Articoli di Dharma

 

La pratica dell’Illuminazione Silenziosa…
(Mozhao) di GuoGu
http://www.bcbsdharma.org/insight-journal/ # IJjump
Trad. Di Aliberth
 


  

Tecnicamente parlando, l’Illuminazione Silenziosa non è un metodo di pratica. In realtà, essa è lo stato di risveglio, che è la nostra vera natura, la vera libertà che appartiene a ognuno di noi. E' solamente a causa del nostro abituale attaccamento al pensiero dualistico ed ai sentimenti auto-referenziali, che questo intrinseco stato di risveglio si cela, temporaneamente. La nostra vera natura non ha nulla a che fare con il guadagno o la perdita, l’avere o il non avere. L’Illuminazione Silenziosa è solo una metafora per questa diretta realizzazione. Nonostante il fatto che tutti noi siamo già intrinsecamente risvegliati, la pratica è ancora necessaria. Perché? La pratica si occupa di rimuovere le oscurazioni che nascondono la nostra vera natura. In questo senso, l’Illuminazione Silenziosa caratterizza questa pratica dimensione. Tuttavia, la pratica deve essere in conformità con la corretta visione che a noi non manca nulla, che siamo originariamente già liberi.

L’Illuminazione Silenziosa come metafora esce fuori dai sistemi molto tradizionali di meditazione: ‘shamatha e vipasyana’, ovvero, calma e visione profonda (in Pāli, shamatha e vipassanā). Tutte le meditazioni buddhiste possono essere riassunte in queste due classificazioni. Tradizionalmente, esse vengono praticate in sequenza, o in tandem, per rimuovere le oscurazioni mentali. Cioè, in primis, attraverso la calma e la concentrazione, con i cinque metodi di fermare la mente, si stabilizza la mente. Quindi, si cerca di ottenere una visione profonda (insight) dentro la natura della mente tramite i quattro fondamenti della consapevolezza. Non si può avere l’insight, la comprensione della natura della realtà, la natura di chi siete, se la vostra mente è dispersa. E'come una candela – solo una fiamma costante potrà illuminare una stanza in modo chiaro. Se la fiamma è tremolante, tutto ciò che si vede è sfocato o poco chiaro come minimo. Così, l’Illuminazione Silenziosa, come pratica, può essere inteso in termini di Shamatha e Vipasyana, ovvero,mente calma e intuizione profonda.

Tuttavia, non è proprio come il tradizionale senso di ‘shamatha e vipasyana’, che sono praticate in sequenza. La tradizione Chan sostiene la pratica simultanea di tutte e due. Questa è la difficoltà; ed è per questo chel’Illuminazione Silenziosa è una pratica assai avanzata. Tradizionalmente, shamatha o la calma, porta al Samadhi (Pāli, jhāna;Skt.dhyāna) ovvero l’assorbimento meditativo; vipasyana o insight, conduce alla Prajna o Saggezza. Nel Chan queste idee sono allargate. Nel Sutra della Piattaforma, un testo attribuito al sesto maestro del lignaggio della scuola Chan, Huineng (638-713) dice:

“Calmare la Mente è l'essenza della saggezza. E la saggezza è la funzione naturale del calmare la mente [cioè, Prajna e Samadhi]. Quando c’è la prajna, ivi c’è il samadhi.

Quando c’è il samadhi, ivi c’è la prajna. Come è possibile che samadhi e prajna siano equivalenti? È come la luce della lampada. Quando c’è la lampada, c'è la luce. Quando non c'è la lampada, c'è l’oscurità. La lampada è l'essenza della luce. La luce è la funzione naturale della lampada. Anche se i loro nomi sono diversi, in sostanza, esse sono fondamentalmente identiche. L'insegnamento che spiega samadhi e prajna è proprio questo.

Ciò significa che la vera natura del samadhi, o calma, è davvero la stessa natura della vacuità. Nella mia analogia della stanza, questo si riferisce alla intrinseca spaziosità del vuoto. Originariamente, non vi sono mobili, né oggetti, ma solamente spazio aperto. La stanza è spaziosa perché è senza mobili? No. I mobili rivelano la natura vuota della stanza. Questa analogia è come quella del Sutra della piattaforma,sulla luce della lampada, la cui funzione è quella di illuminare.

Le inseparabili essenza e funzione della mente si applicano alla pratica. La nostra mente ha due qualità interconnesse: è vuota e consapevole. La mente non ha forme fisse. Nonostante questo, - in realtà proprio a causa del fatto di essere libera dalle forme fisse - la mente è in grado di imparare, di essere consapevole, e questa sua consapevolezza è sempre presente. Anche quando si hanno pensieri vaganti, anche quando si sogna, la consapevolezza è lì. E' solo che la maggior parte del tempo noi siamo intrappolati nei contenuti della mente. Però, è difficile essere consapevoli di questo, e così la mente deve essere calmata per riconoscere questa consapevolezza. Una volta raffinata, essa potrà essere abbastanza chiara, luminosa e radiante.

Quindi, com’è fatta la pratica della Illuminazione Silenziosa? La pratica viene effettuata in conformità con questa comprensione, come corretta visione. Nella meditazione seduta, il praticante non cerca di ottenere o di sbarazzarsi di qualcosa, non c'è bisogno di rimescolare i mobili in giro per la stanza. Basta essere consci della naturalezza di ogni momento consapevole. Tuttavia, nell’intraprendere questa pratica, scopriamo di solito che noi abbiamo bisogno di attaccarci a qualcosa, a causa del nostro stesso condizionamento. Quindi, sentiamo il bisogno di qualcosa di più concreto che non il solo essere vigili, non permettendo alla mente di stabilizzarsi o fissarsi su una unica cosa. In caso contrario, questo cercare di essere vigili può diventare un'idea astratta, o si può iniziare a prendere la quiete o la chiarezza come oggetto di meditazione. Molto semplicemente: basta essere nel flusso di questo mero atto di sedere, la concreta 'esperienza della seduta’.

Voi non state cercando di contemplare il respiro, non state cercando di meditare su un qualcosa, e il vostro corpo e mente non sono oggetti di meditazione. Voi siete soli con il vostro corpo, nel vostro corpo seduto. Corpo e mente sono un tutt'uno. Semplificate e diminuite tutte le complicanze di questo atto unico di ‘essere solo seduti’. Tuttavia, se siete troppo assorbiti o dispersi, e siete non più consapevoli del fatto di essere solo seduti, allora riportatevi a questo atto concreto di ‘solo sedersi’. Ora, come si fa a sapere che siete seduti? Voi avete la vostra postura seduta, la vostra sensazione di essere qui, la presenza del corpo. Basta tranquillamente essere con la semplicità di essere qui, seduti e basta.

Naturalmente, quando la mente si calma e la concentrazione si sviluppa, essa genererà il samadhi. Ciò è dovuto ad uno sbilanciamento di concentrazione sulla consapevolezza naturale. La vostra consapevolezza naturale diventerà sopraffatta dall’aumento di moto di una mente concentrata. In altre parole, troppa ‘shamatha’ - porta ad uno squilibrio nella vipasyana. A questo punto, a seconda della forza di shamatha, si potrebbero sperimentare diversi livelli di samadhi o jhāna. Quindi, le esperienze presentate nel nostro articolo, "Tu sei già illuminato", pubblicato nel numero di inverno 2012, della rivista ‘Buddhadharma’, descrivono questi stati. Non mi dilungherò su questi. Basti dire che, come ho detto in questo articolo, questi livelli o stadi sono in realtà il risultato di una pratica sbilanciata. Non è che queste esperienze siano buone o cattive. E' solo che questo è ciò che accade quando c'è uno squilibrio di ‘shamatha e vipasyana’. In altre parole, questo è ciò che accade quando uno non le sta praticando simultaneamente.

Un altro avvertimento è di non prendere il silenzio, la quiete, o anche la chiarezza, come oggetto di meditazione. Questa è una forma sottile di fissazione in cui i praticanti possono facilmente scivolare, e di solito ciò succede ai praticanti avanzati. Nella migliore delle ipotesiuno entra nel samadhi; altrimenti, uno semplicemente dimora in quello che viene chiamato “la caverna fantasma nel lato scuro della montagna”. Ciò è come una roccia immersa in acqua fredda, non succede nulla, anche dopo un centinaio di anni! Questo significa che vessazioni e illusioni rimangono –infatti, di solito ci sono ancora pensieri vaganti -  è solo che siamo più tranquilli e in pace. Questo non è il Risveglio. E’ semplicemente che “ci sono più mobili nella stanza”, ma non è la stanza stessa. La nostra mente è abituata ad attaccarsi a qualcosa; essa facilmente prende un'esperienza e la rende oggettiva. Non appena lo facciamo, abbiamo reso una cosa morta l’Illuminazione Silenziosa. I praticanti a cui succede questo hanno veramente bisogno dell' aiuto di un abile insegnante, altrimenti possono ritenersi auto-soddisfatti e pensare che non hanno più nulla dafare. Quando incontrano grossi ostacoli karmici o vessazioni, la loro pratica e la loro cosiddetta presunta "realizzazione" si sgretolerà, lasciandoli in una grande incertezza sul‘buddhadharma’, oppure in uno stato di auto-denigrazione.

La vera pratica di illuminazione Silenziosa non ha stadi. Il praticante siede in un calmo risveglio momento per momento - nella realtà del qui-ed-ora. Questo è lo stato di mente più naturale, il più normale, però senza i pensieri divaganti e le varie illusioni. Se non vagate da qualche parte, la mente è nel suo stato naturale e non ha un centro. La mente è pura. Le discriminazioni autoreferenziali e le afflizioni emotive scivolano via di loro spontanea volontà. La chiave è chiara, è il non attaccamento. I pensieri vaganti e dispersivi sorgono a causa degli attaccamenti e dalle tendenze abituali. Quando il praticante è veramente libero dall’attaccamento, non ci sono più tendenze vaganti e abituali. Questa è la pratica dell’Illuminazione Silenziosa. All’inizio può essere difficile,quindi il praticante dovrà acquisire come base un certo livello di attenzione e chiarezza, prima di utilizzare questo metodo. Tuttavia, poiché il praticante non fabbricherà e non costruirà più una qualche cosa, ma coltiverà una mente vigile e aperta, la pratica col tempo diventerà naturale.

Vi sono ‘stadi’ in questa genuina pratica di illuminazione Silenziosa? No. Proprio come non ci sono livelli alla spaziosità di questa stanza, in relazione ai mobili; e non ci sono ‘stadi’, per così dire, quando uno specchio riflette le immagini. Essa è  in accordo con la più naturale e pura mente liberata – la mente risvegliata. E allora, siete illuminati? No. Ma la differenza è come quella tra una finestra trasparente ed una parete priva completamente di finestre. Una finestra trasparente permette di vedere chiaramente all'esterno, ma lì qualcosa c’è ancora.... Con la personale 'esperienza del risveglio’, la finestra non c’è più. Fino ad allora, è utile la pratica? Sì. Voi avrete meno probabilità di essere spinti e attirati dalle vostre vessazioni. Anzi, voi potrete vedere più chiaramente il meccanismo dell’attaccamento. In questo corso di pratica, potranno esservi molte esperienze; ad alcuni esso sembrerà liberatorio e speciale, ma non attaccatevi a questi effetti. Se siete interessati alle diverse esperienze o indicazioni che possono sorgere nella pratica, provate a leggere il mio precedente articolo "Voi siete già illuminati!".

 

Riferimenti testuali di ‘Illuminazione Silenziosa’

La pratica Chan dell’Illuminazione Silenziosa’viene chiamata il "Sentiero improvviso”. Perché ‘improvviso’? Perché il risveglio non è acquisito dall'esterno. Cioè, questo nostro risveglio innato non è il "risultato" della pratica. Esso non è prodotto e non può essere perso. E'proprio come la spaziosità della camera che accoglie i mobili e lo specchio, il quale riflette le immagini, ed è per questo che è ‘improvviso’. ‘Improvviso’, non ha nulla a che fare con il tempo. Non è che si comincia a praticare il Chan e, forse in poche ore o pochi giorni, si diventa illuminati. Esso è improvviso, perché non c'è spazio in esso; è la stessa base del vostro essere; è il sentiero su cui camminate; ed è anche il frutto della vostra realizzazione. Il sentiero, il frutto, esistono proprio a causa della base stessa del vostro essere. La vostra mente è intrinsecamente già risvegliata. Ecco perché è improvvisa. Per quanto riguarda la efficace pratica del‘vedere attraverso gli oscuramenti, questa richiede molto più tempo!

