Articoli di Dharma

 

Esercitarsi al perdono
(Tratto dal libro “perdonare per guarire”
di Mario Thanavaro - Ed. Magnanelli)
 
 

 
 

 È possibile utilizzare la visualizzazione per esercitarsi al perdono. Pensiamo, ad esempio, alla sensazione di leggerezza e di gioia che ci dà anche solo immaginare di essere perdonati. Non si tratta di auto-convincimento, e quello che realmente pensa di noi la persona dalla quale desidereremmo essere perdonati non conta. Forse ci avrà completamente cancellati dalla sua mente, ma se sentiamo il bisogno di essere assolti per qualcosa vuol dire che dentro di noi c’è un malessere, un senso di vuoto, un disagio che dobbiamo smettere una volta per tutte di nutrire. Il trucco è lasciar andare la pesantezza che ci attanaglia, facendo dei respiri profondi e lasciando spazio al rasserenamento.

È necessario praticare il perdono giorno per giorno e restituire a noi stessi tutta la voglia di vivere di cui abbiamo bisogno, perché è necessaria per affrontare la vita così come si presenta, nel bene e nel male. Allontanare da noi l’odio e il livore per fare strada alla luce della pace.

Ma dove si origina il fuoco che alimenta il rancore? Quali sono i segni che ci avvertono che si è insediato dentro di noi? In genere è possibile riconoscere tre fasi del processo attraverso cui si sviluppa: la percezione di avere subito un torto, la sensazione che quel torto ci ha arrecato un danno grave e la certezza dell’offesa che brucia all’interno. Un tempo, per un’offesa ci si sfidava a duello, a volte anche all’ultimo sangue.

La reazione a un sopruso subito è caratterizzata da sensazioni intense. Sentirsi feriti ci rende rancorosi e  scatena in noi una conflagrazione di emozioni: astio, risentimento,

rabbia, ansia, paura, freddezza, ostilità, odio. Queste sono tutte emozioni che ci fanno star male e che concorrono a rendere la situazione ancora più pericolosa e minacciosa. Soprattutto da giovani avvertiamo con forza il senso di giustizia e di rivincita, il desiderio di ‘far pagare’ alla persona che ci ha oltraggiato il danno che ci ha inflitto. Questo atteggiamento induce a premeditare la vendetta, lasciandoci impantanati nel senso di profanazione di sé e di umiliazione. Ma sentimenti di questo tipo sono caratterizzati da una forte resistenza a lasciar andare, a dimenticare e a perdonare. L’idea che il sollievo sia possibile solo attraverso un’accelerazione delle emozioni diventa certezza e dà adito all’incapacità di affrontare la situazione senza creare ulteriori problemi.

La soluzione sta invece nel superamento dell’offesa e nel mirare al vertice della piramide, dove dimorano il perdono e l’equilibrio ristabilito. Questo presuppone la presa di coscienza del torto subito, il riconoscimento del dolore che esso ha causato, il contatto empatico con il nostro ‘carnefice’ - ovvero, cercare di individuare le ragioni che l’hanno spinto a farci del male - e l’offerta del perdono.

Nessuno vi dirà mai che perdonare ed essere perdonati sia facile, ma non per questo è impossibile. A questo proposito, vorrei raccontarvi una storia.

La storia narra di due amici che, durante un viaggio nel deserto, videro la loro amicizia attraversare fasi alterne di alti e bassi. Come spesso accade nei rapporti interpersonali, a momenti di grande accordo, armonia e condivisione si alternarono momenti di diverbi e litigi. Poi, uno dei due passò dalle parole ai fatti e diede uno schiaffo all’altro che, profondamente ferito, si allontanò in silenzio e scrisse sulla sabbia: “Oggi il mio migliore amico mi ha dato uno schiaffo”. I due non parlarono più dell’accaduto e proseguirono il viaggio. Dopo qualche giorno trovarono un’oasi e decisero di rinfrescarsi tuffandosi in acqua. Mentre facevano il bagno, l’amico che era stato schiaffeggiato rischiò di annegare, ma l’altro gli venne immediatamente in aiuto e lo salvò. Ripresosi dallo spavento, l’uomo si appartò e scrisse su una pietra: “Oggi il mio migliore amico mi ha salvato la vita”. Passarono altri giorni, durante i quali i due amici ritrovarono la vecchia amicizia. A un certo punto, il secondo chiese al primo: “Avrei una domanda da farti. Perché, quando ti ho dato uno schiaffo, hai scritto sulla sabbia: ‘Oggi il mio migliore amico mi ha dato uno schiaffo’ e, quando ti ho salvato, hai scritto su una pietra: ‘Oggi il mio migliore amico mi ha salvato la vita’?”. L’amico rispose: “Quando mi hai dato uno schiaffo, l’ho scritto sulla sabbia affinché il vento portasse via quel ricordo. Quando mi hai salvato la vita, l’ho scritto sulla pietra affinché il tuo gesto e la mia gratitudine rimanessero incisi per sempre”.

Questa storia fornisce ottimi spunti di riflessione. Prima di tutto perché il racconto parla di un legame interpersonale e tutti noi, in qualità di esseri viventi e sociali, ne viviamo quotidianamente almeno uno. In secondo luogo, perché parla di una relazione tra amici, il che ci porta a riconoscere quali sono le nostre relazioni prioritarie. Tuttavia, il rapporto più importante è quello che dovremmo instaurare con noi stessi. Anche se essere in armonia con noi stessi è spesso difficile, e a volte richiede il lavoro di una vita intera, è di fondamentale importanza. Dobbiamo imparare a diventare i migliori amici di noi stessi per poter in seguito costruire e crescere nelle relazioni con gli altri.

Tengo a sottolineare questo concetto perché riguarda molto da vicino il processo di guarigione al quale siamo tutti chiamati. Nel contesto della guarigione il perdono è un elemento fondamentale, ma se non siamo in grado di perdonare prima di tutto noi stessi ci riuscirà molto difficile perdonare gli altri. Il perdono non è necessario se siamo colmi d’amore: quando il cuore è amorevole, non sentiamo nemmeno l’offesa. Di fronte a una persona che ci ferisce, diciamo semplicemente: “Non sa quello che sta facendo, non si rende conto del male che arreca”. Purtroppo, il più delle volte non siamo in questo stato di grazia, di apertura di cuore e di amore; anzi, siamo piuttosto permalosi, suscettibili e pieni di rancore.

Ecco qual è il senso del ‘donare a noi stessi’: assumere nei confronti di ciò che ci accade un atteggiamento di massima apertura, per vedere il quadro degli eventi nel suo insieme e capire i torti e le ragioni di ognuno. In questo modo siamo sicuri di non tralasciare niente e di usare la nostra esperienza ai fini di una maggiore comprensione e conoscenza. Se non siamo in grado di metterci in discussione, e se ci relazioniamo con atteggiamenti rigidi e autoritari, non lasciamo spazio alla ragione dell’altro e lo escludiamo dal nostro mondo. Allo stesso tempo escludiamo anche una parte di noi, quella più ricca e più bella.


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