Centri di yoga e di meditazione buddhista, scuole di tai chi, monasteri tibetani e templi induisti, sparsi per le nostre città e le nostre colline, frequentati non solo da immigrati ma prima ancora da tanti italiani che hanno trovato nelle antiche tradizioni dell’Asia una nuova via di ricerca religiosa, un sostituto della fede cristiana, giudicata inadeguata o insufficiente di fronte alle ansie spirituali della nostra epoca… Come tutti sanno, negli anni Ottanta e Novanta del secolo appena trascorso le tradizioni spirituali dell’Oriente si sono propagate tra noi con grande rapidità: molti europei e molti italiani le hanno accolte come un’alternativa vincente rispetto alle proposte religiose delle chiese cristiane e alle proposte culturali dell’Occidente. Sono sorti così in Europa e in Italia nuovi movimenti spirituali di ispirazione orientale. E la loro diffusione è stata talmente rapida e incisiva, da far credere, almeno ai più entusiasti, che fosse ormai imminente una nuova epoca, più pacifica, feconda e serena, proprio perché la via salvifica offerta dalla sapienza orientale sarebbe divenuta per noi cultura egemone e principale riferimento religioso. Ma poi qualcosa deve essersi inceppato: negli ultimi anni, infatti, la grande fase espansiva della proposta orientale sembra essersi almeno in parte rallentata, la sua forza di attrazione non risulta più così preponderante, così vincente. Intendiamoci, non è che i gruppi o le scuole dove si pratica lo yoga o la meditazione zen siano in declino e in ripiegamento. Anzi, i centri di ispirazione asiatica risultano sempre più radicati nel nostro Paese come una presenza ormai stabile e feconda: tant’è che in essi sono state creativamente elaborate nuove forme di buddhismo o di induismo di tipo occidentale, adatte ai bisogni e alle aspettative degli adepti e dei praticanti nostrani. Prova di questo avvenuto radicamento è la giusta richiesta della stipula di intese con lo Stato da parte di induisti e di buddhisti italiani: richiesta a cui colpevolmente le nostre istituzioni non hanno dato ancora piena e attuativa risposta. Eppure questa fase di consolidamento dell’Oriente italiano si direbbe oggi affetta anche da una certa stasi: i numeri dei praticanti non crescono più con la velocità di una volta, il discorso intorno alle religioni orientali risulta meno presente sui media e nel dibattito pubblico; capita meno di un tempo di incontrare nomadi dello spirito di ritorno da estatici viaggi in Asia... I segni di una crisi in atto Tutti piccoli, non vistosi ma in ogni caso significativi segni di una crisi in atto o perlomeno di una certa stanchezza che sembra affliggere il mondo dell’Oriente italiano. Tanto che vale la pena di chiedersi il perché. Ne vale tanto più la pena se si tiene conto che alla lieve crisi della proposta orientale sembra fare riscontro, almeno in Italia, un nuovo, sia pur contenuto aumento di fiducia nei confronti delle chiese cristiane. È cresciuta infatti l’attenzione per il discorso (culturale, politico, oltre che di fede) da esse proposto, come se le chiese potessero costituire di nuovo un valido punto di riferimento di fronte alle sfide del nostro tempo. Quindici o venti anni fa non era esattamente così, se mai l’inverso: l’annuncio cristiano sembrava aver perso, almeno per i tanti che guardavano all’Asia, ogni attrattiva: veniva da loro giudicato un annuncio finito, morente, rispetto alla vitalità e alla validità della sapienza orientale. Ora invece ci troviamo di fronte a una situazione almeno in parte invertita: è l’alternativa orientale che per qualche verso non pare più così adeguata come risposta ai problemi che ci affliggono. Si tratta dunque di capirne le ragioni. Ma per capirlo occorre innanzitutto esaminare i fattori che negli anni passati hanno determinato il grande successo della proposta orientale. È bene ricordare che già a fine Ottocento (basti pensare alla nascita della Società teosofica) gruppi di intellettuali europei individuavano nella sapienza orientale una via di salvezza per il declino dell’Occidente. La fascinazione dell’Oriente Ma è solo con gli ultimi decenni del secolo scorso che l’attenzione, o la fascinazione, nei confronti delle tradizioni spirituali asiatiche perde il suo carattere elitario per assumere dimensioni di massa. I nuovi movimenti spirituali che guardano a Oriente