Salvare tutti gli esseri senzienti, anche se gli esseri sono innumerevoli. Trasformare tutte le illusioni, anche se le illusioni sono inesauribili. Percepire la realtà,anche se la realtà è senza limiti né confini. Conseguire il Sentiero illuminato, anche se il sentiero è non ottenibile. Il 29 febbraio del 1966, arrivai a Kyoto al crepuscolo. Pioveva. Indossavo logori zoccoli di legno e non avevo un ombrello con me, così ho pensato di prendere un taxi per il tempio, dove avrei dovuto partecipare ad una sesshin per impegnarmi in un’intensa meditazione zazen. Non sapevo esattamente dove fosse il tempio, per non parlare di come arrivarci da sola. Sentendo, però, che era essenziale non indulgere troppo nei miei confronti prima di una sesshin, con pazienza aspettai l’autobus, determinata a trovare la mia via. Dopo circa un paio d'ore, finalmente arrivai a Shaka-Taniguchi, dove appunto era situato il tempio. Fatta eccezione per un unico lampioncino alla fermata, tutto era scuro come la pece. Sotto la pioggia battente, le montagne e le case erano tutte immerse in ombre scure. Così chiesi a una ragazza che era scesa dal bus insieme con me se lei sapesse dov’era il tempio chiamato Antai-ji, e lei mi indicò un boschetto là davanti. Sollevando gli orli delle mie vesti da monaca, corsi verso di esso sotto la pioggia. Inciampando sulle rocce del sentierino in salita che conduceva al tempio, mi affrettai sulla stradina attraverso il boschetto ed arrivai a quello che sembrava essere l'ingresso. Era Antai-ji o no? Ero ancora incerta. Ma scrutando intensamente nella luce tenue che veniva da dentro, fui in grado di leggere le parole "Antai-ji, the Purple Bamboo Grove Monastery" scolpite su un’antica e grande tavola di legno. Pensando di essere finalmente arrivata, spinsi la pesante porta esterna e chiamai, ma nessuno mi rispose. Mi sembrò però di sentire delle persone che si muovevano nella stanza accanto. Ebbi l’intenzione di aprire la porta interna, ma prima provai a chiedere aiuto dall'esterno. Fui fortunata a non aver aperto quella porta –poiché era il luogo dove i monaci apprendisti facevano il bagno. Quindi, una voce rispose alla mia chiamata: "Prego colpire due voltela tavola…" Ma dov'era? Non c'era una sola luce in quell’atrio spazioso. Così, brancolando, alla fine trovai la tavola e la colpii due volte, come mi era stato ordinato. La tavola era montata in modo da avere una grande zona concava nel centro – e fece un piacevole suono vuoto. In breve un monaco tirocinante apparve, e poi il Maestro Zen Kosho Uchiyama venne a porgermi il suo saluto: "Quanto bene avete fatto a venire, reverendo Aoyama,vi prego di togliervi il vostro abito esterno e mettervi comoda!». Il suo benvenuto, che eliminò le formalità, mi fece sentire così sollevata per aver finalmente raggiunto la mia destinazione. Egli mi invitò subito al suo alloggio per ricevere le istruzioni concernente la sesshin. Il primo giorno di marzo, alle 4 del mattino,mi sono svegliata al suono della campana del tempio. Indi, mi affrettai lungo i corridoi scricchiolanti verso la sala di meditazione. Il vento freddo che soffiava attraverso le fessure delle assi del pavimento frastagliava i miei piedi nudi. "Sala di Meditazione" sembra impressionante, ma lì ad Antai-ji era soltanto una singola fatiscente stanza con soli quindici tatami(tappetini) posti su una bassa piattaforma. Sull’ingresso c’erano scritte queste parole di istruzione: "Lasciate gli altri da soli. Tutti devono impegnarsi nella loro pratica spirituale." Ed anche: "Tutto deve essere fatto in silenzio; non deve esservi nessuna lettura di sutra che sia udibile, né ringraziamenti”. La sera prima, il Maestro Zen Uchiyama aveva detto: "Recitare a voce alta i sutra, può disturbare la nostra concentrazione, interrompendo la nostra pratica zazen. La Sesshin, qui significa stare seduti in meditazione per cinque giorni come fosse un’unica seduta”. Tutti i partecipanti entrarono nella sala di meditazione e cominciarono a meditare in silenzio. La tenda fatta di carta davanti all'ingresso fu abbassata, ed il segnale d'inizio dello zazen fu dato. In tal modo, senza nessuna cerimonia, iniziarono i cinque giorni della sesshin. Nella sala c’era un freddo pungente. Correnti d'aria gelide entravano da tutte le direzioni, soffiando anche sotto le mie vesti. Maldestre tende che sembravano essere fatte da strisce di fogli di carta da imballaggio ricoprivano le pareti all’interno, sbattendo rumorosamente. Ogni ora, c’era una pausa di cinque minuti, che è nota col nome di chukai. Fu durante una di queste pause che, mentre eravamo nel bagno, dissi