haven: Yale University Press, 1988). 15. Becker, Escape from Evil, pag 158. 16. Ibid., Pp. 28, 32. Questa è la ragione per gli dei e per i loro omologhi, successivamente visibili, i re. Essi esistevano per i debiti da pagare, per ricevere periodicamente i sacrifici che espiavano la colpa e mantenevano l’ordine dell'universo. 17. Sigmund Freud, An Autobiographical Study (London: Hogarth, 1946), citato in Becker, Denial of Death, pag 147; Denial of Death, pp. 129, 146-152. 18. Becker, Escape from Evil, pp. 132, 166. Non è difficile pensare ad esempi nella politica contemporanea americana. 19. Becker, Denial of Death, pag 158. 20. Ibidem, pag. 55. 21. Brown, Life against Death, pag 113. 22. Citato in Robert Jay Lifton, The Broken Connection: On Death and the Continuity of Life (New York: Basic Books, 1983), pag 223. A pag 227, Lifton cita Harold Searles, che fu colpito dal fatto che il "fattore universale, molto mondano, della mortalità umana" sembra essere una delle principali fonti di ansietà in "questi processi psicopatologici apertamente più esotici": le persone "diventano schizofreniche... e lo restano a lungo..., per evitare di affrontare. .. il fatto che la vita è finita". Come dice William Burroughs, un paranoico è un uomo che conosce poco 'di ciò che sta per diventare’. 23. Becker, Denial of Death, pp. 181-182 (citando Roy D. Waldman), p. 66 (il corsivo è mio). 24. Brown, Life against Death, pag 270. 25. Aries, The Hour of Our Death, pag 333. 26. Udāna 6; 7:1-3 (il corsivo all’inizio è mio). 27. Norman Waddell, Ed. e trad., The Unborn: The Life and Teaching of Zen Master Bankei (San Francisco: North Point Press, 1984), pp. 47, 52, 55. 28. Lifton, The Broken Connection, pag 69. 29. Vajracchedika-Prajñā-Pāramitā Sutra ("Diamond Sutra"), trad. Charles Luk (Hong Kong: Buddhist Book distributor, n.d.), p. 20 (parentesi di Luk). 30. Moon in a Dewdrop: Writings of Zen Master Dogen, ed. Tanahashi Kazuaki (San Francisco: North Point Press, 1985), pp. 74-75, 93-94, 70-71. 31. Se non diversamente specificato, tutti i riferimenti in questa sezione da Soren Kierkegaard, ‘The Concept of Dread, trad. Waiter Lowrie (Princeton: Princeton University Press, 1957), pp. 155-162. 32. Becker, Denial of Death, pag 89. 33. Moon in a Dewdrop, pag 70. Ramana Maharshi rese lo stesso punto: "Verrà un tempo in cui dovrete dimenticare tutto ciò che avete imparato." 34. "Gli uomini hanno paura di dimenticare ciò che hanno imparato nella loro mente, temendo di cadere in un Vuoto, con nulla che fermi la loro caduta. Essi non sanno che il Vuoto non è realmente vuoto, ma è il regno del vero Dharma". (The Zen Teaching of Huang Po, trad. di John Blofeld (Londra: Buddhist Society, 1958), p. 41. 35. Hannah Arendt, The Life of the Mind (New York: Harcourt Brace Jovanovich, 1978), vol. 1, pag 45. 36. Brown, Life against Death, pag 277. 37. John Maynard Keynes, Essays in Persuasion (New York: Harcourt Brace, 1932), pag 370. 38. Successivamente, è ovvio, dopo la sua "svolta" in Kehre, l’attitudine di Heidegger cambiò radicalmente. 39. Martin Heidegger, ‘Essere e Tempo’, trad. John Macquarrie e Edward Robinson (New York: Harper e Row, 1962), pp. 474, 477. 40. Ibid., Pp, 476, 479. Cf. J.L. Mehta, The Philosophy of Martin Heidegger (Varanasi, India: Benares Hindu University Press, 1967), pag 281. 41. Heidegger, ‘Essere e Tempo’, pp. 499, nota XIII. 42. Questo schema sembra mettere Heidegger sullo stesso piano degli altri due, ma la sua concezione è opposta, perché per lui le frecce simboleggiano un processo diverso. Per Becker e il buddhismo, le frecce si riferiscono alla costruzione mentale: per esempio, la necessità psicoanalitica di reprimere il terrore della morte porta alla creazione di progetti di immortalità simbolica, e la visione buddhista del ‘sé’ come senso di mancanza, porta a vari progetti per rendere reali noi stessi. Ma, per Heidegger, attenzione e risolutezza si basano sulla temporalità autentica, orientata verso il futuro. Ciò significa che, con Becker e il buddhismo, la nostra condizione mentale crea la sua temporalità corrispondente, ma per Heidegger il senso-di-sé è fondato sulla temporalità. ***************************************************************************************** (Finito di tradurre nel mese di Settembre 2008, per conto del Centro Nirvana, senza scopo di lucro) | |