Traduzioni di Dharma


ANCORA QUALCOSA SULLO ZEN 
Di Faby Ale Pecora (Tradotto e ricomposto da Aliberth)
http://www.facebook.com/fabian.a.pecora#!/notes.php?id=1159375696&notes_tab=app_2347471856
 

Prova a cercarlo, se ti piace. Ma lo Zen, proviene da dentro noi stessi. Il vero Zen si presenta nella vita quotidiana, ed è la coscienza in azione. Più che una qualche limitata percezione, esso apre ciascuna delle porte interiori alla nostra natura infinita. Rende all'istante libera la mente. E come la libera! Invece, il falso Zen tormenta il cervello come una fiction creata da sacerdoti e mercanti per vendere i loro prodotti. Guardatelo in questo modo, dentro e fuori: La coscienza è ovunque, in ogni luogo, perfetta e completa in voi. Dopodiché, non si potrà evitare di vivere umilmente e in una costante meraviglia.

Un commento: Inayat Khan racconta la storia hindù di un piccolo pesce che, vedendo un pesce-reale, gli chiese: "Ho sempre sentito parlare del mare, ma cos’è il mare? E dove stà?". E il pesce-reale gli rispose: "Tu vivi, ti muovi e mantieni il tuo essere nel mare. Il mare è dentro di te, intorno a te, e tu sei fatto di mare e morirai nel mare. Il mare ti circonda, è il tuo stesso essere" [...] Ecco perché lo Zen è stato così riassunto:

“Una trasmissione speciale di Illuminazione al di fuori delle Scritture;

Che non fa affidamento sulle parole e le lettere;

Ma punta direttamente alla Mente-cuore dell'uomo:

Guardando direttamente dentro la propria Natura Originale”.

Lo Zen è stato introdotto in Cina da Bodhidharma. Bodhidharma era la ventottesima  generazione dei discepoli del Buddha. In quel periodo, la Cina era divisa in diversi stati rivali tra di loro. Il disordine regnava dappertutto a causa delle rotture prodotte dalla lotta per il potere. Il paese era sottomesso ai tiranni e insanguinato dalle rivolte. La dinastia Liang dominava uno degli stati di quest’antica Cina. L’Imperatore Wu-Ti, ardente buddhista, era a capo di questa dinastia e sentì parlare di Bodhidharma, così lo invitò a palazzo. Alla domanda di Wu-Ti: “Qual è il principio fondamentale del buddhismo?” Bodhidharma disse: “Un immenso vuoto. Un limpido cielo. Un cielo chiaro in cui gli illuminati non si distinguono dagli ignoranti. Il mondo stesso così com’è”. Wu-Ti, anche se era un fervente buddhista, non capì il messaggio di Bodhidharma, e quest’ultimo capì che l’ora della diffusione dello Zen in Cina non era ancora arrivata, così attraversò il fiume Yangtze e si ritirò sulle montagne del nord, al tempio di Shao-lin. Lì praticò Zazen davanti ad un muro per nove anni, alcuni dicono senza interruzione.

Lo Zen in Cina si diffuse poi rapidamente nelle sei generazioni successive, grazie ad Eno (Huei-Neng) considerato uno dei più grandi patriarchi Zen Cinesi. Da Eno nacque un fiore di loto con cinque petali. Questa frase significa che lo Zen si aprì come un fiore con cinque petali e si diffuse in tutto il paese attraverso le cinque scuole che emersero dal lignaggio del Maestro Eno. Queste scuole sono: Igyo, Hongen, Soto, Unmon, Rinzai. Nelle montagne e foreste della Cina cominciarono a costruirsi migliaia di templi, in cui vivevano migliaia di persone che si dedicavano allo studio ed alla pratica del Buddha- Dharma. Con il tempo, lo Zen impregnò la civiltà cinese elevando il suo pensiero, la cultura e l'arte di vivere ad altezze sublimi. Di queste cinque scuole cinesi, solo tre arrivarono in Giappone: Soto, Rinzai e Obaku (quest'ultima è considerata una succursale della scuola Rinzai). Le altre si estinsero in Cina.

