http://www.iep.utm.edu/n/nagarjun.htm
Vita ed Opere di Nagarjuna
di Douglas Berger - Università dell'Illinois meridionale

Spesso citato come "il secondo Buddha" dalle tradizioni asiatiche orientali del buddhismo Tibetano e Mahayana (Grande Veicolo), il maestro Nagarjuna (c.150-250 d.C.) fece taglienti critiche alle filosofie buddhista e Brahmanica sul loro sostanzialismo, la loro teoria della conoscenza, e gli approcci alla pratica. La filosofia di Nagarjuna non solo rappresenta uno spartiacque nella storia della filosofia Indiana, ma nell'insieme di tutta la storia della filosofia, poiché affronta certi assunti filosofici che ricorrono così facilmente nel nostro sforzo di comprendere il mondo. Fra questi assunti vi sono l'esistenza di sostanze permanenti, il movimento lineare e uni-direzionale della causalità, l'individualità atomica delle persone, la credenza in un'identità fissa o ‘sé’, le rigide separazioni tra la buona e la cattiva condotta e la vita benedetta o condizionata. Tutti questi assunti sono stati richiamati in una questione fondamentale dalla visione unica di Nagarjuna che è radicata nella intuizione della vacuità (shunyata), un concetto che non significa "non-esistenza" o "nichilismo" (abhava), ma piuttosto la mancanza di una esistenza autonoma (nihsvabhava). Il rifiuto dell'autonomia secondo Nagarjuna non ci lascia con un senso di privazione metafisica o esistenziale, o la perdita di una qualche speranza per l'indipendenza e la libertà, ma ci offre invece un senso di liberazione attraverso il suo dimostrare l'interconnessionalità di tutte le cose, inclusi gli esseri umani e i modi in cui la vita umana si dispiega nei mondi naturali e sociali. Il concetto centrale di Nagarjuna, della "vacuità (shunyata) di tutte le cose (dharma)", indirizzato all’incessante cambiamento e quindi ad una natura di ogni fenomeno che non è mai fissa, servì da puntello terminologico del successivo pensiero filosofico buddhista come vessazione degli opposti sistemi Vedici. Il concetto aveva fondamentali implicazioni per i modelli filosofici Indiani della causalità, l’ontologia della sostanza, l’epistemologia, le concettualizzazioni del linguaggio, etiche e teorie di salvezza e liberazione del mondo, e si dimostrò seminale perfino per le filosofie buddhiste in India, Tibet, Cina e Giappone, molto diverse da quelle stesse di Nagarjuna. In realtà, non sarebbe esagerato dire che l’innovativo concetto di vacuità di Nagarjuna, sebbene fosse ermeneuticamente appropriato in molti diversi modi per i successivi filosofi sia nell’Asia del Sud che dell’Est, fu capace di influenzare profondamente il carattere del pensiero buddhista.

 

Indice- Tavola dei contenuti
1. Vita, Leggenda ed Opere di Nagarjuna
2. il Metodo Scettico di Nagarjuna ed i suoi Obiettivi
3. Contro il Sostanzialismo Mondano ed Ultimo
4. Contro le Prove
5. Il Nuovo Spazio buddhista e la Missione
6. Riferimenti ed altre Letture

 

1. Vita, Leggenda ed Opere di Nagarjuna
Ben poco si conosce della vera vita del Nagarjuna storico. Le due più estese biografie di Nagarjuna, una Cinese e l'altra Tibetana, furono scritte molti secoli dopo la sua vita e contengono molto vivido ma storicamente inattendibile materiale, che talora raggiunge proporzioni mitiche. Tuttavia, da alcuni dettagli storici e leggende di natura pedagogica, ragionevolmente combinate coi testi a lui attribuiti, si può avere un senso del suo posto nelle tradizioni filosofiche Indiano-buddhiste.
Nagarjuna nacque "Indù", che al suo tempo connotava la fedeltà religiosa ai Veda, probabilmente in una famiglia di Brahmini di casta superiore e probabilmente nella regione Andhra del Sud dell'India. Le date della sua vita sono alquanto ignote, ma due testi a lui attribuiti possono venirci in aiuto. Questi sono in forma di epistole che furono indirizzate allo storico Re Gautamiputra Satakarni (circa 166-196 d.C.) della dinastia Satvahana settentrionale, il cui costante patronato verso i Brahmini, le continue battaglie contro i potenti governanti Shaka Satrapi del Nord ed i cui ambiziosi tentativi per l’espansione anche se alla fine senza successo, sembrano indicare che lui non potè riuscire a seguire il consiglio di Nagarjuna di adottare il pacifismo buddhista e mantenere un reame pacifico. In ogni caso, la corrispondenza imperiale metterebbe i significativi anni della vita di Nagarjuna all’incirca tra il 150 e il 200 d.C. Di base, poi, fonti Tibetane sono ben accurate nel riportare che, per studiare il buddhismo, Nagarjuna emigrò da Andhra a Nalanda, nell’attuale Bihar, il luogo in cui in seguito sorse il più grande monastero buddhista nella storia dell’insegnamento scolastico di quella tradizione in India. Questa emigrazione al nord forse seguì lo stesso percorso dei reali Shaka. Nell’intellettuale e vibrante vita di un non molto tranquillo nord dell'India, poi Nagarjuna diventò proprio un filosofo.
L'occasione per la "conversione" di Nagarjuna al buddhismo è incerta. Secondo i resoconti tibetani, era stato predetto che Nagarjuna sarebbe morto in giovanissima età, così i suoi genitori decisero di farlo deviare da questo terribile fato facendolo entrare nell'ordine buddhista, dopodiché il giovane migliorò rapidamente la sua salute. Egli poi si diresse al nord e lì cominciò la sua tutela. Un’altra più colorita leggenda cinese lo dipinge come un diabolico giovane adolescente che usa la magìa dei poteri yogici per sgusciare, con alcuni amici, nell’harem del re e sedurre le sue mogli. Quando essi furono scoperti, Nagarjuna fu in grado di scappare, ma i suoi amici furono tutti presi e messi a morte e, realizzando che la ricerca di voler esaudire i desideri era alquanto precario, Nagarjuna abbandonò il mondo e si ritirò per cercare l’illuminazione. Dopo che si fu convertito, l'abilità di Nagarjuna nella magia e nella meditazione gli fece ottenere un invito nel regno del Re dei Naga (serpenti), nel fondo dell'oceano. E mentre si trovava là, il prodigioso iniziato "scoprì i sutra della saggezza" della tradizione buddhista, noti come ‘Prajnaparamita-Sutra’ e grazie al suo grande merito, li riportò su nel mondo, e da allora in poi fu conosciuto con il nome ‘Nagarjuna’, il "serpente nobile".
Malgrado l'insistenza della tradizione e l’immersione nei testi scritturali dei competenti movimenti dei classici Theravada e dell’emergente "Grande Veicolo" (Mahayana), fu il buddhismo quello che stimolò gli scritti di Nagarjuna, e vi sono rari ma ampi riferimenti ai primitivi classici e voluminosi sutra del buddhismo ed ai testi del Mahayana, che allora erano stati composti nella lingua scelta proprio dallo stesso Nagarjuna, il Sanskrito. È molto più probabile che Nagarjuna si sforzasse sui nuovi ed eccitanti dibattiti filosofici scolastici, che si stavano espandendo in tutto il nord dell’India e tra pensatori sia Brahminici che buddhisti. In quel tempo, il buddhismo aveva forse la più antica e competente visione sistematica del mondo che vi fosse in giro, ma già allora le scuole Vediche come il Samkhya, che divideva il cosmo in entità spirituali e materiali, lo Yoga, la disciplina di meditazione e il Vaisesika, o atomismo, erano probabilmente molto ben stabilite. Ma nuove ed eccitanti cose stavano accadendo nelle sale di dibattiti. Proprio allora una nuova scuola Vedica di Logica (Nyaya) stava facendo il suo esordio letterario, proponendo un elaborato realismo che categorizzava i tipi fondamentali delle cose conoscibili nel mondo, e formulò una teoria della conoscenza che doveva servire come base per tutte le pretese alla verità, sfoderando quindi una prorompente teoria di argomentazione logica corretta e fallace. Lontano da essa, all'interno del campo buddhista, emersero "nétte di metafisici con le loro proprie dottrine di atomismo e fondamentali categorie di sostanza. Nagarjuna quindi si caricò di un forte interesse per questi nuovi movimenti Brahminici e buddhisti, uno sforzo intellettuale inaudito fino ad allora.
Nagarjuna vide nel concetto di ‘shunya’, un concetto che nella primitiva letteratura buddhista del Pali connotava la mancanza di una stabile ed inerente esistenza nelle persone, ma che fino al terzo secolo a.C. aveva anche denotato il recentemente formulato numero "zero", la chiave interpretativa al cuore dell'insegnamento buddhista, e la rovina di tutte le scuole metafisiche di filosofia che a quel tempo gli erano fiorite intorno. In realtà, la filosofia di Nagarjuna può essere ben vista come un tentativo di distruggere tutti i sistemi di pensiero che analizzavano il mondo in termini di sostanze ed essenze fisse. Le cose, in effetti, sono prive di essenza, secondo Nagarjuna, ed esse non hanno natura fissa, e infatti è solo a causa di questa mancanza di essenziale e immutabile ‘essere’ che il cambiamento è possibile, che una cosa può trasformarsi in un altra. Ciascuna cosa può avere la sua esistenza solo tramite la sua mancanza di inerente ed eterna essenza (shunyata). Con questo nuovo concetto di "vuoto o vacuità", "mancanza di essenza" "zerità-assoluta", questo prodigio alquanto improbabile fu in grado di aiutare per sempre il vocabolario e il carattere del pensiero buddhista.
Munito con la nozione di "vacuità" di tutte le cose, Nagarjuna costruì il suo ‘corpus’ letterario. Mentre l’argomento persiste ancora su quei testi che portando il suo nome possono essere affidabilmente attributi a Nagarjuna, un accordo generale sembra esser stato raggiunto nella letteratura scolastica. Poiché non è noto in quale ordine cronologico i suoi scritti furono prodotti, la cosa migliore che può essere fatta è di sistemarli in maniera tematica, in accordo alle opere principali della letteratura buddhista, di quella Brahminica, e infine dell’etica. Indirizzandosi alle scuole buddhiste che considerava metafisicamente ostinate, Nagarjuna scrisse il Mulamadhyamakakarika (Versi Fondamentali sulla Via di Mezzo), e poi, al fine di rifinire ulteriormente il suo rivoluzionario concetto recentemente coniato, il Sunyatasaptati (Settanta Versi sul Vuoto), seguito da un trattato sul metodo filosofico buddhista, il Yuktisastika (Sessanta Versi sul Ragionamento). Nelle opere indirizzate ai buddhisti, può esservi stato incluso un ulteriore trattato sul condiviso mondo empirico e la sua organizzazione sociale, vale a dire il Vyavaharasiddhi (Prova di Convenzione), che salvo per pochi versi citati, è andato perso, come pure un testo di istruzione sulla pratica, citato da un commentatore Indiano e da diversi Cinesi, il Bodhisambaraka (Preparazione all’Illuminazione). Infine, vi è un lavoro didattico sulla teoria causale del buddhismo, il Pratityasamutpadahrdaya (Il Cuore dell’Originazione Dipendente). In seguito venne una serie di opere sul metodo filosofico, che maggiormennte erano critiche di reazione alle categorie sostanzialiste ed epistemologiche del Brahman, il Vigrahavyavartani (Il Fine delle Dispute) ed il testo dal titolo non-troppo-sottile Vaidalyaprakarana (Eliminare le Categorie). Infine, vi sono pure un paio di trattati etico-religiosi indirizzati al re Gautamiputra, dal titolo Suhrlekha (Versi per un Amico) ed il Ratnavali (La Preziosa Ghirlanda). Nagarjuna fu poi giustamente un autore attivo, che indirizzò le più pressanti critiche filosofiche al buddhismo ed al Brahmanesimo del suo tempo, ed ancor più, portando le sue idee della filosofia buddhista nei campi sociale, etico e politico. Non è ancora precisamente noto quanto tempo Nagarjuna visse. Ma la storia leggendaria della sua morte ancora una volta è un tributo per il suo status nella tradizione buddhista. Biografie Tibetane ci raccontano che, quando il successore di Gautamiputra fu in procinto di salire al trono, egli era ansioso di trovare un sostituto come consigliere spirituale per seguire meglio le sue preferenze Brahmaniche, e incerto di come delicatamente o diplomaticamente comportarsi verso Nagarjuna, egli direttamente chiese al saggio di accomodarsi e mostrare compassione per la sua situazione imbarazzante di commettere un suicidio. Nagarjuna assentì, e così fu decapitato con un filo di erba sacra che egli stesso aveva tempo addietro accidentalmente sradicato mentre cercava di farsi un cuscino per la sua meditazione. L’indomabile filosofo potè solo esser portato via dalla sua stessa volontà e dalla sua stessa arma. Che sia vero o no, di questo maestro del metodo scettico si dovrebbe proprio apprezzarne l’ironia.