C'è una base scritturale per l’Illuminazione Silenziosa ed il Sentiero Improvviso nel Canone buddhista antico (cioè il PāliNikaya e il Sanscrito Agama)? Sì, in diversi posti. Essa appare anche nel Vinaya - storie di come arrivarono le regole monastiche. Qui, vorrei sottolineare l'unità delle diverse tradizioni buddhiste, perché tra i praticanti di una data tradizione del Buddhismo c'è una tendenza a voler giudicare altre tradizioni basate sulla loro supposta comprensione limitata. Ad esempio, uno può pensare che per legittimare un particolare insegnamento, esso deve trovarsi negli "antichiNikaya". Ma queste persone sanno ben poco del fatto che l’Antico Canone buddhista può essere concretamente datato solo al quinto secolo d.C. Infatti, tutte le Scritture, incluse quelle del Mahāyāna, furono cominciate ad essere messe per iscritto non prima del primo secolo a.C. In altre parole, gli aggettivi cosiddetti "antico" e "moderno" furono aggiunti alle Scritture più o meno nello stesso periodo.

Dal periodo avanti-Cristo fino al quinto-sesto secolo in India, ci furono molti termini usati per riferirsi al Buddhadharma, come bodhisattvayāna, tathāgatayāna, agrayāna, edekayāna, ecc. (Walser, 2009, 219). Nei secoli, ci sono state molte interpretazioni del Buddhadharma. Alcune di queste tradizioni del Buddhismo antico propose diversi insegnamenti circa la natura di Buddha, il ‘continuum-mentale’,l'esistenza di un sé, e l'esperienza del non-sé. Alcuni di questi insegnamenti possono essere visti come antecedenti al Buddhismo Mahayana. Dopo la dipartita del Buddha si svilupparono diciotto diverse scuole all'interno del buddhismo. Anche il Theravada, che si fa risalire ai Vibhajjavādins, è solo una di queste scuole. Essa fu senza alcun dubbio la tradizione più autorevole dopo la morte del Buddha. Ci sono stati periodi in cui i diversi punti di vista delle scuole dominarono l'interpretazione dell'insegnamento del Buddha. Ci sono stati insegnamenti frammentati da parte di molte di queste scuole, i Sarvàstivàdin, iMahāsāmghikas, ed i Vāstīputrīyas. E'solo un incidente storico che il Canone buddhista Theradavin sopravviva ancora oggi.

Al tempo della nascita delle scritture Mahāyāna nell'antica India, i membri del Sangha che erano in sintonia con questi insegnamenti seguirono il loro interesse, pur restando all'interno delle pre-esistenti scuole di buddhismo e pur continuando a vivere accanto a monaci e monache che non condividevano i loro interessi. Molti dei cosiddetti fondatori del Mahāyāna, come Nagarjuna e i due fratelli Asanga e Vasubandhu, furono ordinati rispettivamente nelle scuole Mahāsāmghika e Sarvastivada. Inoltre, i primitivi monaci Cinesi pellegrini che avevano viaggiato e vissuto in India e in Asia meridionale tra il quarto e l'ottavo secolo d.C. riferirono che di fatto c'erano solo differenti inclinazioni e preferenze personali all'interno dei Sangha buddhisti -alcuni monaci gravitavano su un ‘corpus’ di scritture, mentre altri gravitavano su un altro -pur vivendo sotto lo stesso tetto.

Il termine Mahāyāna non faceva riferimento ad un unico insieme di dottrine, pratiche, o proposizioni in India. La polarità  Hinayana-Mahayanafu uno sviluppo successivo, oltre all’effetto di forme Cinesi e Tibetane di buddhismo. Questo, perché essi erano stati influenzati da certe scritture Mahāyāna sviluppate successivamente, che mettevano in ridicolo le nozioni dell’Hinayana. Poiché, come detto in precedenza, lo stesso buddhismo Indiano ne fu interessato, questo divario tra Hinayana e Mahayana come un fenomeno sociale non si sviluppò mai. Se esaminiamo le primitive scritture Mahāyāna, anche se il focus è sull’ideale del bodhisattva, (l'aspirazione a salvare tutti gli esseri e ottenere la buddhità), le effettive pratiche in esso promosse erano in realtà le stesse di quelle delle antiche Scritture. Anche nelle successive scritture del Mahāyāna Indiano, ci sono prove ampie che la nozione dell’Hinayana rimane un prescrittivo concetto astratto opposto alla descrittiva realtà di come i praticanti effettivamente praticano sul terreno. Il punto importante è che indipendentemente da quale tradizione si appartenga, c’è la grande coerenza di tutte le tradizioni del buddhismo. Mentre le interpretazioni variano, ed una certa tradizione può focalizzarsi su alcuni aspetti del Buddhadharma, il “gusto” della liberazione è lo stesso. Qui di seguito mi limiterò a citare i sutra (Pali, sutta) e non mi limiterò alle tradizioni commentariali, in quanto esse possono variare notevolmente.

Riguardo alle fonti primitive del Sentiero Improvviso, o Illuminazione Improvvisa, noi vediamo che il Buddha spesso accoglieva le persone che venivano agli insegnamenti per la prima volta con la semplice espressione di "Benvenuto, monaco!",e spesso al solo sentire queste parole queste persone improvvisamente raggiungevano lo stato di‘arhat’, cioè, realizzavano la liberazione. Questa repentinità della capacità della mente di trasformarsi e cogliere la natura della realtà è menzionata nel Lahuparivatta-Sutta (Nikaya 1.48 PTS: Ai10 I, V, 8), in cui il Buddha afferma: “Non esiste una sola cosa che sia così veloce a rivoluzionare se stessa, come la mente - tanto che non c'è una fattibile similitudine per quanto essa è rapida a invertirsi”. (ThanissaroBhikkhu, 2006).

Rivoluzione e inversione da che cosa? Dall'illusione all'Illuminazione. Perché? Perché noi siamo già intrinsecamente risvegliati! La mente è originariamente pura, e libera dall’illusione, e quella ‘sporcizia’ che la riempie non ha assolutamente alcun effetto sulla natura della sua spaziosità.

Il Buddha dice nel Pabhassara-Sutta (Nikaya 1,49-52 PTS:.Ai10): “Luminosa, o monaci, è la mente. Essa è contaminata [solo] dalle contaminazioni contingenti. Luminosa, o monaci, è la mente. Essa è [intrinsecamente] libera dalle contaminazioni che sorgono. Luminosa, o monaci, è la mente. Essa è contaminata [solo] dalle contaminazioni che sorgono. La persona non-istruita non sa discernere ciò, come essa effettivamente è presente, ed è per questo che vi dico che, per la persona non istruita,non c'è sviluppo della mente. Luminosa, o monaci, è la mente. Ed essa è [intrinsecamente] libera dalle contaminazioni che sorgono. Il discepolo ben istruito figlio di nobili discerne la mente come essa realmente è, ed è per questo che io vi dico che, per il discepolo ben istruito figlio di nobili, c'è sviluppo della mente.” (Enfasi mia, ThanissaroBhikkhu, 1995).

Qui, ‘mente luminosa’ si riferisce alla nostra intrinseca mente risvegliata, vale a dire, la spaziosità originale della stanza. Tutte le vessazioni sono solo temporanee;esse vanno e vengono; la loro capacità di andare e venire punta al naturale funzionamento della mente risvegliata. Illuminati dalla intrinseca e luminosa natura della mente, i nostri processi mentali sono la funzione della saggezza priva di un ‘sé’; essendo illusi, essi sono naturalmente percepiti sotto forma di vessazioni. Se una persona può realizzare la mente così come è, essa sarà istantaneamente liberata. Come il Buddha stesso dice, “sarà così improvviso che "non c'è paragone possibile per essa".”

Negli antichi Versi del ‘Therīgāthā’, che sono una raccolta di “canti di risveglio” delle prime monache buddhiste, c'è la storia di una monaca di nome Patacara, la quale si era unita al Sangha subito dopo aver subito la perdita di tutta la sua famiglia, ed era quasi impazzita. Essa praticava con tanta diligenza, ma era ancora agitata per il fatto di non essere in grado di entrare nel Dharma, fino ad una certa sera. Ecco il versetto del suo risveglio:

“Arando i loro campi, inseminando la terra, gli uomini controllano le loro mogli e figli, e prosperano.

“Perché non posso io, che pure osservo i precetti e seguo le istruzioni del Maestro, raggiungere il Nirvana? Io non sono né pigra né presuntuosa!

“Dopo aver lavato i miei piedi, osservo l'acqua, e la guardo andar via nello scolo; ciò mi fa raccogliere e controllare la mia mente come fosse un nobile cavallo purosangue.

“Poi prendendo una lampada, rientro nella mia cella; pensando di andare a dormire, mi siedo sul mio letto;

“Con uno spillo, tiro fuori lo stoppino. La lampada si spegne: Nirvana. La mia mente è libera.                                                          (Oldenberg e Pischel, 1883, 134-35)

Proprio così come si spense la lampada, improvvisamente si spensero le vessazioni di Patacara. Nel caso di Patacara, il suo risveglio fu abbastanza potente per liberarla completamente. In altri casi, i praticanti di solito sperimentano un breve assaggio di risveglio, o Nirvana, e ciò richiederebbe la continua pratica e l'esperienza del risveglio ancora e ancora. Tuttavia, è importante notare che fino a quel momento la mente di Patacara era agitata prima di liberarsi. Lei calmò la sua mente solo per un brevissimo istante, guardando l'acqua sporca defluire, prima della sua intuizione (insight). Come può essere così? Perché il risveglio è un sentiero di improvviso riconoscimento, non il sentiero di purificazione. La purificazione riguarda la pratica e le vessazioni. Invece, il Risveglio è sempre improvviso ed ha poco a che fare con la pratica. Vale a dire, sia che nella stanza vi siano i mobili o no, essa è sempre intrinsecamente vuota, spaziosa. Basta un istante per riconoscere questa libertà intrinseca. Soltanto se il risveglio non è abbastanza potente allora serve la susseguente pratica, o purificazione.

Quanto all’Illuminazione Silenziosa, il Yuganaddha-Sutta (Nikaya 4.170) afferma che la liberazione è ottenuta attraverso una variante di quattro possibili scenari nel realizzare shamatha e vipasyana, cioè la calma e la visione profonda (insight). Gli scenari sono: lo sviluppo dell’insight preceduto dalla calma, lo sviluppo della calma preceduto dalla visione profonda, lo sviluppo di calma e intuizione insieme, e una situazione oscura in cui una persona che è agitata dalla non-comprensione del dharma può all’improvviso ottenere uno stato di calma e intuizione, che porta alla liberazione. Il passaggio dice:

“Poi, c'è il caso in cui la mente di un monaco viene presa da agitazione per il fatto di non comprendere l'insegnamento. Ma,può arrivare un momento in cui la sua mente si stabilizza interiormente e diventa composta, unificata e concentrata; allora il sentiero sorge in lui (improvvisamente). Egli ora persegue, sviluppa e coltiva quel sentiero, e mentre sta facendo così, le catene vengono abbandonate e le sottostanti tendenze sono eliminate”.(Enfasi mia; BhikkhuBodhi 2005, 268)

Di solito la tradizione dei commentari Theravada ha difficoltà con questo passaggio sul quarto tipo di praticante. Perché? Perché l’Ingresso Improvviso nel Sentiero non ha un posto nella interpretazione ortodossa della tradizione Theravada, che è vincolata dalla visione di una sequenziale pratica graduale, e la coltivazione di ‘shamata e vipassana’(calma e insight-visione-profonda). Come detto sopra, questa tradizione - nella forma che conosciamo oggi - si sviluppò piuttosto tardi, nel V° secolo, attraverso figure come Buddhaghosa (Gethin 1998, 42, 55). Tuttavia, è possibile sperimentare un istantaneo allineamento di calma e insight - lo stato più naturale dell’essere, in cui la mente è stabile e ricettiva alla comprensione intuitiva.