Però, se ci vien detto che la verità dello Zen è evidente di fronte ai nostri occhi in ogni momento della giornata, questo non deve portarci troppo lontano. A noi può non sembrare che gli eventi quotidiani abbiano un qualcosa di notevole, non pare che ci sia niente di che nel vestirsi, mangiare il cibo, o che il lavarsi le mani possa indicare la presenza del Nirvana o del Buddha. Tuttavia, quando un monaco chiese al Maestro Chao-chou "Che cos'è il Tao?", egli rispose: "La vita comune è il Tao stesso”. Il monaco chiese ancora: "Come possiamo accordarci con esso?" (cioè, "Come possiamo essere in unità e armonia con esso?"). Chao-Chou rispose: "Se provi ad accordarti con esso, ti allontani da esso"; poi la vita, considerata come la serie dei vari eventi quotidiani, è in essenza sfuggente e indefinibile; non rimane mai la stessa neanche per un solo momento; non possiamo neanche far sì che si acquieti per analizzarla e definirla. Se proviamo a riflettere su quanto velocemente il tempo passa e come le cose cambiano, la mente si trasforma in un turbinio. E così, più ci sforziamo di cogliere l'attimo, di sentire una sensazione piacevole o di definire qualcosa in un modo che sia soddisfacente per tutti in ogni momento, più tutto risulta evasivo e sfuggente. È stato detto che ‘definire’ significa ‘uccidere’, e che se il vento si fermasse per un attimo così che noi si possa entrare in possesso di esso, cesserebbe di essere il vento. La stessa cosa vale per la vita. Le cose e gli eventi sono continuamente in movimento e cambiamento, perciò non possiamo impossessarci del momento e costringerlo a stare con noi, non possiamo riportare indietro il tempo passato, o mantenere per sempre una sensazione passeggera. Quando tentiamo di farlo, tutto ciò che si ottiene è un ricordo morto, una realtà che non c'è, e da ciò non può derivare alcuna soddisfazione. Se improvvisamente ci rendiamo conto di essere felici, più si cerca di pensare a un modo per preservare la nostra felicità, più veloce essa ci sfugge. Cerchiamo di definire la felicità, allo scopo di sapere come trovarla quando ci sentiamo infelici. Un uomo pensa: "Sono felice di rimanere in questo luogo. Perciò, per me la felicità è il poter venire a stare qui". E la prossima volta che ti senti infelice tenterai di applicare questa definizione, tornerai in quel dato posto e scoprirai che ciò non ti rende felice. Esisterà soltanto il ricordo morto della felicità, e la definizione non servirà più. La felicità è come gli uccelli blu di Maeterlink: se li catturi perderanno il loro colore: ed è anche come cercare di trattenere l'acqua nelle proprie mani: più forte si preme, più velocemente essa scivolerà tra le dita. Pertanto, quando ad un maestro Zen fu chiesto: "Qual è il Tao?", egli subito rispose: "Continua a camminare!"; Noi possiamo comprendere la vita solo camminando alla pari con lei; attraverso una piena affermazione ed accettazione delle sue magiche trasformazioni ed infinite variazioni.

È grazie a questa accettazione che il discepolo Zen si sente invaso da una grande ammirazione, per il fatto che tutte le cose si rinnovano sempre. L'origine dell'universo si produce qui ed ora, poiché tutte le cose si stanno creando proprio adesso, e la fine dell'universo è adesso, poiché tutte le cose stanno morendo proprio in questo momento.

Talvolta, lo Zen è definito come "andare dritto" o "andare avanti", poiché lo Zen significa muoversi con la vita, senza cercare di fermare o interrompere il suo flusso. E’ una conoscenza immediata delle cose, proprio mentre vivono e muoiono, che si differenzia dalla mera comprensione delle idee e dei sentimenti riguardo le cose, che sono simboli morti di una viva realtà. Perciò, il maestro Takuan dice in relazione all'arte della scherma (Kendo) - arte fortemente influenzata dai principi dello Zen:

“Questo - ciò che potrebbe essere chiamato un’attitudine mentale di "non interferenza" - è l'elemento più vitale dell'arte della scherma, come pure dello Zen. Se tra due azioni c’è spazio anche solo per un capello, questa si chiama interruzione. Con ciò si intendeva dire che il contatto tra un avvenimento e la reazione ad esso non dovrebbe essere interrotto dal pensiero discorsivo, poi continua: “Quando si battono le mani, il suono è prodotto senza nemmeno pensare. Il suono non spera né pensa prima di manifestarsi. Non vi è nessuna interruzione, un movimento segue l’altro senza essere interrotto dalla mente cosciente. Se vi sentite a disagio e meditate su cosa fare, di fronte a un avversario che sta per colpirvi, ciò darà luogo, cioè una felice opportunità, per il suo colpo mortale. Fate che la vostra difesa segua il suo attacco senza la minima interruzione, e allora non ci saranno due movimenti distinti noti come ‘attacco e difesa’. Quindi, se l’"attacco", rappresenta il mondo esteriore, o la vita, e la "difesa" la nostra stessa reazione alla vita, bisogna riconoscere che ciò significa che la distinzione tra "sé-stessi" e la "vita" è distrutta, l'egoismo scompare quando il contatto tra i due è così immediato da muoversi insieme, mantenendo lo stesso ritmo. Takuan più avanti dice:

“[...] Nello Zen, e così pure nella scherma, si dà grande valore ad una mente che non sia vacillante, senza interruzioni, né distanza. E nello Zen si allude anche ai lampi, o scintille, che si verificano con l'impatto tra due pietre. Se questo si comprende per dar loro il senso della velocità, si commette un errore pietoso. L'idea è di dimostrare la contiguità dell'azione, un movimento ininterrotto di energia vitale. Ogni volta che si permette un’interruzione da qualcosa che non è in rapporto vitale con quella occasione, si può stare certi che si perderà la propria posizione. Questo, ovviamente, non esprimerà il desiderio che le cose si facciano in modo imprudente o nel più breve tempo possibile. Se si nutriva questo desiderio, la sua sola presenza dovrebbe costituire una interruzione.

Ciò per molti versi è simile a quando si ascolta la musica; se noi ci fermiamo a considerare le nostre reazioni intellettuali o emotive su una sinfonia prodotta, ad analizzare la esecuzione di un accordo o a fermarsi ad una determinata frase, si perde la melodia. Per ascoltare l'intera sinfonia, uno dovrebbe concentrarsi sul flusso delle note e delle armonie mentre si stanno producendo, mantenendo la mente continuamente soggiogata al ritmo stesso. Riflettere su ciò che è successo, riflettere su quello che verrà, o analizzare l'effetto che ha su di noi, equivale ad interrompere la sinfonia e perdere la realtà. Tutta l'attenzione deve essere rivolta alla sinfonia, dimenticandoci di noi stessi; se si cerca in modo consapevole di concentrarsi sulla sinfonia, la mente è deviata a causa del pensiero in cui si sta cercando di focalizzarci; è per questo motivo che Chao-Chou disse al monaco che se voleva cercare di armonizzarsi con il Tao, doveva staccarsi da esso. Perciò lo Zen fece più che un semplice limitarsi a dire all'uomo di ascoltare la sinfonia senza pensare alle reazioni che essa gli provocava! Infatti, anche il semplice fatto di dire a qualcuno di non pensare alle sue stesse reazioni indipendenti, significa già “farlo pensare” a non pensare ad esse! Perciò, lo Zen adottò il metodo positivo di separare la sinfonia dalla vita stessa. [...]”

Conoscere la natura di Buddha significa conoscere la vita, aldilà delle “interruzioni", la principale delle quali è il concetto di sé, come entità distinta dalla vita, interessata interamente alle proprie reazioni private davanti alla realtà come qualcosa di diverso dalla realtà stessa [...]. Però, mentre i filosofi del Mahayana si interessavano intellettualmente a queste cose, interessati più alle idee piuttosto che alla realtà, lo Zen è al di là di ogni pensiero discorsivo. [Il Buddha] quando fu interrogato circa i misteri della Verità Ultima del buddhismo, rispose in questi vari modi: "E’ il cipresso nel cortile", "Il boschetto di bambù ai piedi della collina", "L'immondizia secca nel rastrello”. Qualsiasi cosa che richiami alla mente le astrazioni della vita!