 

2. Il Metodo Scettico di Nagarjuna ed i suoi scopi
Al cuore di ciò che è chiamato ‘scetticismo’ vi è il dubbio, una sospensione di giudizio sulle condizioni delle cose o sulla correttezza di alcune asserzioni. Ci sono naturalmente molte cose, sia nel mondo e in ciò che le persone dichiarano sul mondo di cui si può essere dubbiosi, si può accettarle, rifiutarle, o esserne scettici. Ma oltre alle molte differenti cose di cui può esservi il dubbio, ci sono anche diversi modi di dubitare. Il dubbio può essere casuale, come quando di notte una persona ne vede un’altra ed è incerta se quell’altra persona sia un amico; può essere di principio, come quando uno scienziato rifiuta di tener conto di cause non-materiali o divine in un processo fisico che sta investigando; poi può essere sistematico, come quando un filosofo dubita di una spiegazione convenzionale del mondo, perché è alla ricerca di una spiegazione di esperienza più fondamentale, onni-inclusiva, tipo Socrate, Descartes o Husserl (Nagarjuna fu maggiormente uno scettico di questo tipo). Esso può anche essere onni-inclusivo ed auto-riflettente, un’attitudine dimostrata dal filosofo Greco Pyrrho, che dubitava di ogni asserzione, incluse le sue stesse asserzioni a dubitare di tutte le asserzioni. Di conseguenza, vi sono molti differenti tipi di scetticismo, come pure possono esservi differenti tipi di modi di dubitare. Nagarjuna fu considerato uno scettico nella sua stessa tradizione filosofica, sia dai lettori buddhisti che dagli avversari Brahmanici, e questo perché egli contestò l’essere assiomatici dei categorici essenziali presupposti e criteri di prova, assunti da quasi tutti nella tradizione Indiana. Ma, malgrado questo suo scetticismo, Nagarjuna credeva che il dubbio non doveva essere casuale, esso richiedeva un metodo. Quest’idea che il dubbio doveva essere metodico, che era un idea nata nel primitivo buddhismo, fu un’innovazione rivoluzionaria per la filosofia in India. Nagarjuna porta la novità di questa idea perfino col suggerire che il metodo di scegliere il dubbio non dovrebbe essere il suo, ma dovrebbe piuttosto essere temporaneamente prelevato dalla stessa persona con cui si sta discutendo! Però, alla fine, Nagarjuna fu convinto che quella disciplina, lo scetticismo metodico, porti da qualche parte, porti cioè specificamente alla saggezza ultima che stava al cuore degli insegnamenti del Buddha.
L'interpretazione filosofica standard del dubbio nel pensiero Indiano era stata spiegata nella scuola di logica Vedica (Nyaya). Gautama Aksapada, l'autore del testo fondamentale dei Logici Brahmanici fu probabilmente un contemporaneo di Nagarjuna. Fu lui che formulò ciò che allora doveva essere una tradizionale distinzione tra due tipi di dubbio. Il primo tipo è il dubbio casuale su un oggetto che tutte le persone sperimentano nella loro vita di ogni giorno, quando nel proprio ambiente è incontrata una qualunque cosa e per varie ragioni la si prende erroneamente per qualche altra cosa a causa dell'in-certezza di ciò che l'oggetto precisamente è. Gli esempi usati nei testi indiani è il vedere una corda e prenderla erroneamente per un serpente, o vedere una conchiglia luccicante nella sabbia e prenderla erroneamente per argento. Il dubbio che può sorgere come effetto del realizzare che uno si sbaglia o è incerto su un particolare oggetto, può essere corretto da una successiva cognizione, per esempio dando un’occhiata più da vicino alla corda, o avere un amico che vi dice che l'oggetto nella sabbia è una conchiglia e non argento. La cognizione corregge e rimuove il dubbio dando un tipo di evidenza conclusiva circa ciò che l'oggetto in questione è realmente. L'altro tipo di dubbio è specificamente il dubbio categorico, esemplificato da un filosofo che può interrogarsi o avere il dubbio sulle diverse categorie dell’essere, come l'esistenza di Dio, i modi di esistere della sostanza fisica, o la vera natura del tempo. Per chiarire questo secondo tipo di dubbio filosofico il metodo preferito dai Logici era un dibattito formale. Questi dibattiti offrivano uno spazio in cui i giudici presiedevano, stabilendo regole per argomenti e contro-argomenti, riconoscevano gli errori logici e le forme corrette di inferenza, e i due interlocutori nel cercare la verità usavano tutti i loro mezzi per stabilire la corretta posizione. Il punto è che, secondo il pensiero tradizionale Brahminico, era possibile la certa e corretta conoscenza oggettiva del mondo; uno conosceva fin dal principio tutto ciò che cercava di sapere, da ciò che quel dato oggetto di cui si è all’oscuro è, ai tipi di causalità che operavano nel mondo, fino all'esistenza e al volere di Dio per gli esseri umani. Anche se è una attitudine naturale e un fondamentale aiuto agli esseri umani nella loro vita riflessiva e in quella di tutti i giorni, lo scetticismo può essere superato, purché uno si armi con i metodi di prova supportati dalla logica di senso comune. Per i Nyaya, anche se si può dubitare di tutto e di qualsiasi cosa, qualunque dubbio può essere risolto. Il Logico del Brahmanesimo, il Naiyayika, è un astuto e realistico filosofico ottimista, ma però è onesto.
I primi buddhisti non erano pressoché così sicuri sulla possibilità della conoscenza ultima del mondo. Infatti, il fondatore della tradizione, Siddhartha Gautama Shakyamuni (il "Buddha", o il "Risvegliato"), notoriamente rifiutò di rispondere a tali ariose e ponderate domande metafisiche tipo "il mondo ha avuto un inizio o no?", "esiste Dio?", oppure, "l'anima perisce dopo la morte o no?". Convinto che la conoscenza umana dovesse essere più idonea e più utilmente dedicata alla diagnosi e cura dei propri attaccamenti auto-distruttivi e ossessioni psicologiche degli esseri umani, il Buddha paragonò una persona convinta di poter trovare le risposte a tali domande ultime ad un soldato mortalmente ferito sul campo di battaglia che, pur essendo moribondo a causa della freccia avvelenata, chiedesse di conoscere tutto su chi aveva tirato la freccia, anziché venir portato da un dottore. La conoscenza ultima non può essere raggiunta, o almeno non può essere raggiunta prima che le follie e le fragilità della vita umana portino uno alla disperazione. A meno che gli esseri umani non ottengano una auto-riflessiva illuminazione con la meditazione, l'ignoranza avrà sempre il sopravvento sulla conoscenza nella loro vita, e questo è l'imbroglio che essi dovranno risolvere per alleviare la loro malcompresa sofferenza. I primi testi tradizionali mostrano come il Buddha sviluppasse un metodo per rifiutare di rispondere a tali domande che cercavano una metafisica conoscenza ultima, un metodo che arrivò ad essere nominato il rifiuto dei "quattro-errori" (chatuskoti). Quando, per esempio, gli viene chiesto se il mondo ha un inizio o no, un buddhista dovrebbe rispondere negando tutte le risposte logicamente alternative alla questione; "No, il mondo non ha un inizio, non manca di avere un inizio, non ha e non può avere un inizio, né non ha e né non può avere un inizio". Questo rifiuto non dev’essere visto logicamente difettoso nel senso che esso viola la legge del mezzo esclusivo (A non può avere sia B che non-B), perché questo rifiuto è per principio più un rifiuto a rispondere che una contro-tesi, è più una decisione che una proposizione. Cioè, non si può obiettare a questo rifiuto dei "quattro-errori" semplicemente dicendo "il mondo ha un inizio, o non lo ha", perché il Buddha sta raccomandando ai suoi seguaci che essi non dovrebbero prendere posizione sulla questione (questo, nella moderna logica proposizionale, è noto come illocuzione). Questo rifiuto fu raccomandato perché l’interrogarsi su tali domande, dal Buddha fu considerato uno spreco di tempo prezioso, tempo che dovrebbe essere passato su un molto più importante e fattibile compito di autocontrollo psicologico. I primi buddhisti, diversamente dalle loro controparti filosofiche del Brahmanesimo, erano scettici. Ma nella loro propria visione, il loro scetticismo non rese pessimisti i buddhisti, al contrario, li rese più ottimisti, perché anche se la mente umana non poteva rispondere alle questioni ultime, essa poteva però diagnosticare e curare le sue stesse dovute malattie fondamentali e sicuramente ciò era sufficiente.
Ma essendo passati da quattro a sei secoli tra la vita di Siddartha Gautama e Nagarjuna, sentendo il bisogno di spiegare la loro visione del mondo in un sempre germogliante ambiente filosofico del nord dell’India, i buddhisti trasformarono il loro scetticismo in teoria. La dottrina fondamentale buddhista, come l’insegnamento dell’impermanenza di tutte le cose, il rifiuto buddhista di una personale identità persistente e il rifiuto di ammettere naturali universali, come "l’essere-albero" "l’essere-rosso" e simili, erano sfide per i filosofi Brahmanici. Come si può, chiederebbero gli avversari Vedici, difendere l’idea che la causalità governi il mondo fenomenico mentre simultaneamente si sostiene che non c’è alcuna misurabile transizione temporale dalla causa verso l’effetto, come i buddhisti sembrano sostenere? E se i buddhisti suppongono proprio che nessun ego duraturo possa resistere e persistere durante le nostre esperienze di vita, come fanno allora tutte le mie esperienze e cognizioni a sembrar essere in mio possesso come un soggetto unitario? Perché, se tutte le cose possono essere ridotte all’universo buddhista di un flusso di atomi che cambiano eternamente, tutti gli oggetti sembrano stabili e integri circondandomi nel mio vivido ambiente? Di fronte a queste sfide, i monaci studiosi entusiasticamente entrarono nei dibattiti al fine di rendere comprensibile la visione buddhista del mondo. Come risultato di questi scambi, un rilevante numero di scuole di pensiero buddhiste si svilupparono, di cui le due più importanti furono il Sarvastivada ("Esistenza universale") e il Sautrantika ("Vera Dottrina"). In vari modi, esse proposero teorie che rappresentavano l’efficacia causale, presente in tutte le dimensioni del tempo o istantaneamente, dell’identità personale essendo il prodotto psicologico di stati mentali complessi e interrelati e, più importante, di oggetti apparentemente stabili delle nostre esperienze di vita come se fossero meri composti di irriducibili sostanze elementari, con una loro natura "propria" (svabhava). Avendone necessità, queste scuole cercarono di completarsi, e così il buddhismo entrò nel mondo della filosofia, dei dibattiti, di tesi e verifiche, e della rappresentazione del mondo. Ed i monaci buddhisti diventarono non solo teorici, ma tra i più sofisticati teorici nel mondo intellettuale Indiano.