a un'altra donna "Freddo! Non è vero?" Lei sussurrò: "Ora è anche abbastanza soft. Il mese scorso le tende non c'erano, così la neve cadeva proprio sulle nostre teste." Il terzo giorno,mi ero già presa un raffreddore. Tuttavia, ho pensato che sarebbe stato un peccato smettere di meditare a causa di un raffreddore. Dopo tutto, desideravo da lungo tempo partecipare a questa sesshin. Poiché volevo far passare il mio raffreddore il più presto possibile e smettere di disturbare le persone intorno a me con i miei colpi di tosse e gli starnuti, mi impacchettai in più strati di vestiti che potevo, compresi i miei vestiti da notte, per cercare di asciugare il mio raffreddore. Il Maestro Uchiyama si era preoccupato per me e mi dette qualche medicina, e così fece la monaca che lavorava in cucina. Di notte, mi misero uno scaldino nel letto. Mi sentivo grata, era più di quanto meritassi, e mi dispiaceva, perché pensavo che il mio raffreddore era dovuto alla mia disattenzione. Continuai in questo modo, e fui in grado di completare la sesshin senza perdere neanche una sola seduta. Però, ebbi qualche problema anche al momento dei pasti. Il maestro e i monaci sembravano finire molto velocemente, ma forse questo era il ritmo regolare nei monasteri. Non c'era segno di fretta nel modo in cui mangiavano, eppure ciascuno riusciva a consumare ben due ciotole di riso. Io ero una delle persone che mangiavano più velocemente,quando ero una principiante al tempio dove vivevo, ma qui non avevo alcuna chance. In più, i pasti includevano riso integrale che richiede, notoriamente, più tempo per masticarlo. Dato che questa era la prima volta che lo mangiavo, lo scambiai per ‘sakura-meshi’ (riso cotto nel sakè e salsa di soia), uno dei miei piatti preferiti, e di conseguenza fui segretamente felice quando me lo versarono nella mia ciotola. Ma quando lo guardai meglio, notai che in realtà era riso integrale. Esitante, ne misi un po' in bocca. Era stato preparato in modo eccellente, ma era più duro del riso bianco e aveva l’odore della crusca. C'erano anche diversi chicchi non sgusciati nella mia ciotola. Guardando intorno a me, vidi che nessuno stava cercando di individuare i chicchi non sgusciati, ma tutti lo stavano mangiando con gusto, così cercai di fare lo stesso. Due fette di arancia con le scorze erano state poste sopra l'insalata, e anche queste, venivano divorate, scorze e tutto. Essendo cucina vegetariana Zen, le uniche cose carnose erano le piccole sardine essiccate in una zuppa di fagioli disciolti. Anche se gli altri finirono tutto senza sforzo, in tempo per una seconda porzione, la mia porzione di riso integrale sembrava non diminuire, non importa quanto ne avessi mangiato, forse perché il monaco tirocinante aveva riempito la mia ciotola così bene. Sconcertata, ingoiai tutto il riso grezzo scuro, mangiai le fette di arancia, scorze e tutto, le sardine essiccate, teste e tutto, e finìi per essere una delle ultime persone a mettere giù le bacchette, insieme ad uno studente che sembrava un principiante. Mentre mangiavo, pensai al momento in cui lo studioso e prete buddhista Kazuyoshi Kino mi aveva una volta invitato ad assaggiare il suo riso scuro. Io ebbi paura che avrei avuto problemi di stomaco, così avevo rifiutato. Ma ora mi ero resa conto che avrei dovuto accettare il suo invito. Ho ricordato le sue parole: "Se c'è un compito che si deve fare, non importa quanto ti detesta farlo, devi farlo pensando 'mi piace, mi piace'."Non c'era niente che potesse impedirmi di godere del riso integrale che tutti gli altri stavano mangiando con gusto. Così dissi a me stessa che in qualche modo dovevo arrivare a farmelo piacere durante questi cinque giorni della sesshin. Prima dei pasti non avevamo cantato i sutra, come di norma, non avevamo nemmeno eseguito il rituale in cui si toglie la stoffa che ricopre le ciotole, come è consuetudine in altri templi. Tuttavia, ogni parte della giornata era strettamente regolamentato. Gli stranieri e tutti i principianti che non avevano ancora familiarità con la routine del tempio erano portati a dimenticare che lì doveva essere osservato il silenzio. A volte erano rumorosi. Se fossi stata incaricata, avrei detto loro di starsene calmi, ma il Maestro Zen Uchiyama e i monaci tirocinanti facevano finta di non accorgersene. Più tardi, il Maestro Zen Uchiyama spiegò, "Il non dire nulla in quei momenti è anche parte della propria pratica spirituale. Si è tentati di dire: 'Statevene quieti!' ma dovreste farlo in un modo tale da farlo cessare. Le persone semplicemente potrebbero arrivare ad essere ossessionate dal loro