[...] La vita Zen non si muove all'interno di una corsia; è la libertà dello spirito, libera dagli ostacoli delle circostanze esterne e delle illusioni interne. La nostra natura intima è di un carattere speciale che non può essere descritta a parole, e il più che possiamo fare per accedere ad essa è l'analogia. È come il vento che soffia sulla superficie della terra, senza mai fermarsi in un luogo particolare, e che mai non si attacca a nessun oggetto particolare, adattandosi sempre ai progressi e alle retrocessioni della terra. Se tali analogie danno l'impressione di un sonnolento laissez faire, bisogna ricordare che lo Zen non è sempre una brezza leggera, come il decadente Taoismo; ma è molto spesso una raffica violenta che inesorabilmente spazza via tutto ciò che incontra, una tempesta di ghiaccio che penetra nel cuore di tutte le cose e le attraversa da parte a parte. La libertà e la povertà dello Zen ha il senso di abbandonare tutto e "andare avanti", perché questo è ciò che fà la vita stessa, e lo Zen è davvero una religione della vita.

Ogni giorno, i cinque veleni, vale a dire le cinque principali emozioni disturbanti, sorgono molte volte nella nostra mente, con più o meno forza. Per poterle affrontare ci sono diversi metodi, di cui qui di seguito invitiamo a fare una riflessione.

Desiderio e Attaccamento

I termini "desiderio" e "attaccamento" non si applicano soltanto al rapporto tra uomini e donne, ma anche all'attrazione esercitata su di noi dalla ricchezza, cibo, vestiti, i beni materiali, i suoni piacevoli, i profumi ecc. Messa da parte l'attrazione tra uomini e donne, noi non prestiamo attenzione agli altri tipi di desiderio. Tuttavia, ogni movimento della mente ci porta sugli oggetti di senso - le forme, i suoni, gli odori, i sapori, gli oggetti del tatto – tutti questi sono anche desideri.

Quando in noi nasce il desiderio, dobbiamo in primo luogo riconoscerlo, poi rendersi conto che anche se l'oggetto desiderato può dare adesso un certo piacere, un giorno diventerà sofferenza. Il Buddha disse che abbandonarsi al piacere è come succhiare miele sulla lama di un rasoio, una sensazione di piacere presto seguita dal dolore.

Questo non significa che noi non possiamo godere qualche volta delle piacevoli attrazioni di questo mondo. Ma se l'attaccamento è forte, anche la sofferenza sarà molto forte. Se l'attaccamento non è molto forte, la conseguente sofferenza sarà abbastanza lieve. Se uno succhia con avidità il miele sul bordo della lama di un rasoio, si taglierà profondamente la lingua, se però lo fa con estrema cautela, sapendo che il miele occulta una tagliente lama affilata, si taglierà solo leggermente. Similmente, noi dobbiamo imparare a godere dei piaceri del mondo con prudenza e moderazione. Generalmente, noi non sappiamo rispettare le misure, perché noi non siamo consapevoli del fatto che il dolce miele nasconde una feroce lama. Assai attratti dal miele, lo succhiamo senza moderazione e ci facciamo del male ferendoci in profondità.

Odio e Rabbia

Quando si cade sotto l'influenza annebbiante di odio o rabbia, si dovrebbe riflettere in questo modo: "Io mi ricordo che tutti gli esseri sono stati mio padre e mia madre, e devo sviluppare la pazienza e la compassione. Quando qualcuno si arrabbia con me, io soffro. Quando io mi arrabbio con qualcuno, egli sta provando un’identica sofferenza. Al contrario, quando qualcuno è gentile con me, sono felice. Così, per rendere felici gli altri, devo mostrare la stessa cortesia che io spero di ricevere dagli altri."

Ignoranza 
L'ignoranza è il non sapere che cosa è benefico o negativo dal punto di vista spirituale. Il rimedio è di studiare il Dharma, comprendere bene la Legge del Karma, la natura della mente, e così via.

Orgoglio

L'orgoglio, per sorgere nella nostra mente, si appoggia a una serie di pretesti: la bellezza, la forza, la ricchezza, la cultura, l'intelligenza, una certa capacità in un dato terreno o in un altro. L'orgoglio si basa infatti su un’assenza di riflessione. Se, al contrario, cominciamo a riflettere, allora è facile poter vedere che ci sono persone più belle di noi, più forti, più ricche, più colte, più intelligenti o più capaci. Allora si vedrà che credersi superiori non è altro che una stupidità.

C'era una volta una rana che viveva in un pozzo. Essa considerava la sua dimora come una grande distesa d'acqua che nessun altro poteva eguagliare. Un'altra rana che viveva sulla riva del mare, un giorno venne a passare di lì e saltò sul bordo per vedere cosa c’era nel fondo del pozzo:

“Da dove vieni, tu?” Chiese la rana del pozzo, vedendo l’altra lì sopra.