Il dibattito imperversò per secoli su come inserire Nagarjuna in questo contesto filosofico. Doveva poi esser visto come un tradizionale buddhista conservatore, che difendeva il consiglio stesso del Buddha per evitare la teoria? Doveva essere inteso come un buddhista del "Grande Veicolo", che sistemava le dispute che nel buddhismo tradizionale non esistevano affatto, comprensibile solo per i Mahayanisti? Poteva egli essere perfino un radicale scettico, come sembrava che lo avessero preso i suo primi lettori Brahmanici, che nonostante il suo stesso vantarsi di filosofia espose posizioni che solo alcuni filosofi potevano apprezzare? Nagarjuna sembra essersi ritenuto un riformatore, soprattutto un riformatore buddhista, per essere sicuri, ma però sospettoso che la sua stessa beneamata tradizione religiosa fosse stata adescata, contro lo stesso consiglio del suo fondatore, in giochi di epistemologia e metafisica da antiche seppur ancor seducenti abitudini intellettuali Brahmaniche. La teoria non era, come invece il pensiero dei Brahmani, uno stato di pratica e neppure era, come i buddhisti avevano iniziato a credere, la giustificazione della pratica. La teoria, nella visione di Nagarjuna, era il nemico di tutte le forme di pratica legittima, sociale, etica e religiosa. La teoria deve essere annullata tramite la dimostrazione che le sue metafisiche conclusioni buddhiste e i processi di ragionamento Brahmanico che portano verso di essa sono contraffatti, di nessun valore reale per la genuina ricerca umana. Ma, al fine di dimostrare un tale impegno, il dubbio deve essere metodico, proprio come fu metodica la filosofia che intendeva minarlo. Il metodo suggerito da Nagarjuna per portare ad annullare la teoria, curiosamente, non fu un metodo di sua invenzione. Egli sostenne come più pragmatico prendere in prestito metodi filosofici di ragionamento, in particolare quelli designati ad esporre argomenti erronei, per confutare le asserzioni e gli assunti dei suoi avversari filosofici. E questa fu la strategia scelta poiché, se uno provvisoriamente accetta i concetti e le regole di verifica dell’avversario, il rifiuto della posizione dell’avversario sarà assai più convincente per lo stesso avversario che non se uno rifiuta il sistema avversario tout-court. Questa provvisoria e temporanea accettazione del metodo di prova e categorie dell’avversario è dimostrata dal modo in cui Nagarjuna impiega differenti approcci e stili di ragionamento a seconda se egli li scrive contro i Brahmini o i buddhisti. Tuttavia, egli in modo lieve e sottile adatta a ciascuno di essi il rispettivo sistema per seguire i suoi stessi scopi di ragionamento.
Per i metafisici ed epistemiologi Brahminici, Nagarjuna accetta le varie forme di errori di logica sotto-lineati dai Logici e concorda di entrare nei loro stessi dibattiti. Ma egli coglie una variante nella forma dei dibattiti che, pur riconoscendoli come un vitale forma di discorso, non erano nient’altro che come quelli dei Nyaya. Il dibattito-tipo dei Nyaya, in stile ‘vada’ o "dibattito-verità", mette due interlocutori uno contro l'altro nel portare opposte tesi (pratijna o paksa) nel dibattito, o su un certo argomento; ad esempio, un proponente Nyaya che difende la tesi che un autorevole testimonianza verbale è una forma accettabile di prova e un proponente buddhista che argomenta che quella testimonianza non è una verità che si auto-sostiene, ma può essere ridotta solo ad un tipo di inferenza deduttiva. Ognuna di queste opposte posizioni allora servirà come ipotesi di un argomento logico da comprovare o da confutare, e la persona che confuta l’argomento avversario e stabilisce il suo proprio punto di vista vince il dibattito. Tuttavia, c’erano una varieta di tipi di questi formati standard, dai Logici chiamati ‘vitanda’, o "dibattiti-distruttivi". Nel ‘vitanda’, il fautore di una tesi cercava di stabilirla contro il suo avversario, il quale semplicemente si sforzava di confutare la visione del proponente, senza volerne stabilre o implicare una sua visione propria. Se l’avversario della tesi offerta non riusciva a confutarla, egli perdeva; ma avrebbe perso anche se, confutando la tesi dell’avversario, egli cercava di asserire o implicare una contro-tesi. Ora, mentre i Brahmani Naiyayika consideravano questa forma una buona pratica di logica per i discepoli, essi non consideravano il ‘vitanda’ come una forma ideale di dibattito filosofico, poiché mentre probabilmente poteva esporre false tesi come false, certamente non poteva stabilire la verità, e quale buona ragione o analisi filosofica poteva essere se essi non avessero potuto cercare o scoprire la verità?
Da parte sua, Nagarjuna voleva solo poter entrare nei dibattiti filosofici come ‘vaitandika’, deciso a distruggere la posizione metafisica ed epistemologica dei proponenti Brahmanici, senza l’obbligo di una controproposta. Per far questo, Nagarjuna si munì di un’intera batteria di accettate risposte ai fallaci argomenti che i Logici avevano da tempo autorizzato, come il regresso all’infinito (anavastha), la circolarità (karanasya asiddhi) e il principio di vuoto (vihiyate vadah) per assalire le posizioni meta-fisiche ed epistemologiche che egli trovava problematiche. Si dovrebbe notare che in seguito tutte le popolari e influenti scuole di pensiero del buddhismo Indiano, specificamente la scuola della Sapienza (Vijnanavada) e di Logica buddhista (Yogachara Sautranta) rifiutarono questa posizione puramente scettica di Nagarjuna e stabilirono una loro proprio positiva dottrina di coscienza e conoscenza, e fu solo con le successive e più sintetiche scuole di buddhismo del Tibet e dell’Asia Orientale che il noto approccio anti-metafisico e anti-conoscitivo di Nagarjuna ottenne una piena affinità. Non c’è dubbio, comunque, che tra i suoi avversari Vedici e i successivi commentatori Madhyamika, la strategia del "solo-confutare" di Nagarjuna fu altamente provocatoria e accese continue controversie. Ma, per sua stessa stima, impiegando solo il metodo Brahmanico contro la pratica Brahmanica, potè mostrare che la società e la religione Vedica, che egli riteneva essere l’autoritaria legittimazione della societa delle caste, usassero il mito di Dio, la rivelazione divina e l’anima come una sorta di razionalizzazione, e non le giustificate ragioni che essi presumibilmente volevano far essere.
Contro il sostanzialismo buddhista, Nagarjuna resuscitò il diniego proprio del Buddha del ‘chatuskoti’ (i quattro errori), ma gli dette un più definitivo taglio logico del precedente impiego pratico datogli da Siddhartha Gautama. Fino a quel momento, nella tradizione buddhista Indiana, vi erano stati due noti scettici, di cui uno fu il Buddha stesso e l’altro un saggio del terzo secolo di nome Moggaliputta-tissa, che vinse diversi dibattiti-chiave contro alcuni gruppi settari tradizionali, su richiesta dell’imperatore Mauryano Ashoka, e che ne scrisse l’esito nel primo grande manuale di dibattiti della tradizione. Così, mentre il Buddha fornì il metodo dei "quattro-errori" per scoraggiare la difesa di posizioni tradizionali metafisiche e religiose, Moggaliputta-tissa costruì un tipo di dibattito che esaminava le varie dispute dottrinali del primitivo buddhismo che secondo lui rappresentavano posizioni che erano ugualmente non-valide dal punto di vista logico, e quindi non dovevano essere asserite (no ca vattabhe). Forse ispirato da questo scettico approccio logicamente affilato, Nagarjuna raffinò il metodo "quattro errori" dal severo e pragmatico strumento ‘illocuzionario’ che vi era nel primitivo buddhismo in una macchina logica che dissolse le posizioni metafisiche buddhiste che avevano aumentato la loro influenza. La maggior scuola di buddhismo al tempo di Nagarjuna aveva accettato che le cose del mondo dovevano essere costituite da elementi metafisici fondamentali che avevavo una loro propria essenza fissa (svabhava), perché altrimenti non ci sarebbe stato modo di spiegare l’esistenza di persone, fenomeni naturali, o i processi causali e karmici che determinavano entrambi. Per esempio, se non si assume che le persone abbiano una natura fondamentale fissa, non si potrebbe dire che qualsiasi individuo particolare sia sottoposto alla sofferenza, e né si potrebbe dire che un qualsiasi particolare monaco che abbia perfezionato la sua disciplina e saggezza ottenga l’illuminazione e liberazione con rinascita nel nirvana. Cioè, senza una qualche nozione di essenza, pensavano i contemporanei di Nagarjuna, le asserzioni buddhiste non avevano senso, e la pratica buddhista non poteva far alcun bene, non poteva effettuare nessun vero cambiamento del carattere umano.
La risposta di Nagarjuna fu di "cacciare" questa metafisica posizione della pratica buddhista nel rotolo dei "quattro errori" a dimostrazione che il cambiamento buddhista c’era solo dopo, ed era realmente possibile solo se le persone non avevano un’essenza fissa. Perché‚ se uno veramente esamina il cambiamento trova che, secondo il ‘chatuskoti’, il cambiamento non può produrre se stesso, né può essere introdotto da un’influenza estrinseca, né può risultare da entrambi (se stesso e un’influenza estrinseca), né da nessuna influenza del tutto. Tutte le logiche alternative di una data posizione sono esaminate e bocciate dal metodo dei "quattro errori". Ci sono essenziali ragioni logiche perché tutte queste posizioni crollano. Prima di tutto esse sarebbero incoerenti (no papadyate) per assumere che ogni cosa con una natura o essenza fissa (svabhava) possano cambiare, poiché quel cambiamento violerebbe la sua natura fissa e così distruggerebbe la premessa originale. Inoltre, noi non abbiamo esperienza empirica di nessuna cosa che non cambi, e quindi non conosciamo mai (na vidyate) di essenze fisse nel mondo intorno a noi. Ancora una volta, il metodo del proponente è stato preso su in un modo ingegnoso per minare le sue conclusioni. Le regole del gioco filosofico sono state così rispettate, ma in questo caso non per cantare vittoria, ma allo scopo di mostrare a tutti i giocatori che il gioco alla lunga è stato giusto, semplicemente quel gioco che non ha avuto sostenibili conseguenze nella vita reale.
E quindi, Nagarjuna ha giustamente meritato l’etichetta di scettico, proprio perché egli ha consentito lo smantellamento di posizioni teoriche ovunque le trovasse, e in una maniera metodicamente logica. Come gli scettici della tradizione classica Greca, i quali pensavano che il dubbio risolto su asserzioni dogmatiche, sia nella filosofia che nella vita sociale, poteva portare gli individui alla pace mentale, benché tuttavia non è questo il caso, perché lo scetticismo di Nagarjuna non porta da nessuna parte. Al contrario, esso è la vera chiave per l’intuizione. Perché‚ nel processo di smantellamento di tutte le posizioni metafisiche e epistemologiche, si è guidati verso la sola conclusione vitale per Nagarjuna, e cioè che tutte le cose, concetti e persone, sono prive di un’essenza fissa, e questa mancanza di una essenza fissa è proprio come e perché essi possono essere passibili di cambiamento, trasformazione ed evoluzione. Il cambiamento c’è proprio perché le persone vivono, muoiono, rinascono, soffrono e possono essere illuminate e liberate. E il cambiamento è possibile solo se le entità e il modo in cui noi le concettualizziamo sono entrambi vuoti o vacui (shunya) di una qualsiasi essenza eterna, fissa o immutabile. In effetti, Nagarjuna anche in quest’occasione riferisce il suo speciale uso dell’approccio dei "quattro-errori" come “il rifiutare e spiegare con il metodo di svuotare” (vigraheca vyakhyane krte sunyataya vadet) concetti e cose da un’essenza. E, proprio in tutto simile ai metodi del buddhismo, una volta che questo risvolto logico è servito allo scopo, anch’esso può essere scartato in cambio, per così dire, di quella saggezza che ha conferito. Pretendere la conoscenza porta alla rovina, mentre un genuino scetticismo può portare l’essere umano verso la vera conoscenza ultima. Solo il metodo dello scetticismo si deve conformare alle regole della conoscenza convenzionale, poiché, come Nagarjuna notoriamente afferma: "Senza dipendere dalle convenzioni, la verità ultima non può essere insegnata e se la verità ultima non è compresa, il nirvana non può essere raggiunto".

