Traduzioni di Dharma

Bodhidharma e la
semplicità dello Zen
(estratto da internet e tradotto da Aliberth)
 

 

 

In questa foto, c’è una rappresentazione un pò strana di Bodhidharma, che però soddisfa il canone abituale: che lo vuole con sopracciglia cisposeBodhidharma, l'aria irritata, il vestito lungo. In effetti, Bodhidharma non ama che lo si disturbi, soprattutto quando medita. Da qui, forse le sue risposte enigmatiche ed incisive.
Lo si dice indiano, figlio di un principe. Ormai anziano, si imbarca per la Cina del Sud. Il viaggio dura tre anni. Finalmente sbarca sulle coste cinesi, risale verso il nord ed arriva a Lo-yang, la capitale del Wei. Siamo negli anni 520 d.C. L'imperatore è un buddhista appassionato e si informa su questo monaco. Ha fatto costruire templi e monasteri, innalzare dei sutra, dare dei sermoni. Che cosa pensa il barbaro dagli occhi blu? E Bodhidharma laconicamente gli risponde: - "Non hai fatto alcunché di sacro!". La discussione prende la piega di un dialogo tra sordi.
Alla fine, l'imperatore gli chiede: - "Ma chi ho qui di fronte a me?"
- "Non lo so!”, risponde Bodhidharma, che poi lascia immediatamente il palazzo.
Poco dopo, l'imperatore racconta il colloquio al suo consigliere. Questi gli chiede: - "E Voi sapevate chi era costui?" - - "No!"...- risponde l’imperatore. -- "Si trattava del bodhisattva Avalokitesvara, colui che porta il sigillo dello spirito del Buddha!".
Niente di meno! L'imperatore allora vuole mandare una scorta per ricuperarlo, ma il consigliere lo dissuade. È sicuro che non ritornerà più.