stare in silenzio. Se lo zazen è realmente praticato, accadrà naturalmente che nessun suono sarà fatto. Fino a quando non avviene questo, è necessario guidare le persone nel loro zazen in maniera gentile." Nessuna regolare pulizia fu fatta durante il sesshin. I monaci tirocinanti avevano tutto semplificato il più possibile, in modo che tutti i partecipanti potessero dedicarsi esclusivamente allo zazen. Essi potevano benissimo stare totalmente senza pulizie per cinque giorni, ma riuscirono a limitare la cosa in soli 20 minuti, durante la pausa dopo la prima colazione. Riempivano i secchi d'acqua e li portavano in silenzio al tempio. Chiunque arriva qui ad Antai-ji è trattato come un tirocinante, indipendentemente dal fatto che uno sia un professore universitario o un presidente di una società finanziaria. Ogni persona doveva contribuire a pulire il pavimento. Le persone dovevano mettersi i vestiti e, senza una parola, pulire il pavimento con un panno umido alla velocità della luce, e solo allora avrebbero potuto entrare rapidamente nella sala di meditazione. Poi veniva dato il segnale per iniziare lo zazen. Non importa quante ore fossero passate, non importa se era sceso il crepuscolo, se era arrivata l'alba, oppure fossero passate intere giornate, ognuno si sedeva come un sempliciotto in un mondo senza parole. Non c’erano lezioni del maestro, né il canto dei sutra, né i colpi del kyosaku (il bastone di meditazione usato per risvegliare coloro che sonnecchiano), e nemmeno incontri privati tra maestro e discepoli. Non c'era una sola cosa che potesse far distrarre uno; non c'era nessuno che si mostrasse agli altri. Lasciati soli con il monaco in carica, tutti erano rivolti verso la parete, dall'inizio alla fine. Il bastone di meditazione sbadigliava sul tavolo dei sutra. Non importa quanto e se uno si assopisse, non c'era nessuno lì per farti il favore di risvegliarti. Eppure,non è possibile dormire per i cinque giorni. Con gli occhi aperti, anche se tu non vuoi, devi riuscire a stare faccia a faccia con te stesso. Per la prima volta, io arrivai a conoscere il vero zazen, in cui le persone devono essere guidate con vera gentilezza. Dopo tutto, la tua vita non è qualcosa che gli altri possono aiutarti a fare, né qualcosa che loro possono fare al tuo posto. Sei completamente da solo. Ti siedi in uno stato di consapevolezza, raddrizzando la schiena e devi affrontare questo fatto. Lo Zazen come è praticato in Antai-ji è il vero modo in cui gli esseri umani dovrebbero vivere. E'zazen ideale. L'altro giorno ho sentito la storia di un tizio che è stato colpito per una settimana in un tempio Zen noto per la sua crudeltà. Egli orgogliosamente si vantava di subire cose come il venir svegliato alle tre del mattino, di venir sempre colpito col bastone, fino a fargli diventare gonfie le spalle, e come i bastoni di meditazione si rompessero durante l'uso di colpire i tirocinanti. Raccontò che se egli avesse soltanto mosso un muscolo sarebbe stato rimproverato così fortemente da fargli aver voglia di andarsene. Egli ha anche descritto il suo ultimo pasto del week-end, quando un supervisore anziano della cucinalo portò davanti ai partecipanti e lo fece inchinare fino a terra facendolo scusare per non aver correttamente preparato la zuppa di miso per tutta la settimana. Questo è un modo disgustoso di condurre lo zazen. E'intollerabile che un così gran numero di monaci e laici debbano ritenere che tali metodi severi siano la vera pratica dello zazen. Se un laico viene risvegliato alle due o alle tre della notte, se il bastone di meditazione viene rotto sulla sua spalla, e se viene spronato con un urlo abbastanza forte per fargli iniziare la pratica, questa pratica dovrebbe naturalmente sembrare assai dura per lui. Ma questo è davvero il modo più semplice di praticare zazen. Provate ad essere lasciati soli, indipendentemente dal fatto che sia giorno o che cada la notte. Comincerete a desiderare di gridare "Colpitemi!" o "Ditemi qualcosa!"Lasciata del tutto da sola, una persona non può essere se stessa. Perfino se doveste gridare, sarebbe inutile Così è la vita. Più noi lottiamo, più l'acqua in cui siamo diventa fangosa. Non c'è nessuno che ci può salvare;nessuno che respira per noi, nessuno che si ammala al posto nostro… Dobbiamo vivere noi la nostra vita. Quindi, dobbiamo fare lo zazen con molta determinazione…Per oltre 30 anni il Maestro Zen Cinese Ta-mei Fa-eh'angsi recluse appartandosi nel profondo delle montagne e.. praticò zazen. Egli così trascorse la sua vita residua ad osservare le montagne diventare verdi in primavera e rosse in