 

3. Contro il Sostanzialismo mondano ed ultimo
Nel corso della vita di Nagarjuna, il buddhismo scolastico era diventato assai più che semplicemente un'istituzione incaricata a sovrintendere alle scritture trasmesse, alla tradizione ed alla ortodossia che era stata stabilita dal Concilio; esso si era sviluppato in un contesto altamente variegato e interessato alle posizioni filosofiche sia interiori che esteriori. Queste scuole lo assorbirono in se non soltanto per rappresentare l'insegnamento buddhista o per rendere disponibili i benefici della relativa pratica, ma anche per spiegare il buddhismo, per renderlo non soltanto un ragionevole discorso filosofico, ma il più supremamente ragionevole di tutti. Lo scopo ultimo della vita, cioè la liberazione dalle rinascite, sebbene in generale condiviso da tutte le soteriologie nel Brahmanesimo, Jainismo e nel buddhismo, è stato rappresentato unicamente dai Buddhisti come la pacificazione di ogni attaccamento psicologico attraverso l’estinzione (nirvana) dei desideri, che condurrebbe alla conseguente estinzione del karma ed alla eliminazione delle rinascite. Una speciale ed unica dottrina del buddhismo nel suo tentativo di tematizzare questi problemi fu la teoria del ‘non-sé’ o non-anima (anatman) e le implicazioni che essa comportò. In senso empirico, l'idea del ‘non-sé’ significava che non soltanto le persone, ma anche ciò che normalmente sono considerate le sostanze stabili della natura, in realtà non sono fisse e costanti, e che tutte le cose, dal loro senso di identità personale alle forme degli oggetti, potrebbero essere analizzate, per così dire, in particelle atomiche come loro basi. In senso ultimo metafisico, significava che nessun individuo, alla liberazione dalle rinascite, vivrà eternamente come entità spirituale e auto-consapevole (atman), ma che la serie di nascite causate dal karma ereditato avrà semplicemente un termine, riducendo, come relativo contro-valore, la quantità totale di sofferenza nel mondo. Queste teorie hanno provocato domande e critiche taglienti e profonde come, "se le cose e le persone del mondo non sono nient'altro che atomi in continuo e costante cambiamento, come può una persona avere un'ordinaria esperienza di un mondo di apparenti sostanze?", "se non c’è una identità o un ‘sé’ permanente, chi è che pratica il Dharma ed è liberato?", e "come dovremmo intendere le differenze fra gli esseri illuminati come il Buddha e quelli non-illuminati, come tutti noi?". A rispondere a tali domande non comprensibili per le menti interrogative della comunità filosofica vi fu un certo numero di distinte scuole che collettivamente vennero ad essere conosciute come scuole coinvolte "nell'analisi degli elementi" (abhidharma). Nagarjuna ricevette il suo training filosofico nei testi, nei dibattiti e nel vocabolario dei seguaci dell’Abhidharma. Le due più importanti scuole di Abhidharma erano la scuola "Sarvastivada" (Esistenza Universale) e la scuola "Sautrantika" (Vera Dottrina). Queste due scuole in-sieme sostenevano una teoria di ‘sostanzialismo’ che serviva come spiegazione sia alle domande metafisiche di tipo mondano che ultimo. Questa teoria del sostanzialismo, formulata in modo un po' diverso da ciascuna scuola, aveva due fondamentali chiavi di volta. La prima era una teoria della causalità, o il rigoroso obbligo di un evento che è seguito da un altro evento. La teoria della necessità causale era essenziale per tutto il pensiero buddhista, dato che lo stesso Gautama Siddhartha aveva fortemente asserito che tutta la sofferenza o dolore psicologico aveva una distinta causa, vale a dire l’attaccamento o il desiderio (tanha), mentre la chiave per rimuovere la sofferenza dalla propria vita e raggiungere la "tranquilità della mente" o la felicità (upeksa) del nirvana, era di eliminare la relativa condizione causale. La sofferenza è determinata da una causa definita, ma quella causa è dipendente dai comportamenti umani e da tutte le pratiche di ciascun individuo e se l’attaccamento potesse venir esorcizzato da questi comportamenti e pratiche, allora l'individuo potrebbe vivere una vita che non gli farebbe più sperimentare l’impermanenza e la perdita come dolorose, ma permetterebbe di accettare il mondo per quello che in effetti è. La teoria e la pratica buddhista erano sempre state basate sulla nozione che, non solo l’attaccamento psicologico, ma tutti quanti i fenomeni sono interdipendenti tra loro causalmente, che tutte le cose e gli eventi che accadono nel mondo sono il risultato di un’unica catena causale (pratityasamutpada). Non è possibile comprendere il buddhismo senza questa teoria causale, dato che essa apre la porta alla diagnosi ed alla rimozione della sofferenza. Tuttavia, per le scuole ‘Esistenza Universale’ e ‘Vera Dottrina’ la seconda chiave di volta fu una teoria degli elementi fondamentali, teoria che dovette provenire da ogni coerente teoria causale. Le cause, i loro esponenti filosofici raffigurati, non sono soltanto arbitrarie, ma sono regolari e prevedibili e la loro regolarità è dovuta al fatto che le cose o i fenomeni hanno loro proprie nature fisse (svabhava), che determinano e limitano i tipi di poteri causali che possono e non possono esercitare su altre cose. Per esempio, l’acqua può estinguere la sete ed il fuoco può bruciare altre cose, ma l'acqua non può causare un fuoco, proprio come il fuoco non può estinguere la sete. La struttura ed i limiti dei particolari poteri causali e dei loro effetti sono quindi radicati in quel tipo di ciò che una cosa appare essere; e la sua natura definisce ciò che essa può o non può fare ad altre cose. Ora nei loro modelli teorici, l'efficacia causale era contenuta non in tutto l'intero oggetto unificato, ma piuttosto nelle parti, nelle qualità e negli elementi atomici di cui qualunque oggetto sembra essere costituito, così nella loro costituzione, non è il fuoco che brucia ma il calore prodotto dalle relative molecole del fuoco, e non è l’acqua che estingue la sete ma la corrispondenza delle relative molecole alla ricettività delle molecole nel corpo. In effetti, in questi sistemi il fuoco era soltanto ‘fuoco’ a causa delle relative qualità molecolari e lo stesso era con l’acqua. Ma queste qualità, molecole ed elementi, avevano nature fisse e potevano quindi emettere o ricevere solo determinati poteri causali e non altri.
La differenza principale di base fra le scuole ‘Esistenza Universale’ e ‘Vera Dottrina’ nella loro difesa delle teorie buddhiste degli elementi sia causali che fondamentali, era la loro rispettiva descrizione di come queste cause operavano. Per la scuola Sarvastivada, l'effetto di una causa era già inerente nella natura della causa (satkaryavada). La mia sete è estinta non dal cambiamento fondamentale nel mio stato, ma perché l'acqua che ho bevuto ha avuto il potere di estinguere la mia sete e questo potere non giace dentro di me, ma nella cosa che sto provando a bere; ecco perché il fuoco non può estinguere la sete. Qui il cambiamento è soltanto una apparente trasformazione già potenziale negli agenti che sono interrelati. Per la scuola Sautrantika, d'altra parte, per definizione ogni effetto deve corrispondere ad un cambiamento del potere causale nello stato del ricevente e quindi, il potenziale causale diventa reale soltanto dove e quando può effettuare un reale cambiamento in qualcos'altro (asatkaryavada). Ancora, usando l'acqua a titolo illustrativo, le proprietà dell’acqua effettuano un cambiamento nelle proprietà del mio corpo, trasformando il mio stato da uno stato di sete ad uno in cui la mia sete è estinta. Il cambiamento è cambiamento di ciò che è effettuato, altrimenti sarebbe sciocco parlare di cambiamento.
Tuttavia, questa differenza apparentemente astratta o non pertinente, in questi due opposti sistemi risulta essere abbastanza rilevante, dato che le idee sostanzialiste di una natura e di un’ essenza fisse forniscono la base non soltanto per concettualizzare il mondo materiale empirico, ma anche per con-cepire la conoscenza e la comprensione della realtà ultima. Perché siccome solo l'analisi metafisica potrebbe far una distinzione fra i fenomeni ed i loro costituenti causali ultimi, tale analisi inoltre era l'unica guida sicura per sperimentare la purificazione dagli attaccamenti. Quelle cause che conducono all’irretimento nel ciclo mondano delle rinascite (samsara) non possono essere le stesse di quelle che conducono alla pace (nirvana). Questi stati di esistenza sono altrettanto differenti quanto il fuoco e l'acqua, infatti il samsara porterà i fuochi della passione proprio come il nirvana ne estinguerà la sete. E così, è il Buddha che parla, per coloro che difendevano la teoria dell'effetto come pre-esistente nella causa, che avevano il potenziale per purificare la coscienza, in contrasto con le parole di tutti gli insegnanti eterodossi; così era la pratica dei buddhisti, per coloro che sostenevano la nozione di efficacia causale esteriore, in grado di liberare uno dalle rinascite, e non invece la pratica di coloro che perpetuavano le ambizioni dell’ordinario mondo di tutti i giorni. Queste scuole, ciascuna nella loro piega unicamente buddhista, erano veri esempi degli antichi presupposti di visione karmica del mondo in cui una persona è ciò che essa fa, e ciò da cui ha tratto quel tipo di maschera fondamentale delle azioni che uno ha ereditato dalle vite precedenti, una visione del mondo che è ciò che intimamente unisce essenza, esistenza ed etica. Essere un buddhista significa precisamente distinguere fra azioni buddhiste e non-buddhiste, fra l'ignoranza e l’illuminazione, fra il mondo di sofferenza del samsara ed il puro ottenimento del nirvana.