nascono infatti come ricerca di una diversa proposta salvifica e innovativa dopo la crisi delle ideologie politiche e rivoluzionarie che fino a tutti gli anni Settanta erano stati dominanti in Europa. Orfani del sogno di poter cambiare il mondo attraverso la politica, molti militanti si volgono a Oriente in cerca di una palingenesi alternativa, di una nuova rigenerazione. Ma perché proprio a Oriente? Perché il mondo occidentale – che si è rivelato immodificabile per via politica – appare loro affetto da una degenerazione rovinosa, da una crisi perniciosa, irrisolvibile sulla base delle sue sole risorse interne. Contro un Occidente dualista e oppositivo Fondato infatti su un paradigma dualista e oppositivo, che fa sorgere dolorose scissioni e devastanti conflitti fra mente e corpo, natura e cultura, individuo e società, razionalità e irrazionalità, l’Occidente – così si diceva allora – insegue il fine perverso di uno sfruttamento economico e di uno sviluppo tecnologico sempre più accelerati e fini a se stessi, con il risultato di creare alienazione individuale, ingiustizia sociale e devastazione ambientale. Lungi dal migliorare la società, il progresso occidentale trascina il mondo intero verso la rovina: e il futuro si profila come uno scenario apocalittico, a meno di non invertire il corso della storia. Ma in che modo? Appunto mettendosi in «pellegrinaggio» verso la via salvifica della millenaria saggezza orientale. L’Oriente, infatti, non è dualista ma monista: insegna che mente e corpo, natura e cultura, eternità e storia, umanità e divinità costituiscono un Uno, un grande Tutto, dove i conflitti – quelle contraddizioni che per l’Occidente paiono insuperabili – possono invece ricomporsi in una superiore armonia cosmica. Se l’Occidente sostiene che non vi può essere progresso sociale senza contesa politica – col risultato di creare società sempre più repressive e conflittuali – per contro i maestri induisti, buddhisti, taoisti insegnano che la sofferenza individuale e universale può essere dissolta con la pratica non certo della contesa ma tutto all’opposto dell’unificazione. Hanno così elaborato particolari tecniche psicofisiche – la meditazione buddhista, la respirazione taoista, gli esercizi yoga… – che non solo creano pace interiore, ma diffondono pace nel mondo intorno, permettono di uscire dalle tensioni rovinose della storia per accedere a una condizione extrastorica di divina consapevolezza: una Serenità suprema e luminosa che libera dal dolore non solo i singoli praticanti, ma il mondo intero, perché fra noi e il mondo, fra noi e la natura, fra noi e il Divino, non vi è divisione, ma appunto Unità, Totalità. Un’alternativa per gli orfani della politica Agli orfani dell’impegno politico, quindi, l’antica saggezza orientale si presenta non solo come un’alternativa al fallimento delle ideologie movimentiste che non erano riuscite a rivoluzionare il mondo: ma appare anche come la risposta adeguata, la soluzione giusta alle nuove ansie spirituali, alle nuove inquietudini religiose sorte in concomitanza con la crisi dell’impegno politico. Proprio la perdita della speranza di poter agire politicamente per una società migliore fa nascere infatti nuovi interrogativi, di carattere spirituale o religioso, prima semplicemente ignorati: chi sono io? Perché la sofferenza? Qual è il senso ultimo della vita e della morte? L’ex-militante che si sente preso da simili ansie, il più delle volte non prende nemmeno in considerazione l’annuncio cristiano, guarda invece alle vie di salvezza offerte dall’Oriente, e lì crede di trovare la risposta alla sua ricerca di spiritualità. Non si volge verso la proposta delle chiese perché nei confronti del cristianesimo tutto ha già elaborato da tempo un giudizio irrimediabilmente negativo. Ai suoi occhi infatti le chiese cristiane paiono centrare il loro messaggio sul senso di colpa e del peccato: chiedono pentimento e sottomissione, propongono una via religiosa che impone la mortificazione del corpo, la repressione dei desideri e della sessualità, la sottomissione dell’anima: «Tu sei già angosciato per i fatti tuoi, e la Chiesa, invece di aiutarti a esprimere i tuoi desideri, a liberare le tue potenzialità, ti dice che devi soffrire ancora di più e fare penitenza per i tuoi peccati…». Non solo: il cristianesimo pretende anche una «fede