"Vengo dal mare," rispose l'altra rana.

“Il mare? E quanto è grande il mare?”

“Oh, è davvero immenso!”

“Grande come un quarto del mio pozzo?” Chiese la rana orgogliosa, che non riusciva a capire ciò che l'altra rana intendeva con ‘immenso’.

"No, molto più grande”.

"Allora, grande come la metà del mio pozzo?” disse la rana locale con una punta di incredulità.

"No, no… assai più grande!”.

“Beh, allora, grande come il mio pozzo?”

“Macché… molto più grande del tuo pozzo!”.

La rana pensò che la sua ospite fosse bugiarda e si burlasse di lei. Un qualsiasi specchio d'acqua più grande del mio pozzo? Sciocchezze! Tuttavia, per essere pienamente sicura, chiese se poteva andare a vederlo. L'altra rana disse che non vi era alcun problema, e le due amiche si incamminarono fino in riva al mare. Povera rana del pozzo! Appena essa vide il mare svenne. Una vastità che era troppo per la sua mentalità. Tale era il suo orgoglio che non poteva sopportare che vi fosse qualcosa più grande del suo pozzo.

Invidia

Quando succede che ci sentiamo invidiosi di un'altra persona e sperimentiamo un certo rancore per il fatto che essa ha ciò che noi non abbiamo, o perché le accade di avere un qualche lieto evento, noi dovremmo considerare che il nostro malcontento non ha proprio alcun senso. Al contrario, dovremmo modificare il nostro pensiero in quest’altro modo: "Se io mi trovassi nella posizione di qualcuno a cui succede qualcosa di buono, proverei io una qualche forma di invidia? No. Allora, per la stessa ragione i miei sentimenti sono solo stupidi. Ciò che di buono succede ad un altro non è nulla che venga tolto a me. E se accadesse che l’altro fosse privato di ciò che ha, questo fatto non porterebbe nulla a me.
L'invidia è solo un pensiero che esprime la confusione della mia mente".

In sintesi, si considera che vi sia un antidoto per ogni tipo di veleno:

-         Per il desiderio e l’attaccamento: riconoscere che il piacere è della natura della sofferenza.

-         Per l’odio e la rabbia: l'amore e la compassione.

-         Per l'ignoranza: la vera conoscenza.

-         Per l’orgoglio: considerare gli altri come migliori di se stessi.

-         Per l’invidia: gioire per la felicità degli altri.

Fino a poco tempo, il buddhismo Zen era quasi totalmente sconosciuto in Occidente, con l'eccezione di pochi orientalisti il cui interesse per l'argomento era ampiamente accademico [...]. Si potrebbe dire che lo Zen sia decisamente diverso da qualsiasi altra forma di buddhismo, e di qualsiasi altra forma di religione, avendo suscitato la curiosità di molte persone che, di solito, non avrebbero mai pensato di guardare ad Oriente in cerca della saggezza pratica.

Una volta che la curiosità è attivata, non è facile da placare, perché lo Zen ha un fascino particolare per le menti stanche della religione e della filosofia tradizionale. Fin dal principio, lo Zen si stacca da ogni forma di teorizzazione, istruzione dottrinaria e di inerti formalismi; questi sono trattati come meri simboli di sapienza, mentre lo Zen si basa più sulla pratica e sull'esperienza intima, personale, di una realtà, che la maggior parte delle forme di religione e filosofia affrontano più come descrizione emozionale e intellettuale. Ciò non significa che lo Zen sia l'unico vero Sentiero che conduce verso l'illuminazione; ma diciamo che la differenza tra lo Zen e altre forme di religione è che "Tutte le altre vie risalgono lentamente le pendici della montagna, mentre lo Zen, come una strada romana, mette ai lati tutti gli ostacoli e si muove dritto verso la meta". Dopotutto, i credi, i dogmi e i sistemi filosofici sono solo idee riguardo alla verità, così come le parole non sono fatti, ma parlano dei fatti, mentre lo

Zen è un tentativo vigoroso di mettersi in contatto con la verità, senza che le teorie ed i simboli si frappongano tra il soggetto conoscente e la cosa conosciuta. In un certo senso, lo Zen è esperienza diretta di vita, anziché sentir dire qualcosa sulla vita; non mostra alcuna pazienza verso la saggezza di seconda mano, verso la descrizione che una qualunque persona abbia su una esperienza spirituale, o sui meri concetti e credenze. Benché la sapienza di seconda mano sia apprezzabile come un segno che indica la via, troppo facilmente la si confonde con la Via stessa, ed anche con l'obiettivo finale. Sono così sottili i modi con cui le descrizioni della verità possono essere presentate come la verità stessa, che lo Zen è spesso una forma di iconoclastia, una distruzione di mere immagini intellettuali della realtà vivente, conoscibile solo attraverso l'esperienza personale.