Se noi momentaneamente mettiamo da parte i commentari della tradizione Theravada e ci concentriamo solo sulle Scritture, vediamo che vi è un’abbondanza di prove per la antecedenza del Sentiero Improvviso del Chan. Ad esempio, nel caso di Cudapanthaka (Pali, Culapanthaka), egli aveva un'intelligenza assai bassa e non riusciva a ricordare nulla. Egli seguì il suo fratello maggiore Mahāpanthakaall’interno del Sangha perché voleva diventare monaco. Suo fratello era luminoso, e ben presto ottenne l'ingresso nel Buddhadharma e più tardi divenne un arhat. Il fratello più giovane, al contrario, viveva un momento molto difficile. Cudapanthaka era così ritardato che non riusciva a memorizzare nemmeno gli insegnamenti più elementari. Suo fratello aveva cercato di insegnargli che "Tutte le cose sono impermanenti, - quindi non vi è alcun sé". Ma lui ricordava la prima riga, e però dimenticava la seconda. Ci sono un paio di versioni di questa storia. Io faccio riferimento a questa:

“Una volta,Mahāpanthakastava cercando di istruire Cudapanthaka stando all’esterno del Vihara (monastero), perché era semplicemente troppo imbarazzante per lui dover dare gli insegnamenti di fronte agli altri. Essi dunque erano fuori, nel prato.

Mahāpanthaka: Tutte le cose sono impermanenti,- quindi non vi è alcun sé. Okay, ora ripetilo..."

Cudapanthaka: "Tutte le cose sono impermanenti. Quindi... quindi.... "

Mahāpanthaka: "Perciò non c’è un sé! Non-sé!"

Cudapanthaka: "Ah, sì, non-sé. Non-sé, perché... perché... "

Mahāpanthaka: "A causa dell’impermanenza! Prova ancora!"

Cudapanthaka: "Tutte le cose sono impermanenti. Quindi... quindi...."

Perfino il monaco-contadino, curvo sul campo, si voltò e disse: "Quindi non c'è un sé".

Davvero frustrato, Mahapanthaka rinunciò ad istruire Cudapanthaka, e lo lasciò solo. Cudapanthaka era così triste; tutto quello che riusciva a fare era di piangere, e voleva lasciare il Sangha. Il Buddha, essendo venuto a sapere ciò che era successo, andò daCudapanthaka e gli disse: "Ti istruirò io stesso…".Il Buddha non si preoccupò di dare a lui i concetti, ma semplicemente gli chiese di pulire il Vihara, dicendogli:

Cudapanthaka spazza il terreno. Mentre lo fai, recita: "Io spazzo via le impurità".

Ora, rammenta che è inutile spazzare la polvere dal suolo del Vihara, che è un tempio nella foresta, dal momento che è costruito proprio nella foresta! Non è che al tempo del Buddha un Viharaavesse pavimenti di cemento, così da poter esser ripulito, esso era sporco! Quindi sostanzialmente il Buddha gli chiese di spazzare via lo sporco da un'estremità all'altra del Vihara. E così Cudapanthaka fece. Egli spazzò via la sporcizia avanti e indietro. Egli spazzò tutto il giorno, dicendo: "Io spazzo via l'impurità... io la spazzo via".

In un certo senso, la pratica è come spostare mobili da un capo all'altro della stanza. Non importa come si risistemano i pezzi, non si provoca assolutamente alcun effetto sulla stanza stessa! Tuttavia, spostare i mobili, renderla ordinata e pulita, ci aiuta a riconoscere la spaziosità della stanza.

Un giorno, a Cudapanthaka venne in mente che il suolo era ancora polveroso e sporco, non importa quanto aveva spazzato. Tutto quello che stava facendo era di spostare lo sporco da un luogo ad un altro. Il Buddha lo sapeva, e subito apparve a lui e gli disse: "Non è che il suolo in se stesso sia impuro, sembra così solo a causa della polvere. La stessa cosa avviene con l'impurità del desiderio, dell'avversione e dell'illusione che ora inquina la tua mente". All’improvviso,Cudapanthakaebbe un'intuizione. Egli realizzò che, proprio come il suolo nel Vihara, e la polvere che aveva spazzato spostandola da qui a lì, la sua mente era originariamente pulita, nonostante le afflizioni. Egli insistette a meditare su questo, e molto presto realizzò lo stato di arhat. Questo è l’esempio che mostra la quarta categoria di praticanti descritti nel Yuganaddha-Sutta.

Il Buddha spesso parla di praticanti che hanno raggiunto la liberazione attraverso la saggezza e l’intuizione. Ovviamente, ci sono anche alcune persone che sono liberate attraverso la pratica sequenziale di calma-e-visione-profonda (shamatha e vipasyana). Tuttavia, alcune altre persone si sono liberate per mezzo di una sola frase, di un unico insegnamento. Si consideri il Kitagiri-Sutta ( MajjhimaNikāya, 70PTS: Mi 473.), in cui il Buddha parla di ben sette diversi tipi di praticanti: quegli esseri che si sono liberati con entrambi i modi: (cioè, prima shamatha e poivipasyana); quegli esseri liberati grazie alla saggezza (cioè, vipasyana); quegli esseri che si sono liberati tramite testimonianza corporea del Samadhi (cioè, shamatha); quegli esseri che si sono liberati attraverso il raggiungimento della ‘visione’; quelli che vengono preparati con la convinzione,ma non sono ancora liberati; coloro che sono già seguaci del Dharma, ma che ancora non hanno realizzato la comprensione; infine, quelli che sono seguaci, ma ancora da dover venire convinti. Questo non è il luogo per poter approfondire tutti questi sette tipi, ma ciò che qui è importante, è il notare quelli che vengono liberati tramite l’ottenimento della ‘visione’ e della ‘convinzione’ (vale a dire, coloro che hanno la fede… n.d.T.).

Questa scrittura afferma:

“E qual è l'individuo liberato attraverso la visione? Vi è il caso in cui ad un determinato individuo non resta che toccare con il suo corpo quelle pacificanti liberazioni – le quali trascendono la forma, che sono senza forma, e che, avendo visto con l’intuizione, che alcune delle sue vessazioni sono cessate,- alla fine, egli ha esaminato e riconosciuto con discernimento gli insegnamenti proclamati dal Tathagata. Costui è chiamato un individuo che si è liberato attraverso la visione. Per quanto riguarda questo monaco, io dico che egli ha un compito da fare con accortezza. Perché è così? Questo venerabile monaco, quando fa uso di adeguati luoghi di riposo, unendosi con amici ammirevoli, equilibrando le sue facoltà [mentali], raggiungerà e rimarrà nello scopo supremo della vita santa, per cui l’uomo del clan giustamente lascerà la casa per l’ascetismo, così da riconoscerlo e realizzarlo per se stesso nel qui-e-ora. Perciò, il monaco, riconoscendo questo frutto dell’attenzione, io dico che ha un compito da fare con vera accortezza.

Qual è l'individuo liberato tramite la convinzione? C'è il caso in cui ad un determinato individuo non resta che toccare con il suo corpo quelle pacificate liberazioni... però, - avendo visto con l’intuizione profonda – che alcune delle sue vessazioni sono cessate, la sua convinzione nel Tathāgata è costante, radicata e stabilita. Costui è chiamato un individuo che viene liberato tramite la convinzione. (l’enfasi è mia; ThanissaroBhikkhu, 2005)

Questi due tipi di praticanti non hanno ottenuto assorbimenti meditativi, ma grazie al potere della loro intuizione del ‘non-io’ alcune delle loro vessazioni sono cessate. Anche se hanno avuto la visione interiore nel sacro sentiero, essi hanno ancora la necessità di praticare. Nel primo caso, quelli liberati tramite l’insight, fanno riferimento allo stadio proprio breve dell’arhat. Nel secondo caso, liberati tramite la convinzione significa che il praticante non fa più rinunce perché essi hanno personalmente “visto” la loro auto- natura, cioè il ‘non-sé’. Essi hanno detto di essere "convinti" del Buddhadharma. Essi potrebbero aver ancora un bel po’ da percorrere prima di raggiungere la liberazione, ma avrebbero assicurata la corretta visione. Se il potere del loro insight è abbastanza forte, avrebbero eliminato anche le oscurazioni della visione (sanscrito, darśana-heya). Nel corso della pratica, essi sperimenteranno ancora e ancora la loro auto-natura, o il risveglio, la loro intuizione diventerà più forte e più stabile, dissolvendo tutte le residue oscurazioni delle vessazioni o tendenze negative (sanscr. klesha). Ciò è normale, dato chele nostre vessazioni -modelli delle nostre tendenze abituali - sono così pesanti. Un solo ‘insight’ non riuscirà a dissolverle tutte. Abbiamo bisogno di sperimentare davvero e ripetutamente la vacuità dell’attaccamento al proprio ‘sé’.

Secondo gli antichi insegnamenti, se l'intuizione iniziale è alquanto sostenuta, allora si diventa "srotaāpanna" (cioè, ‘entrato nella corrente’). Dopodiché, andando avanti sul sentiero,il praticante dissolverà gli ottantotto tipi di vessazioni che sono in accordo con i nove livelli dei tre reami, finché passerà attraverso gli stadi di "colui che ritorna una sola volta" (Skt., sakrdāgāmin), "colui che non ritorna" (Skt., anàgàmin) e, infine, "arhat", che è lo stadio di "colui che non ha più nulla da fare". Perché è così? A questo punto, il praticante è ormai incapace di essere "disattento", incapace di trasgressioni e di generare i veleni del desiderio, l'avversione, l'illusione, l'arroganza, e il dubbio. Nel Mahayana (veicolo del bodhisattva), anziché ottantotto tipi di vessazioni, ce ne sono ben centododici.

Se l'insight di una persona sulla liberazione è genuina, ma quella persona può ancora rompere i precetti -danneggiando altri esseri,- allora,o quell’insightè davvero molto superficiale, oppure quella persona è diventata compiacente e ha smesso di praticare. Per questo motivo, il Buddha avverte che una tale persona ancora "ha un compito da dover fare con accortezza e attenzione".

Riguardo all’essere liberati tramite la convinzione, significa forse che noi non possiamo essere convinti dell’utilità del Buddhadharma? Almeno, non finché noi non realizziamo un risveglio iniziale? No. Noi non dobbiamo aspettare fino al momento in cui saremo illuminati,per essere convinti dell’utilità della pratica. Il punto qui è che quando noi pratichiamo, le nostre menti sono più calme, otteniamo chiarezza, e vediamo i benefici nella nostra vita. Siamo meno reattivi verso le cose che ci circondano; siamo molto più lucidi. Quella è una "convinzione" che nessuno può portarci via. Sarebbe molto diverso se invece uno ​​ha appena letto un libro sui benefici della pratica, ma non ha realmente sperimentato personalmente. Se così fosse, la vostra convinzione potrebbe “vacillare” nell'affrontare le difficoltà della vita. Allorché avrete assaporato il beneficio e l'efficacia del Buddhadharma, voi stessi saprete che esso è buono ovunque e in ogni momento: illuminazione prima, illuminazione dopo, e illuminazione totale sempre. Nessuno può portarvela via.

Il Chan in genere non parla di "stadi della pratica", e sarebbe impossibile paragonare quale tipo di realizzazione corrisponde a quale livello di intuizione, negli insegnamenti antichi e nel Mahāyāna. Io citerò solo questi punti dottrinali per chiarire la natura del risveglio e la necessità di una pratica continua.