cieca»: chiede infatti di credere a qualche cosa che non si vede, che non si può provare: l’esistenza di Dio, la risurrezione nell’aldilà… Propone di conseguenza una speranza vaga e astratta, rimandata a un futuro indimostrabile. Per contro la saggezza orientale non esige la fede, non chiede di credere: offre la possibilità di sperimentare qui e ora un rasserenamento e un’illuminazione che cominciano subito, i cui effetti benefici si possono avvertire già nell’immediato, grazie ad una serie di esercizi concreti (lo yoga, la respirazione, la meditazione…) che apportano al tempo stesso miglioramento fisico e consapevolezza spirituale. È proprio questa unificazione fra pratiche corporee e pratiche mentali quella che permette all’adepto di percepire fin dal primo momento una trasformazione positiva del proprio Sé, una palingenesi, che comincia con un lento dissolversi delle tensioni interiori, per poi dischiudere, al limite ultimo, le porte dell’Illuminazione suprema: quel Risveglio definitivo che permette l’identificazione beatifica con il Tutto, il raggiungimento di una Consapevolezza totale, di una Pace assoluta e incondizionata. Le ragioni del successo della proposta orientale Proprio questa impostazione pratica e unificante – basata sull’insegnamento di una tecnica psicofisica che apporta benessere al tempo stesso corporeo e spirituale, senza bisogno di una confessione di fede – costituisce il punto di forza vincente, la causa prima che ha determinato il rapido il diffondersi delle tradizioni orientali nel nostro Paese. Tale punto di forza non è venuto meno fino a oggi, e su di esso si basa il radicamento, il consolidamento dei gruppi di ispirazione orientale, rinvigoriti anche dalla presenza di nuovi, più giovani praticanti, che per questioni anagrafiche non hanno vissuto la crisi del movimentismo politico. Ai delusi dell’impegno rivoluzionario, infatti, si è aggiunta negli anni successivi una nuova leva di adepti: persone che – senza più il sogno di voler cambiare il mondo – avvertono su di sé tutto il disagio, il peso di una società, come la nostra, la quale pretende dagli individui prestazioni efficienti (sul piano sociale, lavorativo, sessuale…) in un contesto di diffusa competizione e generalizzata conflittualità. Chi non riesce ad accettare le regole di questa contesa perenne – che esige molto dai singoli e che emargina i perdenti – comincia a soffrire, fisicamente, mentalmente e spiritualmente. Avverte un disagio crescente e almeno apparentemente irrisolvibile, che lo spinge a chiedersi dove mai stia andando la propria vita, che senso abbia tutto ciò per lui. Ed ecco che le pratiche dello yoga o della meditazione buddhista offrono un’inaspettata via d’uscita a tanto disagio personale: acquietano le contratture del corpo, placano la mente, rasserenano le emozioni, donano un nuova consapevolezza spirituale, dove tutte le tensioni si dissolvono, sia pure alla lunga, nella riconciliazione di una Quiete beata e illimitata. Tali esercizi psicofisici fanno dunque accedere il praticante a un’inattesa dimensione di armonia cosmica, dove il conflitto con gli altri e con se stesso si placa, dove la propria solitudine si scioglie nell’unità del Tutto, e dove quindi trova finalmente risposta la domanda più difficile: chi sono io? Ma se la capacità di rispondere a una domanda tanto ardua costituisce la ragione principale che spiega la persistenza e il radicamento in Occidente dei gruppi di ispirazione orientale, diventa allora inevitabile chiedersi: perché tali movimenti non hanno avuto ancora più successo? Che cosa ha rallentato il loro progressivo dilagare? Come mai oggi si avverte una sia pur contenuta perdita della loro forza attrattiva? La questione risulta talmente complessa che le ipotesi di spiegazione vanno cercate sicuramente su più piani. La commercializzazione delle discipline orientali La prima causa di crisi che ha colpito i gruppi di ispirazione orientale dipende proprio dal carattere specifico delle pratiche di rigenerazione al tempo stesso corporea e mentale da essi offerte. In quanto tecniche psicofisiche, infatti, tali pratiche hanno potuto facilmente, rapidamente essere assunte, copiate, manipolate e riproposte anche in ambiti che non avevano più direttamente a che fare con l’Oriente: palestre di ginnastica moderna, fitness club, alberghi termali, villaggi