Però, è nei suoi metodi di insegnamento che lo Zen è unico. Non vi è alcun insegnamento dottrinale, nessun studio delle Scritture, nessun programma formale di sviluppo spirituale. A parte alcune valide raccolte di sermoni dei primi maestri Zen, che sono gli unici tentativi di una razionale esposizione dei suoi insegnamenti, la quasi totalità dei nostri antecedenti nella storia dell’insegnamento Zen sono una quantità di dialoghi (mondo) tra i maestri e i loro discepoli che sembrano dedicare poca attenzione alle abituali regole della logica e del sano ragionamento, al punto che a prima vista appaiono come privi di senso. [...]

Ma allo Zen non interessa essere intelligibile, cioè di poter essere compreso dall'intelletto. Il metodo Zen è di sconcertare, eccitare, intrigare e svuotare l'intelletto finché si percepisce che l'intuizione è solo la ricerca; dovrà provocare, irritare e tornare a svuotare le emozioni fin quando si potrà vedere  chiaramente che l’emozione è solo il ‘sentire’, e poi pensare; quando l'allievo è stato sottoposto ad una impasse intellettuale ed emotiva, su come superare il divario che c’è tra il contatto concettuale di seconda mano con la realtà e l'esperienza in prima persona. Per raggiungere questo, si metterà in funzione un più alto potere della mente, conosciuto come ‘intuizione’ o Buddhi, a volte chiamata "occhio dello spirito".

Riassumendo: Lo Zen aspira a focalizzare l'attenzione sulla realtà stessa, piuttosto che sulle nostre reazioni intellettuali ed emotive davanti alla realtà; essendo la realtà qualcosa che cambia sempre, sempre in crescita, che noi conosciamo come "vita", che non si ferma mai neanche per un momento, per cui noi con soddisfazione la facciamo rientrare in un rigido sistema di cassetti e di idee vaghe.

E’ così che qualcuno che fa un tentativo di scrivere di Zen, si trova di fronte a difficoltà insolite: non è mai in grado di spiegare, può solo indicare; può solo far generare dubbi, e proporre indizi che, nella migliore delle ipotesi, sono appena sufficienti a portare il lettore vicino alla verità; però nel momento stesso che si cerca di giungere ad una definizione precisa, la cosa sfugge di mano, e la definizione finisce per essere niente più che un concetto filosofico.

Dopo aver studiato e praticato con molti maestri Zen in Giappone, ed essere diventato un monaco nella scuola Soto Zen, Ryotan Tokuda Igarashi nel 1968 andò in Brasile dove divenne un missionario della scuola Zen in Sud-America. In questo paese creò molti monasteri e centri di meditazione Zen. Ryotan Tokuda Igarashi insegnò per molti anni in Francia dove fondò il monastero di Eitaiji, nelle Alpi dell’Alta Provenza. Spesso commentava Meister Eckhart, il mistico tedesco, alla luce del Maestro Zen Eihei Dogen (1200-1253), in particolare il suo "Tesoro dell'occhio della Vera Legge", o Shobogenzo.
L’i
nsegnamento di "shikantaza: Solo sedersi" è stato dato a Parigi il 28 novembre, 1993, ristampato per gentile concessione del Centro Maha Muni di Parigi. Con la fotografia di Didier Airvault.

Nel suo Shobogenzo Bendôwa il maestro Dogen scrisse: "Secondo la tradizione autentica della nostra scuola, la Legge buddhista (Dharma), trasmessa direttamente, è suprema in sommo grado. A partire dal momento in cui si consulta un buon amico, non c’è nessuna necessità di accendere incensi, né di venerare [i] Buddha, né di invocare [Amitabha], né di coltivare pentimento o leggere i sutra. Basta solo sedersi e spogliare corpo e mente".