Nel suo rivoluzionario saggio ‘Versi Fondamentali sulla Via di Mezzo’, Nagarjuna proditoriamente fa fuori questa elementare distinzione fra il samsara ed il nirvana, e lo fa nel nome stesso del Buddha. "Non c’è la minima distinzione", egli dichiara nell’opera, "fra il samsara ed il nirvana. Il limite dell’uno è il limite dell'altro". Ora come può una tal cosa essere proposta, cioè, l'identità del samsara e del nirvana, senza insidiare completamente la base teorica e gli obiettivi pratici del buddhismo come tale? Perché se non c’è differenza fra il mondo di sofferenza e l’ottenimento della pace, allora che specie di lavoro deve fare un buddhista per cercare di eliminare la sofferenza? Nagarjuna ribadisce ricordando ai filosofi buddhisti che, proprio come Siddharta Gautama Sakyamuni aveva rifiutato il sostanzialismo sia metafisico che empirico con l'insegnamento del "non-sé"(anatman) e l’interdipendenza causale (pratityasamputpada), così il buddhismo scolastico doveva rimanere fedele a questa posizione di non-sostanzialismo col rifiuto delle teorie causali che richiedevano le nozioni della natura fissa (svabhava), teorie che metafisicamente reificavano la differenza fra samsara e nirvana. Questo ulteriore rifiuto poteva essere basato sulla nuova nozione coniata da Nagarjuna, cioè la "shunyata" (vacuità o vuoto) di tutte le cose. Nagarjuna, facendo un'analisi logica delle teorie causali delle scuole Sarvastivada e Sautrantika, rifiuta le premesse delle loro teorie. L’affermazione di base che queste scuole avevano in comune era che l'efficacia causale poteva essere rappresentata solo tramite la natura fondamentale di un oggetto; il fuoco causa il bruciarsi degli oggetti perché il fuoco è composto dagli elementi del fuoco e non dagli elementi dell'acqua, e perché la regolarità e la prevedibilità dei suoi poteri causali consistono della sua essenziale base materiale. Rivitalizzando e affilando logicamente l’antico metodo buddhista dei "quattro errori" (chatuskoti), Nagarjuna cerca così di smantellare questo incisivo assunto filosofico. Contrariamente alle visioni del buddhismo scolastico, Nagarjuna trova poi che se gli oggetti avessero un'essenza fissa e stabile i cambiamenti determinati dalle cause non sarebbero logicamente comprensibili o materialmente possibili. Noi diciamo, insieme con la scuola Sarvastivada, che l'effetto pre-esiste nella causa, o ad esempio, che il bruciare del fuoco ed il dissetare dell’acqua sono inerenti ai tipi di sostanze che sono il fuoco e l’acqua. Ma se gli effetti già esistono nella causa, allora sarebbe assurdo parlare in primo luogo degli effetti, perché nella loro interazione con altri fenomeni le cause pre-esistenti non produrrebbero nulla di nuovo, essi starebbero soltanto manifestando i potenziali poteri già esibiti. Cioè, se il potenziale di bruciare è concepito esistere all'interno del fuoco ed il potenziale di estinguere la sete fosse già inerente nell’acqua, allora, Nagarjuna pensa, il bruciare ed il dissetare non sarebbero che apparenze dei poteri causali delle sostanze acqua e fuoco, e questo creerebbe la nozione di un effetto, la produzione di un nuovo, insignificante cambiamento. Se, d'altra parte, se sosteniamo la scuola ‘Vera Dottrina’ nel supporre che l'effetto non preesiste nella causa, ma che c’è un nuovo cambiamento nel mondo, allora la categoria di una sostanza si sfascia. Perché? Perché se il fuoco e l'acqua fossero sostanze stabili che possiedono una natura o essenza fisse, allora che specie di relazione potrebbero avere con altri oggetti che hanno le loro nature fisse totalmente differenti? Come si potrebbe pensare che il fuoco abbia come effetto un essere umano quando quest’ ultimo possiede una natura e quindi prende una forma che è totalmente diversa dal fuoco? Affinché una persona sia l’effetto del fuoco, la sua natura dovrebbe cambiare, dovrebbe essere distruttibile e questo altera il presupposto che la natura della persona sia fissa. Essenze stabili e fisse (svabhava), che sono concepite per essere interamente eterogenee, non potrebbero aver il modo di relazionarsi senza che la loro inizialmente supposta essenza fissa ne venga compromessa. La conclusione è che nessuna di queste due proposte spiegazioni buddhiste-sostanzialiste di efficacia causale può superare l’esame logico.
Potremmo essere tentati, di fronte a queste omissioni, di adottare teorie alternative della causalità sostenute aldifuori della tradizione buddhista per salvare l’intellegibilità della sostanza. Con i filosofi del Jaina, potremmo supporre che in qualche modo gli effetti provengano entrambi dagli inerenti poteri delle sostanze, come pure le vulnerabilità degli oggetti con cui queste sostanze interagiscono. Questo per Nagarjuna ovviamente non farà un logico, dato che sarebbe equivalente a suggerire che le cose e gli eventi sorgono o provengono sia grazie ai loro propri poteri causali che effettuati da altre cose, e cioè che l’evento A, che è il bruciare o il dissetare, è causato sia da sé-stesso che da altre cose. Ciò viola totalmente la legge del mezzo escluso, poiché una cosa non può essere caratterizzata sia da A che da non-A, e quindi non potrà servire da spiegazione. Potremmo desiderare, esausti per la ricerca di un possibile principio sostanzialiste della causalità, di optare per quella posizione totalmente anti-metafisica della scuola Indiana Materialista, che nega sia che gli eventi siano prodotti tramite i poteri causali inerenti ad essi correlati e sia che siano causati da poteri estranei. Questa completa smentita potrebbe farci credere che non esista alcun rapporto di causa-ed-effetto fra i fenomeni, ed i buddhisti non possono ricorrere a questa conclusione perché essa milita contro gli insegnamenti fondamentali del Buddha il quale disse che tutti i fenomeni empirici sorgono a causa della loro interdipendenza. Era questo l'insegnamento del Buddha stesso, e quindi nessun buddhista può ammettere che gli eventi non sono causati.
Allora, cosa dobbiamo capire da tutta questa astratta critica logica? Dobbiamo arguire che la filosofia di Nagarjuna sbocca in una sorta di strano misticismo paradossale in cui vi è un certo senso ambiguo in cui le cose dovrebbero essere considerate causalmente interdipendenti, ma interdipendenti in un modo assolutamente inspiegabile e imperscrutabile? Niente affatto! Nagarjuna non ha confutato tutte le teorie disponibili di causa ed effetto, ha rifiutato soltanto tutti i tipi di teorie sostanzialiste di causa e di effetto. Egli crede di aver mostrato che, se manteniamo il presupposto filosofico che le cose nel mondo derivano da una base materiale unica ed essenziale, allora noi ci tufferemo a piene mani nel cercare di spiegare come le cose possibilmente potrebbero collegarsi l’una con l’altra, e così poi non ci sarebbe modo di descrivere come questi cambiamenti accadono. Ma poiché sia il nostro buonsenso che le parole del Buddha affermano costantemente che i cambiamenti effettivamente accadono, ed accadono continuativamente, dobbiamo supporre che accadano in qualche modo, attraverso qualche altro fatto o circostanza dell’esistenza. Da parte sua, Nagarjuna conclude che, poiché le cose sorgono non perché i fenomeni si relazionano attraverso essenze fisse, allora esse devono sorgere a causa del fatto che i fenomeni sono privi di un’essenza fissa. I fenomeni sono malleabili, essi sono suscettibili di alterazione, di aumento e di distruzione. Questa mancanza di natura fissa (nihsvabhava), questa sorta di alterabilità delle cose significa quindi che le loro forme fisiche ed empiriche sono prodotte non sulla base di un’ essenza, come le scuole Sarvastivada e Sautrantika presuppongono, ma per il fatto che mai nulla (shunya) le definisce e le caratterizza in modo eterno e incondizionato. Non è che le cose siano in se stesse un ‘nulla’, né che le cose possiedano una positiva assenza di essenza (abhava). Il cambiamento è possibile perché una radicale indeterminatezza (shunyata) pervade tutte le forme. Il bruciare avviene perché possono sorgere le condizioni lì dove le temperature diventano incendiarie e arroventano la carne, proprio come la sete può essere estinta quando il processo del bere trasporta e trasforma l'acqua nel corpo. Gli esseri si relazionano l’uno con l’altro non a causa delle loro eterogenee forme, ma perché la loro interazione li rende suscettibili di una trasformazione continua.
Il testo ‘Versi Fondamentali sulla Via di Mezzo’ è un tour-de-force attraverso tutto il sistema cate-gorico dell'analisi metafisica buddhista (abhidharma) che aveva dato nascita ai movimenti scolastici. Nagarjuna attacca tutti i concetti di queste tradizioni che erano tematizzati secondo le metafisiche sostanzialiste ed essenzialiste, usando sempre il metodo logicamente revisionato dei "quattro-errori". Ma forse più rivoluzionario fu che Nagarjuna estese questa dottrina della "vacuità" di tutti i fenomeni, alla discussione sulla relazione tra il Buddha ed il mondo, tra il ciclo delle rinascite afflitte dal dolore (samsara) e la gioia della libertà dal desiderio (nirvana). Il Buddha, familiarmente noto come “Colui che è venuto ed andato oltre” (Tathagata), non può essere validamente considerato da Nagarjuna così come lo immaginano i buddhisti scolastici, cioè come il puro ed eterno seme dei veri insegnamenti di pace che pacifica l’illusione del mondo altrimenti contaminato. Il nome e la persona di ‘Buddha’ non dovrebbe servire come una teorica base e giustificazione di una distinzione tra l’ordinario mondo ignorante e la perfetta illuminazione. Dopotutto, ricorda Nagarjuna ai suoi lettori, tutti i cambiamenti del mondo, comprese le trasformazioni che portano all’illuminazione, sono possibili soltanto a causa della causalità interdipendente (pratityasamutpada), ed a sua volta questa è possibile soltanto perché le cose, i fenomeni, sono privi di qualunque natura fissa e quindi sono ‘vuoti’ (shunya) e disponibili alla trasformazione. Il Buddha stesso ha trasformato se stesso soltanto a causa dell’interdipendenza e della vacuità, e perciò Nagarjuna dichiara, "la natura del Tathagata è la stessa natura del mondo". Quindi questa è la ragione per cui nessuna delimitazione essenziale può essere fatta fra il mondo del dolore e le pratiche che possono condurre alla pace, perché ambedue sono solo il risultato alternativo nel nesso dell’interdipendenza mondana. Le parole e le etichette che vengono attaccate sia al mondo che all'esperienza del nirvana non sono strumenti per separare il grano della vita dalla relativa paglia, né vere coltivazioni del terreno di esperienza per l’ultra-ambiziosa "gentaglia quotidiana". Samsara e nirvana, piuttosto, significano nient’altro che l’assenza di garanzie in una vita piena di desideri, e la possibilità di cambiamento e di speranza. Nagarjuna asserisce, dicendolo a nome di tutti i buddhisti, "Noi dichiariamo che qualunque cosa che sorge dipendentemente è come quel vuoto. Questo modo di designare le cose è esattamente la Via di Mezzo". Un giuramento buddhista per evitare di soffrire non può essere preso come una denuncia del mondo, ma soltanto come un impegno per sfruttare le possibilità per la pace che sono già all'interno di esso. Le parole del Buddha e le pratiche ispirate dallo stesso Buddha non sono come piccole bandierine religiose o ideologiche che contraddistinguono un paese da un altro; piuttosto, il mondo della sofferenza ed il mondo della pace hanno stessi confini ed estensione che parlano di sofferenza, ed il Buddha è là soltanto per farvi essere consapevoli delle possibilità del mondo, e la nostra realizzazione di queste possibilità dipende esclusivamente da ciò che noi facciamo e da come interagiamo.