Nel frattempo, Bodhidharma si reca a Shaolin, non lontano dalla capitale imperiale. Là, si dice, che si installi in una grotta dove resta nove anni a contem-plare il muro.
Un giorno, un giovane di nome Eka, che ubbidisce alle ingiunzioni di una divinità, arriva fino a lui per essere istruito nella pratica del buddhismo.
Quel giorno, sta nevicando a grossi fiocchi. Bodhidharma è seduto in silenzio, come sua abitudine, faccia al muro nella sua grotta. Eka resta in piedi all'esterno, nella neve, ma il burbero Bodhidharma non gli rivolge parola. Alla fine, il giovane prende la sua spada, si taglia un braccio e lo offre, implorando, al Maestro:
- "Maestro, la mia mente non è ancora pacificata, ve ne prego, pacificatela!".
- "Portami qui la tua mente ed io la pacificherò" risponde Bodhidharma di getto.
- "Ma io sto cercando la mente, e tuttavia non posso afferrarla!"
- "Allora, come vedi, essa è già pacificata!".
Bodhidharma, (Bodaidaruma o Daruma in giapponese), è considerato il fondatore del Ch’an Cinese. In effetti, questi aneddoti sono posteriori di parecchi secoli alla sua presunta esistenza e oggi sembra assai difficile credere al loro carattere storico. Allora, è esistito Bodhidharma? Tuttavia, qualunque laconica risposta va ancora di più a forgiare la storia dello Zen. Secondo la leggenda, le gambe di Bodhidharma si riempirono di piaghe a furia di meditare, durante i nove anni che passò nella grotta di Shaolin in Cina. In Giappone, i pupazzi di neve che non hanno più le gambe, sono chiamati degli yuki-daruma, dei "Bodhidharma di neve", dunque. Nantembô (1839-1925), un Maestro zen della scuola Rinzai, dipinse numerosi yuki-daruma come questo. In queste pitture, egli sistematicamente vi calligrafava una poesia di Tesshû Yamaoka (1815-1901):
Daruma fatto di neve ammucchiata,
I giorni passano, dove è andato?
Infatti, non ne restano più tracce.
Un'altra leggenda vuole che Bodhidharma sia morto avvelenato - apparentemente senza motivo. Poiché il giorno stesso della sua morte, un emissario del Wei orientale si trovava in Pamir. Sulla strada verso la Cina, ancora lontana, egli incrociò Bodhi-dharma che si dirigeva verso l'ovest e che gli disse: "Il sovrano del tuo paese è morto proprio oggi". Appena fu arrivato, egli raccontò del suo incontro ai discepoli di Bodhidharma, i quali allora aprirono la bara del Maestro. Non vi trovarono dentro che un semplice sandalo. Dove era andato?- Al tempo del suo arrivo in Cina, l'imperatore avrebbe dovuto sospettare che una simile apparente rozzezza in un santo uomo nascondeva qualcosa che meritava di essere esaminata più da vicino, ma si accontentò di mostrargli la porta e così sprofondò nella perplessità.
Quando, circa mille anni più tardi, il missionario Francesco Saverio sbarcò a Kago-shima, fu ricevuto nel modo più gentile dai bonzi del tempio zen che dominava la città. Gli si fece visitare il quartiere dei monaci e lo zendô, la sala di meditazione, dove i novizi si erano seduti nella posizione del Buddha sul loto, con gli occhi fissi davanti a sé, assolutamente immobili. Alla domanda "Ma che fanno essi"? il suo amico, il bonzo Ninjitsu, rispose: "Alcuni contano mentalmente ciò che hanno ricevuto dai fedeli il mese scorso; altri pensano ancora al loro tempo libero, in breve, ognuno di essi pensa a qualsiasi cosa che abbia un certo senso".
Una risposta assolutamente onesta. Francesco Saverio si sarebbe dovuto chiedere se, dalle persone di cui ammirava il carattere, una simile rozzezza non nascondesse qualcosa di importante. Ma egli non ebbe questa accortezza e si accontentò di constatare in seguito che, nella discussione, i monaci zen erano degli avversari formidabili e che, malgrado la loro mente viva ed aperta, non c'era mezzo di convertirne uno solo.
E alla domanda: "Che cos’è lo zen"? vi sono due tipi di risposte. La prima, di una deliberata villania; la seconda, di una piattezza così abituale che la nostra mente occidentale innamorata di concetti e categorie si chiede come diavolo associarci il più piccolo brandello di "sacro."
Se si vuole credere all'esempio del Buddha, ecco ciò che ci occorrerebbe per meditare: Prima di tutto, un albero detto ‘ficus religiosa’. È vero che una volta il Saggio del clan dei Shâkya si accontentò di un ombrello formato dalle sette teste di un dio-serpente. Ci si può ritirare anche in un eremo di montagna. Ma una semplice stanza sarà altrettanto adatta allo scopo. In questo caso, la si dovrà prevedere silenziosa, né troppo calda d'estate, né troppo fredda d'inverno, né troppo luminosa di giorno, né troppo oscura la sera. Secondariamente, un cuscino di erbe ‘kusha’. Il Buddha utilizzava anche un seggio di diamante. Ma si può anche tanto bene accontentarsi di un cuscino ordinario. In questo caso, lo si dovrà prevedere sufficientemente spesso per incrociare le gambe senza difficoltà. Terzo, un corpo. Questo è l'elemento più importante, perché i maestri e gli altri yogin non hanno previsto gran ché di alternativo. Poco importa del resto che sia rivestito dai trentadue segni maggiori di un Risvegliato o che si tratti meramente di una volgare borsa di pelle intorno alle ossa, come dicevano i maestri ch’an. Affliggetevi dunque solo se siete un robot che sta leggendo queste note: perché sinceramente non potrete sperimentare questa meditazione. Perciò, ho un kôan di consolazione: sotto l'albero si mette il cuscino, sul cuscino si pone il corpo, sul corpo si pone la mente, ma sulla mente che cosa si pone?
Riprendiamo, per gli altri. Consolidate i glutei sul cuscino, incrociate
le gambe in posizione del loto o mezzo-loto. Raddrizzate il busto e tenete la testa diritta, gli occhi socchiusi, lo sguardo diretto verso