turistici, dove la meditazione zen e gli esercizi yoga vengono oggi insegnati insieme allo stretching, alle arti marziali, alla danza del ventre, alla ginnastica dolce… Questi nuovi centri benessere, di conseguenza, hanno tolto esclusività alle scuole di tradizione orientale, trasformando yoga, buddhismo e taoismo in un prodotto commerciale e di consumo che convive con altri metodi fisiodimanici elaborati invece in Occidente. In questo modo però le antiche dottrine dell’Asia hanno perso la loro purezza originaria, la loro dimensione più spirituale, oltre che il fascino della loro origine esotica, per ridursi a metodi di benessere utilizzabili insieme a tanti altri, contaminabili con altri metodi, da praticare e abbandonare a piacimento. Se una simile commercializzazione in chiave consumistica delle tradizioni orientali ha favorito la loro diffusione e conoscenza facendone pratiche alla moda, ha però al tempo stesso indebolito la loro identità di vie sapienziali, religiose, la loro natura di metodi difficili, esoterici, conoscibili solo attraverso l’insegnamento dei maestri più autentici, quelli che a loro volta si sono formati alla scuola di un maestro di antica tradizione. L’inadeguata riflessione sul rapporto maestro-allievo Proprio tale richiamo alla figura del maestro ci introduce a un secondo motivo di crisi, ancor più grave del primo. Occorre sottolineare che, appunto in quanto metodi complessi e di arduo apprendimento, le discipline orientali non possono essere praticate da soli, e nemmeno vagando a capriccio da un centro all’altro. È indispensabile ricevere l’insegnamento come un dono offerto dalle mani di un maestro, un guru, la cui funzione risulta fondamentale, imprescindibile, non solo perché conosce a fondo i segreti del metodo, ma prima ancora perché, con la sua stessa persona, ne dimostra l’efficacia. Il maestro delle tradizioni orientali, infatti, non può limitarsi a essere il bravo insegnante di una tecnica da apprendere. Se la disciplina che insegna porta alla Liberazione suprema, alla Rigenerazione totale, allora il maestro deve proporsi come immagine vivente di quella stessa liberazione: deve cioè presentarsi all’allievo ed essere da lui percepito come un liberato in vita, come un autentico illuminato, come la prova in carne e ossa che il risveglio alla Consapevolezza finale è possibile. Il maestro come simbolo Con la sua stessa presenza, il suo sguardo, il modo di muoversi, parlare, agire, il maestro mostra la Verità ultima sotto spoglie umane, ne diventa incarnazione e simbolo vivente. Il che però produce un effetto paradossale. Il discepolo che segue un maestro per raggiungere la Liberazione totale del proprio Sé, finisce con ciò stesso per dipendere in modo onnipervasivo dal maestro. Se vuole intraprendere il cammino verso la Liberazione, deve sottomettersi a lui, affidarsi totalmente a lui: non solo accogliere con piena fiducia il suo insegnamento ma anche offrirsi, addirittura abbandonarsi alla sua persona intera. Solo grazie a tale abbandono, il discepolo potrà alla fine liberarsi anche dal maestro stesso e divenire a propria volta un maestro, un liberato in vita. Tale tensione contraddittoria – tale dialettica paradossale fra dipendenza dal maestro e liberazione dal maestro ma solo grazie al maestro – è ben conosciuta da tutte le tradizioni orientali, che hanno sempre messo in atto i dovuti accorgimenti perché il rapporto fra maestro e allievo non decada nel plagio, nella dipendenza da un cattivo maestro che, invece di portare i propri discepoli alla liberazione, li assoggetta per sempre. I rischi possibili Ebbene, sui rischi e le possibili degenerazioni determinate da questa difficilissima dinamica fra maestro e allievo, è probabile che nei centri di ispirazione orientale diffusi in Occidente non si sia riflettuto abbastanza. Non lo si è fatto perché molti di questi centri sono nati grazie alla presenza di un singolo maestro che troppe volte ha agito incontrastato e in solitudine, senza il continuo confronto, senza quella continua supervisione reciproca, che avviene invece in Oriente, grazie alla presenza di numerose scuole sempre in collegamento fra loro. Isolato, e al tempo stesso padrone assoluto della propria scuola, il maestro occidentale ha così finito troppe volte, anche suo malgrado, per trasformarsi in un nume onnipotente e