 

4. Controprova
La posizione apparentemente anti-teorica presa da Nagarjuna non gli ha creato molti filosofici amici fra i suoi contemporanei lettori buddhisti o tra i circoli di pensiero Brahmanici. Di sicuro, invece, vi fu che durante i successivi sette secoli di pensiero scolastico buddhista, il concetto della ‘vacuità’ fu assai più validamente articolato, e fu anche ermeneuticamente appropriato in altri sistemi, con metodi che non necessariamente sarebbero stati approvati da Nagarjuna. Shunyata fu ben presto riprodotto per estendere significati teorici non correlati dalla teoria causale in varie "nétte buddhiste, per servire come supporto di una filosofia della coscienza, per la successiva più illustre scuola Vijnanavada, o Scuola della Cognizione, e come spiegazione della natura sia epistemologica che ontologica nella scuola Yogacara-Sautrantika (Logica buddhista). Queste due scuole, nel deridere lo scetticismo di Nagarjuna, mantennero in India il loro interesse per uno stile filosofico che permetteva agli intellettuali di essere presi soltanto sulla base dell’impegno alla tesi, alla contro-tesi, alle regole della discussione ed agli standard di prova, cioè, scuole che identificavano la riflessione filosofica con le dottrine competenti di conoscenza e metafisica. Ciò è tanto più ironico dato l’evidente tentativo fatto da Nagarjuna per fuor-viare la possibilità che l'idea di vacuità fosse confutata o co-optata da questo stile di filosofeggiare, un tentativo ancora conservato nelle pagine della sua opera, il ‘Vigrahavyavartani’ (La Fine delle Dispute).
‘La Fine delle Dispute’ era in larga misura un lavoro reazionario, scritto soltanto quando le obiezioni filosofiche furono dirette contro l’approccio non-essenzialista e anti-metafisico alla filosofia da parte di Nagarjuna. L’opera fu indirizzata alla relativamente nuova scuola di pensiero Brahmanica, la scuola di dibattito filosofico di Logica (Nyaya) che, condotta in modi formali e generalmente in brevi incontri, in India era durata per circa ottocento anni prima dell’arrivo del primo letterario sistematico della scuola di logica, Gautama Aksapada. Parecchi tentativi erano stati fatti dalle scuole Jaina e buddhiste prima del Nyaya di comporre manuali per il dibattito convenzionale. Ma il Nyaya portò sulla scena filosofica Indiana una dottrina completa non soltanto di regole ed etichette del processo di dibattito, ma anche un intero sistema di inferenza che si distinse fra le forme logicamente accettabili ed inaccettabili della discussione. Infine, bypassare tutte le forme di valida discussione era un sistema epistemologico, una teoria della prova (pramanasastra), che si distinse fra vari tipi di eventi mentali che potevano essere considerati rivelazioni della verità, o corrispondenti a veri stati di affari, di quelli che non potrebbero essere valutati come mediatori della realtà oggettiva. La percezione sensoriale diretta, la discussione logica valida, l'analogia sostenibile e l’autorevole testimonianza sono state dai Logici ritenute gli unici tipi di cognizioni in grado di corrispondere alle cose o agli eventi reali nel mondo. Potevano servire come prove per le questioni che vogliamo conoscere. L’approccio del Nyaya, con alcune modifiche, per secoli venne accettato come "primo principio" filosofico da quasi tutte le altre scuole di pensiero in India, sia Vediche che non-Vediche. Infatti, in molti scontri filosofici, prima di penetrare a fondo nelle sottigliezze e nell'agonismo del dibattito filosofico avanzato, un allievo si aspettava di passare attraverso i prerequisiti di studio della grammatica Sanskrita e della logica. Tutto il pensiero e tutte le scienze positive, dall'agricoltura allo studio Vedico, alla giurisprudenza, che talora si diceva fossero perfino fondamentali e totalmente speciosi senza un training di base in "analisi critica" (anviksiki), che, secondo Gautama Aksapada, era precisamente ciò che il Nyaya era.
I Logici, diventando presto consapevoli del pensiero di Nagarjuna, opposero una tagliente critica alla sua posizione della vacuità (shunyata). Certamente nessuna affermazione, essi insisterono, potrebbe costringerci a dargli approvazione a meno che non si possa riconoscerne la verità. Ora, Nagarjuna ci ha detto che la vacuità è la mancanza di natura fissa ed essenziale che esiste in tutte le cose. Ma se tutte le cose sono prive di natura fissa, allora questo includerebbe, o no, la dichiarazione stessa di Nagarjuna che tutte le cose sono vuote? Se uno dice che tutte le cose sono prive di una natura fissa dovrebbe inoltre dire che nessuna asserzione, nessuna tesi, come quella di Nagarjuna che tutte le cose sono vuote, potrebbe esigere il supporto di un riferimento fisso. E se una tesi così fondamentale ed onni-comprensiva deve ammettere di non avere in "né un significato né un riferimento fisso, allora perché dovremmo credervi? Piuttosto, la tesi "tutte le cose sono prive di un'essenza fissa e perciò sono vuote", poiché è una quantificazione universale e quindi riguarda tutte le cose, inclusa la tesi, non confuta se stessa? I Logici qui non stanno tanto facendo l’affermazione che necessariamente lo scetticismo abbandona la sua stessa posizione, come quando una persona dicendo "Io non so niente" inconsciamente testimonia almeno la conoscenza di due cose, e cioè, come usare il linguaggio e la sua stessa ignoranza, come nel caso dell'Ironia Socratica e del Paradosso del Mentitore. È più il peso diretto che una filosofia, che rifiuta di ammettere le essenze universali, debba essere ugualmente auto-contraddittoria, poiché una negazione universale deve essa stessa essere essenzialmente vera per tutte le cose. Non dovremmo considerare Nagarjuna come una persona che, precisando ciò che altrimenti sarebbe un ingegnoso e promettente viaggio filosofico, in un batter d’occhio, salta sui suoi stessi piedi per uscire dalla porta principale? Nagarjuna, nel suo ‘La Fine delle dispute’, risponde in due modi. Il primo è un tentativo di mostrare ai Logici arroganti che, se essi esaminassero realmente in maniera critica questo fondamentale concetto di prova che frena la loro teoria della conoscenza, si troverebbero essi stessi in una posizione non migliore di quella in cui è l’affermazione di Nagarjuna. Come può, chiede Nagarjuna in una discussione estesa, qualcosa essere dimostrata in una certezza fissa, nel senso che presuppone il Naiya? Quando ci si impegna a fare qualcosa di giusto, un fatto presunto può essere dimostrato soltanto in due modi; o è auto-evidente o si dimostra vero grazie a qualcos'altro, o da un certo altro fatto, o da quella parte di conoscenza già assunta come vera. Ma se siamo d’accordo con le regole stesse della logica e discussione valida che i Logici Vedici espongono, pensa Nagarjuna, troveremo che entrambe le supposizioni sono difettose. Prendiamo l’affermazione che qualcosa possa essere provata come vera in base ad altri fatti conosciuti come veri. Supponiamo, per usare l’esempio favorito dal Logico Gautama, che io desideri conoscere quanto pesa un oggetto. Io lo metto su una bilancia per misurare il suo peso. La bilancia mi dà un risultato e per un momento questo mi soddisfa; Posso contare sulla misurazione perché le bilance possono misurare il peso. Ma attenzione, segnala Nagarjuna, il vostro ricorso all’attendibilità della bilancia è un presupposto esso stesso, non una certezza della conoscenza. Non dovrebbe essere testata anche la bilancia? Misuriamo l'oggetto su una seconda bilancia per verificare l'esattezza