la punta del naso ed il suolo. Ponete poi le mani nel grembo. La respirazione viene fatta passare naturalmente dal naso. E voi accontentatevi solo di essere seduti.
Se seguite questa prima istruzione, verosimilmente non avrete null’altro che la sensazione di essere banalmente seduti. Restare in questa posizione per una mezz'ora potrà sembrarvi perfino interminabilmente lungo. Allora bisogna forse saper utilizzare un metodo. Per esempio, seguire il movimento della respirazione: che passa dal naso, riempie i polmoni, e riparte per il suo giro. Ma una volta che la mente è unificata, dovrete abbandonare pure questa tecnica.
Perché alla fine si trova di star bene semplicemente seduti senza preoccuparsi del vero e del falso, di una tecnica o di un'assenza di tecnica. Con la mente unificata, si entra allora in un stato di profondo acquietamento. Acquietamento non è esat-tamente la parola giusta, perché la pace è ancora qualcosa che si oppone al turbinìo, alla difficoltà. In questo stato di abbandono, una tale opposizione non ha neanche più senso. Cercate di non pensare: "Perché devo meditare?". Perché adesso si tratta precisamente di imparare a godere di un stato senza perché. A dire tutta la verità, la meditazione Zen è una perdita di tempo. Chi potrebbe mai raccomandarla? E tuttavia... Che cos’ è lo Zen?
Lo Zen è una via di autenticità e di risveglio nata dall'esperienza del Buddha Sâkyamuni. L'uomo che si chiamava Siddharta Gautama viveva nell'India del nord alcuni secoli anteriormente a Gesù Cristo. Egli apparteneva al clan dei Shâkya, della casta dei guerrieri. Lo si diceva destinato ad essere un grande re. Tuttavia, una notte, toccato dagli sconforti del mondo, egli lasciò il suo palazzo e diventò un asceta errante. Dopo sei anni di macerazioni, decise di rinunciare alle austerità. Riunì alcune erbe e se ne fece un seggio. Allora si sedette diritto, le gambe incrociate nella posizione del loto. Dopo una notte di meditazione, siccome contemplava la stella del mattino che impallidiva nel cielo, la realtà gli apparve estremamente chiara. Allora esclamò: "Io e tutti gli esseri sulla grande terra abbiamo realizzato simultaneamente il risveglio". Era diventato il Mahâmuni, "il Grande Saggio", o più comunemente il Shâkyamuni, "il Saggio dei Shâkya". Dopodiché si alzò ed insegnò il Dharma agli uomini per quarantacinque anni.
Lo Zen, in quanto scuola indipendente, apparve in Cina, con il nome di Ch’an, verso il sesto e settimo secolo d.C., e si inscrisse nella corrente detta del Grande Veicolo (Mahayana). Due o tre secoli prima, un misterioso monaco indiano, il bizzarro Bodhidharma, essendo giunto in Cina, si sarebbe ritirato in una grotta a Shaolin ed avrebbe portato, si dice, il fiore dello Zen in queste terre orientali. A lui è attribuita questa poesia:
In origine, sono venuto su questa terra
Per trasmettere l'insegnamento e salvare gli esseri smarriti.
Un fiore si apre in cinque petali, ed il frutto matura naturalmente.
Infatti cinque scuole Ch’an fiorirono in Cina nelle ere Tu-ang (618-907) e Song (960-1127). Le scuole Lin-ji e So-dong, Rinzai e Sôtô nella pronuncia giapponese, sono le più conosciute. Lo Zen fu trasmesso poi in tutti i paesi di influenza Cinese, in Corea, nel Viet-nam e anche in Tibet. Insieme ad altri monaci giapponesi, Dôgen (1200-1253), visitò i grandi monasteri della costa della Cina e riportò a sua volta i semi dello Zen nel suo proprio paese. Alcune generazioni dopo di lui, lo Zen diventava una delle principali scuole buddhiste del Giappone.
Lo Zen non è né una ginnastica né una tecnica di benessere. Per tutti coloro che imboccano la via dello Zen, si tratta di vivere totalmente, col corpo e la mente, di impegnarsi a prendersi cura di sé-stessi e del prossimo, di impegnarsi ad affrontare le proprie paure come pure le proprie nevrosi.
Se ci si attiene ad una formula classica, la pratica dello Zen consiste nel "risolvere il grande affare della vita e della morte" (Sûtra del Loto). Siamo messi di fronte alle domande fondamentali: quelle sulla sofferenza, sull’angoscia e sulla morte, di noi stessi come degli altri. Sono questi problemi, in fondo, gli unici che ci rodono veramente, e che il buddhismo prende a cuore. Per vivere con dolcezza e risveglio.
L'esperienza dello Zen si rivela nell'approfondimento congiunto di meditazione, di intelligenza e di etica morale, che corrispondono ai termini sanscriti di dhyâna, prajñâ e shîla. Insegnare il silenzio interiore, far tacere le lotte ed i conflitti, fu il grande disegno del Buddha per gli uomini. La meditazione è la pratica di questo silenzio. Il Buddha Shâkyamuni ha dichiara-to: "Io e tutti gli esseri sulla grande terra abbiamo realizzato simultaneamente il risveglio". Ciò significa che tanto il mondo intero che noi stessi, in origine siamo in pace. Praticare la meditazione, è realizzare e vivere questa pace.
Misteriosamente, la meditazione non porta niente e tuttavia cambia tutto. Sconvolto dalla scoperta di questa pace, ognuno si reinveste dei propri atti con intelligenza. Una tenerezza, una bontà ed una bellezza ne vengono naturalmente liberate. L'etica, una parola che esprime tutta l’accortezza dei nostri atti, manifesta questa intelligenza. Si avvera totalmente nell'amore e la compassione. La vera etica è quella del bodhisattva: ‘non fare il male, fare il bene, e aiutare tutti gli esseri senzienti!’. Princìpi belli, semplici e tuttavia così difficili da mettere in pratica... I semi dello Zen sono già stati seminati in Occidente da una cinquantina di anni. E già numerosi fiori si sono aperti. Sta a noi di saperli cogliere.