L'insegnamento della Illuminazione Silenziosa può essere trovato nelle prime scritture e pure nelle scritture Mahāyāna. Tuttavia, è più facile trovarlo nella dottrina buddhista Cinese Tientai, nella pratica e realizzazione di "Perfetta e Improvvisa Calma e Insight" sviluppata dal 6° secolo. Il Tientai è stata una delle prime scuole buddhiste in Cina, che sistematizzò gli insegnamenti buddhisti.

Il maestro Tientai,Zhiyi (538-597), soprattutto nella sua opera, ‘La Grande Calma e Contemplazione’, parla di una particolare pratica che è chiamata "Il Samadhi Ovunque la Mente è Diretta". Talvolta è anche chiamata, "Samādhi del Risveglio della Mente", (Stevenson, 1986, 75-82). In altre parole, questo è il samadhi in cui uno può trovarsi in qualunque luogo, qualunque cosa si stia facendo, cioè, in ogni momento. Questa è la pratica in cui il meditante– sia stando in piedi, seduto, sdraiato, o camminando, -   contempla la natura della mente e stabilizza quella contemplazione in qualunque fatto o attività gli stia succedendo. La contemplazione si basa sulle quattro fasi della mente. La prima: quando il pensiero non è ancora sorto. Seconda: proprio mentre il pensiero sorge. Terza: quando è impegnato nel pensiero. Quarta: Quando il pensiero è cessato.

Queste quattro fasi sono il nucleo di ogni istante delle nostre attività nella vita di tutti i giorni. Il pensiero precede tutte le nostre azioni. In questa contemplazione, essa è così raffinata che uno è chiaramente consapevole di ogni possibile stato mentale. Prima che i pensieri sorgano, il meditante è già a conoscenza della sottile intenzionalità della mente. Ad esempio, "non aver il pensiero" significa essere consapevoli dello stato che è “prima” dell’intenzione di formulare un pensiero, o un concetto. Ovviamente, questa è una pratica molto avanzata.

In che modo uno‘contempla’? Uno contempla che, nel momento stesso di ciascuna di queste fasi, la mente è identica alla natura di vacuità, un vuoto intrinsecamente privo di un’entità permanente, o di fissazione. La pratica non significa che uno deve cercare di sbarazzarsi dei pensieri. C'è una funzione mentale, ma si riconosce che tutti i modi possibili della mente – tutti i modi di esistenza, - sono intrinsecamente esistenti e però vuoti. Questo è l'approccio Mahāyāna. Uno non sopprime i pensieri, ma neppure cerca di seguirli, e nemmeno diventa illuso dai pensieri. Al tempo stesso uno può impegnarsi nel mondo a beneficio di tutti gli esseri, e apprezzerà comunque il fatto che l'esistenza è come un ‘fiore nel cielo’ o le corna di una lepre-…. Avete capito?

Nella “Grande Contemplazione Che Calma” del buddhismo Tientai, ovunque voi siate o andrete, lì c'è la Realizzazione. Il sorgere ed il cessare del pensiero, entrambe le fasi, rivelano simultaneamente la natura della vacuità. Questa pratica è molto tecnica, ed è anche insegnata dottrinalmente. Tuttavia, essa è molto difficile da praticare. Il Chan ha formulato un approccio molto più semplice.., è quello dell’Illuminazione Silenziosa. Basta “essere” qui, seduti. Nell'atto stesso di ‘essere solo seduti’, siete originariamente svincolati dai pensieri erranti, dai modelli della mente, essendo davvero ‘presenti’ alla naturale consapevolezza di questo stesso momento, radicati nel corpo seduto. Questo principio può essere applicato sia stando in piedi, camminando o stando sdraiati - tutti i modi della nostra attività. E'solo che stando seduti è più facile, così si comincia da lì.

(forJan152014IJ – 1000025)

 

L'Esperienza dell'Illuminazione Silenziosa

E' necessario stabilire una buona base di pratica attraverso la meditazione sul respiro. Altrimenti, l’Illuminazione Silenziosa sarà ben difficile da praticare. Il non-attaccamento è il silenzio, essere consapevoli è l'illuminazione. Questi due elementi sono intrecciati, interconnessi e inseparabili, non sequenzialmente, ma simultaneamente coltivati. Ho già detto che la pura pratica dell’Illuminazione Silenziosa non ha stadi. Perché allora i praticanti sperimentano gli stadi? Essi sperimentano gli stadi a causa di una sorta di sbilanciamento, cioè, con vipasyana che opprime shamatha. Quando vipasyana è più forte, la mente diventa agitata e non c'è stabilità. Dovrebbe sempre esservi un buon

equilibrio; la mente non deve entrare in assorbimento, né deve dar luogo ai pensieri dispersivi. Quindi, non è meditazione (jhāna,dhyāna), e ovviamente, non è neanche pensiero discorsivo. E' forse una via di mezzo? No. Quando voi vi sedete, se i pensieri sorgono, essi poi si liberano in questo stesso momento. La mobilia della nostra mente naturalmente non oscura la spaziosità della stanza. Qui, uno semplicemente resta nello stato della presenza.

C'è il bisogno di andare in qualche modo attraverso le fasi di unificazione della mente e portare la mente verso una sorta di stato di trance - o assorbimento meditativo? No di certo. Inoltre, per le persone contemporanee, è molto difficile far questo. Come detto sopra, perfino durante il tempo del Buddha, alcune persone furono liberate attraverso la saggezza, in contrapposizione agli stati meditativi dijhāna o dhyāna. Il Yugananda-Sutta cita questo. A volte, le persone possono entrare nel sentiero in modo improvviso, anche quando hanno difficoltà a comprendere il Dharma, o hanno ostacoli.

Ma, è necessario praticare? Oh sì! E' necessario praticare - familiarizzare se stessi con quel più naturale stato di essere, di perfetta consapevolezza, e di non farsi catturare dall’interesse per la mobilia, ma di riconoscere il velo dell’attaccamento e vedere che è solo vacuità. Questo può venire solo dalla pratica della meditazione. Ma ricordate, che anche quando stiamo praticando, noi non stiamo cercando di guadagnare qualcosa, o sbarazzarci di qualcosa. Noi dobbiamo avere la corretta visione che questo andirivieni di vessazioni è originariamente vuoto. Questo non è un mero concetto, ma il modo in cui le cose realmente sono. Praticare questo… è praticare il Sentiero Improvviso.

Le persone potrebbero mal-interpretare la spaziosità della mente – l’aspetto naturale, aperto, dinamico della mente a volte è preso come una sorta di "Grande-Sé". Ho già detto chiaramente nell'articolo, "You Are Already Enlightened" (Tu sei già Illuminato), che il ‘Grande-Sé’ non è la mente risvegliata o l'esperienza del non-sé. L'esperienza del‘Grande-Sé’ – cioè, lo stato unificato del samadhi - è solo un altro tipo di arredamento; è uno stato mentale. Questi stati mentali sono come ‘stati alterati di coscienza’. Non sono lo spazio, cioè la stanza vuota. È chiaro? Se c’è un qualcosa che si può acquisire,può anche essere perso. Tutti i tipi di stati unificati - lo spazio infinito e miracoloso, la luce infinita, un senso di unità con sé e gli altri: sono tutti stati naturali nel corso della pratica, ma non sono l'Illuminazione. Nella meditazione, noi non dobbiamo cercare di sopprimerli, così come non dobbiamo cercare di sopprimere i pensieri vaganti.

E' possibile praticare l’Illuminazione Silenziosa sia essendo tesi, o in un modo rilassato. Praticando essendo tesi, potrete mantenere la concentrazione, la stabilità e chiarezza per tempi relativamente brevi, ma non sarete in grado di sostenerla a lungo. Potrete mantenerla solo per un breve periodo,da circa 30 minuti a un'ora. Se voi riuscirete ad approcciare il modo rilassato, esso funziona molto meglio dell'approccio essendo tesi. L’Illuminazione Silenziosa dovrebbe essere praticata in base alle stesse condizioni del praticante e della situazione. Se vi sentite assonnati, l'insegnante può incoraggiarvi a praticare diligentemente in modo più o meno teso. Questo però è solo un espediente. La chiave, nella pratica, è il simultaneo equilibrio di shamatha e vipasyana.

Come si confronta con la vipasyanal’Illuminazione Silenziosa? La natura stessa della vipasyana è strettamente legata all’impermanenza, come lo è ogni cosa. Tutte le cose sono in movimento; quando osserviamo questo cambiamento con la mente che essa stessa cambia, questo è un ottimo modo per acquisire la personale esperienza di non-sé e della vacuità. Questo metodo ha grande risonanza con l’Illuminazione Silenziosa. Tuttavia, tutte le cose che vanno e vengono, cioè il cambiamento - sono solo i mobili. Non è l’Illuminazione Silenziosa. Ad esempio, la chiave per impegnarsi nella vipasyana è di contemplare ciò che tradizionalmente sono chiamati ‘I quattro fondamenti della consapevolezza’: il corpo, le sensazioni, i fattori mentali e i dharma(cioè, i fenomeni). Uno li contempla attraverso il movimento, il cambiamento, e le interazioni. La stessa consapevolezza che contempla, nota il cambiamento; la consapevolezza allora diventa caratterizzata dal cambiamento. Realizzando l’impermanenza, noi riconosciamo il flusso psico-fisiologico degli eventi e realizziamo il ‘non-sé’ (Mahā-SatipatthanaSutta, DighaNikāya, 22 PTS:.Dii290).

Nella Illuminazione Silenziosa, all'interno della quiete, c'è la funzione. Uno non analizza né osserva l’impermanenza o il cambiamento. Qui, analizzare significa guardare le cose sorgere e decadere e riconoscerle come impermanenti. Nell’Illuminazione Silenziosa, non ci si impegna nell’analisi. Al contrario, uno è semplicemente “consapevole” della chiarezza della totalità di questo momento ‘qui e ora’. Anche se, in questo stato, tutte le cose naturalmente - di loro accordo - vanno e vengono, e non c'è quindi bisogno di concentrarsi su di esse. Per farlo, occorre fabbricare o costruire una determinata cosa, al fine di concentrarsi sulla "mobilia". Né si dovrebbe fissarsi sulla quiete, uno stato vuoto di contenuti. In ogni momento,il silenzio e l'illuminazione – cioè, la libertà dai pensieri vaganti e la naturale chiarezza, sono già presenti in modo dinamico. Questo significa che uno non dovrebbe essere attaccato alla ‘mobilia’, ma essere naturalmente consapevole della spaziosità, o vuoto, della stanza (cioè, della mente). La natura della vacuità, la natura di assenza di costruzioni, è semplicemente la libertà dalle invenzioni e fantasticherie fabbricate. Ci si siede senza prendere nulla per reale, concreto, - non ci si fissa nemmeno sull'impermanenza. E però, uno è chiaro e consapevole di ciò che sta succedendo. Quello che sta succedendo è ‘essere seduti’. Rilassata e luminosa, la seduta diventa allora ininterrotta, e questa naturalezza dell’Illuminazione Silenziosa si estende a tutte le attività della vita di tutti i giorni.

Ma allora, vipasyana e Illuminazione Silenziosa sono completamente diversi? No. Anzi, c'è una naturale risonanza. La differenza sta nella loro consapevolezza: una è centrata sull’impermanenza; l'altra sulla vacuità, o diretta chiarezza. In altre parole, la prima è la consapevolezza della ‘mobilia’, mentre la seconda è la consapevolezza della stanza. Lo scenario che si sperimenta su questi rispettivi percorsi, naturalmente, può essere differente perché il sentiero è diverso. Ad esempio, alcuni di voi stasera per venire al centro hanno camminato, mentre altri hanno guidato una macchina. Finora,non ho visto nessuno venire in elicottero. Ma potrebbe anche essere possibile! Percorsi diversi generano naturalmente uno scenario diverso, ma l'ambiente - il centro - è lo stesso. Entrambi i percorsi arrivano nello stesso luogo. Il gusto della liberazione è lo stesso.