della prima, e la misura concorda con la prima bilancia. Ma, ancora una volta, io come posso presumere che la seconda bilancia sia esatta? Entrambe le bilancie potrebbero essere errate. E l'esercizio va avanti, poiché in linea di principio non c’è nulla che potrebbe evitare che io presuma che qualsiasi prova che io uso per verificare un pezzo di conoscenza sia essa stessa sicura oltre ogni dubbio. Così, conclude Nagarjuna, la supposizione che qualcosa può essere dimostrata con riferimento a un certo altro fatto presunto, incorre nel problema che la serie di prove non avrà mai conclusione, e ci lascia ad un regredire infinito. Se c’impegnassimo alla giustificazione opposta e proponessimo di sapere che le cose sono reali, perché sono manifeste ed auto-evidenti, allora Nagarjuna ribatterebbe che noi staremmo facendo un’affermazione vuota. Il vero scopo dell’epistemologia è di scoprire metodi attendibili di conoscenza, il che implica che dalla parte del mondo vi siano i fatti e dalla parte del conoscitore vi siano le prove che rendono quei fatti visibili alla coscienza umana. Se le cose fossero proprio auto-evidenti, ogni prova sarebbe superflua, dovremmo conoscere proprio direttamente se qualcosa è tale com’è oppure no. La pretesa dell’auto-evidenza distrugge, in un ironico modo che era sempre gradito a Nagarjuna, l’esigenza stessa di una teoria della conoscenza!
Avendo verificato sia i criteri di prova che le verifiche brevi, i Logici poterono, e storicamente in effetti lo fecero, provare una teoria alternativa di reciproca conferma. Non possiamo sapere per certo che un blocco di pietra pesi troppo per inserirlo in un tempio che sto costruendo, e non possiamo essere sicuri che la pesa che viene usata per misurare le pietre sia esatta al cento per cento, però se come risultato del pesare le pietre con una pesa io metto le pietre nella costruzione e trovo che esse ben vi si adattano, ho più ragioni per far affidamento sulla conoscenza che ho ottenuto con le reciproche conferme della misurazione e del successo pratico. Tuttavia, per Nagarjuna, questo processo non dovrebbe passare per un’epistemologia che sostiene di essere così rigorosa come i Logici Brahmanici. Infatti, questo processo non dovrebbe neppure essere considerato come ‘reciproca conferma’; esso è in realtà circolare. Io presumo che le pietre abbiano una certa misurabile massa, così io progetto uno strumento per confermare il mio presupposto, presumo che la bilancia ne misuri il peso e quindi valuto gli oggetti, ma in termini di stretta logica sto soltanto presumendo che questo mutuo processo convalidi le mie supposizioni, mentre in effetti esso non fa nient'altro che rafforzare i miei preesistenti presupposti piuttosto che darmi informazioni sulla natura degli oggetti. Allo stesso modo, possiamo dire che una certa persona è un figlio perché essa ha un padre, scherza Nagarjuna, e possiamo dire che un'altra persona è un padre perché ha un figlio, ma a parte questa mutua definizione, potremo mai noi sapere che particolare persona essa sia? Lo stesso problema, afferma Nagarjuna, c’è con il progetto di costruire una teoria di conoscenza in quanto tale. L’epistemologia e l’ontologia sono parassiti una dell’altra. Le epistemologie sono adeguatamente formulate per giustificare le preferite visioni del mondo e le ontologie sono assunte per essere giustificate con sistematiche teorie di prova, ma oltre a questi progetti che sono mutualmente teoricamente necessari, noi non abbiamo realmente un modo onesto di conoscere, se essi in realtà danno credito alle nostre credenze. Nagarjuna, per di più, ha utilizzato gli strumenti stessi del logico, in questo caso uno standard di errori argomentativi, per mostrare che è la Logica Brahmanica e la non sua filosofia della vacuità, che è inciampata su se stessa prima di avere una probabilità per poter funzionare nel mondo.
Questa, come detto sopra, fu la prima risposta di Nagarjuna all'accusa dei Logici che la filosofia della vacuità è fondamentalmente incoerente. Nondimeno, asserisce ancora Nagarjuna, nell’accusa Nyaya c’è un altro ‘principio’, che la tesi "tutte le cose sono vuote e prive di una natura fissa", è incoerente. L’affermazione "tutte le cose sono vuote", dice Nagarjuna, in primo luogo non è realmente una tesi filosofica convenzionale! Secondo le regole del Nyaya della possibile discussione logica, il primo punto nel dimostrare che un'asserzione sia vera, è l’affermazione dichiarata del fatto presunto come tesi nell’argomento (pratijna). Ora, affinché qualcosa si qualifichi come tesi filosofica convenzionale, una affermazione deve essere un fatto che riguarda un particolare oggetto o stato degli affari conoscibile nel mondo, e per il Nyaya è un aspetto di dottrina che ogni particolare oggetto o stato degli affari sia classificabile nelle loro categorie di sostanza, qualità e attività. In primo luogo, tuttavia, Nagarjuna non compra in questo mercato di categorie ontologiche e così il Logico non tanto ingenuamente sta tentando di attirarlo segretamente nel gioco ontologico, con questa accusa che l'idea della vacuità sia metafisicamente incomprensibile. Il Logico Brahmanico sta insistendo che nessuno può ingaggiarsi in una discussione filosofica senza acquisire, come minimo, una teoria delle essenze e produzioni che circondino come categorizzare le essenze. È esattamente questo stesso punto, obietta Nagarjuna, che è eminentemente discutibile! Ma poiché il Logico non ricambierà a Nagarjuna la cortesia della discussione alle condizioni di Nagarjuna, il buddhista replica nei loro termini: "se la mia affermazione (circa la vacuità) fosse una tesi filosofica, allora essa sarebbe davvero difettosa; ma poiché io non asserisco tesi, allora il difetto non è certo mio".
Quattro secoli più tardi, ad eccezione dei suoi due più grandi commentatori, questa stessa posizione di Nagarjuna non fu gradita a nessuno nella tradizione filosofica Indiana, né Brahmanica né buddhista. Era la posizione di quel tipo di critici designati come vaitandika, coloro che confutavano le posizioni filosofiche rivali pur non sostenendo essi stessi alcuna tesi. Malgrado fossero in disaccordo su altre questioni, nei secoli successivi Brahmanici e buddhisti non considerarono tale posizione come corretta filosoficamente, perché mentre una persona che se ne impadroniva poteva esporre le teorie dubbie, non era mai possibile sperare di imparare da essa la verità circa il mondo e la vita. Una tale persona, era ritenuta più facilmente un ciarlatano che non un saggio. Quindi, malgrado il titolo del suo lavoro, il tentativo di Nagarjuna di reclamare "questione principale" le teorie di prova, in breve decadde con la fine di tutte le dispute. Tuttavia, Nagarjuna chiude questo lavoro controverso e assai discusso col ricordare ai suoi lettori chi egli sia. Prostrandosi al Buddha, il Maestro, egli parla della interdipendente causalità e della vacuità. Nagarjuna al suo pubblico dice che: "niente prevarrà per coloro ai quali la vacuità non prevale, mentre tutto prevarrà per coloro ai quali la vacuità prevale". Questa è una reiterazione dell'impegno di Nagarjuna, che la teoria e la prassi non sono una compagnia in cui solo tramite la precedente giustificazione c’è la susseguente redenzione. Lo scopo della pratica dopo tutto è la trasformazione, non la fissazione, e così se si insiste nello sposare la filosofia con la pratica, non si può osservare una riflessione filosofica nell’immutabile, eterna essenza dell’abituale epistemologia e metafisica.