autunno, e non si interessò mai a contare i mesi e gli anni che gli restavano. Le persone dell’antichità praticavano zazen in quello stesso modo. Noi che siamo deboli e fragili non sappiamo praticare in questo modo. Invece, ci riuniamo in un’unica saletta e siamo gentilmente messi in una situazione in cui possiamo meditare come se fossimo seduti da soli sotto gli alberi o sulle rocce in una isolata valle di montagna. Tale è lo zazen praticato a Antai-ji. Questo è davvero il modo gentile di condurre una sesshin. La sesshin di cinque giorni si è infine conclusa con una serie di rituali. Le tende di carta all'ingresso della sala di meditazione furono sollevate, e tutti procedettero dalla sala fino alle stanze del Maestro. Indi, ci siamo tutti inchinati profondamente e lo abbiamo ringraziato dal profondo del nostro cuore. Proseguendo, siamo andati in cucina e lì ci siamo inchinati in segno di gratitudine per la vecchia monaca responsabile dei pasti. Questi ritualismi, in cui uno spirito dinamico venne manifestato con un formalismo, spontaneamente si dispiegarono uno dopo l'altro. Per una persona come me che era abituata a snobbare la pratica religiosa, ogni cosa in questi rituali fu rivelatrice, fino al più insignificante dettaglio. Fu allora che io ho riconosciuto lo scopo originario di questi riti solenni. Le prime parole che pronunciai dopo quei cinque giorni di silenzio sono state "Grazie mille." Queste parole, dopo il lungo silenzio, mi dettero una significativa e nuova comprensione del valore del poter parlare. Dopo qualche tempo, i battagli di legno segnalarono che era l’ora del tè. Per la prima volta, detti uno sguardo ravvicinato alle persone con cui avevo meditato per cinque giorni e rimasi davvero sorpresa nello scoprire che quasi la metà di loro erano stranieri. Appresi che la maggior parte di essi avevano risparmiato per tre o quattro anni per poter venire in Giappone in cerca dello Zen. Dopo aver visitato varie sale di pratica Zen, molti di loro si erano stabiliti in questo tempio, in alloggi temporanei garantiti nelle vicinanze, e partecipavano alla sesshin mensile, alle sessioni di zazen, e alle conferenze sullo Zen. Ad esempio, i due della coppia che era venuta a sedersi accanto a me, si alternavano: dalle quattro del mattino fino a mezzogiorno, la moglie era lì, e da mezzogiorno fino all'ora di dormire, c’era il marito. Quando ho chiesto loro perché facevano in questo modo essi risposero: "Siccome abbiamo un bambino, non possiamo restare entrambi lontani da Horne contemporaneamente". Sembravano veramente dedicati allo Zen… Altri partecipanti venivano da tutti i luoghi: da Kyushu, Shikoku, Niigata, e da Tokyo. Inoltre, lo facevano ogni mese. Rimasi stupita di scoprire che io, che pensavo di essere quella venuta da più lontano, ero tra coloro che vivevano più vicino. Tutti i partecipanti Giapponesi sentivano di non poter mettersi a paragone nello zelo con gli stranieri, che avevano lasciato tutto alle spalle per venire in Giappone. Pensavo di aver capito che la distanza non è un problema per la mente che cerca il Dharma, ma queste persone mi hanno fornito nuove informazioni che confermavano questa verità. Lo scorso autunno,il Maestro Zen Uchiyama aveva detto, "Se la persona ha la mente che cerca il Dharma, dovrebbe venire a Antai-ji".Ora nel mio cuore avevo capito che questo fatto non era un'esagerazione, ma che in realtà ciò stava proprio accadendo. Noi ci creiamo spesso scuse per non essere in grado di partecipare a sessioni di zazen e lezioni Zen,dicendo che siamo troppo occupati, o che il luogo è fuori-mano o troppo lontano. Queste sono solo scuse. Se davvero uno ha una mente che cerca, il tempo per queste attività si può e si deve trovare. Le persone che dicono di non avere il tempo, in realtà mancano di una vera volontà. Sorridendo ironicamente, il Maestro Zen Uchiyama ha detto: "Anche se tanti stranieri vengono qui, non c’è un solo monaco apprendista in questo tempio che parla Inglese. Oltre a questo, il mio linguaggio Giapponese non è standard. Si tratta di un dialetto di Tokyo, tale che alcune delle parole e delle espressioni che uso non sono nel dizionario. Così gli stranieri hanno difficoltà a capirmi". Ma gli stranieri si riunivano in gran numero ad Antai-ji. Una donna straniera che, insieme a me, aveva trascorso i suoi cinque giorni vivendo e meditando nel tempio, disse in un Giapponese stentato che il tipo di zazen della setta Zen Soto era più difficile di quello della setta Zen Rinzai. Disse che questo era perché ‘sedersi nel proprio sé’ era un koan per il Soto Zen. E gli stranieri,anche se non