Questo famoso brano del shikantaza ("basta sedersi"), e di Shinjin-datsuraku (denudare il corpo e la mente"). Il senso di shikantaza è difficile da capire. Nel termine ‘taza’, ‘ta’ è un prefisso enfatico e ‘za’ significa "sedersi" così ‘taza’ significa "sedersi calmi". In giapponese ‘Shikan’ può avere due significati. Il primo, che è il suo senso comune, significa "soltanto". Il secondo, itasura in giapponese, significa "porre la massima attenzione" Quindi, shikantaza può parafrasarsi con "porre tutta l’energia nel solo sedersi".

Quando il Maestro Dogen andò in Cina, all'età di vent'anni, assorbì completamente questo significato. Era concentrato giorno e notte, tagliando completamente tutte le relazioni. Fino a perdere qualsiasi nozione di giorno e notte. Hôkyôki dice che il Maestro Nyojo a quel punto gli disse: "Sedendoti così, giorno e notte, ben presto sentirai come un profumo". Un segno così significava che la sua pratica era una costante sesshin. Un passaggio del Bendôwa dice che noi non abbiamo bisogno di cantare, né di pentirsi, di prostrarsi, né di recitare il nome del Buddha. Nei monasteri Zen, tradizionalmente, si utilizzano le ‘Shingi’, le regole pure dei monasteri zen. Esse risalgono al maestro Hyakujo, che scrisse  “Hyakujo Shingi”. Vi sono pure ‘Zenner Shingi’, "le regole dei monasteri Zen”, ‘Eihei Shingi’,"le regole del maestro Dogen" e ‘Keizan Shingi’ "le regole del maestro Keizan". Tutte queste regole sostengono quattro periodi di zazen e tre cerimonie al giorno. Ossia, due zazen la mattina appena alzati, due zazen alla fine della mattinata, due zazen prima di cena, e pure due zazen prima di coricarsi. Come una perpetua sesshin. Ogni giorno, invariato. Sia ora o tra dieci anni, la vita di un monastero Zen non cambia e non cambia mai. Un giorno è come l'eternità. E si cantano i sutra tre volte al giorno. Però, si è detto che non c'è bisogno di bruciare incenso né di recitare i sutra. E allora?

Vero è che, da un lato, si sta "solo seduti". Soprattutto durante le sesshin, i monaci non si dirigono nella Hatta, la sala delle cerimonie, ma si siedono, mangiano, dormono e recitano i sutra nello stesso posto, esattamente sopra la stessa stuoia (tatami). Ma poi di nuovo recitano i sutra, e l'insegnante brucia incenso. Come capire? Ciò significa che penetrando in fondo con lo zazen, ogni cosa diventa zazen. Nel Shodoka di Yoka Daishi c’è una frase a proposito della quale molti equivocano. Questa frase è: "Sedere è zen, camminare è Zen". Alcuni la interpretano dicendo che qualsiasi attività è di per sé zazen e che non c'è bisogno di sedersi. In realtà la maggior parte la usano per non fare zazen. Alcuni addirittura praticano le arti marziali e ne parlano come se fosse un vero zazen. Però ignorano il vero senso.

Non bruciare incenso. Tuttavia, bruciare incenso si trasforma in zazen. Dopo lo zazen della mattina facciamo la cerimonia. Si colloca il bastoncino nell’incensiere, in modo tale che gli occhi della statua di Buddha, l'estremità superiore del bastoncino, e noi stessi siamo sulla stessa linea. Se l'incensiere è di lato, la linea è interrotta e non è zazen. Come è indicato nel ‘Zazengi’: Il naso dovrebbe essere sulla stessa linea dell'ombelico. Sull'altare ci sono due vasi. La distanza tra il Buddha e ciascuno dei vasi deve essere uguale su ogni lato. Se non è così, non è zazen. Come è indicato nel ‘Zazengi’: Le orecchie devono essere in linea sullo stesso piano delle spalle, senza inclinarsi da un lato o dall'altro. Verticalmente o orizzontalmente siete al centro dell'universo. Tu sei l'universo e l'universo sei tu. Ed è precisamente questo universo che diventa movimento. E' il grande silenzio che si reincarna nel corpo. La personificazione di questo silenzio, è ciò che io chiamo ‘reincarnazione’. Con reincarnazione non mi riferisco alla vita dopo la morte. Tutti parlano della reincarnazione in questo senso. Ma, per favore, non insistete con queste sciocchezze.