 

5. Il nuovo Spazio e Missione buddhista
Può esservi spazio per l’antico dibattito se Nagarjuna fosse un devoto del tradizionale e classico buddhismo Theravada, o della "nétta Mahayana (grande veicolo), che si accende per la paternità delle due lettere a lui attribuite. Ben poco si può speculare da altre opere nel corpus filosofico di Nagarjuna che potrebbe offrire un qualche sostegno alla supposizione che l'erudito del II° secolo fosse persino ben informato delle dottrine o dei personaggi del Grande Veicolo, pur se l’approfondita nozione della vacuità era quella che Mahayana aveva fissato come sua idea centrale. Le due "epistole etiche" sono indirizzate allo storico Re feudale (Satvahana) Gautamiputra Satkarni (ca. 166-196) e dunque danno a Nagarjuna un plausibile periodo storico. Con i numerosi riferimenti alla supremazia degli insegna-menti del Grande-Veicolo, esse inoltre descriverebbero Nagarjuna inequivocabilmente all'interno di questo movimento. Tuttavia, la mancanza delle versioni originali in Sanskrito del ‘Suhrllekha’ (Lettera ad un Amico) e del ‘Ratnavali’ (La Preziosa Ghirlanda), come pure l’assenza di ‘importanti’ revisioni nelle edizioni Tibetane e Cinesi, rende praticamente impossibile ogni definitiva e sicura attribuzione di esse a Nagarjuna.
Le familiari distinzioni fra i Veicoli Classico e Grande sono alquanto lise; il conservativo letteralismo scritturale e storico del primo si oppose contro il revisionismo mitologico del secondo; l'idealizzazione dell’asceta solitario che persegue la sua propria perfezione nel primo, contrasta con la visione del bodhisattva angelico e socialmente impegnato del secondo. Mentre altre opere di Nagarjuna sono pieni di onorifici passi dedicati solamente al Buddha stesso, le due epistole abbondano in elogi delle virtù dello stato angelico del bodhisattva, benché persino questi si trovano in mezzo a passaggi che esaltano le perfezioni dell’Ottuplice Sentiero e la nobiltà delle Quattro Verità. Quale che sia la precisa identificazione settaria di Nagarjuna, egli non perde mai di vista la comprensione che la pratica del Dharma buddhista è una nuova specie di Veicolo Umano, un Veicolo inteso non per trasportare gli umani da un regno ad un altro regno, ma un Veicolo in grado di generare un nuovo modo di essere persone nell'unico regno dove si è sempre vissuto.
Le ‘Lettere’ di Nagarjuna al guerra-fondaio Gautamiputra, sono in qualche modo notevoli per la relativa scarsità di consigli sull'arte di governare in modo reale. I lunghi sermoni nel ‘Suhllrekha’ (Ad un amico) sull'interpretazione corretta dei sottili insegnamenti del Mahayana sono intervallati con le presentazioni catechistiche dei meriti delle virtù monastiche e questi sono così numerosi che l'autore verso la fine della lettera concede che persino il re dovrebbe altrettanto mantenere tanti precetti enumerati quanti ne può, poiché mantenendoli tutti uguaglierebbe la forza dei più stagionati monaci. Ma tutte queste sezioni della lettera alquanto sconnesse, che persino all’interno vanno spesso da un argomento all’altro, fanno sorgere qualche motivo che non sembra essere coerente con i più tematici approcci all'idea di vacuità presente nelle altre opere e quel motivo è la supremazia della condotta virtuosa e della pratica, che ha persino un più alto e più rilevante ruolo che non l’ottenimento della saggezza.
Questo motivo è di sicuro significativo, dato il fatto che i Veicoli Classico e Grande, pur presentando entrambi che la saggezza ultima (prajna) e la compassione (karuna) erano le due virtù preminenti, discussero a fondo su quale delle due fosse la più alta. Con il Theravada che optava per la saggezza e il Mahayana per la compassione. In queste epistole, pur se Nagarjuna avverte che le intenzioni dietro gli atti morali devono essere intrise di saggezza affinché i benefici dell'atto non siano guastati, egli sollecita ripetutamente l'importanza di un retto comportamento etico. Il Dharma o retta condotta secondo la legge dell'esistenza del Buddha, ha due funzioni, una che è caratterizzata da meditativa non-azione e l'altra, egli dice, tramite il Sentiero verso lla Buddhità, passa attraverso l'azione positiva del bodhisattva. Poiché, anche se il dharma è sottile e difficile da comprendere, specialmente se vi è implicata la nozione di vacuità, così facilmente mal compresa, la relativa pratica con la coltivazione di intenzioni e attitudini morali, condurrà infallibilmente oltre il nodo dei dibattiti dottrinali. Oltre questo consiglio generale, che dovrebbe applicarsi per tutti i monaci e monache, al re è dato il consiglio che il dharma, come positivo comportamento etico, è anche "la miglior politica", perché quando uno promuove socialmente l'adesione al comportamento etico, la giustizia prevarrà nel regno ed i benefici aumenteranno per tutti, benefici che i rivali invidieranno aldilà di qualunque transitoria ricchezza materiale e i falsi sensi di potere.
Nel mondo presente e futuro, dopo tutto, soltanto le azioni hanno importanza. Infatti, sono proprio le azioni fisiche che portano ad accumulare, a seconda dei casi, karma meritorio o nocivo, e quindi il proprio destino risiede esattamente nelle nostre stesse mani. Ma tramite le azioni effettuate nel campo del samsara, tutti gli immaginabili cambiamenti sono possibili. Un principe può diventare un povero, sia di buon grado, come il Buddha, o malvolentieri. Il giovane invecchierà, e la sua bellezza si trasforma in decrepitezza, mentre l’amicizia può diventare inimicizia. È questa straziante contingenza del samsara che così spesso è sperimentata con tale angoscia. Ma, ricorda brevemente ai suoi lettori Nagarjuna, tutte queste trasformazioni possono altrettanto facilmente andare nel senso opposto, con la povertà materiale che sboccia nella ricchezza spirituale, i padri che rinascono come figli e le madri come giovani mogli, e le ferite dei conflitti che sono suturate con il filo della riconciliazione. Causalità interdipendente e vacuità del cambiamento dipendono dal fatto che le cose possono andare sempre in un senso o nell’altro, e quindi il senso in cui esse in realtà vanno dipende intimamente dai nostri propri atti. E questo porta uno a capire che per il buddhista il luogo adeguato della pratica non può essere solo il monastero, rimosso mentre prova a uscire dai meccanismi di stato, economia, classe sociale, e gli altri tumultuosi vari affari degli esseri sofferenti. Poiché non c’è differenza fra samsara e nirvana, a causa della vacuità e della natura costantemente mutevole di entrambi, quindi proprio il cambiamento che un buddhista effettua su di "né ed intorno a sé, è un cambiare il mondo, e questo costante e proficuo cambiamento è la legittima missione del buddhismo. Con la sua propria particolare e visionaria interpretazione del concetto di vacuità di tutte le cose, Nagarjuna ha perciò intessuto una posizione anti-metafisica ed anti-epistemologica insieme ad un'etica della azione che era, in riga con le sue proprie implicazioni, di trasformare l’auto-comprensione della tradizione buddhista per i millenni a venire.

 

6. Riferimenti ed Ulteriori Letture
Opere di Nagarjuna per i Buddhisti
Mulamadhyamakakarika, (Fundamental Verses on the Middle Way) translated as The Philosophy of the Middle Way by David J. Kalapuhana, SUNY Press, Albany, 1986.
Sunyatasaptati
, (Seventy Verses on Emptiness) translated by Cristian Lindtner, Nagarjuniana: Studies in the Writings and Philosophy of Nagarjuna, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987, 35-69.
Yuktisastika, (Sixty Verses on Reasoning) translated by Christian Lindtner, Nagarjuniana: Studies in the Writings and Philosophy of Nagarjuna, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987, 103-19.
Pratityasamutpadahrdaya, (The Constituents of Dependent Arising) translated by L. Jamspal and Peter Della Santina in Journal of the Department of Buddhist Studies, University of Delhi, 2:1, 1974, 29-32.
Bodhisambharaka, (Preparation for Enlightenment) translated by Christian Lindtner, Nagarjuniana: Studies in the Writings and Philosophy of Nagarjuna, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987, 228-48.

Opere di Nagarjuna per i Sistemi Brahmanici
Vigrahavyavartani, (The End of Disputes) translated as The Dialectical Method of Nagarjuna by Kamaleswar Bhattacharya, Motilal Banarsidass, Delhi, 1978.
Vaidalyaprakarana, (Pulverizing the Categories) translated as Madhyamika Dialectics by Ole Holten Pind, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987.

Epistole Etiche di Nagarjuna
Suhrllekha, (To a Good Friend) translated as Nagarjuna's Letter to King Gautamiputra by L. Jamspal, N.S. Chophel and Peter Della Santina, Motilal Banarsidass, Delhi, 1978.
Ratnavali, (Precious Garland) translated as The Precious Garland and the Song of the Four Mindfulnesses by Jeffrey Hopkins, Lati Rimpoche and Anne Klein, Vikas Publishing, Delhi, 1975.

 

Tradotto da Aliberth (Alberto Mengoni) nel mese di Marzo 2008, per conto del Centro Nirvana, senza scopo di lucro, ma esclusivamente per il bene degli esseri di buona volontà. OM MANI PADME HUM