capivano tutte le parole del Maestro Zen Uchiyama, sembravano tuttavia cogliere esattamente ciò che era essenziale. Dopo tutto, non è importante capire una certa cosa con le parole o con l'intelletto. C'era uno studente che ebbe un periodo difficile a causa del dolore alle gambe derivato dallo stare seduto per lunghi periodi di meditazione. Sembrava essere nuovo allo zazen. Nessuno pensava che lui avrebbe resistito alla sesshin. Nonostante ciò, egli perseverò e resistette fino alla fine. Girandosi verso di lui, il Maestro Uchiyama disse con un sorriso provocatorio, "Tu sei grande. Tu sei degno di un premio per il tuo spirito combattivo. Tu saresti tutto ok, anche se tu fossi in prigione". (In Giappone, chi si trova in prigione siede sul pavimento). Poi, rivolto a tutti, disse: "Lo zazen praticato qui non fa guadagnare nulla, non importa per quanto tempo si resta seduti. Però esso potrebbe tornarvi utile se voi foste messi in prigione", e si mise a ridere.
Lo Zazen è un mondo in cui abbiamo gettato via tutte le voglie e desideri della mente, comprese tutte le forme di ricerca e di aspettative. Lo Zazen è un mondo al di là sia di perdita che di guadagni, anche al di là della ricerca di illuminazione. Semplicemente, ci si siede, gettando via l'intera nostra propria disposizione acquisitoria. Questo è ciò che il Maestro Zen Uchiyama chiama "lo Zazen che non fa guadagnare nulla".
Versione Originale "Zazen That Amounts to Nothing (from Zen Seeds) To save all sentient beings, though beings numberless. To transform all delusions, though delusions inexhaustible. To perceive reality though reality is boundless. To attain the enlightened way, a way non-attainable. On February 29, 1966, I arrived in Kyoto at dusk. It was raining. I was wearing worn-out wooden clogs and did not have an umbrella with me so I considered taking a taxi to the temple, where I would be attending a sesshin to engage in intense zazen meditation. I did not know exactly where the temple was, let alone how to get there on my own. Feeling, however, that it was essential not to indulge myself before a sesshin, I set of by bus, determined to find my way. After what seemed a couple of hours, I finally arrived at Shaka-taniguchi, where the temple was located. Except for a single street light at the busstop, everything was pitch black. In the pouring rain, the mountaIns and houses were submerged in dark shadows. I asked a young girl who had gotten off the bus with me if she knew where the temple called Antai-ji was, and she pointed to a thicket straight ahead. Lifting the hems of my nun's robes, I ran toward it in the rain. Stumbling over rocks on the mountain path leading to the temple, I pushed my way through the thicket and came to what seemed to be the entrance. Was it Antai-ji or not? I was still unsure. But by peering intently in the faint light that came from within, I was able to read the words" Antai-ji, the Purple Bamboo Grove Monastery" carved into a large, timeworn board. Thinking I had arrived at last, I pushed open the heavy outer door and called out, but no one answered. There seemed to be people moving about in the next room. I considered opening the inner door, but first tried asking for help from the outside. It was lucky that I did not open that door---that was where the trainee monks were bathing. A voice answered my call: "Please hit the board twice." Where was it? There was not a single light in that spacious entrance hall. By groping about, I was able to locate the board and hit it twice, as I had been instructed. The board was so worn that it had a large concave area in the center-it made a funny, hollow sound. Before long a trainee monk appeared, and then Zen Master Kosho Uchiyama came out to greet me: "How good of you to come, Reverend Aoyama! Please remove your outer robe and make yourself comfortable." His welcome, which did away with formalities, made me feel relieved at finally having reached my destination. I visited his quarters right away to receive instructionsconcerning the sesshin. On the first day of March, I awoke to the ringing of the temple bell at 4 A. M. I hurried over the long, creaky corridors toward the meditation hall. The cold wind blowing up through the cracks in the floorboards cut at my bare feet. "Meditation hall" sounds impressive, but at Antai-ji it was just a single dilapidated room with only fifteen tatami mats on a low platform. At its entrance these words of instruction were posted: "Leave others alone. Individuals must engage in their own spiritual practice"; and "Everything must be done in silence. There