oppressivo, vale a dire in cattivo maestro che non solo ha ostacolato il cammino di liberazione dei propri allievi (provocando in molti casi turbamenti e illusioni sfociate poi in dolorose disillusioni), ma ha anche impedito, più che favorito, la formazione di nuovi possibili maestri che ne potessero in futuro prendere il posto. Sottomessi al carisma eccessivo di un unico maestro, molti centri (non tutti, ovviamente) sono entrati così in una dinamica involutiva, si sono ripiegati sulla ripetizione sempre identica degli stessi insegnamenti, sulla riproposizione continua del medesimo maestro fondatore, presentato quale unico e insostituibile guru. In questo modo però tali centri non sono stati in grado di rinnovarsi, di stabilire una dinamica di apertura verso il mondo esterno. Certo, questo processo degenerativo non ha colpito indistintamente tutte le scuole. Ma ciò che finora è mancato, probabilmente, è un dibattito condiviso ed efficace sulla natura del rapporto fra maestro e allievo. Non è stata elaborata di conseguenza una strategia adeguata per contrastarne i rischi. E tale assenza di strategia ha indebolito alla lunga la capacità propositiva, la forza attrattiva di tanti centri, impegnati più nella propria autoconservazione che non nell’impegno per fondarne di nuovi. La riduzione a comunità di nicchia Tale ripiegamento su di sé ha poi prodotto un’ulteriore trasformazione nell’identità di questi gruppi: da comunità in espansione, da nuclei allo stato nascente di mutamenti che avrebbero dovuto diffondersi in modo benefico nella società intera, i centri di ispirazione orientale si sono ridotti spesso a piccole nicchie dove trovare rifugio, sollievo, consolazione rispetto a un mondo esterno vissuto non solo come troppo ostile, ma anche come ineliminabile fonte di dolore. Fondati anni addietro sulla base del convincimento che per cambiare il mondo occorreva innanzitutto partire da sé, cambiare se stessi, molti centri avevano assunto un’identità di avanguardia: si presentavano come piccole comunità utopiche dove si sviluppavano nuove forme di consapevolezza, di convivenza armoniosa e pacifica che lentamente avrebbero influito sul resto del mondo, inaugurando una nuova era di pace universale. A poco a poco però queste pulsioni utopiche sembrano essersi spente per fare posto a una proposta più semplice e ristretta: offrire spazi protettivi dove dedicarsi alla cura di sé, dove i singoli possono trovare consolazione individuale rispetto a un ambiente troppo stressante, a un mondo troppo ostile. Ma tale metamorfosi in piccoli mondi paralleli di compensazione, conforto e rasserenamento per persone troppo stressate, ha finito col rendere i gruppi di ispirazione orientale relativamente marginali e ininfluenti rispetto ai nuovi problemi che agitano la nostra società. La mancata risposta alle domande di identità Questi problemi negli ultimi anni hanno sempre più assunto una connotazione sociale. Le dinamiche, le tensioni di una società multietnica, multiculturale, multireligiosa e globale, infatti, hanno fatto emergere in modo pressante interrogativi che riguardano non più solo la nostra identità individuale, ma prima ancora la nostra identità collettiva. Al posto della domanda sul «chi sono io» in quanto individuo, si è fatta avanti in modo dirompente una nuova domanda sul «chi siamo noi» in quanto comunità. È diventato inevitabile cioè chiedersi che cosa significa oggi essere occidentali, europei, italiani; che cosa implica volersi definire cristiani o atei o laici, di sinistra o di destra, del Nord o del Sud; come ci si deve concepire in quanto società civile, comunità religiosa, nazione, etnia; come ci si deve rapportare, in quanto collettività, rispetto a chi è altro da noi, perché straniero, migrante, rifugiato, di altra etnia, di altra religione… Sempre più ineludibile e pervasiva, tale domanda di identità collettiva interpella non solo la politica, le istituzioni, i partiti, le associazioni, le chiese, ma agita anche le coscienze dei singoli, crea ansie, tensioni e incertezze in noi tutti. È una questione che, per essere affrontata e risolta, esige l’elaborazione di adeguate strategie di integrazione sociale, di convivenza civile, di reciproco riconoscimento fra comunità diverse presenti in un unico territorio. Ma proprio perché centrata sulle nuove possibili prospettive con cui