Potrebbe esservi una leggera differenza per quanto riguarda l'esperienza del non-sé, - anche se l'esperienza di base è la stessa,-  ma la strada o l’angolo preso per arrivare alla stanza ha effetto su come vedrete la stanza. Nel Chan,la mobilia non ostruisce l'apertura della stanza, e quindi il praticante si coinvolge con il mondo in modo attivo, utilizzando tutte le modalità di azione e le sfide della vita come vere opportunità per la pratica. Mentre la meditazione seduta e intensi ritiri di pratica svolgono un importante ruolo nel Chan, la vita quotidiana come vera pratica è anche più importante. Non vi è alcun bisogno di evitare il trambusto della vita quotidiana, per fare pratica in maniera solitaria. Anzi, in realtà, tale pratica è percepita come egocentrica e ostacola il sorgere della compassione.

La Compassione sorge naturalmente come risultato dell’intuizione-comprensione nella vita quotidiana. L’insight del buddhismo è sempre in accordo con la saggezza, l'assenza di vessazioni. Così la compassione nella tradizione Chan non è necessariamente il voler essere zuccherosi con grandi sorrisi, lasciando che la gente passeggi sopra di te. Nel Chan, la compassione è la funzione della saggezza, l'assenza dei veleni della bramosia, avversione, illusione, arroganza, e del dubbio scettico. La vera compassione è solo la mancanza dell’idea di un sé.

Il Buddha, nel descrivere ciò che è la compassione, spesso la inquadrò come l’essere liberi dai veleni della mente. Nel più volte citato Kalama-Sutta (AnguttaraNikaya, 3.65 - PTS: A i 188), che insegna che non si dovrebbe fare affidamento sul sentito dire, o sull'autorità di altri, ma sperimentare personalmente la verità, il Buddha spiega anche la natura della felicità e compassione in relazione al desiderio ed agli altri veleni della mente: “La persona che non è avida, non è sopraffatta dalla brama, non ha la mente posseduta dal desiderio, non uccide gli esseri viventi, non prende ciò che non è dato, non va dietro alla moglie di un altro, non dice bugie, né induce altri a fare altrettanto. Tutto ciò, è per il suo benessere a lungo termine e la sua felicità. La persona che non è avida, non sopraffatta dall’avversione, la sua mente non è posseduta da avversione, non uccide gli esseri viventi, non prende ciò che non è dato, non va dietro alla moglie di un'altra persona, non dice bugie, né induce altri a fare altrettanto. Tutto ciò, è per il suo benessere a lungo termine e la sua felicità. Il praticante che non è illuso, che non è sopraffatta dall’illusione, la sua mente non è posseduta dall’illusione, non uccide gli esseri viventi, non prende ciò che non gli è dato, non va dietro alla moglie di un altro, non dice bugie, né induce altri a fare altrettanto. Tutto ciò, è per il suo benessere a lungo termine e la sua felicità. ( Thanissaro Bhikkhu, 1994)

In un altro sutra (Sāleyyaka-Sutta, MajjhimaNikāya 41), il Buddha afferma che: “Colui che rinuncia a distruggere la vita, si astiene dalla distruzione della vita, e mette via la lancia e le armi, che è coscienzioso, misericordioso, costui dimora nella compassione verso tutti gli esseri viventi.(BhikkhuBodhi 2005, 158-159)

Da questi passaggi, noi vediamo che per poter essere liberi dai tre veleni di bramosia, avversione e illusione -le cause-radici della sofferenza-si deve essere compassionevoli, arrecare benessere a lungo termine e felicità a tutti gli esseri. E qual è il modoin cui noi chiamiamo lo ‘stato libero’ dai tre veleni? Saggezza! Di conseguenza, compassione e saggezza sono identici. Non è solo come le due ali di un uccello, o le due ruote di una bicicletta. In realtà, è proprio la stessa cosa. Lo specchio che riflette l'immagine; la spaziosità della stanza che può ospitare naturalmente tutte le cose, tutti i tipi di mobili-questi sono i meccanismi di saggezza e compassione, la naturale funzione della mente risvegliata. Quindi, nella saggezza, la compassione sorge naturalmente.

Allora, la compassione può essere coltivata? Certamente! Noi dobbiamo coltivarla. Ma dobbiamo coltivarla sulla base della saggezza. E come? Proprio durante la vita di tutti i giorni, la vita quotidiana. Questo non significa cercare di sbarazzarsi dell’avversione al fine di essere volutamente gentili. Ma, essere liberi dell’attaccamento alla mobilia, e capire che tutti gli esseri sono intrinsecamente risvegliati, anche le persone che non ci piacciono. Non c'è bisogno di scappare via dal caos o dalle avversità della vita. Con questo rispetto per tutti gli esseri, noi ci impegniamo con gli altri, con il mondo. Così facendo, noi non prendiamo ciò come il fatto che "stiamo aiutando" tutti gli esseri, ma noi vediamo loro come bodhisattva che ‘aiutano noi’. Le difficoltà che affrontiamo sono abbracciate con umiltà, perdono e gratitudine.

Nel mio e-book, ‘Essence of Chan’, io discuto in dettaglio su come praticare nella vita quotidiana, se la cosa vi può interessare. Non mi dilungherò più di tanto su di esso qui. Basti dire che la chiave è di essere liberi dalle vessazioni, i veleni della mente, e invece coltivare attivamente le virtù. Ad esempio, se una persona vi colpisce con un bastone, voi vi arrabbiate con il bastone o la persona? A nessuno succede di arrabbiarsi con il bastone, perché è la persona che tiene il bastone. Allo stesso modo, se una persona è nella morsa di avidità, avversione e illusione, e vi ha offeso, voi siete arrabbiati con la persona o con i tre veleni? Dato che colui che vi ha fatto un torto è sotto l'influenza di una vessazione (o veleno mentale), non dovete vederlo come colpevole, ma dovreste riconoscere i tre veleni come i colpevoli. In questo modo, noi possiamo attivamente perdonare e aiutare gli altri.

Secondo voi, noi dovremmo cercare di correggere la persona che è stata portata a fare azioni dannose a causa di vessazioni? Dovremmo aiutarli a cambiare? Sì. Le cose che si devono fare, devono essere fatte. In questo procedimento, noi ci liberiamo da idee del tipo che "noi stiamo aiutando", -non dovremmo iniettare il nostro senso di auto- riferimento nelle nostre azioni - e tuttavia tuttisono aiutati. Non accadrà che la gente ci prenda in giro perché si dovrà agire con compassione. Noi aiutiamo le persone per il beneficio della loro propria saggezza e compassione, poiché noi permettiamo a queste qualità di manifestarsi nella loro spontanea volontà, nella loro propria vita, senza fissi schemi o ordini del giorno stabiliti. Questo è il modo di intendere la funzione naturale della ‘Illuminazione Silenziosa’ nella vita.


 

 

La Bibliografia si trova più sotto, in fondo all’articolo in lingua originale (Inglese).

 

Dall'articolo di GuoGu, "Tu sei già illuminato", pubblicato nel numero di inverno 2012 della rivista Buddhadharma,ecco un estratto da:Hongzhiguangluchanshi - (Registrazioni estese del Maestro Chan Hongzhi)volume 48 del ShinshudaizokyoTaisho - © Traduzione a cura di GuoGu)

 

… “Ampia e di vasta portata, senza limiti, pura e pulita, essa (la mente) emette luce. Il suo potere spirituale è luminoso e aperto. Anche se essa è luminosa, non vi sono però oggetti di illuminazione. Si può dire che essa sia vuota, ma questo vuoto è [pieno di] luminosità. Essa si illumina nella sua auto-purezza, ben al di là dell’operato di cause e condizioni, e ben oltre il soggetto e l’oggetto. La sua straordinaria ‘meravigliosità’ e le sottigliezze sono sempre presenti; la sua luminosità è anche vasta ed aperta. Inoltre, questo non è qualcosa che può essere concepito come esistenza o non esistenza. Né può essere deliberato in merito con parole e analogie. Proprio qui ed ora,- in questo asse fondamentale, aprendo il cancello oscillante e schiarendo la Via, essa è in grado di rispondere facilmente alle circostanze - la grande funzione è libera dagli ostacoli. In ogni luogo, rivolgendosi tutto intorno, essa non segue le condizioni, né può essere intrappolata in modelli. Nel bel mezzo di tutte le cose, essa si stabilisce in modo sicuro. Con "quello",essa è identica a ciò che "quello" è; con "questo",essa è identica a ciò che "quello" è. "Questo-e-quello" si inter-fondono e si mescolano senza distinzione. Perciò è detto: "Come la terra che sostiene una montagna, ignara della sua ripidezza e magnificenza; come la pietra che contiene la giada, che è ignara della perfezione della giada. Se uno può essere così, questo è davvero ‘lasciare la casa’. Gli individui che hanno lasciato la casa devono riuscire a mantenere l'essenza proprio in questo modo.

 


 

VersioneOriginale -

The Practice of Silent Illumination

By GuoGu

http://www.bcbsdharma.org/insight-journal/#IJjump

 

Technically speaking, Silent Illumination is not a method of practice. It is actually the state of awakening, which is our true nature–the freedom that belongs to each and every one of you. It is only due to habitual attachment to dualistic thinking and self-referential feelings that this intrinsic awakened state is temporarily concealed. Our true nature has nothing to do with gaining or losing, having or not having. Silent Illumination is merely a metaphor for this direct realization. Despite the fact that we are intrinsically awakened, practice is still necessary. Why? Practice deals with removing the obscurations that conceal our true nature. In this sense, Silent Illumination entails this practical dimension. Yet, practice must be in accordance with the correct view that we lack nothing; that we are originally free.

Silent Illumination as a metaphor plays off of very traditional systems of meditation: śamatha and vipaśyanā or calming and insight (Pāli, shamatha and vipassanā). All Buddhist meditation can be subsumed under these two classifications. Traditionally, these are practiced sequentially, or in tandem, in order to remove the obscurations of the mind. That is, first, through concentration and calming with the five methods of stilling the mind, you stabilize the mind. Then, you try to gain insight into the nature of mind through the four foundations of mindfulness. You can’t have insight into the nature of reality, the nature of who you are, if the mind is scattered. It is like a candle–only a steady flame will illuminate a room clearly. If the flame flickers, whatever is seen is fuzzy or unclear at best. So Silent Illumination, as a practice, may be understood in terms of śamatha and vipaśyana, or calming and insight.

Yet, it’s not quite like the traditional sense of śamatha and vipaśyana, which are practiced sequentially. The Chan tradition advocates simultaneous practice of the two. This is the difficulty and that is why Silent Illumination is an advanced practice. Traditionally, śamatha or calming leads to samādhi (Pāli, jhāna; Skt. dhyāna) or meditative absorption; vipaśyana leads to prajñā or wisdom. In Chan these ideas are expanded. In the Platform Sutra, a text attributed to the sixth lineage master of the Chan school, Huineng (638-713) says:

Calming is the essence of wisdom. And wisdom is the natural function of calming [i.e., prajñā and samādhi]. At the time of prajñā, samādhi exists in that. At the time of samādhi, prajñā exists in that. How is it that samādhi and prajñā are equivalent? It is like the light of the lamp. When the lamp exists, there is light. When there is no lamp, there is darkness. The lamp is the essence of light. The light is the natural function of the lamp. Although their names are different, in essence, they are fundamentally identical. The teaching of samādhi and prajñā is just like this.

This means that the true nature of samādhi or calm is really the nature of emptiness. In my analogy of the room, this refers to intrinsic empty spaciousness. Originally there is no furniture, no features, just openness. Is it spacious because it is without furniture? No. The furniture reveals the empty nature of the room. This is like the Platform Sutra’s analogy of the light of the lamp, whose function is to illuminate.

The inseparable essence and function of the mind applies to practice. Our mind has two interrelated qualities: it is empty and aware. Mind has no fixed forms. Despite this fact–actually because of the freedom of no fixed forms–the mind is able to learn, to be aware, and this awareness is always present. Even when you have wandering thoughts, even when you dream, awareness is there. It is just that most of the time we’re ensnared in the mind’s content. But it is hard to be aware of this, so the mind must be calmed to recognize this awareness. Once it is refined, it can be quite clear, luminous, and radiant.