must be no audible sutra reading or greetings." The night before, Zen Master Uchiyama had said, "Chanting the sutras would spoil our concentration, interrupting our zazen practice. Sesshin here means sitting in meditation for five days as though it were a single sitting.', All the participants entered the meditation hall and began to meditate in silence. The paper curtain in front of the entrance was lowered, and the signal to begin zazen was given. In this way, the five-day sesshin commenced without ceremony. The hall was bitter cold. Icy drafts entered it from all directions, even blowing under my robes. Clumsy paper curtains that appeared to be made of sheets of wrapping paper from parcels covered the inside walls, flapping noisily in the drafts. There was a five-minute break known as chukaievery hour. It was during one of these breaks that I whispered to another woman in the restroom,"Cold, isn't it!" She whispered back, "It's comfortable now. Last month, there weren't any curtains, so the snow fell right on our heads." I came down with a cold on the third day. I thought it would be a shame to stop meditating because of a cold. After all, I had wanted to participate in this sesshin for a long time. Since I wanted to get over my cold as soon as possible and stop bothering the people around me with my sneezing and coughing, I bundled up in as many layers of clothing as I could, including my night clothes, to try to sweat out my cold. Zen Master Uchiyama worried about me and gave me some medicine, and so did the nun working in the kitchen. At night they put a foot-warmer in my bedding. I felt grateful-it was more than I deserved-and sorry, since I believed that my cold was due to my own carelessness. I continued in this way and was able to complete the sesshin without missing even a single sitting. I had a bit of trouble at mealtimes, however. The master and monks seemed to finish very quickly, but perhaps this was the regular pace at monasteries. There was no sign of haste in the way they ate, yet they each consumed two bowls of rice. I had been one of the faster eaters at the training temple where I lived, but here I was no match at all. In addition, the meals included brown rice. Since this was the first time I had eaten it, I mistook it for sakura-meshi (rice cooked in sake and soy sauce), a favorite dish of mine, and was secretly delighted when it was scooped into my bowl. But when I took a good look at it, I noticed that it was actually brown rice. Hesitantly, I put some in my mouth. It had been skillfully prepared, but it was harder than white rice and smelled of bran. There were even a few unhulled grains in my bowl. Looking around me, I saw that no one was trying to pick out the unhulled grains, but that everyone was eating with gusto, so I tried to do the same. Two orange slices with rinds had been placed on top of the salad, and these, too, were being devoured, rinds and aU. It being Zen vegetarian cooking, the only meaty things were the small dried sardines in the bean-paste soup. Though the others finished effortlessly in time for a second serving, my first serving of brown rice seemed not to diminish no matter how much I ate, perhaps because the trainee monk had packed my bowl so well. Bewildered, I swallowed the coarse brown rice, ate the orange slices, rinds and all, the dried sardines, heads and all, and ended up being one of the last to put down my chopsticks, along with a student who looked like a beginner. While I was eating, I thought about the time the Buddhist priest and scholar Kazuyoshi Kino invited me over to try brown rice. I was afraid that I would have stomach trouble, so I declined. I now realized that I should have accepted his invitation. I recalled his words: "If there is a task that you must do, no matter how much you detest doing it, you must do it thinking 'I love it, I love it.' " There was nothing to keep me from enjoying the brown rice that everyone else was eating with relish. I told myself that I must somehow get to like it during the five days of the sesshin. Before meals we did not chant the sutras as usual, nor did we perform the ritual of removing the cloth covers around our bowls as is customary at other temples. Still, every part of the day was strictly regulated. The foreigners and other beginners were not yet familiar with the temple routine and were apt to forget that silence was to be observed. Sometimes they were noisy. Had I been in charge, I would have told them to be quiet, but Zen Master Uchiyama and the trainee monks pretended not to notice. Later, Zen Master Uchiyama