definire e progettare oggi una comunità, una società, un’unione di gruppi diversi, la questione dell’identità collettiva appartiene a una dimensione, a una logica, che non coincide con le dinamiche che regolano invece il piano individuale. È dunque una domanda che non può essere risolta riportandola semplicemente alla misura delle relazioni interpersonali. Implica un progetto politico, una visione di società che non può accontentarsi di delineare una comunità in pace in quanto costituita da un insieme armonioso di singole menti illuminate. Ora, che i problemi del mondo non possano risolversi agendo solo sul piano della trasformazione individuale, le chiese cristiane lo hanno da sempre saputo e proclamato. E infatti hanno di volta in volta elaborato progetti (giusti o sbagliati che fossero) di liberazione, di giustizia, di pace per «le genti», per le comunità del mondo intero, e non solo per singole anime in ricerca. Li hanno potuti elaborare perché il loro riferimento primario è sempre stata la Scrittura, la quale ci mostra il Signore parlare a «tutto Israele», ci mostra Gesù proclamare l’Evangelo «alle folle», «alle moltitudini» dei poveri, dei malati, dei peccatori, e non solo a singole persone in affanno (a differenza degli antichi sapienti orientali, che trasmettevano i loro insegnamenti non a popoli, non a comunità intere, ma a discepoli solitari o a piccoli gruppi scelti di laici o a pochi monaci riuniti in una grotta, in un eremo della giungla). Ed è per questo che oggi le chiese sembrano avere la capacità di proporre progetti (adeguati o meno), per rispondere all’enorme questione dell’identità collettiva che ha investito il nostro mondo. Chi sono io? Ma è proprio tale capacità che sembra invece fare difetto ai gruppi di ispirazione orientale. E qui veniamo a un’ulteriore ragione di crisi, forse la più seria di tutte. Questi gruppi infatti hanno sempre elaborato le loro proposte a partire da una domanda di identità individuale, dal quel «chi sono io? » inteso come domanda totalizzante, capace di congiungere la dimensione del singolo con quella del Tutto. La strategia di convivenza civile proposta dal mondo dell’Oriente italiano si basa infatti sulla convinzione che per liberare gli altri occorre innanzitutto liberare se stessi, e quindi lavorare primariamente su di sé. Non per egoismo, ma perché solo partendo da se stessi si potrà esprimere autentica compassione, benevolenza, equanimità verso tutti gli altri esseri viventi, verso la totalità del mondo. Ma fra il singolo individuo che lavora su di sé e il Tutto cosmico, esiste appunto la dimensione intermedia, e irriducibile, delle «genti», le quali non costituiscono soltanto una somma di singoli. E le «genti» oggi cercano risposte in quanto «genti», in quanto collettività, non solo in quanto insieme di individui. Ebbene, proprio causa della loro impostazione di partenza, i gruppi di ispirazione orientale questa risposta non sembrano ancora in grado di elaborarla, a differenza delle chiese. E ciò li ha indeboliti. Nuove prospettive per l’Oriente italiano? Per questo dunque la fiducia nei confronti delle chiese è andata crescendo, mentre sembra essere diminuita quella nei confronti dell’Oriente italiano. Ciò non significa che l’area di ispirazione orientale sia costitutivamente incapace di elaborare una risposta alle nuove domande di identità collettiva. Qua e là, infatti, s’intravedono indizi che una presa di coscienza del problema è in atto. E nuove iniziative in tal senso cominciano a essere assunte: si fanno strada, ad esempio, riflessioni su «buddhismo e società civile»; mentre per promuovere la pace nel mondo si propongono «meditazioni camminate» in luoghi pubblici (e non più solo meditazioni sedute negli spazi chiusi di un centro). Tutti piccoli, ma non irrilevanti segni che il mondo dell’Oriente italiano rimane in movimento. E se ha perso parte del proprio fascino non è detto che in futuro non sappia trovare nuove forze propositive. Il che sarebbe un bene per la società intera, la quale sempre trae giovamento dall’apporto di una nuova, feconda prospettiva culturale. E sarebbe un bene anche per le chiese. Il dialogo interreligioso infatti ne risulterebbe intensificato. E in un dialogo ben condotto, come si sa, ci si arricchisce vicendevolmente, sempre.
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