So how is the practice of Silent Illumination done? The practice is done in accordance with this understanding as the correct view. In sitting meditation the practitioner does not try to gain or get rid of anything–no need to shuffle the furniture around in the room. Just be aware of the naturalness of each wakeful moment. Yet in embarking on this practice, we usually find that we need to hold onto something, because of our conditioning. So we need something more concrete than just being wakeful, and not allowing the mind to abide or fixate anywhere. Otherwise, this trying to be wakeful can become an abstract idea, or you may start to take the stillness or clarity as an object of meditation. Very simply put: just be in the stream of this act of sitting, the concrete experience of sitting.

You’re not trying to contemplate the breath; you’re not trying to meditate on something; and your body and mind are not objects of meditation. You are just with your body, in your body sitting. Body and mind are one. Simplify and reduce all complications to this single act of just sitting. However, if you’re too absorbed or scattered and are no longer aware that you’re sitting, then bring it back to this concrete act of sitting again. Now, how do you know you’re sitting? You have your sitting posture, your feeling of being here, the presence of the body. Just restfully be with the simplicity of here, sitting.

Naturally when the mind calms down and concentration develops, it will generate samādhi. This is due to a lopsidedness of concentration over natural awareness. Your natural awareness will become overpowered by the momentum of a concentrated mind. In other words, too much śamatha–leads to an imbalance in vipaśyanā. At this point, depending on the strength of śamatha, you may experience different levels of samādhi or jhāna. So the experiences presented in the article, “You are Already Enlightened,” published in the winter 2012 issue of Buddhadharma magazine, describe these states. I will not elaborate on these here. Suffice it to say that, as I have stated in the article, these levels or stages are really the result of a lopsided practice. It’s not that these experiences are good or bad. It’s just that this is what happens when there’s an imbalance of śamatha and vipaśyanā. In other words, it is what happens when one is not practicing them simultaneously.

Another caveat is not to take the silence, stillness, or even clarity, as an object of meditation. This is a subtle form of fixation that practitioners can easily slip into, and it usually happens to advanced practitioners. At best, one enters into samādhi; otherwise, one simply dwells in what is called the “ghost cave on the dark side of the mountain.” This is like soaking a rock in cold water–nothing happens even after a hundred years! This means vexations and delusions remain–usually wandering thoughts are still there as well–it’s just that we are quiet and at peace. This is not awakening. It is merely more “furniture” in the room–not the room itself. Our mind is habituated into grasping something; it can easily take an experience and objectify it. As soon as we do that, we have made Silent Illumination a dead thing. Practitioners in this situation really need the help of a skillful teacher; otherwise they can be self-satisfied and think they have nothing to do. When they encounter big karmic obstructions or vexations, their practice and so-called “attainment” will crumble, leaving them in great uncertainty about buddhadharma or in a state of self-disparagement.

The true practice of Silent Illumination has no stages. The practitioner rests in moment-to-moment wakefulness–the reality of the here. It is the most natural, the most normal state of mind, yet without scattered thoughts and delusion. If you don’t wander off somewhere, the mind is in its natural state and has no center. The mind is pure. Self-referential discriminations and emotional afflictions drop off of their own accord. The key is clear, nonattachment. Scattered, wandering thoughts arise from grasping and habitual tendencies. When the practitioner is truly free from grasping, there are no wandering and habitual tendencies. This is the practice of Silent Illumination. It may be difficult at first, so the practitioner has to gain some level of focus and clarity as a foundation before using this method. However, because the practitioner does not fabricate or construct anything, and yet cultivates an open wakeful mind, practice becomes natural.

Are there any “stages” to this genuine practice of Silent Illumination? No. Just like there are no levels to the spaciousness of this room in relation to the furniture and there are no stages to speak about when the mirror reflects images. It is in accord with the most natural, pure, liberated mind–the awakened mind. However, are you enlightened? No. The difference is like a clear window and no window or walls at all. A clear window allows one to see outside clearly, but something is still there. With the personal experience of awakening, the window is gone. Until then, is the practice useful? Yes. You are less likely to be pushed and pulled by your vexations. Instead you see the mechanism of grasping clearly. In this course of practice, there will be many experiences; some will seem liberating and special, but do not grasp on to this “furniture.” If you are interested in the different experiences or signposts that may arise in practice, you may refer to my earlier article “You Are Already Enlightened.”

 

Textual References of Silent Illumination

The Chan practice of Silent Illumination is called the “sudden path.” Why sudden? Because awakening is not gained from the outside. That is, our innate awakening is not the “result” of practice. It is not produced and it cannot be lost. It’s just like the spaciousness of the room accommodating furniture and the mirror reflecting images–that’s how sudden it is. Sudden has nothing to do with time. It’s not that we start practicing Chan and, maybe in a few hours you’ll become enlightened. It is sudden because there’s no gap; it is the very ground of your being; it is the path that you travel; it is also the fruit of your realization. The path, the fruit, exist because of the very ground of your being. Your mind is intrinsically awakened. That’s why it’s sudden. As for actual practice of seeing through obscurations, that takes a long time!

Is there scriptural basis for Silent Illumination and the sudden path in the early Buddhist canon (i.e., the PāliNikāyas and the Skt. Āgamas)? Yes, in several places. It also appears in the Vinaya–stories of how the monastic regulations came into place. Here I would like to stress the unity of different Buddhist traditions because there is a tendency among practitioners of one tradition of Buddhism to judge other traditions based on their own limited understanding. For example, one may think that in order to legitimate a particular teaching, it must be found in the “early Nikāyas.” But little do these people know that the early Buddhist canon can only be dated concretely to fifth-century CE. In fact, all scriptures, including the Mahāyāna, were only committed to written text no earlier than the first century BCE. In other words, the so-called “early” and “later” scriptures were written down around the same time.

From BCE times to later fifth-sixth centuries in India, there were many terms used to refer to Buddhadharma, such as bodhisattvayāna, tathāgatayāna, agrayāna, and ekayāna, etc. (Walser 2009, 219). There were many interpretations of Buddhadharma. Some of these traditions of early Buddhism proposed different teachings about the nature of Buddhahood, mental continuum, existence of self, and experience of no-self. Some of these teachings can be seen as antecedents to Mahāyāna Buddhism. After the Buddha’s passing there developed eighteen different schools within Buddhism. The Theravada, which traces itself back to the Vibhajjavādins, is also only one of these schools. It was by no means the authoritative tradition after the Buddha’s passing. There were periods in which different schools’ views dominated the interpretation of the Buddha’s teaching. We have fragmented teachings from several of these schools, such as the Sarvastivadins, the Mahāsāmghikas, and the Vāstīputrīyas. It is only a historical accident that the Theradavin Buddhist canon survives today.

At the time of the emergence of the Mahāyāna scriptures in ancient India, members of the Sangha who were sympathetic to these teachings followed their interest while remaining within the existing schools of Buddhism and continued to live alongside monks and nuns who did not share their interests. Many of the so-called founders of the Mahāyāna, such as Nāgārjuna and the two brothers Asanga and Vasubandhu, were ordained in the Mahāsāmghika and Sarvāstivāda schools respectively. Also, early Chinese monk pilgrims who traveled to and lived in India and South Asia between the fourth to the eighth centuries CE report that basically there were only different proclivities and personal preferences within the Buddhist Sangha–some monastics gravitated to one corpus of scriptures, while others gravitated to another–they lived under the same roof.

The term Mahāyāna did not refer to a single set of doctrines, practices, or propositions in India. The polarity between Hinayāna and Mahāyāna is a later development, more the result of Chinese and Tibetan forms of Buddhism. This is because they were influenced by certain later-developed Mahāyāna scriptures that ridicule notions of Hinayāna. As far as Indian Buddhism is concerned, as stated above, this divide between Hinayāna and Mahāyāna as a social phenomenon never developed. If we examine early Mahāyāna scriptures, even though the focus is on the bodhisattva ideal–the aspiration to save all beings and attain buddhahood–the actual practices advocated therein were actually the same as those of the early scriptures. Even in later Indian Mahāyāna texts, there is ample evidence that the notion of Hinayāna remains an abstract prescriptive concept as opposed to descriptive reality of how practitioners actually practiced on the ground. The important point is that irrespective of what tradition one belongs to, there’s great coherence to all traditions of Buddhism. While interpretations vary, and a certain tradition may focus on some aspects of the buddhadharma, the taste of liberation is the same. Below I will only cite the sutras (Pāli, suttas) and not limit myself to the commentarial traditions since they can vary greatly.

In terms of early sources for the sudden path or sudden illumination, we see that the Buddha often welcomed people who come to the teachings for the first time with a simple expression of “Welcome, monk!” and often upon just hearing these words these people would suddenly attain arhatship, i.e., realize liberation. This suddenness of the mind’s ability to transform and grasp the nature of reality is mentioned in the LahuparivattaSutta (AnguttaraNikāya 1.48. PTS: A i 10 I, v, 8), wherein the Buddha states that there is not:

a single thing that is as quick to reverse itself as the mind–so much so that there is no feasible simile for how quick to reverse itself it is. (ThanissaroBhikkhu, 2006)

Reverse from what? From delusion to enlightenment. Why? Because you’re intrinsically awakened! The mind is originally pure from delusion, and that all the “furniture” has absolutely no effect on the nature of the spaciousness of the room. The Buddha states in the PabhassaraSutta (AnguttaraNikāya 1.49-52. PTS: A i 10) that:

Luminous, monks, is the mind. It is defiled [only] by incoming defilements. Luminous, monks, is the mind. It is [intrinsically] freed from incoming defilements. Luminous, monks, is the mind. It is defiled [only] by incoming defilements. The uninstructed run-of-the-mill person does not discern that as it actually is present, which is why I tell you that–for the uninstructed run-of-the-mill person–there is no development of the mind. Luminous, monks, is the mind. And it is [intrinsically] freed from incoming defilements. The well-instructed disciple of the noble ones discerns the mind as it actually is, which is why I tell you that–for the well-instructed disciple of the noble ones–there is development of the mind. (Emphasis mine; ThanissaroBhikkhu, 1995)

Here, luminous mind refers to our intrinsic awakened mind–that is, the original spaciousness of the room. All vexations are only temporary; they will come and go; their ability to come and go points to the natural functioning of the awakened mind. Enlightened to the intrinsic luminous nature of the mind, our mental processes are the function of selfless wisdom; deluded, they are naturally displayed in the form of vexations. If a person can realize the mind as it is, he will instantaneously be free. At the Buddha states, so sudden that “there is no feasible simile for it.”

In the early Verses of the Eldresses or Therīgāthā, which are a collection of songs of awakening by early Buddhist nuns, there is a story of a nun Patācarā, who joined the Sangha after suffering the loss of her entire family and almost going insane. She practiced so diligently, but was still agitated about not being able to enter the dharma–until one evening. Her verse of awakening:

Ploughing their fields, sowing seeds in the earth, men look after their wives and children, and prosper.

Why can’t I, who keep the precepts and follow the teachings of the Master, attain nirvāna? I am neither lazy nor conceited!

After washing my feet, I note the water, and watched it going down the drain; that makes me collect and control my mind as though it were a noble thoroughbred horse.

Then taking a lamp, I enter my cell; thinking of going to sleep, I sit down on my bed;

With a pin, I pull out the wick. The lamp goes out: nirvāna. My mind is freed.

(Oldenberg and Pischel 1883, 134-35)

Just as the lamp was extinguished, Patācarā’s vexations suddenly extinguished. In the case of Patācarā, her awakening was powerful enough to liberate her completely. In other cases, practitioners usually experience a glimpse of awakening, or nirvāna, and would require continued practice and experience of awakening again and again. Nevertheless, it is important to note that Patācarā’s mind was agitated right up to that point of liberation. She only calmed her mind for a very brief moment, watching the bathwater drain out, before her insight. How can this be so? Because awakening is a path of sudden recognition, not the path of purification. Purification deals with practice and vexations. Awakening, on the other hand, is always sudden, and has little to do with practice. That is to say, whether there’s furniture or not, the room is intrinsically empty, spacious. It takes an instant to recognize this intrinsic freedom. Only if the awakening is not powerful enough does it require subsequent practice, or purification.