explained, “Not saying anything at such times is also part of one's spiritual practice. You are tempted to say 'Be quiet!' but should you do so, that would be the end of it. People would merely be obsessed with being quiet. If zazen is truly practiced, it naturally happens that no sounds are made. Until this comes about, you must guide people kindly in their zazen." No regular cleaning was done during the sesshin. The trainee monks had simplified everything as much as possible so that the participants could devote themselves exclusively to zazen. They could not very well go without cleaning at all for five days, but they managed to restrict it to less than twenty minutes during the break after breakfast. They would fill buckets with water and carry them silently to the temple. Anyone who comes to Antai-ji is treated as a trainee, regardless of whether he is a university professor or a company president. Each person was expected to help clean the floor. People would tuck up their clothing and, without a word, wipe the floor with a wet cloth at lightning speed; then they would quickly enter the meditation hall. The signal to begin zazen was then given. No matter how many hours pass, no matter whether dusk falls, dawn comes, or whole days go by, everyone sits like a simpleton in a speechlessworld. There are no lectures by the master, no chanting of sutras, no circulating of the kyosaku (the meditation stick used to awaken those who doze), and no interviews between the master and disciples. There is not a single thing to distract one; there is no one to show off to. Left alone by the monk in charge, everyone faces the wall from beginning to end. The meditation stick yawns upon the sutra table. No matter how much you doze, there is no one there to do you the favor of waking you. Yet it is impossible to sleep for five days. Your eyes open even though you may not want them to, and you must come face to face with yourself. For the first time, I came to know real zazen, in which people must be led with true kindness. After all, living is neither something that other people can help you do nor something that you can have them do in your place. You are completely on your own. You sit in a state of awareness, straightening your back and confronting that fact. Zazen as practiced at Antai-ji is the true way human beings should live. It is ideal zazen. The other day I heard the story of a person who bad been beaten for a week at a Zen temple known for its cruelty. He proudly boasted about such things as being awakened at three in the morning, being struck again and again, how his shoulders became swollen, and how meditation sticks would break while being used to beat the trainees. He related that if he so much as moved a muscle he would be reprimanded so loudly that it would make him start. He also described the last meal at the week's end, when an elderly kitchen supervisor was brought before the participants and made to bow deeply and apologize for not havingcorrectly prepared the miso soup throughout the week. That is a disgusting way of leading zazen. It is intolerable that an exceedingly large number of both monks and lay people understand such severe methods to be true zazen practice. If a lay person is aroused at two or three in the morning, if the meditation stick breaks on his shoulder, and if he is yelled at in a voice loud enough to make him start, this practice would naturally seem harsh to him. But it is really the easier way of practicing zazen. Try being left alone, regardless of whether day breaks or night falls. You start to want to scream “Hit me!" or “Say something!' Left all alone, a person cannot stand himself. Even if you were to cry out, it would be useless. Such is life. The more we struggle, the muddier the water becomes. There is no one to save us; no one to breathe for us; no one to get sick in our place, We must live our own lives. Thus we must do zazen with determination. For over thirty years the Chinese Zen master Ta-meiFa-eh'ang secluded himself deep in the mountains and practiced zazen. He spent his life seeing the mountains turn green in the spring and red in the autumn, and did not even try to count the passing months and years. People of long ago practiced zazen in that manner. We who are weak and fragile cannot practice in that way. Instead, we gather in a single hall and are kindly placed in a situation where we can meditate as if we were sitting alone under the trees or on the rocks in an isolated mountain valley. Such is the zazen practiced at Antai-ji. That is truly the kind way to lead a