C'è un koan che dice che il Buddha Sakyamuni e Buddha Maitreya sono successivi. La domanda è: Di chi sono successivi? Si tratta del Dharmakaya, la nostra Natura Originaria.

Perché Buddha è un uomo? Perché Dio si è fatto uomo?

C'è anche la famosa domanda del maestro Dogen che si chiese: "La nostra Natura Originaria è pura e perfetta, allora perché è necessaria la pratica?" A questa domanda rispondo che noi abbiamo bisogno di rimuovere tutti i ‘perché’ e dirci: "La nostra Natura Originaria è pura e perfetta, quindi è necessario praticare". E' in quel preciso momento che ogni attività diventa la pratica dello zazen.

In uno dei suoi trattati, Meister Eckhart parla di un nobile che se ne andò ma poi tornò a casa più nobile rispetto a prima. Si tratta di un racconto biblico. Meister Eckhart la interpreta in questo modo: “In origine, la nostra Natura è nobile e pura, tuttavia noi dobbiamo andare al di là di noi stessi e oltre il nostro proprio ‘Io’. Come il maestro Dogen disse:

"Studiare il Dharma del Buddha è studiare se stessi. Studiare se stessi, è dimenticare se stessi. Dimenticare se stessi è essere risvegliati a tutta l’esistenza. Essere risvegliati a tutta l’esistenza è il denudare il proprio corpo e la mente, proprio come se fosse il corpo e la mente di un altro."

Per uscire da noi stessi bisogna fare un passo, solo un passo. Si può capire il Dharma, ma questo non è sufficente. Basta un solo passo. Ma quest’unico passo dev’essere molto grande. Esso è: "Andare in un altro paese e tornare più nobile di prima". E’ come per il tempo. E’ detto che ci vogliono tremila kalpa perché un essere umano diventi un Buddha. Un tempo astronomico! Ma tremila kalpa possono passare in un solo attimo. Quando ci si rivolge alla nostra Natura Originaria, immediatamente si realizza questo stato di Buddha. E si diventa ancora più nobili. Vi è quindi la necessità di praticare e di risvegliarsi. Ed è questa pratica che diventa movimento.

Il Maestro Dogen disse: "Il non aspettarsi il risveglio, senza chiedersi che cosa sia questo stare semplicemente seduti, tale è la via del Buddha e dei Patriarchi". E’ lo zazen che pratica zazen, non voi con le vostre stupide idee sul risveglio. Questa pratica è la manifestazione di ciò che c’era molto prima di tremila kalpa, molto prima che il tempo fosse diviso. Nella posizione del loto il piede sinistro sta sopra il destro e il piede destro sotto il sinistro. Ciò significa che, al momento dello zazen, tempo ed eternità si intrecciano. Stessa cosa è per lo spazio: il luogo dove si fa zazen raggiunge i confini dell'universo.
Si osservi
la svastica, che è uno dei simboli buddhisti. Quando essa gira nel senso delle lancette di un orologio simboleggia la creazione. La croce rappresenta il tempo e lo spazio. Il punto centrale è la base, il punto originale prima della divisione del tempo e dello spazio, il punto originale senza alcun segno, senza movimento. Il completo silenzio, e le quattro aste che girano verso destra sono proprio la rappresentazione del movimento. In questo movimento, il tempo e lo spazio non sono separati dall’origine. Gli stessi suoni sono la voce originale. Così è il movimento dello zazen che ci fa bruciare l'incenso, che ci fa confessare e che ci fa ripetere il nome del Buddha. Qualsiasi attività diventa la pratica di zazen. Questo è anche il senso di shikantaza.

E allora, cosa dobbiamo fare? Solo zazen. Non soltanto due o tre volte a settimana. Come il maestro Dogen che, una volta per tutte, abbandonò i suoi libri per impegnarsi in questa pratica e che in due o tre mesi realizzò il risveglio di Shinjin con datsuraku. E’ molto efficace per abbandonare il superfluo e concentrarsi sugli aspetti essenziali della vita monastica. Però, se si può praticare in mezzo alla vita sociale, questa pratica diventa più forte di quella della vita monastica. Ma questo non è facile. E ciò non significa dire di fare lo zazen solo una o due volte alla settimana.