As for Silent Illumination, the YuganaddhaSutta (AnguttaraNikāya 4.170) states that liberation is attained through a variation of four possible scenarios in realizing calming and insight (śamatha and vipaśyanā): developing insight preceded by calming; developing calm preceded by insight; developing calm and insight in tandem; and an obscure situation where a person who is agitated by not understanding the dharma can on his own suddenly gain an entry into the calm and insight, leading to liberation. The passage states:

Then there is the case where a monk’s mind is seized by agitation about the teaching. But there comes a time when his mind becomes internally steadied, composed, unified, and concentrated; then the path (suddenly) arises in him. He now pursues, develops, and cultivates that path, and while he is doing so the fetters are abandoned and the underlying tendencies eliminated.

(Emphasis mine; Bhikkhu Bodhi 2005, 268)

Usually the Theravada commentarial tradition has difficulty with this passage on the fourth type of practitioner. Why? Because sudden entry into the path has no place in the orthodox interpretation of the Theravada tradition, which is bound by the view of gradual, sequential practice and cultivation of calming and insight. As stated above, this tradition in the form that we know today developed quite late, in the fifth-century, through figures such as Buddhaghosa (Gethin 1998, 42, 55). However, it is possible to experience an instantaneous alignment of calming and insight–the most natural state of being where the mind is steady and receptive to insight.

If we temporarily put aside the Theravada commentarial tradition and just focus on the scriptures, we see that there is plenty of evidence for the precedence of the sudden path of Chan. For example, in the case of Cudapanthaka (Pāli, Culapanthaka), he had a very low intelligence and couldn’t remember anything. He followed his older brother Mahāpanthaka into the Sangha to become a monk. His brother was bright, and soon gained entry into the buddhadharma and later became an arhat. The younger brother, however, had a very hard time. Cudapanthaka was so slow that he couldn’t even remember the most basic teachings. His brother would try to teach him “All things are impermanent; therefore there is no-self.” He remembers the first line, but forgets the second line. There are a couple of versions to this story. I relate the following:

At one time Mahāpanthaka was trying to teach Cudapanthaka outside of the vihāra because it was simply too embarrassing to teach him in front of others. They were out in the fields.

Mahāpanthaka: “All things are impermanent; therefore there is no-self. Okay, now you say it.”

Cudapanthaka: “All things are impermanent. Therefore… therefore….”

Mahāpanthaka: “Therefore no-self! No-self!”

Cudapanthaka: “Yes, no-self. No-self because… because…”

Mahāpanthaka: “Because of impermanence! Try again!”

Cudapanthaka: “All things are impermanent. Therefore… therefore….” Even the farmer tilting the field turned around and said, “Therefore there’s no-self.”

Frustrated, Mahapanthaka gave up on Cudapanthaka, and left him. Cudapanthaka was so sad; all he could do was cry, and he wanted to leave Sangha. The Buddha, knowing what had happened, went to Cudapanthaka and said to him, “I will go teach you.” The Buddha didn’t bother teaching him concepts, but merely asked him to clean the vihāra.

Cudapanthaka, sweep the ground. While you do it, say, “I sweep away impurity.”

Now, mind you that it’s pointless to sweep the dust from the ground of a vihāra, a forest temple, since it is built right in the forest! It’s not like the vihāra had cement floors during the Buddha’ time that could be swept clean; it is dirt! So basically the Buddha asked him to sweep the dirt from one end of the vihāra to the other. So Cudapanthaka did that. He swept the dirt back and forth. He swept all day long, saying, “I sweep away impurity… I sweep.” In a way, practice is like moving furniture from one end of the room to another. No matter how we rearrange the pieces, there is absolutely no effect on the room! Yet, moving furniture, making it tidy and neat, does help in recognizing the spaciousness of the room.

One day, it dawned on Cudapanthaka that the ground is just dusty, impure–no matter how he swept. All he’s doing is sweeping dirt from one place to another. The Buddha knew this, and suddenly appeared to him and said, “It is not that the ground is impure, it just seems so because of the dust. It is the same with the impurity of craving, aversion, and delusion that stain your mind.” Suddenly Cudapanthaka had an insight. He realized that just like the ground in the vihāra and the dust that he swept from here to there, his mind is originally clean despite the afflictions. He persisted to meditate on this and very soon realized arhathood. This is an example of the fourth category of practitioners described in the YuganaddhaSutta.

The Buddha often spoken about practitioners who reached liberation through wisdom. There are, of course, some people who are liberated through the sequential practice of calming and insight or śamatha and then vipaśyanā. But there are some people who are liberated by a single phrase, a single teaching. Consider the KitagiriSutta (MajjhimaNikāya 70. PTS: M i 473) in which the Buddha spoke about seven different types of practitioners: Those beings who are liberated by both ways (i.e., śamatha and then vipaśyanā); those beings liberated by wisdom (i.e., vipaśyanā); those beings who are liberated through bodily witness of the samādhis (i.e., śamatha); those beings who are liberated through attainment of view; those who are released through conviction, but they are not liberated yet; those who are dharma-followers who haven’t experienced insight; and those who are conviction-followers. It is not the place to elaborate on all of these seven types but what is important here are those who are liberated through attainment of view and conviction.

This scripture states:

What is the individual liberated through view? There is the case where a certain individual does not remain touching with his body those peaceful liberations that transcend form, that are formless, but–having seen with insight–some of his vexations are ended, and he has reviewed and examined with discernment the teachings proclaimed by the Tathāgata. This is called an individual who is liberated through view. Regarding this monk, I say that he has a task to do with heedfulness. Why is that? This venerable one, when making use of suitable resting places, associating with admirable friends, balancing his [mental] faculties, will reach and remain in the supreme goal of the holy life for which clansmen rightly go forth from home into homelessness, knowing and realizing it for himself in the here and now. Envisioning this fruit of heedfulness for this monk, I say that he has a task to do with heedfulness.

What is the individual released through conviction? There is the case where a certain individual does not remain touching with his body those peaceful liberations… but–having seen with insight–some of his vexations are ended, and his conviction in the Tathāgata is settled, rooted, and established. This is called an individual who is released through conviction… (Emphasis mine; ThanissaroBhikkhu 2005)

These two types of practitioners have not attained meditative absorptions but due to the power of their insight into no-self have ended some of their vexations. Even though they have insight into the holy path, they still need to practice. In the first case, those released through view, refer to the stage just short of arhathood. In the second case, released through conviction means the practitioner no longer waivers because they have personally seen their self-nature, or no-self. They are said to be “convinced” of buddhadharma. There may still be a long while to go before they reach liberation but they would have secured the correct view. If the power of their insight is strong enough, they would have eliminated the obscuration of views (Skt., darśana-heya). In the course of practice, they will experience their self-nature or awakening again and again, their insight becomes stronger and firmer, dissolving all remaining obscuration of vexations (Skt., kleśas). This is normal, because our vexations–patterns of our habitual tendencies–are so heavy. One insight will not dissolve them all. We need to experience the emptiness of self-grasping repeatedly.

According to the early teachings, if the initial insight is substantial enough, then one becomes a “stream-enterer” (Skt., srotaāpanna). Continuing on the path, the practitioner will dissolve eighty-eight types of vexations that are in accordance with the nine levels of the three realms until they pass through the stages of “once-returner” (Skt., sakrdāgāmin), “nonreturner” (Skt., anāgāmin) and lastly, “arhathood,” which is the stage of “no more tasks to do.” Why is that? The practitioner is now incapable of being “heedless,” incapable of transgression and generating the poisons of craving, aversion, delusion, arrogance, and doubt. In the bodhisattva vehicle of the Mahāyāna, instead of eighty-eight kinds of vexations, it is one hundred and twelve.

If a person’s insight into liberation is genuine, and that person can still break precepts–do harm to other beings–then that insight is either very, very shallow, or that person has become complacent and stopped practicing. For this reason, the Buddha warns that such a person still “has a task to do with heedfulness.”

With regards to being released through conviction, does this mean we cannot be convinced of the usefulness of buddhadharma? At least not until we realize an initial awakening? No. We do not have to wait until we are enlightened to be convinced of the usefulness of practice. The point here is that when we practice, our minds are calmer, we gain clarity, and we see the benefits in our lives. We’re less reactive to things around us; we’re clearheaded. That is a “conviction” that no one can take away from you. It may be a different story if you just read a book about the benefits of practice, but haven’t really experienced it personally. If that were the case, your conviction might waver in facing life’s difficulties. As long as you’ve tasted the benefit and efficacy of buddhadharma, you will know it is good everywhere and at all times: before enlightenment, after enlightenment, and complete enlightenment. No one can take that away from you.

Chan does not generally talk about “stages of practice,” and it would be impossible to match which realization corresponds to which level of insight in the early and Mahāyāna teachings. I only mention these doctrinal points to clarify the nature of awakening and the need for continual practice.

The teaching of Silent Illumination can be found in early scriptures and in Mahāyāna scriptures as well. However, it is most prominently found in the Chinese Tientai Buddhist doctrine, in the practice and realization of “Perfect and Sudden Calming and Insight” developed by the 6th century. Tientai was one of the first Buddhist schools in China that systemized Buddhist teachings.

Tientai master Zhiyi (538-597), especially in his Great Calming and Contemplation, talks about a particular practice that’s called the “Samādhi of Wherever the Mind is Directed.” Sometimes it is also called the “Samādhi of Wakefulness of Mind” (Stevenson 1986, 75-82). In other words, this is the samādhi of wherever one is, whatever one is doing, at all times. This is the practice where the practitioner–whether standing, sitting, lying, or walking–contemplates the nature of mind and anchors that contemplation in whatever task is at hand. The contemplation is based on the four phases of mind. First: not yet thinking. Second: about to think. Third: engagement of thought. Fourth: after having thought.

These four phases lie at the heart of each instant of our own activities in daily life. Thought precedes all our actions. In this contemplation, the contemplation is so refined that one is clear of every possible state of mind. Before thoughts arise, the practitioner is already aware of the subtle intentionality of the mind. For example, “not having thought” refers to being clear of the state before intention formulates into a thought, a concept. Of course, this is a very advanced practice.

How does one contemplate? One contemplates that, at the very moment of each of these phases, the mind is identical to the nature of emptiness, intrinsically devoid of permanent entity, fixation. The practice is not trying to get rid of thoughts. There’s mentation, but one recognizes that all possible modes of mind–all modes of existence–are intrinsically existent and empty. This is the Mahāyāna approach. It neither suppresses thoughts, nor does it follow or become deluded by thoughts. At the same time of engaging with the world to benefit all beings, one appreciates that existence is like a flower in the sky or the horns on a rabbit. Do you understand?

In Tientai Buddhism’s great calming and contemplation, wherever you go, there is realization. The arising and cessation of thought simultaneously reveal the nature of emptiness. This practice is very technical and doctrinally informed. However, it is very difficult to practice. Chan formulated a much simpler approach to practice, and that is Silent Illumination: Just be here, sitting. In the very act of just sitting, you’re originally unconstrained by wandering thoughts, patterns of mind, and with the natural awareness of this moment, grounded in the body sitting. This principle can be applied to walking, standing, and lying–all modes of activities. It is just that sitting is easier, so one begins there.

forJan152014IJ-1000025

 

The Experience of Silent Illumination

It is helpful to establish a good foundation of practice by meditating with the breath. Otherwise it’ll be very hard to practice Silent Illumination. Not grasping is silence; being clear is illumination. These two are intertwined, inseparable, not sequentially but simultaneously cultivated. I have already stated that the pure practice of Silent Illumination has no stages. Why then do practitioners experience stages? They experience stages because of a kind of lopsidedness–vipaśyanā overpowering śamatha. When vipaśyanā is stronger, the mind becomes stirred and there’s no stability. There should be a balance; the mind should not enter into absorption, nor should it give rise to scattered thought. Therefore, it’s not jhāna or dhyāna, and of course it’s not discursive thinking either. Is it somewhere in between? No. When you sit, if thoughts arise, they liberate themselves in this moment. The furniture of our mind naturally does not obscure the spaciousness of the room. One simply rests in the presence of here.