sesshin. The five-day sesshin ended with a number of rituals. The paper curtains at the entrance to the meditation hall were raised, and everyone proceeded from the hall to the Master's quarters. There we all bowed deeply and thanked him from the bottom of our hearts. Continuing on, we went to the kitchen and bowed in gratitude to the old nun in charge of the meals, These rituals, in which a dynamic spirit was manifested in form, spontaneously unfolded one after the other. For a person like me who was used to empty religious practice, everything in these rituals was revealing, down to the most insignificant detail. It was then that I recognized the original purpose of those solemn rituals. The first words we uttered after the five days of silence were "Thank you very much." These words after the long silence gave me a new understanding of the value of speech. Before long, the wooden clappers signaled teatime. For the first time, I took a close look at the people with whom I had meditated for five days and was surprised to find that almost half of them were foreigners. I learned that most ofthem had saved for three or four years to come to Japan in search of Zen. After visiting various Zen training halls, thcy had settled on this temple, secured temporary lodgings nearby, and commuted to the monthly sesshin, zazen sessions, and lectures on Zen. For example, the couple who happened to sit next to me took turns: from four in the morning until noon, the wife was there; from noon until bedtime, the husband. When I asked why they did this, they replied, "Since we have a baby, we can't both be away from horne at the same time." They seemed truly dedicated to Zen. Other participants came all the way from Kyushu, Shikoku, Niigata, and Tokyo. Furthermore, they did so every month. I was amazed to find that I, who thought I had come from far away, was among those who lived closest. The Japanese participants all felt that they could not compare in zeal with the foreigners, who had left everything behind to come to Japan. I thought that I had understood that distance is not a problem for the mind that seeks the Dharma, but these people provided me with new insights into thattruth. Zen Master Uchiyama had said the previous fall, "If a person has the mind that seeks, he or she should come to Antai-ji.” I now understood in myheart that this was not an exaggeration but was in fact happening. We often make excuses for not being able to take part in zazen sessions and Zen lectures,saying that we are too busy or that the place; is too far away. These are lame excuses. If you really have a mind that seeks, you can find time for these activities. People who say they do not have the time lack willpower. Smiling wryly, Zen Master Uchiyama said, "Even though so many foreigners come here, not a single trainee monk at this temple can speak English. On top of this, my Japanese is not standard. It is a Tokyo dialect, so that some of the words and expressions I use are not in the dictionary. Thus the foreigners have a hard time understanding me. " Yet foreigners gather in great numbers at Antai-ji. A foreign woman who had, together with myself, spent five days living and meditating at the temple, said in broken Japanese that the zazen of the Soto Zen sect was more difficult than that of the Rinzai Zen sect. She said that this was because sitting itself was a koan for Soto Zen. Even though the foreigners did not understand Zen Master Uchiyama's every word, they seemed to grasp exactly what was essential. After all, it is not important to understand something with words or with the intellect. There was a student having a hard time because of pain in his legs from sitting for long periods in meditation. He appeared to be new to zazen. No onethought he would last through the sesshin. In spite of that, he persevered to the end. Turning to him, Master Uchiyama said with a teasing smile,"You are great. You are worthy of an award for your fighting spirit. You would be all right even if you were in jail." (Prisoners in Japan sit on the floor.) Then to everyone he said, "The zazen practiced here amounts to nothing, no matter how long you sit. But it would come in handy were you to be put in jail," and he laughed. Zazen is a world in which we have thrown away all of the cravings of the mind, including all forms of seeking and anticipation. Zazen is a world beyond losses and gains-even beyond seeking enlightenment. One simply sits, casting off the whole of one's beggarly disposition. That is what Zen Master Uchiyamacalls "The zazen that amounts to nothing." | | |