Is there a need to somehow go through the stages of unifying the mind and bringing the mind to a kind of trance state–meditative absorption? No. Besides, it’s very difficult for contemporary people to do that. As stated above, even during the Buddha’s time, some people were liberated through wisdom, as opposed to meditation states or jhāna or dhyāna. The YuganandaSutta mentions this. Sometimes people can suddenly enter the path, even when they have difficulties understanding the Dharma or have obstacles.

Is it necessary to practice? Oh yes! It’s necessary to practice–to familiarize yourself with that most natural state of being, of awareness, of not getting caught up by the furniture–but recognize the veil of attachment and see that it’s empty. This can only come from practice of meditation. But remember that even when we practice, we’re not trying to gain something or get rid of something. We have to have the correct view that this coming and going of vexations is originally empty. This is not a mere concept, but the way things actually are. To practice this is to practice the sudden path.

People may misunderstand spaciousness of the mind–the natural, open, dynamic aspect of the mind is sometimes taken as a kind of “Big Self.” I’ve already said it clearly in the article, “You Are Already Enlightened,” that the Big Self is not the awakened mind or the experience of no-self. The experience of Big Self–the unified, samādhi state–is just another kind of furniture; it is a state of mind. These states of mind are like altered states of consciousness. They are not the space, the room. Is that clear? If something can be gained, it can be lost. All kinds of unified states–miraculous, infinite space, infinite light, a sense of oneness with self and others–they’re all natural states in the course of practice but they are not enlightenment. In meditation we don’t try to suppress them, just as we don’t try to suppress wandering thoughts.

It is possible to practice Silent Illumination either tensely or in a relaxed manner. Practicing tensely you may gain concentration, stability and clarity relatively quickly, but you will not be able to sustain it for long. You can only hold it for a short period of maybe 30 minutes to an hour. If the relaxed approach works well, then there is no need to use the tense approach. Silent Illumination should be practiced according to the practitioner’s condition and situation. If you’re very drowsy, the teacher may encourage you to practice more diligently or tensely. This is only expedient means. The key in practice is the simultaneous balance of śamatha and vipaśyanā.

How does Silent Illumination compare to vipaśyanā? The very nature of vipaśyanā is closely linked with impermanence, which is how everything is. All things are in motion; when we observe this change with the changing mind, it is an excellent way to gain personal experience of no-self and emptiness. This method has great resonance with Silent Illumination. However, all things that come and go–that change–are only furniture. It is not Silent Illumination. For example, the key to engaging in vipaśyanā is to contemplate what are traditionally called the four foundations of mindfulness: body, sensation, mental factors, and dharma. One contemplates them through motion, change, and interactions. The contemplating awareness itself notices change; awareness then becomes characterized by change. Realizing impermanence, we recognize the psycho-physiological flow of events and realize no-self (Mahā-SatipatthānaSutta, DighaNikāya 22. PTS: D ii 290).

In Silent Illumination, within stillness, there is function. One does not analyze or observe impermanence or change. Analysis here means watching things arise and fall and recognizing them as impermanent. In Silent Illumination, one does not engage in analysis. Instead, one is simply aware of the clarity of the totality of this moment here and now. Even though in this state, all things naturally–of their accord–come and go; there’s no need to focus on them. To do so, is to fabricate, construct a thing, to focus on the “furniture.” Nor should one fixate on stillness, a state devoid of contents. In every moment, silence and illumination–freedom from scatteredness and natural clarity–is already present in a dynamic way. This means one should not be attached to the furniture, but be naturally aware of the spaciousness or emptiness of the room. The nature of emptiness, the nature of unconstructedness, is simply freedom from fabrications. One sits without taking anything as real, concrete, fixed–not even impermanence. Yet, one is clear what’s going on. What is going on is sitting. Uncontrived and clear, the sitting then becomes seamless, and this naturalness of Silent Illumination extends to all activities of life.

Are vipaśyanā and Silent Illumination completely different? No. There is a natural resonance. The difference lies in their awareness: one centers on impermanence; the other on emptiness, or uncontrived clarity. In other words, the former is awareness of the furniture, while the latter is awareness of the room. The scenery that one experiences on these respective paths may be different, naturally, because the route is different. For example, some of you walked to the center tonight, while some of you drove a car. So far, I’ve seen no one coming by helicopter. But it is possible! Different paths naturally generate different scenery, but the environment–the center–is the same. Both arrive at the same place. The taste of liberation is the same.

There may be a slight difference in regard to the experience of no-self–the basic experience is the same–but the route or angle taken to get to the room affects how you see the room. In Chan the furniture does not obstruct the openness of the room, so the practitioner engages with the world actively, using all modes of action and challenges of life as opportunities for practice. While seated meditation and intense retreat practice play an important role in Chan, daily life as practice is more important. There is no need to avoid the commotion of daily life in order to practice in a solitary manner. In fact, such practice is perceived as selfish and obstructs the arising of compassion.

Compassion arises naturally as a result of insight in daily life. Buddhist insight is always in accordance with wisdom, the absence of the vexations. So compassion in the Chan tradition is not necessarily being sugary sweet with a big smile, letting people walk all over you. In Chan, compassion is the function of wisdom, the absence of the poisons of craving, aversion, delusion, arrogance, and doubt. True compassion is selflessness.

The Buddha, in describing what compassion is, often framed it as free from the poisons of the mind. In the often cited KālāmaSutta (AnguttaraNikāya 3.65. PTS: A i 188), which teaches that one should not rely on hearsay or authority of others, but personally experience the truth, the Buddha also explains the nature of happiness and compassion in relation to the craving and other poisons of the mind:

The uncovetous person, not overcome by craving, his mind not possessed by craving, does not kill living beings, take what is not given, go after another person’s wife, tell lies, or induce others to do likewise. All of which is for his long-term welfare and happiness. The uncovetous person, not overcome by aversion, his mind not possessed by aversion, does not kill living beings, take what is not given, go after another person’s wife, tell lies, or induce others to do likewise. All of which is for his long-term welfare and happiness. The practitioner, undeluded, not overcome by delusion, his mind not possessed by delusion, does not kill living beings, take what is not given, go after another person’s wife, tell lies, or induce others to do likewise. All of which is for his long-term welfare and happiness. (ThanissaroBhikkhu 1994)

Elsewhere (SāleyyakaSutta, MajjhimaNikāya 41), the Buddha states that:

One who abandons the destruction of life, abstains from the destruction of life, with rod and weapons laid aside, conscientious, merciful, he dwells compassionate to all living beings.

(Bhikkhu Bodhi 2005, 158-159)

From these passages, we see that to be free from the three poisons of craving, aversion, and delusion–the root causes of suffering–is to be compassionate, to bring long-term welfare and happiness to all beings. What do we call the state free from the three poisons? Wisdom! Thus, wisdom and compassion are the same. It’s not even like the two wings of a bird, or two wheels of a bicycle. It’s actually the same thing. The mirror which reflects the image; the spaciousness of the room naturally accommodates all things, all kinds of furniture–these are the workings of wisdom and compassion, the natural function of the awakened mind. So in wisdom, compassion arises naturally.

Now, can compassion be cultivated? Of course! We have to cultivate it. But we have to cultivate it on the basis of wisdom. How? Amidst daily life. This does not mean to try to get rid of aversion in order to be purposefully kind. But to be free of attachments to the furniture, and understand that all beings are intrinsically awakened–even those whom we dislike. There is no need to run from chaos or the adversity of life. With this reverence for all beings, we engage with others, with the world. In so doing, we don’t take it that we’re “helping” all beings but we see them as bodhisattvas helping us. The difficulties we face are embraced with humility, forgiveness, and gratitude.

I discuss how to practice in daily life in detail in my ebook, Essence of Chan, if you are interested. I will not elaborate on it here. Suffice it to say that the key is to be free from the vexations, the poisons of the mind, and actively cultivate virtues. For example, when a person holding a stick hits you, do you get angry at the stick or the person? No one gets angry at the stick because it is the person holding the stick. Similarly, if a person is in the grip of greed, aversion, and delusion, and has wronged you, do you get angry at the person or the three poisons? Since the one who has wronged you is under the sway of vexation, don’t see them as perpetrators, but recognize the three poisons as the culprit. In this way we can actively forgive and help others.

Do we try to correct the person who has been driven to harmful actions by vexations? Do we help them to change? Yes. Things that need to get done must be done. In the process, we free ourselves from ideas that “we’re helping”–not inject our sense of self-reference in our actions–and yet everyone is helped. We don’t let people push us around because we have to act compassionately. We help people for the sake of their own wisdom and compassion in that we allow these qualities to manifest in their own accord, in their own lives, without any set agendas or fixed patterns. This is the way of understanding the natural function of Silent Illumination in life.

[For information or to sign up for GuoGu's course at BCBS in March, please go here.]

Here is GuoGu’s article, “You are Already Enlightened,” published in the winter 2012 issue of Buddhadharma magazine.

 

Bibliography

Bodhi, Bhikkhu. In the Buddha’s Words: An Anthology of Discourses from the Pāli Canon. Boston, MA: Wisdom Publications, 2005.

Gethin, Rupert. The Foundations of Buddhism. Oxford, New York: Oxford University Press, 1998.

GuoGu. “You are Already Enlightened.” Buddhadharma: A Practitioner’s Quarterly, winter 2012: 38-43.

______. Essence of Chan: A Practical Guide to Life and Practice according to the Teachings of Bodhidharma. Boston: Shambhala Publications, 2012.

Oldenberg, Hermann, and Richard Pischel, ed. And tr. Thera- and Therī-gāthā[Verses of the Elders and Eldresses]. London: Pali Text Society, 1883.

Stevenson, Daniel. “The Four Kinds of Samadhi in Early T’ien-t’ai Buddhism.” In Traditions of Meditation in Chinese Buddhism, edited by Peter N. Gregory, 45-97. Honolulu, University of Hawaii, 1986.

Thanissaro, Bhikkhu. “Access to Insight: Readings in Theravada Buddhism.” BhikkhuThanissaro’s website: http://www.accesstoinsight.org/index.html (accessed November 2013).

Walser, Joseph. “The Origin of the Term ‘Mahāyāna’ (The Great Vehicle) and Its Relationship to the Āgamas.” Journal of the International Association of Buddhist Studies, vol 30, no. 1-2, 2007 (2009): 219-250.

closeup two dry leaflet sets with white frost

Excerpt from Hongzhichanshiguanglu

(Extensive Records of Chan Master Hongzhi)

in volume 48 of the Taisho shinshudaizokyo

© Translation by GuoGu

Wide and far-reaching without limit; pure and clean, it emits light. Its spiritual potency is unobscured. Although it is bright, there are no objects of illumination. It can be said to be empty, yet this emptiness is [full of] luminosity. It illumines in self-purity, beyond the working of causes and conditions, apart from subject and object. Its wondrousness and subtleties are ever present; its luminosity is also vast and open. Moreover, this is not something that can be conceived of as existence or nonexistence. Nor can it be deliberated about with words and analogies. Right here–at this pivotal axle, opening the swinging gate and clearing the way, it is able to respond effortlessly to circumstances–the great function is free from hindrances. At all places, turning and turning about, it does not follow conditions nor can it be trapped in models. In the midst of everything, it settles securely. With “that,” it is identical to what “that” is; with “this,” it is identical to what “this” is. “This and that” inter-fuse and merge without distinction. Therefore it is said, “Like the earth that holds up a mountain, unaware of its steepness and loftiness; like the stone that contains jade, unaware of the flawlessness of the jade. If one can be thus, this is truly leaving home. People who have left home must get hold of the essence in this way.

[For information or to sign up for GuoGu's course in March at BCBS, please go here.]

    If you found this article helpful, please consider supporting the work of BCBS…